il commento al vangelo della domenica

ANCHE VOI TENETEVI PRONTI  

commento al vangelo della diciannovesima domenica del tempo ordinario (7 agosto 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Lc 12,32-48

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. [Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». ]
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi.
Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche.
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».   

Nel capitolo 12 del vangelo di Luca l’evangelista presenta la nuova realtà del regno. Se i discepoli si prendono cura dei loro fratelli permetteranno a Dio, come Padre, di prendersi cura del loro bene e del loro benessere. Qui ora l’evangelista ci presenta i versetti finali di questo capitolo.
Scrive Luca: “Non temere”… quindi Gesù toglie ogni ansia, ogni preoccupazione, “piccolo gregge”. E’ proprio minuscolo. Il termine piccolo è micron, quindi qualcosa proprio di inconsistente. “Perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.” L’evangelista contrappone la piccolezza, il piccolissimo – microscopico quasi – gregge, la comunità che segue Gesù, con la grandezza del Regno di Dio, del progetto di Dio sull’umanità. Poi Gesù con tre imperativi passa a definire le caratteristiche che rendono possibile la realtà di questo Regno. La prima è “Vendete ciò che possedete”. Non è un invito, è un imperativo. Quindi vendere ciò che si possiede, “E datelo in elemosina”, cioè con quello che avete ricavato fate del bene a chi ne ha bisogno, e poi ecco il cambio, la nuova realtà del Regno, “Fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli”. Sappiamo che il termine cieli, nel linguaggio del tempo significa “in Dio”. Cosa vuol dire Gesù? Gesù dice che, man mano che il credente sperimenta che dare non significa perdere, mette la sua fiducia nel Padre, li libera dalle preoccupazioni materiali e si riempie di una fiducia crescente nell’azione del Signore. Quindi “fatevi un tesoro sicuro nei cieli”, cioè in Dio, “dove ladro non arriva e tarlo non consuma”. Quindi è al di fuori di ogni preoccupazione. E poi ecco l’affermazione chiara di Gesù. “Perché, dov’è il vostro tesoro (cioè dove mettete la vostra fiducia, ciò che vi dà sicurezza), là sarà anche il vostro cuore.” Il cuore, nella cultura ebraica, non è come nella nostra occidentale la sede degli affetti, il cuore significa la mente, la coscienza, quindi dov’è il tuo pensiero – dice Gesù – là sarà anche la tua vita. Quindi dove hai diretto il tuo pensiero, là sarà tutta la tua vita, se invece pensi al bene degli altri questa sarà la tua ricchezza sicura. Poi Gesù di nuovo con un imperativo – e qui è un’immagine  molto importante che se compresa bene cambia il rapporto con Dio e conseguentemente il rapporto con i fratelli –  “[Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi]”. Perché quest’indicazione? L’abito comune degli uomini in Palestina era una tunica che arrivava fino alle caviglie. Quando ci si doveva mettere in cammino, e soprattutto quando si doveva lavorare, questa tunica era di impaccio, allora la si raccoglieva e si annodava alla vita. Allora Gesù chiede che la caratteristica, quello che distingue la sua comunità dei discepoli, il suo distintivo, sia quest’atteggiamento di servizio. Non un servizio abituale, ma un servizio che diventa il distintivo della persona e della comunità. E poi Gesù aggiunge: [“E le lampade accese”]. Perché questo richiamo alle lampade accese? Il riferimento è al libro dell’Esodo dove in una tenda c’era la presenza del Signore, e c’era la prescrizione che una lampada doveva essere sempre accesa. Con questa indicazione preziosa Gesù dice che  l’individuo e la comunità che si manifestano nel servizio sono il vero santuario dove Dio manifesta la sua presenza. [“Siate simili a quelli che aspettano il loro padrone (letteralmente l’evangelista scrive signore) quando torna dalle nozze”]. Come Jahvè era lo sposo del suo popolo, così Gesù è lo sposo della nuova comunità. [“in modo che, quando arriva e bussa”] Gesù non si comporta come il padrone di casa che entra, spalanca la porta. Lui bussa. E’ un grande segno di rispetto e delicatezza verso gli altri. [“Gli aprano subito. ”] E qui Gesù proclama qualcosa di inconcepibile per la cultura dell’epoca. Gesù proclama “beati”, cioè straordinariamente e pienamente felici, [“Quei servi che il padrone (il signore) al suo ritorno troverà ancora svegli”]. Quindi questo atteggiamento di servizio non è qualcosa che vale ogni tanto, è un atteggiamento che continuamente rende distinguibile la comunità. [“In verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi”] Quello che Gesù ha chiesto ai suoi discepoli di avere come distintivo, il servizio, è il suo distintivo. Gesù, nella sua comunità, è colui che serve. E qui c’è qualcosa di inaudito. Gesù si presenta come il Signore, il padrone della casa e, anziché mettersi a tavola e farsi servire dai servi, sarà lui a servire. Dice Gesù: [“li farà mettere a tavola (letteralmente sdraiare a tavola) e passerà a servirli.]  Questa è la novità di Gesù. Gesù, nel vangelo di Luca, nell’ultima cena, fa proprio questa affermazione: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve”. Questa immagine dell’evangelista è un’allusione all’eucaristia. L’eucaristia non è un culto, ma è la comunità che sempre continuamente in atteggiamento di servizio, viene fatta riposare da Gesù, per farla ristorare, per farla ricaricare con una nuova carica del suo amore. Gesù stesso passa a servire, questa è l’immagine che l’evangelista ci presenta. Quindi non una comunità a servizio di Dio, ma Dio che si mette a servizio della comunità. Allora il culto della comunità cristiana non è diretto al Dio, al Padre, ma dal Padre, attraverso Gesù, passa agli uomini perché continuamente si manifestino attraverso questo atteggiamento di servizio. E Gesù continua con questo atteggiamento della disponibilità che rende riconoscibile la sua comunità dicendo: [“Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». ] Questa presenza di Gesù  nella sua comunità, questo suo improvviso apparire non ha una scadenza, è all’improvviso. Cosa significa all’improvviso? Ogni volta che ci sono situazioni di bisogno, di necessità degli altri, la comunità deve essere sempre pronta. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Dice Gesù che se nella comunità, anziché servirsi gli uni altri, se nella comunità non ci si tratta con amore e con rispetto, ma per l’arroganza, per la prepotenza, per il desiderio di potere si schiavizzano gli altri per i propri comodi, Gesù usa un’espressione tremenda. Dice “quando il padrone verrà” – l’espressione è molto forte – “lo dividerà in due”. Essere divisi in due era la pena per i traditori. Quindi Gesù ammonisce che coloro che nella comunità, anziché servire, mettersi al servizio degli altri, pretendono di comandare, dominare, agiscono con prepotenza, per Gesù sono dei traditori che nulla hanno a che fare con la sua realtà.

