il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

NELLA VITA, TU HAI RICEVUTO I TUOI BENI, E LAZZARO I SUOI MALI; MA ORA LUI E’ CONSOLATO, TU INVECE SEI IN MEZZO AI TORMENTI 

commento al vangelo della domenica ventiseiesima del tempo ordinario (25 settembre 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:  «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Gesù lo ha dichiarato in maniera chiara e radicale. E’ più facile che un cammello entri dentro la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli, cioè nel regno di Dio.  Perché questo? Nel regno di Dio c’è posto per i signori ma non per i ricchi. Qual è la differenza? Il ricco è colui che ha e trattiene per sé, il signore è colui che dà e condivide generosamente con gli altri. Quindi Gesù esclude tassativamente i ricchi. I ricchi, nel vangelo di Luca, sono considerati malati terminali di egoismo per i quali non c’è alcuna speranza. Sentiamo allora questa parabola al capitolo 16 di Luca, dal versetto 19, la parabola di Lazzaro e del ricco che Gesù rivolge ai farisei. Quei farisei che quando Gesù aveva detto “non si può servire Dio e la ricchezza” lo deridevano, sghignazzavano alla sue spalle.
Dice Gesù:  “C’era un uomo ricco”. E’ la terza volta che appare un uomo ricco in questo vangelo e l’immagine è’ sempre negativa.  Ed ecco la pennellata fantastica con la quale l’evangelista descrive l’uomo ricco. “Che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo”. Oggi avrebbe detto “vestiva firmato da capo a piedi”, “E ogni giorno si dava a lauti banchetti”. Frequentava i migliori ristoranti. In questo unico versetto c’è una descrizione psicologica del ricco di straordinaria importanza. E’ povero interiormente, allora ha bisogno di mostrare la ricchezza esteriormente, ecco perché veste firmato da capo a piedi. E quanta fame ha! Ogni giorno si dà a lauti banchetti, ha dentro una fame interiore insaziabile, che crede di calmare ingurgitando cibo. Non capisce che invece questa fame interiore si sazia dando agli altri.
Quindi una povertà interiore alla quale corrisponde un lusso esteriore. Poi c’è un povero, “di nome Lazzaro”. E’ l’unico personaggio delle parabole che ha un nome. Lazzaro significa “Dio aiuta”. “Stava alla sua porta, coperto di piaghe”. Il fatto che sia coperto di piaghe, secondo la mentalità dell’epoca, significa che è stato castigato da Dio, quindi è un peccatore che è stato castigato, uno che è andato in cerca della sua disgrazia.
“Bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani …” I cani erano considerati animali impuri, “… che venivano a leccare le sue piaghe.” Gli animali impuri sono gli unici che si avvicinano ad un essere considerato impuro. In questa descrizione non si parla di cattiveria da parte del ricco nei confronti di Lazzaro, vivono due mondi diversi, due mondi separati. Il ricco, come vedremo, viene rimproverato e condannato non perché si è comportato male nei confronti del povero Lazzaro, ma semplicemente perché lo ha ignorato.
Erano vicini fisicamente (sedeva alla sua porta), ma erano due mondi diversi, c’era un abisso tra di loro.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Gesù non sta rivolgendo questo insegnamento ai suo discepoli, ma ai farisei, e usa categorie teologiche proprie dei farisei. Nel mondo farisaico era in auge un libro apocrifo, chiamato il libro di Enoch, in cui la vita dopo la morte è rappresentata come un’enorme caverna, chiamata appunto “il seno di Abramo”, dove, nella parte più profonda, quindi quella più buia, più scura, ci stavano le persone che si erano comportate male, nella parte più alta, quindi più vicina alla luce, le persone che si erano comportate bene. Ebbene il povero muore e viene portato accanto ad Abramo, cioè nella parte più luminosa.
Lui che era considerato un castigato invece viene presentato come un benedetto.
“Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi…” Finalmente con la nuova traduzione della Bibbia della CEI del 2008 è stato corretto l’errore, presente nelle edizioni precedenti, in cui si traduceva il termine greco “ade” con “inferno”. Non si tratta di inferno, ma di inferi, cioè la parte inferiore della terra.
“Tra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.” Adesso finalmente, nel momento del bisogno, il ricco si accorge di quello che aveva ignorato per tutta la sua esistenza, Lazzaro.
“Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me …”.  I ricchi sono sempre gli stessi, a loro tutto è dovuto. Non pensano mai di dare, ma pretendono. E qui usa l’imperativo “manda!” Comanda! Adesso che si è accorto di Lazzaro è soltanto per usarlo per i suoi scopi.
 “Manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.  Adesso finalmente si è accorto di Lazzaro, ma lo vede soltanto per il suo bisogno. Non supplica, pretende. Non chiede, comanda, che è l’atteggiamento tipico dei ricchi.
“Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali”, cioè tu non hai condiviso i tuoi beni con Lazzaro. “Ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso”, cioè lo stesso mondo differente, lo stesso abisso che c’era in terra tra il ricco, che viveva a un livello tale in cui non si accorgeva del povero, c’è ora dopo la morte. “…Coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre …”, notiamo… malati terminali di egoismo i ricchi. Ora che è nel bisogno non pensa alla popolazione, alla gente, ma soltanto a se stesso ed eventualmente al suo clan familiare.. “Ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli”. Si interessa soltanto della sua famiglia, non dice “mandalo a tutto il paese”. “Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. Mosè e i profeti hanno scritto a favore dei poveri. In  Mosè si legge che la volontà è che nel suo popolo nessuno sia bisognoso. E i profeti hanno tuonato contro i ricchi, che si alimentano dei beni dei poveri.
E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Ed ecco la sentenza finale di Gesù ai farisei. “Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti”, proprio i farisei che si rifanno sempre a Mosè e ai profeti, Gesù denuncia che in realtà non li ascoltano, “non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”.
Perché Gesù afferma questo, che neanche alla resurrezione dei morti saranno persuasi? Perché quanti sono incapaci di condividere il loro pane con l’affamato, non riusciranno mai a credere nel risorto, nel Cristo risuscitato, che è riconoscibile, come in questo vangelo nell’episodio di Emmaus, soltanto nello spezzare il pane. Soltanto chi è generoso in vita potrà poi fare l’esperienza del Cristo risuscitato nella sua esistenza.




il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

NON POTETE SERVIRE DIO E LA RICCHEZZA 

commento al vangelo della venticinquesima domenice del tempo ordinario (18 settembre 2016) di p. Alberto Maggi: Maggi

Lc 16,1-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:  «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Il denaro per Gesù è uno strumento che serve per star bene e per far star bene, quindi è uno strumento per gli altri, ma è uno strumento. Quando cessa di diventare uno strumento diventa un idolo che sacrifica le persone. Leggiamo questa sconcertante, imprevedibile parabola che ha soltanto l’evangelista Luca nel capitolo 16, nei primi tredici versetti. Perché è sconcertante? Perché Gesù propone come esempio di comportamento una persona disonesta. E questo veramente è alquanto strano.
Scrive l’evangelista Diceva anche ai discepoli, quindi è un insegnamento di Gesù per la sua comunità. “Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi”. Beh, da che mondo è mondo si sa. C’è il proverbio che dice: “Chi ministra minestra”. Da sempre molti degli amministratori, dei fattori e dei mediatori hanno fatto i propri interessi a scapito dell’interesse del padrone e a scapito dei lavoratori. Ebbene quest’uomo se ne accorge.
Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. Quindi il padrone gli chiede i conti. “Fammi vedere un po’ i conti”. Ed ecco l’amministratore che cosa fa?
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza”; (quindi l’impossibilità fisica) “mendicare, mi vergogno.” (l’impossibiltà morale), ed ecco l’astuzia e la furbizia che Gesù loda.   “So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione,…” quindi questo amministratore disonesto è sicuro di essere cacciato via, “ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Cioè si fa amici i debitori del padrone.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. E’ una cifra enorme, sono l’equivalente di mille denari. Un denaro era la paga quotidiana, indicativamente per quell’epoca il frutto di 146 piante di ulivo.
Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”, cioè gli dimezza il debito. Non è chiaro, – gli studiosi non sono arrivati ancora ad un parere unanime – quello che l’amministratore fa. Cosa fa? Rinuncia alla sua commissione, che è probabile, perché dimezza il debito, o è una semplice frode? Questo non è chiaro. Comunque decurta, dimezza il debito.
Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. E qui è un importo ancora più grande. Cento misure di grano a quel tempo facevano 2.500 denari, ricordo che un denaro era la paga quotidiana di un operaio, indicativamente sono come 275 quintali di grano.  Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Qui abbassa un po’ di meno.
Ebbene, stranamente il risultato è che Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. Ed ecco allora la morale di Gesù.
I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Cioè la gente che agisce per interesse, per la convenienza ne inventa tante pur di guadagnare sempre di più. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta.
I rabbini al tempo di Gesù distinguevano tra la ricchezza onesta e la ricchezza disonesta. Per Gesù la ricchezza è sempre disonesta. Se sei ricco è perché sei disonesto. Se non sei disonesto non sei generoso, perché se fossi generoso non saresti ricco.
Perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Cioè impiegate il denaro a favore degli altri di modo che quando sarà il momento del bisogno questi vi accolgano.
E Gesù continua. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Torna importante il tema della disonestà. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, … e Gesù insiste, la ricchezza è sempre disonesta. Se non sei disonesto tu che sei ricco, è stato disonesto tuo padre, se non è stato disonesto tuo padre, sarà stato tuo nonno o il tuo bisnonno, ma alla base di ogni ricchezza c’è sempre la disonesta, almeno questo per Gesù. Chi vi affiderà quella vera? E poi la sentenza finale: Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza»
Il termine ricchezza è l’aramaico “mamon” che significa “la convenienza”, quindi Gesù è chiaro: o il proprio interesse e la propria convenienza, la ricchezza, o Dio. Non si possono mettere insieme le due cose.
Ebbene l’evangelista scrive che Gesù appena fatta questa dichiarazione sente sghignazzare alle sue spalle. Chi sarà? Saranno gli avidi pubblicani? Saranno i peccatori? Sono proprio i pii farisei. I farisei, tanto pii e devoti, tra il canto di un salmo e un regolamento di conti non mettevano alcuna differenza.

 

 

 

 




il commento di p. Maggi al vangelo della domanica

CI SARA’ GIOIA IN CIELO PER UN SOLO PECCATORE CHE SI CONVERTE 

commento al vangelo della domenica ventiquattresima del tempo ordinario (11 settembre 2016) di p. Alberto Maggi:

Lc 15,1-32Maggi

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete  il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi.
Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Mentre scribi e farisei avevano l’ambizione di portare il popolo verso Dio, e quindi portarlo attraverso l’osservanza di regole, precetti religiosi, Gesù sceglie una strada diversa. Lui non vuole portare gli uomini verso Dio, perché sa che se si vuole portare gli uomini verso Dio inevitabilmente qualcuno rimane indietro e qualcuno rimane escluso, ma Gesù porta Dio verso gli uomini e Dio verso gli uomini si porta attraverso una sola maniera: la comunicazione della sua misericordia e della sua compassione.
Ma proprio scribi e farisei, queste persone tanto pie e tanto devote, anziché essere contenti e collaborare con Gesù nella sua azione, gli sono contrari. Leggiamo il capitolo 15 del vangelo di Luca, dal primo versetto.
Si avvicinavano a lui (a Gesù) tutti i pubblicani e i peccatori, quindi la feccia della società, gli esclusi dalla religione e gli emarginati, che sentono nel messaggio di Gesù la risposta al desiderio di pienezza di vita che ogni persona ha dentro.
Per quanto la persona possa vivere in una direzione sbagliata della propria esistenza, per quanto sia immersa nel peccato, c’è sempre in lei un desiderio di pienezza di vita, un desiderio di felicità, che spesso purtroppo ha scelto in maniera sbagliata, lo ha sprofondato nella disperazione e nel dolore, ma questa voce è stata sempre sveglia. E quindi sene in Gesù la risposta al suo desiderio.
Per ascoltarlo. Mentre Gesù viene ascoltato dai pubblicani e dai peccatori, i farisei, cioè le persone pie, e gli scribi, cioè i teologi ufficiali, mormoravano dicendo…. E’ interessante come nei vangeli le autorità religiose, i maestri spirituali, gli scribi e i farisei, evitino di pronunziare il nome di Gesù. Gesù significa “il Signore salva”, e loro non hanno bisogno di questa salvezza da parte del Signore e si rivolgono a lui sempre con un termine abbastanza rozzo e dispregiativo, “questo, costui”.
Ed ecco lo scandalo, “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Non solo Gesù li accoglie, ma addirittura mangia con loro. Mangiare significa condividere la propria vita. Se si mangia con una persona che è infetta, inevitabilmente la sua impurità si trasmette a tutti gli altri. Non hanno compreso che con Gesù i peccatori, i miscredenti, gli impuri, non devono purificarsi per essere degni di mangiare con lui, ma è mangiare con lui quello che li purifica. Ma le persone religiose non lo capiscono.
Ed egli disse loro questa parabola.  Questa parabola, adesso vedremo non è rivolta ai discepoli di Gesù, ma a scribi e farisei, cioè ai suoi nemici. E’ una parabola che è composta di tre parti, nelle prime due si parla della gioia di Dio, e nella terza, conosciuta come quella del figliol prodigo, delle motivazioni di questa gioia.
Gesù dice, e lo dà per scontato: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?” Gesù dà per scontato quella che scribi e farisei reputano una follia. Nessuna persona sana di mente lascia novantanove pecore nel deserto in balia di animali, in balia di ladri, per andare in cerca di una che si è smarrita senza avere la certezza di trovarla. Ebbene la logica del mondo, che è la logica della convenienza, non è la logica di Gesù.
La logica di Gesù è quella che fa il bene dell’uomo. E quindi Gesù presenta se stesso come questo pastore che abbandona le novantanove per andare in cerca dell’unica che si era perduta. “Quando l’ha trovata”… scribi e farisei immaginerebbero che il protagonista le legasse una corda al collo e, a forza di calci, la conducesse nell’ovile, la chiudesse a chiave e non la facesse più uscire, rimproverandola e castigandola. Invece, quando la ritrova… “Pieno di gioia se la carica sulle spalle”.
Questa pecora che si è perduta – il perdersi nel vangelo di Luca è immagine del peccato – viene trattata meglio delle altre novantanove. E’ debole e il pastore le comunica la sua forza. Quindi arriva ad avere un rapporto col pastore che nessuna delle altre novantanove pecore avrà. Infatti il pastore se la carica sulle spalle e le trasmette la sua gioia.
“Va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi”! Ma, mentre il pastore della parabola invita gli altri a rallegrarsi, vediamo che qui invece scribi e farisei mugugnano.
“Perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa pecora non sarà più una pecora tra le altre, ma una pecora che ha un rapporto speciale con il suo pastore. E continua Gesù: “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte”. Ecco perché Gesù comunica vita ai peccatori, perché sa che la forza della sua parola, la comunicazione della sua vita, se accolta, può far lasciare il mondo del peccato e della trasgressione e mettere in sintonia la propria vita con il progetto che Dio da sempre aveva avuto sulla creature.
“Più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.”
Poi c’è la seconda parabola che mostra la delicatezza di Gesù. Tutte le volte che deve fare degli esempi, fa sempre un esempio al maschile, ma poi uno al femminile. Gesù non dimentica il mondo della donna, e se prima ha parlato di un uomo, il pastore, ecco che ora entra in scena la donna. Una donna che ha dieci monete e ne perde una.  “Quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?” E anche in questo caso la reazione è un’esplosione di gioia.
“E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. E di nuovo la sentenza di Gesù.  “Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Dio gioisce, i peccatori si convertono, il pastore e i suoi vicini gioiscono, la donna e le sue amiche si rallegrano. Chi mugugna? Gli scribi e i farisei.
Ecco allora che nella terza, che è rivolta a scribi e farisei, viene presentato il figlio maggiore, quello che viene rappresentato caricaturalmente, come la persona religiosa che ha sempre servito suo padre, come un servo il suo signore, ha sempre obbedito ai suoi comandi, ma proprio per questo il servizio e il comando non gli hanno fatto comprendere il cuore del Padre. Allora, mentre il Padre gioisce per il ritorno del figlio che “era morto ed è tornato in vita”, il fratello maggiore, anziché rallegrarsi, lui che giudica tutto con i parametri religiosi della morale, si indigna, si arrabbia ed è lui che non vuole entrare nella casa.

 




il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica

 

 


“Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!” 

11 settembre 2016 
XXIV domenica del tempo Ordinario anno C  
commento al vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Lc 15,1-32 Bianchi


In quel tempo si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
Il brano evangelico di questa domenica è molto lungo: contiene infatti le tre parabole della misericordia che Luca raggruppa al capitolo quindicesimo del suo vangelo. Avendo già commentato nel tempo quaresimale (IV domenica) la parabola dei due figli (Lc 15,11-32), rifletto oggi sulle due parabole gemelle pronunciate da Gesù per giustificare il suo comportamento criticato da scribi e farisei. Sì, perché Gesù durante il suo viaggio verso Gerusalemme continua a insegnare, registrando però reazioni, contestazioni e più spesso mormorazioni da parte di quelli che, professandosi religiosi e volendosi custodi della Legge, non riescono ad accettare il suo stile e sentono il dovere di recriminare contro di lui.

I primi versetti del capitolo mettono proprio in evidenza due comportamenti opposti nei confronti di Gesù e della sua predicazione. Pubblicani e peccatori si sentono attirati da Gesù e vengono a lui per ascoltarlo, mentre i pretesi giusti, gli osservanti legalisti, denunciano con un certo disprezzo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”. Il tema della contestazione è significativo: la comunione che si instaura a tavola. Su tale argomento – non lo si dimentichi – la chiesa nascente ha giocato la sua fedeltà a Gesù, ha dovuto scegliere tra ciò che lui aveva insegnato e ciò che veniva dalla venerabile tradizione, ciò che si era sempre fatto (cf., in particolare, At 10): si doveva scegliere se accostare i peccatori e lasciarsi accostare da loro fino ad andare alla loro tavola e ad accoglierli alla propria, oppure rifiutare la comunione della tavola con uomini e donne segnati dal peccato, a maggior ragione da un peccato pubblico e noto a tutti, perché non era lecito instaurare la comunione tra puri e impuri, tra giusti e peccatori.

Nei vangeli Gesù è sovente a tavola, invitato da farisei o da peccatori, e nessuno è mai escluso dalla sua tavola. Mangiare insieme a tavola doveva essere per Gesù un evento carico di significato, una possibilità feconda di comunione, di conversione, di riconciliazione: lo mostra anche solo la moltiplicazione dei pani nel deserto (cf. Lc 9,10-17 e par.), segno profetico di un banchetto nuziale a cui tutti saranno chiamati e nessuno escluso. Gesù vuole raggiungere i peccatori là dove sono e farsi raggiungere dai peccatori dove lui è. A tavola accade qualcosa: attraverso la comunione del cibo passa una comunione non solo di parole, ma di pensieri e di sentimenti, nei quali può operare lo Spirito di conversione e di rinnovamento. Proprio per questo Gesù non è restato nel deserto con il suo maestro Giovanni il Battista, ma ha scelto di entrare nelle città e nei villaggi, nelle case della gente, per sedersi a tavola con gli uomini e le donne che incontrava sul suo cammino di annunciatore del Regno. La sua libertà, il suo stringere le mani di gente “perduta” secondo la Legge, il suo mettersi accanto a gente smarrita, scartata e condannata dall’opinione pubblica: tutto questo scandalizzava!