 




il commento al vangelo della domenica

 

QUELLO CHE HAI PREPARATO, DI CHI SARA? 

commento al vangelo della domenica diciottesima del tempo ordinario (31 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 12,13-21

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni.
Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Con la sagacia, l’arguzia e l’ironia e il sarcasmo che gli sono tipici, l’evangelista Luca affronta un tema antico quanto il mondo: l’eredità.
Non c’è nulla come l’eredità per dividere le persone. Ascoltiamo il capitolo 12 dal versetto 13. Gesù sta parlando di fiducia nel Padre e viene interrotto da chi invece pone la fiducia nel denaro. Uno della folla disse a Gesù: “Maestro, di’ …”, si rivolge a lui con un tono imperativo. “Dì a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ecco come abbiamo detto è una questione antica come il mondo, l’eredità. L’eredità è causa sempre di divisioni e di dissapori, perché tanto ci sarà sempre qualcuno che si aspettava di più, che pretendeva di più, che desiderava di più. E questo causerà inimicizia e spesso dissapori che durano per sempre.
Per Gesù ogni aridità è frutto dell’avarizia, dell’egoismo, della cupidigia, atteggiamenti che chiudono irrimediabilmente all’uomo e a Dio, pertanto ogni eredità, essendo frutto di egoismo, perché se le persone fossero state generose non avrebbero accumulato tanto da poter lasciare in eredità, contiene un fattore tossico che avvelena la vita di quanti la ricevono. Quindi si crede di fare del bene lasciando l’eredità e invece si fa del male, consegnando un frutto avvelenato che prima o poi porterà i suoi frutti disastrosi.
E Gesù rifiuta. Ma egli rispose: “O uomo…”, e quando Gesù usa questa espressione “uomo” è sempre al negativo, “…Chi mi ha costituito giudice o mediatore (letteralmente divisore, perché lui gli ha chiesto che il fratello divida con lui) sopra di voi?”. Ed ecco il monito severo di Gesù che va preso in considerazione.
E disse loro: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia”, la bramosia di possedere. San Paolo nella lettera ai Colossesi al capitolo 3 affermerà che la cupidigia è un’idolatria. Puoi essere la persona più religiosa, più pia, più devota del mondo, ma se accumuli denaro, se hai bramosia di possedere, se sei visceralmente e profondamente egoista sei un idolatra, non hai nulla a che fare con il Padre, perché il Padre è amore che generosamente condivide.
“Tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”. Il valore della vita della persona non dipende da quello che ha, ma da quello che dà. L’insegnamento di Gesù nei vangeli è che si possiede soltanto quello che si è capaci di dare; quello che si trattiene per sé non si possiede, ma ci possiede.
Ed ecco ora una micidiale parabola che Gesù racconta. Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante.” Allora la persona è ricca e ha addirittura un raccolto abbondante.
Egli ragionava (attenzione è ironica perché poi Gesù gli darà dello scemo) tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?” Il ricco, i ricchi sono malati terminali di egoismo per i quali non c’è speranza alcuna di salvezza, perché dovrebbero essere generosi, ma loro, appunto perché sono ricchi, non lo sono. Il ricco non pensa minimamente di dare, di condividere. E’ già ricco e ha questa campagna che gli fa un raccolto abbondante; non è che pensa “a chi posso dare, con chi posso condividere?” Il ricco pensa soltanto per sé. Ai ricchi tutto è dovuto.
“Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi”. Vediamo l’ingordigia, la cupidigia. “E vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni.” E di nuovo ritorna questo tema dei beni.
“Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Pensa soltanto e unicamente a se stesso. Non lo sfiora minimamente un cenno di solidarietà, di condivisione, lui è già ricco, ha un frutto abbondante, “e dai che ti costa dare gli altri?!” No, il ricco, come ho detto, è un ammalato terminale di egoismo per il quale non c’è speranza.
Ed ecco la sentenza di Dio. Teniamo presente che, al tempo di Gesù, il ricco si considerava una persona che era benedetta da Dio, mentre il povero era persona punita. Ma Dio gli disse: “Stolto”. La traduzione dice “Stolto”, perché in bocca a Gesù non sembra conveniente usare certe espressioni un po’ forti, ma chi di noi ad uno direbbe “stolto”?
Qui il termine usato dall’evangelista è “scemo, stupido”, detto anche con vigore!
“Scemo! Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Ecco, prima Gesù aveva detto che egli ragionava tra sé, e invece non ragiona tra sé. Il ricco, non solo è un ammalato terminale di egoismo per il quale non c’è speranza, ma è anche scemo, ha accumulato tanto e neanche riesce a goderlo per sé. Creperà e tutto quello che ha accumulato per chi sarà?
E Gesù conclude: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”. Come ci si arricchisce presso Dio? Dando gli altri. Gesù negli Atti degli Apostoli, sempre scritti da Luca, afferma che c’è più gioia  nel dare che nel ricevere, il segreto della felicità non consiste in quello che ricevi, in quello che hai, in quello che accumuli, ma in quello che dai e condividi generosamente con chi ne ha bisogno.

 




il commento al vangelo della domenica

CHIEDETE E VI SARA’ DATO  

 

commento al vangelo della domenica diciassettesima del tempo ordinario (24 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

L’unica preghiera insegnata da Gesù, il Padre Nostro, ci è giunta in tre versioni differenti tra loro. Questo perché gli evangelisti non intendevano trasmettere le parole esatte di Gesù, ma il suo profondo significato.
 Del Padre Nostro abbiamo quindi una versione in Matteo, la più lunga, poi una versione più breve, questa di Luca che ora commenteremo al capitolo 11, e poi nel primo catechismo della chiesa che si chiama Didaché, una parola greca che significa “insegnamento”.
Ma pur essendo differenti queste tre versioni tutte contengono un mistero che adesso cercheremo di affrontare. Allora vediamo questa unica preghiera insegnata da Gesù e vediamo la sua importanza. Gesù ai discepoli che gli chiedono di insegnare loro a pregare dice: “Quando pregate, dite: “Padre …” Verso Dio non si rivolge usando quei formulari cerimoniali liturgici in cui Dio veniva esaltato con tutti i suoi nomi (tipo “altissimo”). No. Gesù si rivolge a Dio chiamandolo Padre, perché questo è il rapporto che lui è venuto ad inaugurare con i suoi: la relazione di un padre con un figlio.
E teniamo presente che in quella cultura il padre è colui che trasmette la vita, quindi è la fonte della vita. E la prima richiesta che si fa: “Sia santificato il tuo nome”. Il verbo “santificare” ha il significato di consacrare, separare, ma quando è rivolto a Dio significa riconoscere quello che è.
Allora la prima richiesta che la comunità dei credenti rivolge al Padre è “venga riconosciuto questo tuo nome”, cioè che la gente ti conosca come un Padre, e in questo brano del vangelo Gesù dirà che il Padre fa incontro ai bisogni dei suoi figli, il Padre addirittura li precede perché il Padre ha a cuore la vita e la felicità dei suoi figli. Allora la comunità chiede questo tuo nome, con il quale noi ti abbiamo conosciuto e che stiamo sperimentando – Padre – venga riconosciuto.
L’altra petizione: “Venga il tuo regno”. “Venga il tuo regno” non ha il significato di chiedere qualcosa che non c’è e quindi deve venire, il significato del verbo è “si estenda, si allarghi questo tuo regno”. Il regno, il regno del Padre c’è già. Gesù, nel proclamare le beatitudini, aveva proclamato beati i poveri perché di essi è il regno di Dio. Il regno di Dio non è l’aldilà, ma una società alternativa dove al posto di accumulare per sé si condivida generosamente con gli altri, dove al posto di comandare si serva.
Allora, attraverso la fedeltà alle beatitudini, la comunità chiede che si estenda questa esperienza del regno. E qui in mezzo c’è un versetto di difficile traduzione, perché contiene una parola greca che nella lingua greca semplicemente non esiste. E’ quello che noi traduciamo con “dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano”. L’evangelista scrive – cerco di tradurre letteralmente dal testo – “il pane nostro quello …” e poi c’è questa parola greca che nella lingua greca non esiste … “dallo a noi ogni giorno”.
San Girolamo, il primo traduttore del vangelo, di fronte a questo termine che non c’è nella lingua greca, fece una scelta. Nel vangelo di Matteo lo tradusse con “super-super-stantialem”, che significa un pane che va al di là della sostanza. Nel vangelo di Luca invece lo tradusse con “quotidiano”. Poi la chiesa nella versione liturgica ha scelto la versione di Matteo, ma anziché super-super-stantialem, difficile da pronunciare e da comprendere, ci ha messo quotidiano.
E’ una scelta che provoca tanti danni, perché con questa scelta sembra quasi che si debba chiedere a Dio il pane da mangiare, il pane che nutre gli uomini. No, il pane che nutre gli uomini è compito degli uomini procurarlo e condividerlo con chi non ne ha. Questo è un pane speciale perché viene richiesto a Dio. Probabilmente la traduzione “super-super-stantialem” era quella esatta. Chi è questo pane? Questo pane è la presenza di Gesù al centro della comunità, come è al centro del Padre Nostro, Gesù come   alimento, come parola che alimenta la vita e come pane, il pane dell’Eucaristia che dona la forza di vivere questa parola. Quindi non si richiede il pane. Gesù aveva detto: “Non vi affannate, non state in ansia su cosa mangerete o cosa berrete! A queste cose pensano i pagani. Se viene richiesto a Dio è perché è la presenza del Signore come alimento di vita.
Poi la clausola “e perdona”, cioè letteralmente cancella, “a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo” – cancelliamo – “a ogni nostro debitore”. Dio ci perdona, ma il suo perdono diventa efficace e operativo nel momento che si traduce in perdono per gli altri.
Poi l’ultima delle invocazioni, anche questa tradotta male, specialmente in Matteo, ha provocato tanti problemi … il famoso “non ci indurre in tentazione”! Ora la traduzione ha migliorato. “Non abbandonarci alla tentazione”, letteralmente alla prova.
Qual è questa prova alla quale la comunità chiede di non essere abbandonata? E’ la prova nella quale ha fallito. Gesù nell’orto degli ulivi aveva chiesto ai discepoli: “Pregate per non entrare nella prova, per non cedere alla prova”. La prova era quella di Gesù che veniva catturato come un malfattore, che finiva assassinato come un delinquente, come un maledetto da Dio, una prova che ha messo in crisi la comunità. Allora Gesù chiede in questa preghiera alla comunità di chiedere di rimanere forti nel momento della prova, nel momento di questa tentazione.
Poi il brano si conclude con la piena fiducia nel Signore e soprattutto con un aspetto molto importante: l’unica cosa che Gesù garantisce che sarà data è normalmente quella che meno si chiede nell’elenco, nelle liste delle preghiere. Infatti il brano si conclude dicendo: “Se voi dunque, che siete cattivi”, non per dire che siamo cattivi, ma per paragonare la bontà del Padre al nostro atteggiamento verso gli altri dice che siamo cattivi, “sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo (letteralmente Spirito Santo senza l’articolo, perché non dà la pienezza dello Spirito Santo, ma Spirito Santo nella misura con cui la persona è in grado di accoglierlo) a quelli che glielo chiedono!».
Ecco è l’unica cosa che Gesù garantisce che il Padre darà. Spirito Santo. A che serve questo Spirito? Lo Spirito è la forza dell’amore di Dio che serve per realizzare il disegno d’amore del Padre su ognuno di noi. Perché Dio non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro il suo Spirito, l’energia interiore che fa comprendere la strada da percorrere.