Per spiegare e rivelare la vera intenzione sottesa al suo vivere la comunione con i peccatori a tavola, Gesù consegna dunque alcune parabole. La prima si apre con una domanda: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”. Accade a volte che una pecora che, insieme alle altre, forma il gregge e pascola guidata dal pastore, si smarrisca, resti sola, cada in un dirupo, senza poter più raggiungere le altre. È una pecora perduta che può solo conoscere la morte ad opera di bestie selvagge, o delle ferite, o della fame. Allora il pastore lascia le altre novantanove nel deserto e va a cercarla con grande cura, finché non l’ha trovata.

Perché il pastore fa questo, perché si affatica per una sola pecora, quando ne ha altre novantanove? Il vangelo apocrifo di Tommaso riporta questa parabola con una significativa aggiunta: “la pecora più grossa si perse” (detto 107), quasi a giustificare la ricerca da parte del pastore di una pecora più preziosa, dunque più amata. Secondo Luca, invece, il pastore non fa preferenze, ma piuttosto ama tutte le pecore personalmente, perché di ognuna conosce la voce e il nome (cf. Gv 10,3-4.14): questa pecora, dunque, è semplicemente perduta, va verso la morte, e ciò spinge il pastore a cercarla! Quando si ama, non si seguono i calcoli dell’aritmetica! Il pastore non si accontenta di aspettare che la pecora torni, ma va alla sua ricerca, perché ogni pecora, se è amata, va cercata. Come non pensare qui alla strofa del Dies irae: “Quaerens me sedisti lassus”; “Signore, a forza di cercarmi ti sei seduto stanco”? Sì, il pastore della parabola è Dio, che continua a pensare a chi si è perduto, a chi l’ha abbandonato per scelta o per errore, e non si dà pace finché la pecora amata non ritorni nella sua intimità. E così Dio “abbandona” le altre pecore per salvare quella perduta…

Noi conosciamo invece pastori che non hanno questo stile indicato da Gesù. Hanno anche loro cento pecore, ma quando una di loro si perde, assaliti dalla paura ammoniscono le altre: “State attente, restate nel recinto, perché fuori ci sono i lupi, i nemici del gregge. Io vi proteggo stando qui con voi, ma voi non ripetete l’errore della pecora che si è perduta!”. E così il giorno successivo un’altra pecora si smarrisce, ma loro ripetono gli stessi ammonimenti e restano a guardia del recinto. Poi un’altra se ne va, poi un’altra ancora… ma il pastore che vuole proteggere le pecore non va a cercarle. Così resta pastore di una sola pecora, mentre le altre novantanove se ne sono andate, perdute perché il pastore aveva paura, perché era geloso del suo gregge, perché non aveva coraggio né audacia.

Il pastore della parabola di Gesù, invece, cerca, cerca e non si arrende finché non trova la pecora perduta. Allora, caricatala sulle spalle, per evitarle la stanchezza e l’angoscia della solitudine patita, la porta a casa e convoca gli amici e i vicini per fare festa: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa festa è profezia, segno della festa che avviene in cielo, perché anche Dio si rallegra quando un perduto è trovato, un morto torna in vita, un peccatore si converte. E attenzione: si converte perché Dio lo cerca, lo trova, se lo carica sulle spalle e lo porta a casa. La pecora resta passiva, è l’azione di salvezza di Dio, sempre preveniente, a salvarla!

Segue poi una parabola parallela, in cui Gesù narra di una donna che ha dieci monete e ne perde una. Allora cosa fa? Si dà da fare, accende la lampada, spazza la casa e cerca con cura, finché non trova la moneta che pensava fosse perduta per sempre. Poi chiama le amiche e le vicine e fa festa insieme a loro. Qui non c’è un animale, che con il pastore ha relazioni, ma solo una piccola moneta. Per capire bene la parabola bisogna però cogliere dove cade il suo accento, ovvero sulla gioia del ritrovamento da parte della donna, evento in cui è inscritta la dinamica pasquale: il perduto è ritrovato, il morto è risuscitato.

Insomma, Dio è sempre alla ricerca del peccatore, non è un Dio dei giusti, dei puri, che ama solo quelli che gli rispondono coerentemente. Dio sa che in verità tutti gli esseri umani sono peccatori, in un modo o nell’altro, e allora cerca di far sentire a tutti e a ciascuno il suo amore fedele e mai meritato. Ci porge questo amore, ce lo offre, ma se noi non sentiamo il bisogno di un Dio che ci renda giusti, se non sappiamo, o non vogliamo sapere, di essere peccatori, allora impediamo a Dio di venirci a cercare. Preghiamo dunque di discernere colui che “cercandoci, si è seduto stanco”, e non pensiamoci nell’ovile, perché siamo pecore perdute!




il commento al vangelo della domenica

 

CHI NON RINUNCIA A TUTTI I SUOI AVERI

NON PUO’ ESSERE MIO DISCEPOLO

commento al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (4 settembre 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 14,25-33