 




il commento al vangelo della domenica

MARTA LO OSPITO’. MARIA HA SCELTO LA PARTE MIGLIORE  

il  commento al vangelo della sedicesima domanica del tempo ordinario (17 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Ogni volta che leggiamo il vangelo dobbiamo sempre inserirlo nel contesto culturale del tempo. Se non lo facciamo rischiamo di prendere fischi per fiaschi e dare un’interpretazione che non è assolutamente nelle intenzioni dell’evangelista, come in questo brano, il capitolo 10 di Luca, versetti 38-42. Un brano dal quale è nata la distinzione tra la vita attiva, quelle delle persone comuni, normali, e la vita contemplativa, quelle che scelgono una vita monacale, la clausura, con una netta preferenza di Gesù per quest’ultima.
Nulla di tutto questo. Leggiamo. Mentre erano in cammino (Gesù e i discepoli), Gesù entrò … Ecco la prima incongruenza. Sono in cammino e soltanto Gesù entra. Perché? Gesù esclude i discepoli perché non sono ancora in grado di comprendere la lezione che ora starà dando.   Entrò in un villaggio. Quando nei vangeli troviamo l’espressione “villaggio” è una chiave di lettura che gli evangelisti ci danno per indicare resistenza, incomprensione oppure ostilità all’annunzio di Gesù, alla novità che Gesù porta, perché il villaggio è il luogo attaccato alla tradizione, al passato. Il villaggio è dove vige l’imperativo “Perché cambiare? Si è sempre fatto così!” 
Questo villaggio non ha nome appunto perché era rappresentativo di una mentalità attaccata al passato, che vede con sospetto ogni novità. E una donna, di nome Marta… Il nome è tutto un programma, Marta significa “signora, padrona di casa” …  lo ospitò.
Da qui si comprende che è lei la proprietaria della casa. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Ecco questa immagine che l’evangelista ci dà di Maria, seduta ai piedi del Signore, va compresa nel contesto culturale dell’epoca. Non significa adorazione da parte di Maria o contemplazione o venerazione nei confronti del Signore. Maria si mette nella posizione del discepolo verso il maestro. C’è per esempio San Paolo che dice negli Atti che dice di essere stato istruito ai piedi di Gamaliele. Quindi sedersi ai piedi di qualcuno significava riconoscerlo come maestro.
E nel Talmud, il libro sacro si legge: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti, impolverati della polvere dei loro piedi e bevi con sete la loro parola.
Allora l’atteggiamento di Maria non è un atteggiamento di adorazione, ma di ascolto, come un discepolo nei confronti di un maestro. Ma è qualcosa di strano quello che compie Maria, perché lei non può. E’ una donna e le donne non hanno gli stessi diritti e gli stessi privilegi degli uomini. La donna deve stare in cucina, deve rendersi invisibile. Sempre nel Talmud si legge che le parole della legge vengono distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne. I rabbini si vantavano dicendo che Dio  mai aveva rivolto la parola ad una donna.
L’aveva fatto una volta sola, a Sara, ma poi si era pentito, per la bugia di Sara, e da quella volta non aveva più rivolto la parola ad una donna. Quindi Maria qui sta facendo qualcosa di scandaloso. Trasgredisce il ruolo dove la tradizione ha sempre confinato le donne e prende l’atteggiamento del maschio, dell’uomo, del discepolo.
Invece Marta è la fedele della tradizione. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Marta addirittura arriva a rimproverare Gesù, ritenendolo responsabile dell’assenza della sorella. Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla…. “ E qui è un moltiplicarsi del pronome personale “me, a me”, lei è tutta centrata su se stessa. “Non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?” E poi, col verbo all’imperativo: “Dille dunque che mi aiuti”. Marta non sopporta che la sorella abbia trasgredito le regole, le norme che la tradizione e la morale hanno assegnato alle donne, che Maria faccia il ruolo di un uomo, di un discepolo, e chiede a Gesù di ricacciarla nel ruolo dove da sempre la tradizione ha posto le donne.
Ma Gesù, anziché rimproverare Maria, rimprovera la sorella.
Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta…” La ripetizione del nome significa rimprovero, come quando Gesù vedendo la città dirà: “Gerusalemme, Gerusalemme”. Quindi è un’espressione di rimprovero. “Tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno”. Letteralmente di una sola c’è bisogno. Ed ecco la sentenza: “Maria ha scelto la parte migliore, (letteralmente la parte buona) che non le sarà tolta”.
Allora c’è da comprendere che cos’è che non può essere tolto. Cosa non può essere tolto a una persona? Perché può essere tolta ad una persona anche la vita. Perché Gesù dice che Maria ha scelto una parte che non può esserle tolta? Perché Maria ha scelto la libertà, attraverso la trasgressione delle regole e delle norme di comportamento. Un conto è la libertà quando ci viene concessa – quando viene concessa può anche essere ritirata – un contro è quando la libertà è frutto di una conquista personale, avendo il coraggio di trasgredire le regole della tradizione e le regole della religione.
Allora quando uno conquista questa libertà nessuno gliela può togliere. Allora quella di Gesù – come abbiamo detto all’inizio – non è una preferenza per una vita contemplativa a scapito di quella attiva, ma è un invito a fare la scelta della libertà. Ed è interessante che per fare questa scelta della libertà l’evangelista non ci ponga un uomo, ma una donna.




il commento di p. Maggi e di Alessandro Dehò al vangelo della domenica

VA E FA ANCHE TU LO STESSO  

commento al vangelo della domenica quindicesima del tempo ordinario (10 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi
Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai».  Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.  Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.  Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.  Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va e anche tu fa lo stesso» .