[In quel tempo] una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Nel vangelo di questa domenica Luca presenta le tre radicali condizioni che Gesù ha posto a quanti lo vogliono seguire. Il contesto qual è? Gesù sta andando verso Gerusalemme ed è seguito da tanta gente che, per un malinteso senso del messia, lo segue pensando poi di andare a spartirsi il potere e il bottino. Pensano che Gesù sia il glorioso messia, il figlio di Davide, che va a restaurare il defunto regno di Israele, e non  hanno compreso che Gesù è il figlio di Dio, quello che non va a togliere il potere, ma a donare la propria vita a Gerusalemme. E scrive l’evangelista, vangelo di Luca, cap. 14 versetti 25-33, che “una folla numerosa” – molta folla – “andava con lui”. Allora Gesù, sentendo questo equivoco, questa gente che lo segue per un malinteso senso, per l’interesse, “si voltò e disse loro …” – ed è la prima radicale condizione – “«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, e perfino la propria vita…»” – in greco adopera il termine yuc» (psyché) che significa ‘se stesso’ – “«non può essere mio discepolo». Gesù in precedenza denunciando, al pranzo con il fariseo, i legami di interesse che legavano questa cricca, questa setta, e i legami dettati dall’amicizia, dalla parentela, dagli interessi; ebbene, nel gruppo di Gesù tutto questo deve essere sciolto. Talmente sciolto che l’adesione a Gesù deve andare al di là dei vincoli familiari, e, in particolare, c’è l’immagine della moglie perché nella parabola che Gesù in precedenza ha comunicato ai suoi, uno degli ostacoli che uno presenta per andare a questo banchetto del regno è “ho preso moglie perciò non posso venire”. Quindi la prima condizione radicale è che l’adesione a lui deve andare al di sopra dei vincoli familiari, tutto il contrario di quello della cricca, della setta dei farisei, dove tutto si faceva per l’interesse del gruppo. La seconda condizione radicale è l’accettazione del disprezzo della società e quindi la grande solitudine. Infatti, afferma Gesù, “«Colui che non porta la propria croce»” – letteralmente “chi non solleva la propria croce”  – “«E non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»”. E’ la seconda volta che appare il tema della croce, tema che, ricordo, non riguarda mai la sofferenza, i momenti tristi che la vita inevitabilmente fa incontrare, mai la croce nei vangeli ha questo significato, ma sollevare la croce significa accettare il disprezzo della società perché quelli che venivano condannati a questa infamia erano considerati la feccia della società. E, in particolare, Gesù si rifà al momento preciso in cui il condannato doveva lui sollevare l’asse orizzontale della croce. Da quel momento doveva andare verso il luogo dell’esecuzione circondato da ali di folla per le quali era un dovere religioso insultare e malmenare il condannato. Quindi la seconda condizione radicale è accettare la solitudine e il disprezzo da parte della società. Poi Gesù, con due esempi che riguardano la torre e la guerra, chiede di calcolare le proprie forze però – ed è questo l’importante – non vuole scoraggiare chi non ha forza, ma di mettere la propria forza nell’azione dello Spirito. Quindi sapere i propri limiti e proprio per questo contare su quella che è la potenza per eccellenza di Gesù, la forza dello Spirito. E lo shock, la sorpresa finale, a quanti lo seguono per spartirsi il bottino dichiara: “«Così chiunque di voi»” – e qui a chi si attendeva chissà quale consiglio spirituale, chissà quale norma ascetica, Gesù pone come condizione per essere discepolo, la terza – “«Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»”. La rinuncia a tutto quello che si possiede, non mettere la sicurezza in quello che si ha, ma mettere la propria sicurezza in quello che si dà, perché Gesù vuole al suo seguito soltanto persone libere. Infatti le tre condizioni per la sequela sono tutte scelte di libertà e per la libertà. In particolare questo fatto della rinuncia agli averi si rifà a quanto Gesù aveva detto in precedenza nella parabole, dove tra i pretesti per non partecipare a questo banchetto c’era quello che ha detto “ho comprato un campo” e l’altro “ho comprato cinque paia di buoi”. Quindi il possesso degli averi di quello che si ha è un impedimento. Bene, allora sono tre condizioni radicali, tutte quante all’insegna della libertà; soltanto chi è pienamente libero può seguire il Signore. Gli altri? Gli altri tutti a casa.




spunti per il commento al vangelo della domenica

 

CHI NON RINUNCIA A TUTTI I SUOI AVERI
NON PUO’ ESSERE MIO DISCEPOLO

commento al vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (4 settembre 2016) di p. José María CASTILLO:

Castillo

 

Lc 14,25-33

[In quel tempo] una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

1. Come è logico, l’affermazione posta dai vangeli in bocca a Gesù – secondo la quale dobbiamo “odiare” il padre, la madre, la moglie ed i figli, i fratelli e le sorelle e persino noi stessi – così come risuona, è una barbarie di cui non ci si capacita umanamente. Soprattutto se abbiamo presente che il verbo greco utilizzato nel testo originale è il verbo miséo, che significa letteralmente “odiare”, “disprezzare”, “sottovalutare” (H. Giesen, J. B. Bauer, H. Seebass). Ma come si può accettare una simile atrocità?
2. Per incominciare a chiarirci le idee, sarà bene ricordare che questo verbo è utilizzato nei vangeli quando si parla di “essere odiato a causa di Gesù” (Mc 13,13 par; Mt 24,9 s [10,22]; Lc 21,17; 6,22). Si tratta quindi di un sentimento molto forte (l’odio) che è provocato da una causa molto nobile (la causa di Gesù). Il problema sta nell’armonizzare l’uno con l’altro. La “fedeltà” a Gesù ci può portare a “odiare”? Che “fedeltà” è questa e che “odio” è questo?
3. Se il dilemma è scegliere tra l’”amore” a Dio e l’”odio” ai nostri esseri più amati ed a noi stessi, non resta altra via d’uscita che questa: crediamo in un Dio (Gesù) che, per amarlo, non abbiamo altra soluzione che odiare quello che è più umano, ossia Dio e l’umano sono incompatibili. Ci si può capacitare di tale conclusione? Non resta altra soluzione che accettare queste due convinzioni: 1) Dio in Gesù si è incarnato nell’umano, cioè si è umanizzato pienamente. 2) Noi siamo umani. Ma portiamo iscritta nella nostra umanità la disumanizzazione. Per questo le nostre relazioni con gli altri, incluse le relazioni di parentela, molte volte sono così inumane. Per questo il dilemma posto da Gesù non è il dilemma “amore-odio”, ma la contrapposizione tra l’”umano” e l’”inumano”. Perché sappiamo bene che molte volte negli amori più umani c’è molta inumanità. Questo capita frequentemente nelle relazioni familiari. Padri autoritari, madri castranti, fratelli egoisti…Seguire Gesù è superare queste manifestazioni dell’inumano.




il commento al vangelo della domenica

CHIUNQUE SI ESALTA SARA’ UMILIATO, E CHI SI UMILIA SARA’ ESALTATO

commento al vangelo della domenica ventiduesima del tempo ordinario (28 agosto 201) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 14,1.7-14