La legge divina va osservata anche quando causa sofferenza nell’uomo? Vediamo quello che ci scrive Luca al capitolo 10, versetti 25-37.
In quel tempo, un dottore della legge… I dottori della legge sono gli scribi, i massimi legislatori. La loro era un’autorità divina perché la loro parola era ritenuta la stessa parola di Dio. Si alzò per mettere alla prova Gesù. Letteralmente “tentarlo”. L’evangelista adopera qui lo stesso verbo che ha adoperato nel deserto per le tentazioni del diavolo. Quindi l’evangelista ci mette in guardia, “attenzione, questi zelanti  difensori della dottrina, della tradizione, in realtà sono strumenti del diavolo. E chiese: “Maestro… “, tipico della falsità curiale questo atteggiamento, costui si rivolge a Gesù per tentarlo, quindi per accusarlo, e invece gli si rivolge con questo titolo di ossequio, come se volesse apprendere, ma in realtà vuole soltanto giudicare. “Che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Ecco la tematica che gli interessa. Gesù non ne parla, Gesù è venuto a cambiare questa vita qui. Gesù non è interessato alla vita eterna.
Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?” E’ provocatorio e ironico da parte di Gesù. Il dottore della legge è uno dei massimi esperti. E’ uno che tutta la sua vita, tutto il giorno è stato sopra la legge per scrutarne i reconditi significati. Ebbene Gesù gli chiede “Che cosa sta scritto nella legge?” E poi con profondo sarcasmo: “Come leggi?”, cioè “Cosa capisci?” Non basta leggere la scrittura, bisogna anche comprenderla. Se non si mette al primo posto nella propria vita il bene dell’uomo, la Sacra Scrittura si legge ma non si capisce.
Costui rispose, e qui cita il Deuteronomio, al capitolo 6 versetto 5: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”, cioè l’amore a Dio è totale, assorbe tutte le energie dell’uomo. E aggiunge, con un precetto del libro del Levitico: “E il prossimo tuo come te stesso”. C’è una differenza tra questi due amori: mentre l’amore verso Dio assorbe tutte le energie dell’uomo, l’amore verso il prossimo è relativo, amo il prossimo come amo me. E Gesù: “Hai risposto bene; fà questo e vivrai”.
Non parla di vita eterna, ma parla di questa vita. Ma quegli, volendo giustificarsi… Cosa significa giustificarsi? Al tempo di Gesù c’era un ampio dibattito tra due scuole rabbiniche, la scuola di Rabbi Shammai, molto più rigoroso e severo, e quella di Rabbi Hillel, di manica larga, sul concetto di “prossimo”. Allora per Hillel il concetto di prossimo significava anche lo straniero che risiede in Israele, per Shammai, la posizione più rigorosa, soltanto l’appartenente al proprio clan familiare o al massimo la tribù. Il fatto che si vuole giustificare ci fa capire che lui è per la posizione più ristretta.
Infatti disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Ebbene Gesù non risponde in maniera teologica, ma con una narrazione, una parabola nella quale cambia radicalmente due concetti fondamentali della religione: il concetto di credente e il concetto di prossimo.
Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. Gerusalemme è sita nella montagna di Giuda, a più di 818m di altitudine sul livello del mare, mentre Gerico, giù nel deserto, è a ben 258m sotto il livello del mare. Sono poche decine di chilometri, una trentina, quindi c’è un grande dislivello. E’ una zona arida e desertica, dove si fa fatica a camminare.
“E cadde nelle mani nei briganti”. La zona era pericolosa ed è tuttora pericoloso percorrerla da soli. “Che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.  In quella strada, in quella situazione, in quel clima, non ha alcuna speranza. Deve soltanto attendere di morire, a meno che, provvidenzialmente, passi qualche anima buona. E’ quello che Gesù ci fa comprendere.
Per caso … che significa provvidenzialmente, Gesù presenta il meglio che poteva capitare, la persona più adatta. Un sacerdote scendeva per quella medesima strada. E’ importante che Gesù parli di un sacerdote che scende. Cosa significa? Gerico era una città sacerdotale dove i sacerdoti, secondo il loro turno,  salivano a Gerusalemme al tempio, e, attraverso complicati rituali di purificazione, per una settimana esercitavano il loro ministero liturgico. Quindi il sacerdote non è che va a Gerusalemme per essere purificato, ma è già stato per una settimana in servizio nel santuario (si può dire che i suoi abiti ancora profumano d’incenso) ed è nella pienezza della purità rituale. Quindi il meglio che poteva capitare.
“Quando lo vide…”, ecco la salvezza a portata di mano e invece ecco la doccia gelata … “Passò oltre dall’altra parte”. Perché questo? E’ una persona crudele, è una persona insensibile? No, peggio, è una persona religiosa. Per una persona religiosa i doveri verso Dio vengono prima di quelli verso gli uomini. Del resto cosa ha risposto il dottore della Legge? L’amore a Dio è totale, l’amore al prossimo è relativo.
Lui è un sacerdote in condizione di purezza e la legge nel libro del Levitico e nel libro dei Numeri, gli proibisce di entrare in contatto con un morto o con un ferito, perché altrimenti diventa impuro. Allora si trova di fronte al dilemma: osservo la legge divina o soccorro la persona? Cos’è più importante il bene di Dio o il bene del prossimo?
Le persone religiose non hanno alcun dubbio, per loro è più importante il bene di Dio.
Anche un levita, i leviti erano gli addetti al culto, anche loro dovevano restare in condizioni di purità per le cerimonie del tempio. Giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Non c’è speranza. E poi c’è il colpo di grazia.
Invece un Samaritano, il nemico più tremendo, la persona più orrenda, l’essere umano più schifoso agli occhi di un ebreo, che era in viaggio, passandogli accanto … E noi ci aspetteremmo “arrivò lì e gli diede il colpo di grazia”. E invece, dice Gesù: “Lo vide”. Va bene l’ha visto anche il sacerdote e il levita e Gesù afferma qualcosa di straordinario: ,   “N’ebbe compassione”.
“Avere compassione” è un verbo riservato soltanto a Dio. E’ soltanto Dio che ha compassione, perché avere compassione significa un’azione con la quale si comunica vita a chi vita non ce l’ha. Allora per Gesù questo Samaritano, un eretico, un meticcio, un peccatore, una persona impura, si comporta come Dio. Chi è il credente per Gesù? Non colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi – e abbiamo visto i risultati con il sacerdote – ma colui che assomiglia a Dio praticando un amore simile al suo.
Il Samaritano gli si avvicina, cura la persona malcapitata e addirittura lo porta in una locanda prendendosi cura di lui, e alla fine Gesù si rivolge di nuovo al dottore della Legge e gli chiede: “Chi di questi tre (un sacerdote, un levita, un samaritano) ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Gesù ha ribaltato la domanda del dottore della Legge. Lui voleva sapere “chi è il mio prossimo”, cioè “Fin dove deve arrivare il mio amore?” Gesù gli chiede “chi si è fatto prossimo”, cioè da dove parte l’amore?
Il prossimo è colui che si approssima a chi ha bisogno.
La risposta è facilissima, ma inaccettabile per il dottore della Legge. Quegli rispose (e neanche lo nomina tanto gli fa orrore il Samaritano): “Quello che …” E non accetta che un uomo possa amare come Dio, non dice – nonostante qui la traduzione parli di compassione, il testo greco parla di misericordia, perché Dio
è colui che ha compassione, gli uomini hanno misericordia. E per il dottore della Legge è inaccettabile che un uomo possa amare come Dio.
“Chi ha avuto misericordia di lui”. Gesù gli disse: “Và e anche tu fà così”. Quindi per Gesù il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.

 

Ne ebbe compassione

Alessandro Dehò

di Alessandro Dehò

Da duemila anni c’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, da duemila anni si ripete la storia di vite umane aggredite e lasciate ai bordi della strada,  mezze morte. O mezze vive, dipende dallo sguardo. Abbandonati in terre di mezzo ci sono da sempre corpi umani imploranti, ogni corpo umano, in fondo, sempre  implora dal bordo di una strada. Le parole e i silenzi di ogni uomo sono scomode preghiere impastate di terra o bestemmie crude rivolte a chi vive di violenza  o molesti casi morali gettati negli occhi anestetizzati dei devoti. Dipende dallo sguardo. Da duemila anni ci sono corpi sospesi tra vita e morte che nessuno  vorrebbe vedere, sono segno di quell’umanità che si incastra a inceppare il fluire comodo della vita, sono quegli ostacoli che rischiano di catturare tutta  l’attenzione perché, puoi anche darti tutti gli alibi del mondo, ma un uomo mezzo morto ai bordi della strada ti resta inchiodato dentro, anche solo per  il fatto che ti costringe a trovare delle scusanti per proseguire il cammino. Quell’uomo mezzo morto è scomodo, è giusto dirlo. È l’errore di programmazione, è la nota stonata, è l’inciampo che fa venir voglia di cambiare rotta e  di continuare a sognare un mondo dove tutti possano camminare senza rischi. Il dottore della legge chiede a Gesù notizie sulla vita eterna ma lui, il Maestro,  sceglie di rispondere con il realismo ingombrante della vita terrena: vita spesso ruvida e scomoda, vita che ti chiede di schierarti, vita intralciata
dal male.

Alessandro Dehò1

Un uomo scende da Gerusalemme a Gerico e viene percosso a sangue e lasciato a morire per strada. Altri tre uomini scendevano per la medesima strada e tutti  e tre, almeno per un istante, maledicono il fato alla vista di quella carne pestata a sangue e tenuta in vita da un filo cocciuto di respiro. I primi due,  un sacerdote e un levita, vedono e “passano oltre”, il Vangelo non esplicita le motivazioni, probabilmente sono pretesti religiosi legati al culto, quello  che però sappiamo con certezza è che “passano oltre”. Passare oltre significa decidere di non fermarsi. La qualità della vita si decide qui, dice Gesù,  dalla scelta di fermare il cammino mandando all’aria le tabelle di marcia. E se ci pensiamo bene questo ha davvero del paradossale, la vita diventa eterna  se accetto di perdere tempo, di arrivare in ritardo, di infrangere le regole. La “vita eterna” non è qualcosa che sarà, insiste il Vangelo, ma qualcosa  che è già qui, ogni volta che accettiamo di lasciare che l’uomo ferito fermi il nostro cammino, ogni volta che ci lasciamo ferire dalle ferite del mondo.

La pagina letta non è l’attacco alle norme religiose ma la critica feroce a tutte quelle vite che non accettano intrusioni. Ed è una delle tentazioni più  grandi. Sentirsi in diritto di decidere in totale autonomia lo svolgersi della vita, sentire di essere così autonomi e indipendenti da non concepire variabili.
Soprattutto quando le variabili non accendono sensi di colpa: non è certo colpa del levita o del sacerdote se un gruppo di briganti assalta uno sprovveduto!

In questo pensiero mi sembra di leggere una tentazione molto presente in ognuno di noi, una specie di pretesa che il mondo non venga a darci fastidio.
Cosa c’entro io con il male? Cosa c’entro io con la perenne emergenza educativa frutto di genitori che non sanno fare i genitori, di una scuola che non  educa più, di un oratorio che non è capace di garantire sicurezza… cosa c’entro io? Passo oltre e denuncio i briganti.