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

E’ la terza e ultima volta che Gesù pranza a casa di un fariseo. Ogni volta che Gesù si trova a mensa con i farisei, questi pii, questi leader spirituali, è sempre occasione di conflitto. Questa volta il conflitto l’ha causato Gesù, perché in questa mensa c’è un ammalato e Gesù chiede se sia lecito o no curarlo in giorno di sabato, il giorno in cui c’è il riposo totale.
Ebbene i farisei non rispondono. Allora Gesù li attacca dando loro degli ipocriti, dicendo: “Ma voi per interesse siete capaci invece di trasgredire la legge del Signore”. Dopo questa reprimenda Gesù continua. Diceva agli invitati, che sono tutti farisei, una parabola, notando come sceglievano i primi posti.
L’evangelista stigmatizza questa ambizione, questa vanità, che è tipica delle persone religiose, specialmente se ricoprono delle cariche di rilievo, che si sentono importanti, e quindi il bisogno di esibire e manifestare, di rendere nota a tutti la loro importanza scegliendo i primi posti.
“Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te”. Gesù si riferisce a un detto molto famoso, molto popolare, contenuto nel libro dei Proverbi, al capitolo 25, “E colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece …..” Ed ecco la lezione che Gesù dà, ed è una lezione che va compresa bene: non è per umiltà, ma un invito a fare queste cose per amore… “quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto”.
Perché? Per permettere agli altri, quelli che invece si sarebbero seduti all’ultimo posto, di mettersi davanti. Quindi non è umiltà ma amore. Gesù sta invertendo la scala di valori della società.
“Perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Gesù invita questi farisei che ha già rimproverando dicendo che tutto quello che fanno lo fanno per interesse a passare dalla categoria dell’interesse a quella del dono. “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Gesù che si è fatto ultimo, che si mette a fianco dei rifiutati e degli esclusi, afferma che coloro che si fanno ultimi hanno la comunione con lui, la pienezza della condizione divina, quanti invece pretendono di mettersi al di sopra degli altri, separandosi dagli altri, ne saranno esclusi. Poi Gesù, al fariseo che l’ha invitato, rivolge un monito molto importante che va compreso alla luce di quei legami di amicizia, di parentela, di interesse, legami che sostengono la società, che sostengono gruppi ecclesiali, gruppi religiosi, che si autoproteggono a scapito degli altri. Quindi è un monito molto severo e molto attuale.
Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini”, quindi Gesù parla di una sorta di cricca dove c’è un’amicizia, c’è una parentela, e soprattutto ci sono interessi comuni. Una cricca che autoprotegge dagli altri, che esclude gli altri e che soltanto al proprio interesse. “Perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio”. Quindi Gesù denuncia in un ambito farisaico l’atteggiamento dei farisei che tutto quello che fanno lo fanno per interesse. Non conoscono che cosa sia il disinteresse, la generosità e il dono. Ed ecco l’offerta di soluzione che Gesù dà loro.
Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri”, che naturalmente non hanno da ricambiarti. Poi Gesù inserisce, “storpi, zoppi, ciechi”, che sono quelle categorie di persone che per la loro infermità erano escluse dal tempio e dal sacerdozio. Quindi Gesù in un ambito molto pio, molto religioso, come quello dei farisei che si ritenevano i più vicini a Dio e in base alle loro norme, alle loro regole religiose si separavano ed escludevano gli altri da Dio, Gesù dice “No, invita proprio quelli che sono esclusi”.
Come si può tradurre, come si può interpretare oggi? Quelle categorie di persone che noi, in base a convinzioni religiose, spirituali, etniche, razziali, consideriamo gli esclusi, gli invisibili, i rifiutati, sono proprio questi a cui deve andare la nostra attenzione.
“E sarai beato”, beato lo sappiamo significa pienamente felice, “perché non hanno da ricambiarti. Quindi Gesù invita questa comunità di farisei ad agire non più con l’interesse, ma con il disinteresse, sempre per la generosità e l’amore verso gli altri. E poi, Gesù sta parlando ai farisei quindi adopera categorie religiose che i farisei potevano comprendere … “Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.
Quindi Gesù invita a non stare attenti alla ricompensa immediata “io faccio un favore a te perché tu ne fai a me”, realizzando questa cricca che esclude gli altri dai propri interessi e dal proprio benessere, ma a rivolgere tutta la propria attenzione al bene e al benessere degli altri e  poi Dio sarà la loro ricomprensa.




il commento al vangelo della domenica

VERRANNO DA ORIENTE E OCCIDENTE E SIEDERANNO A MENSA NEL REGNO DI DIO 

commento al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario (21 agosto 20169 di p. Alberto Maggi:

Lc 13,22-30Maggi

In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”.
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Per comprendere il brano dell’evangelista Luca al capitolo 13, dal versetto 22 occorre sapere che al tempo di Gesù il popolo di Israele pensava di essere l’unico a salvarsi, i pagani no.
Sentiamo cosa ci scrive l’evangelista. Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Quindi Gesù si dirige verso quella che sarà la tappa finale di questo suo cammino, la città dove incontrerà la morte per mano delle autorità religiose. 1Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Cioè vuole sapere quanti sono quelli che si salvano. Perché questo? Perché si credeva che la salvezza fosse un privilegio riservato al popolo di Israele. All’individuo che gli ha chiesto quanti sono quelli che si salvano Gesù risponde affermando chi sono quelli che si salvano.
Disse loro: “Sforzatevi (letteralmente lottate) di entrare per la porta stretta..”, Gesù non sta invitando a chissà quali sforzi ascetici, chissà quali difficoltà che presenta questa porta. Vedremo che in questa porta non si riesce ad entrare non perché sia difficile, ma perché – come dice Gesù “Perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”…. Perché la porta sarà già chiusa.
Quindi Gesù non sta invitando a chissà quali penosi sforzi o sacrifici per entrare in questa porta, ma di aprire gli occhi perché c’è il rischio che poi questa porta sia chiusa. Perché? “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, …”, quindi non è difficile entrare, ma sarà chiusa.
“Comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Quindi qui l’evangelista presenta persone che hanno una comunione con Gesù, lo chiamano Signore. “Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”, cioè non vi conosco. Perché Gesù non li conosce? Sentiamo la replica di questi che sono rimasti fuori. “Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza…” E’ un’allusione all’eucaristia, quindi hanno celebrato l’eucaristia del Signore.
E tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Quindi si sono nutriti della sua parola, eppure Gesù dirà…  “Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete”. Gesù torna a ripetere quello che ha detto prima. E addirittura poi – è la citazione del salmo 6  al versetto 8 – “Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Il salmo dice “voi tutti che fate il male”. Perché questa durezza da parte di Gesù? Perché a Gesù non importa il rapporto che i discepoli possono avere con lui o con il Padre.
Ma a Gesù interessa il frutto che questo rapporto con lui e con il Padre sia verso i fratelli, con azioni di amore, di misericordia, di compassione, di perdono, di condivisione generosa. E’ questo quello che permette la comunione con Dio. Dio non ci chiederà se abbiamo creduto in lui, ma se abbiamo amato come lui. Ecco per questo la risposta molto dura di Gesù “non vi conosco”. Non importa che relazione hanno con Dio, a Gesù interessa la relazione che hanno con gli altri.
Questi hanno partecipato all’eucaristia, ma poi non sono stati capaci di farsi pane, di fare della loro vita pane, alimento di vita per gli altri, hanno ascoltato il suo insegnamento, ma questo insegnamento non ha trasformato la loro esistenza. E le parole di Gesù sono molto severe: “Là ci sarà pianto e stridore di denti”. E’ un’immagine che indica il fallimento della propria vita. Noi in italiano diciamo “si metteranno le mani nei capelli”.
“Quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe (i grandi patriarchi) e tutti i profeti”, i profeti sono coloro che hanno denunciato il culto verso Dio e il disinteresse verso i poveri. “Nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori”.
Il popolo di Israele, che credeva di avere il diritto di far parte del regno di Dio invece per Gesù, se non trasforma questa conoscenza di Dio in amore verso gli altri, ne rimane escluso. Ma non solo! Rimane escluso e il suo posto lo prendono proprio quei popoli che loro ritenevano essere gli esclusi, cioè i pagani. Infatti, conclude Gesù: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno (quindi tutte le parti del mondo pagano) e siederanno a mensa nel regno di Dio.”
Gesù, quando deve presentare il regno di Dio non lo presenta con simboli liturgici religiosi, ma sempre conviviali, quindi una mensa. Ebbene a questa mensa, alla quale credevano di appartenere per diritto, questi saranno allontanati e quelli che si ritenevano esclusi invece ci parteciperanno. E èpoi ecco la conclusione di Gesù: “Ed ecco, vi sono ultimi”, cioè quelli che voi considerate esclusi, “che saranno primi, e vi sono primi”, quelli che credevano di avere diritto,  “che saranno ultimi”.
E’ un monito molto severo e molto attuale quello che Gesù ci dà. Ci può essere la presunzione per l’appartenenza a una fede religiosa, per la partecipazione ad atti di culto, ci può essere la presunzione di avere dei diritti dai quali le persone possono essere escluse perché non appartengono alla nostra cultura, alla nostra fede, alla nostra etnia, credono in altre divinità, si comportano in maniere differenti, allora Gesù li invita a fare molta attenzione.
Attenzione! Perché quelli che voi ritenete gli esclusi, quelli che voi rifiutate invece prenderanno loro il vostro posto nel regno dei cieli. Naturalmente insorgeranno i primi e subito dopo – non c’è in questo brano del Vangelo – si avvicineranno alcuni farisei con delle minacce di morte.

 




Dio esprime la sua fantasia in Maria – sulla festa dell’Assunta

“LA FANTASIA DI DIO”

15 AGOSTO ASSUNZIONE B.V.M.

assunta1Maggi
di Alberto Maggi

L’inizio e la fine della vita terrena di Maria corrispondono al compimento del progetto che Dio ha sull’umanità: creati per diventare suoi figli, realizziamo questa figliolanza nella vita terrena mediante la pratica di un amore che somigli a quello di Dio e proseguiamo presso il Padre la nostra esistenza oltrepassando la soglia della morte.
La Chiesa presenta come modello perfetto di questo itinerario Maria: l’ingresso nell’esistenza terrena viene celebrato con l’Immacolata e quello nella sfera di Dio con l’Assunta.
Come per l’Immacolata, quello dell’Assunta è un altro dei dogmi recenti (Costituzione Apostolica Munificentissimus Deus, 1950) che non hanno alcuna diretta radice nella Sacra Scrittura, ma che appartengono di buon diritto al patrimonio della fede del popolo cristiano.
L’Assunta è infatti una verità di fede nata non dalla speculazione teologica ma dal buon senso o intuito della gente, e in passato era una festività tanto importante da stare alla pari col Natale, la Pasqua e la Pentecoste, le tre grandi solennità dell’anno liturgico.
Ma dobbiamo chiederci che può significare oggi per noi celebrare una simile festa. È ancora una volta rimanere sbalorditi di fronte ai tanti straordinari privilegi che Dio ha abbondantemente riversato su Maria, oppure una proposta, una possibilità valida per tutti i credenti?
Maria “assunta” in cielo è la firma di Dio sull’umanità, la creazione di un uomo che si lasci coinvolgere dall’azione vivificante dello Spirito santo: “Tale glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli”, affermò infatti Paolo VI nella Marialis cultus, il documento pontificio che ha portato un’aria nuova nella conoscenza di Maria.
Pertanto anche noi, se mettiamo nella nostra vita una qualità d’amore che assomigli a quella di Dio, fin da adesso, come afferma l’Apostolo Paolo “sediamo nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6), siamo come lui vincitori della morte e continueremo a vivere per sempre (Gv 11,25), come prega la Chiesa il 15 agosto: “anche noi possiamo per intercessione della Vergine Maria giungere fino al Padre nella gloria del cielo”.
Dio non ha creato l’uomo per la morte, ma per la vita, per una vita che può raggiungere la stessa qualità divina, ed essere perciò inattaccabile e indistruttibile.
La festa dell’Assunta ci ricorda e ci stimola quel che possiamo essere.
Ci ricorda che noi siamo importanti agli occhi del Padre che ci vuole innalzare al suo stesso livello.
Ci stimola perché al desiderio del Signore di renderci simili a lui, deve corrispondere anche il nostro impegno di vivere una vita di una tale qualità da renderla indistruttibile e capace quindi di durare per sempre.assunta
Per Maria l’assunzione non è stato un premio ricevuto per meriti speciali, ma la conclusione logica della sua esistenza che fin da Nazareth ha diretto sempre verso scelte di servizio, d’amore, pertanto di vita. Anche quando scegliere non era né facile è logico, anche nelle situazioni più drammatiche, Maria ha scelto la vita.
Maria si è fidata della fantasia di Dio.
Quella fantasia che trasforma tutte le cose in bene (Rm 8,28), e fa si che quelle che sembrano pietre siano invece pane (Mt 7.9). La fantasia di un Dio che sceglie quel che nel mondo è disprezzato per farne oggetto del suo amore (1 Cor 1,27-30; Gc 2,5). Fantasia che viene attratta dalle situazioni più difficili e più disperate per far brillare la potenza del suo amore.
È la fantasia di Dio che fa sì che un’anonima ragazza di uno sperduto malfamato villaggio venga proclamata beata da tutte le nazioni e per tutti i secoli (Lc 1,48).
L’assunzione è il coronamento logico della vita di Maria e della fantasia di Dio: la donna, l’essere emarginato che non poteva neanche mettere piede dentro il santuario, Dio la vuole con sé. Il Signore l’innalza al suo stesso livello ed elimina la distanza che lo separava dall’umanità.
E noi oggi non dobbiamo stare a guardare con il naso per aria verso il cielo (At 1,11), ma far si che pure la nostra vita sia una festa della fantasia di Dio. Esperimentare che non esiste fallimento, non esiste peccato, non esiste angoscia che il Padre nella potenza del suo amore non possa trasformare in vita. Non esiste colpa che non possa diventare una “felice colpa” come canta la liturgia del sabato santo.
Anche per noi la vita eterna non sarà un premio da ricevere per la buona condotta tenuta nell’esistenza terrena, ma l’accoglienza di un dono d’amore di quel Padre che vuole che neanche uno dei suoi figli si perda (Gv 6,39).
L’assunzione è la festa e la condizione di quanti hanno saputo essere fedeli all’amore portando così a compimento il progetto di Dio sull’uomo.”