Leggo la pagina di oggi e, calata nel mondo che viviamo, non mi sembra tanto una critica della “religione delle regole” ma dell’unica vera religione assoluta  in cui crediamo: noi stessi. È una critica profonda all’individualismo, a quell’atteggiamento che ci permette di passare oltre al male del mondo perché  “non abbiamo colpa”. Quello sguardo che ci fa guardare con rabbia tutte le persone che intralciano i sogni. Non sto parlando di cose enormi ma per esempio  dei ragazzini difficili che non vorremmo avere nella classe di nostro figlio, degli adolescenti problematici che non vogliamo avere nel CRE, dei portatori  di handicap che rallentano il passo, ma anche di tutte le persone che non la pensano come noi… perché ci fanno fermare!

A fermarsi è il samaritano, che da quel giorno è diventato “buono”, buon samaritano perché si è fermato. A me pare che la buona notizia del Vangelo di  oggi arrivi diritta a tutte le persone che hanno dovuto cambiare i tempi del loro viaggio, i colori del loro sogno, il senso della loro vita. La buona  notizia arriva diretta a tutte le persone che sono state fermate da una malattia, da un figlio che non desideravano così come l’hanno ricevuto, da una  delusione cocente, da un tradimento improvviso. La buona notizia arriva a tutte le persone dal cuore fragile che hanno scelto di fermarsi, di lasciarsi  ferire dalla vita. Il samaritano si commuove, lascia che il dolore gli stringa le pareti del cuore e accetta di lasciarsi scompigliare i piani. Questa la vera differenza. Certo, si può anche scegliere di “andare oltre”, di portare a termine i propri progetti e di tenere tutto sotto controllo, anzi, alla  fine della vita ci saranno persone lodate proprio per la loro determinazione, ma non è la determinazione a rendere infinita la vita. Il profumo di eternità  nasce dall’assumersi il rischio di tramutare la propria esperienza in un fallimento per l’incapacità di chiamarsi fuori dal dolore. A rendere infinita  la vita sarà la nostra capacità di lasciarci interpellare dagli eventi, e poco importa se alla fine non avremmo compiuto perfettamente il viaggio, se non
saremmo arrivati alla meta, perché la meta vera camminava con noi e il Senso profondo non è nell’andare ma nel fermarsi, nel lasciarsi fermare dal dolore  del fratello. È interessante vedere che, alla fine, il sacerdote che non si ferma è sulla strada “per caso” mentre il samaritano è l’unico che viaggiava.
Il viaggiatore non è ossessionato dalla meta ma dagli incontri, non è costretto a buttare nell’approdo tutto il senso di un viaggio, sa benissimo che il  Senso è in ogni istante vissuto con sguardo profondo. Sono le cadute di Gesù a rendere la via crucis un viaggio: quello di un Dio che si inginocchia nel  cuore delle sofferenze umane.

La pagina di oggi è un invito al Viaggio e a non credere che vita eterna sarà qualcosa che ci aspetta alla fine del tempo ma è già qui, ogni volta che  ci fermiamo, strappati da cavallo da un cuore che proprio non ce la fa a non commuoversi.




il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica

non la forza ma un “di più” di bene per opporci al male

Ronchi1

il commento di E. Ronchi al vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario (3 luglio 2016):

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite:“Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. (…)

La messe è abbondante, ma sono pochi quelli che vi lavorano.

Gesù semina occhi nuovi per leggere il mondo: la terra matura continuamente spighe di buonissimo grano. Insegna uno sguardo nuovo sull’uomo di sempre: esso è come un campo fertile, lieto di frutti abbondanti.

Noi abbiamo sempre interpretato questo brano come un lamento sulla scarsità di vocazioni sacerdotali o religiose. Ma Gesù dice intona la sua lode per l’umanità: il mondo è buono. C’è tanto bene sulla terra, tanto buon grano. Il seminatore ha semi- nato buon seme nei cuori degli uomini: molti di essi vivono una vita buona, tanti cuori inquieti cercano solo un piccolo spiraglio per aprirsi verso la luce, tanti dolori solitari attendono una carezza per sbocciare alla fiducia.

Gesù manda discepoli, ma non a intonare lamenti sopra un mondo distratto e lontano, bensì ad annunciare un capovolgimento: il Regno di Dio si è fatto vicino, Dio è vicino.

Guardati attorno, il mondo che a noi sembra avvitato in una crisi senza uscita, è anche un immenso laboratorio di idee nuove, di progetti, esperienze di giustizia e pace. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo, che cresce verso più consapevolezza, più libertà, più amore e più cura verso il creato. Di tutto questo lui ha gettato il seme, nessuno lo potrà sradicare dalla terra.

Manca però qualcosa, manca chi lavori al buono di oggi. Mancano operai del bello, mietitori del buono, contadini che sappiano far crescere i germogli di un mondo più giusto, di una mentalità più positiva, più umana. A questi lui dice: Andate: non portate borsa né sacca né sandali…

Vi mando disarmati. Decisivi non sono i mezzi, decisive non sono le cose. Solo se l’annunciatore sarà infinitamente piccolo, l’annuncio sarà infinitamente grande (G. Vannucci). I messaggeri vengono portando un pezzetto di Dio in sé. Se hanno Vangelo dentro lo irradieranno tutto attorno a loro. Per questo non hanno bisogno di cose.

Non hanno nulla da dimostrare, hanno da mostrare il Regno iniziato, Dio dentro. Come non ha nulla da dimostrare una donna incinta: ha un bambino in sé ed è evidente a tutti che vive due vite, che porta una vita nuova. Così accade per il credente: egli vive due vite, nella sua porta la vita di Dio.

Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. E non vuol dire: vi mando al macello. Perché ci sono i lupi, è vero, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Vi mando come presenza disarmata, a combattere la violenza, ad opporvi al male, non attraverso un “di più” di forza, ma con un “di più” di bontà. La bontà che non è soltanto la risposta al male, ma è anche la risposta al non-senso della vita (P. Ricoeur).