il commento al vangelo della domenica

NON SONO VENUTO A PORTARE PACE SULLA TERRA, MA DIVISIONE   

commento al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario (14 agosto 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 12,49-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Luca è indubbiamente l’evangelista che, più di tutti gli altri, tratta il tema della pace. Il suo vangelo si apre con l’immagine della pace nel coro angelico che proclama la “pace in terra agli uomini amati dal Signore”, si conclude con Gesù risuscitato che, quando si presenta ai suoi discepoli dona a loro la pace, “Pace a voi”, laddove pace significa pienezza della vita, felicità, eppure in questa pagina sembra che ci sia quasi una contraddizione.
Leggiamo quello che l’evangelista ci dice. E’ il capitolo 12 di Luca, versetti 49-53. Gesù dichiara: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra”. Per la terza volta in questo vangelo appare la tematica del fuoco. La prima volta era apparsa nelle parole terribili di Giovanni Battista che aveva annunciato il messia come colui che avrebbe battezzato in spirito santo e fuoco. Spirito Santo, cioè energia divina per chi accoglie Gesù e il suo messaggio, e fuoco, immagine del castigo distruttore per chi lo rifiuta, per i peccatori.
La seconda volta la tematica era apparsa nelle parole di Giacomo e Giovanni che, vedendo che un villaggio di Samaritani non aveva accolto Gesù, aveva chiesto a Signore: “Diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi”. Quindi era un fuoco distruttore. L’immagine del fuoco finora è presentata come il castigo di Dio.
Ma non è questo il fuoco che vuole portare a Gesù. Lo si comprenderà dal resto delle sue espressioni che questo fuoco è frutto della sua morte. Sappiamo che Luca presenta dopo la morte di Gesù la pentecoste come la discesa dello Spirito sotto forma di lingue di fuoco. E’ la nuova realtà della nuova comunità, dell’alleanza tra Dio e il popolo, non più basata sull’osservanza delle sue leggi, ma sull’accoglienza del suo spirito, cioè del suo amore.
Allora Gesù dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”, quindi questo fuoco dello Spirito, “come vorrei che fosse già acceso!”. Gesù non vede l’ora che i suoi discepoli, la sua comunità, il suo popolo, instauri con Dio un rapporto diverso, che non è quello imposto da Mosè, ma quello di lui, il Figlio, che propone una relazione tra dei figli e il loro padre.
E continua Gesù: “C’è un battesimo”, naturalmente qui battesimo non ha l’immagine del rito, del sacramento, della liturgia, che poi avrà il termine battesimo, che significa immersione, ma ha un’immagine anche negativa, qualcosa che travolge, qualcosa che ti trascina. Quindi Gesù dice: “C’è qualcosa che sta per travolgermi e che devo ricevere”.
“E come sono angosciato…” qui veramente l’evangelista non usa il termine “angosciato”, il vocabolo usato da Luca indica essere pressato, dominato da un forte desiderio. Quindi Gesù ha proprio questa passione per questo avvenimento che pure è negativo, questa situazione che lo travolgerà. “Finché non sia compiuto!”
Quindi potremmo tradurre “c’è un’immersione nella quale dovrò essere immerso!” ed è l’immersione nella violenza, nella morte che lo spazzerà via. E a questo punto ecco la sorpresa; abbiamo iniziato dicendo che Luca è l’evangelista della pace, Gesù toglie qualche dubbio su cosa significhi questa pace e dice: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione.” Ecco, sorprende sentire queste parole di Gesù, ma che significa questa divisione? Questa pace che Gesù è venuto a portare, frutto di una nuova relazione tra gli uomini e Dio, come quella di figli con il padre, troverà la reazione e l’avversione di tante forze che si scateneranno.
E quali sono queste forze? Gesù parla di divisione, prendendo l’immagine di una famiglia, una famiglia normale.
“D’ora innanzi, in una casa di cinque persone, si divideranno tre contro due e due contro tre” e si divide quello che rappresenta il vecchio contro il nuovo. Infatti aggiunge Gesù:  “Si divideranno il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera”. L’iniziativa di questa divisione viene dai rappresentanti del passato, il padre, la madre, la suocera, che non accolgono questa novità del messaggio di Gesù che viene invece accolto dai suoi discepoli.
Ecco la causa della divisione. Bisogna tenere presente che qui Gesù non sta parlando di divisione di figlio contro figlio, di fratello contro fratello. No, la divisione nella comunità dei credenti in Gesù non è ammessa, perché dove c’è divisione la comunità si distrugge. L’evangelista qui si rifà a un’immagine conosciuta, quella del profeta Michea, che al capitolo 7, versetto 6, aveva parlato di un figlio che insulta il padre, della figlia che si rivolta contro la madre e la nuora contro la suocera.
E aveva aggiunto: “E i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua”. I nemici di questa nuova realtà, di questa nuova relazione con il padre non saranno quelli al di fuori della religione, ma proprio coloro che sono all’interno della religione che non accetteranno questa novità. Eppure Gesù è quel Dio che è venuto a fare nuove tutte le cose. Chi si ferma al passato non potrà mai comprendere la novità che lo Spirito propone.