(Letture: Isaia 66, 10-14; Salmo 65; Galati 6, 14-18; Luca 10, 1-12. 17-20)

Ermes




il commento di A. Maggi al vangelo della domenica

LA VOSTRA PACE SCENDERA’ SU DI LUI  

commento al vangelo della domenica quattordicesima del tempo ordinario (3 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 10,1-12,17,20

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Dopo il fallimento della missione dei dodici che sono troppo permeati di ideologia nazionalistica religiosa, del successo,  della primazia di Israele che avrebbe dovuto sottomettere tutti gli altri popoli, Gesù ci riprova e cambia gli inviati. Leggiamo.
Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue. Perché questo numero? Nel libro della Genesi, al capitolo 10, i popoli pagani conosciuti al tempo sono proprio settantadue. Quindi questi provengono dal paganesimo. In realtà vengono dal mondo della Samaria dove Gesù recluta questi inviati.
E li inviò a due a due (una comunità) davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Quindi dopo il fallimento dei dodici Gesù riprova con altri non legati a questa ideologia nazionalista.
Diceva loro: “La messe è abbondante”. La risposta all’annunzio della buona notizia è una messe abbondante. “Ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” Le parole di Gesù sono un invito a prendere coscienza che c’è bisogno della collaborazione di tutti. Purtroppo nella tradizione religiosa queste parole sono state limitate, riservate, quindi facendo loro perdere tutta la sostanza, alle vocazioni religiose.
Come se Gesù avesse pensato a chiedere di inviare preti, frati e suore. Nulla di tutto questo. Divenire operai della sua messe è un invito rivolto a tutti. Tutti devono collaborare all’annunzio della buona notizia di Gesù. Non ci sono categorie speciali, non ci sono categorie riservate. Poi Gesù dà delle indicazioni.
“Vi mando come agnelli in mezzo a lupi”, quindi Gesù avverte dell’ostilità della società, specialmente della società religiosa che si vede minacciata dall’annuncio di questa buona notizia, di un rapporto diverso con Dio.
Poi Gesù invita ad avere piena fiducia nelle persone. “Non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada”. L’urgenza di questo lavoro di annunzio della buona notizia è talmente importante che bisogna non osservare queste regole. Poi Gesù dà un’indicazione importante, “In qualunque casa entriate”. Dobbiamo sapere che nella cultura dell’epoca non era lecito, come dice Pietro, per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza. Era impensabile che un ebreo entrasse in casa di un pagano.
Gesù dice: “Non abbiate di questi scrupoli, non abbiate queste regole”. “In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Non è un invito “La pace sia in questa casa”, ma è un dono. Il discepolo è lui un dono di pace, cioè di felicità.
“Se vi sarà un figlio della pace”, cioè una persona in sintonia con questa pace, “la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi”. Quindi non è persa se c’è il rifiuto. Poi Gesù torna ad insistere, si vede che era un problema, e in realtà lo è anche oggi. “Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno”. Non avere scrupoli religiosi, non fare i difficili, non richiedere un particolare trattamento per motivi religiosi o ideologici.
 “Perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa.” E poi Gesù insiste: “Non passate da una casa all’altra.” Non fate i difficili se qui non ci sono quelle osservanze religiose o meno. E Gesù torna ancora  ad insistere: “Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto”. E’ strana questa insistenza di Gesù sul non fare i difficili. E’ un tema molto molto attuale, ancora oggi ci sono persone che per ideologie, modalità o per mode, hanno delle difficoltà alimentari, non mangiano certi cibi, scartano degli altri. E mettono in difficoltà.
Gesù dice: “Nulla di tutto questo. Mangiate quello che vi sarà offerto, anche se quello che vi viene offerto non rientra nel vostro menu ideale. “Curate”, non guarite, “i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. La società alternativa ha come effetto il benessere anche fisico delle persone. Poi Gesù avverte: “Può darsi che nella società non vi accolgano, non importa, non perdete tempo”.
Questa espressione di Gesù: Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi”, era quello che si faceva nella terra pagana. Non si poteva, entrando in Israele, portare nulla del mondo pagano, che era impuro, allora si scuotevano i sandali. Qualcuno non accoglie questo dono di pace, ebbene sono come i pagani, non perdete tempo. Si vede che non ci sono le condizioni necessarie per accogliere questa novità del regno.
Ebbene, ecco la conclusione. I settantadue, a differenza del ritorno dei dodici che fu senza allegria, tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome”. Sono riusciti a liberare gli uomini dalle false ideologie.
Ed ecco l’espressione di Gesù. Egli disse loro: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”. A quel tempo Satana stava nei cieli e nella corte divina, come dice il Libro di Giobbe, ed era una sorta di ispettore generale. Lui scendeva sulla terra, spiava gli uomini per poi accusarli presso Dio. Ebbene, con l’annunzio della buona notizia di Gesù, cioè un Dio che amore, un Dio che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi, un Dio che non premia più i buoni e castiga i malvagi, come la religione presentava, ma un Dio che a tutti, indipendentemente dal loro comportamento, comunica e offre il suo amore, il ruolo del Satana non ha più ragione di esistere.
L’autore dell’Apocalisse commenterà poi: E’ stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Allora Satana ha perso il suo ruolo, ecco perché è stato precipitato sulla terra. E poi Gesù assicura che questo annunzio di vita e questi annunziatori di vita saranno più forti di tutti gli ostacoli, di tutte le difficoltà che potranno trovare.
Lo fa secondo il linguaggio figurato dell’epoca “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni”, quelli che hanno il veleno in sé e che possono avvelenare, “E sopra tutta la potenza del nemico, nulla vi potrà danneggiare”. Quindi Gesù assicura alla comunità dei credenti che, quando si è portatori di un annunzio di vita, ma si è portatori perché si è accolta questa vita e la si trasmette agli altri, non c’è nulla che possa danneggiarli e che possa fare loro del male.




il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica

XIII Domenica Tempo Ordinario Anno C

Ronchi1

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. (…)

Vuoi che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? La reazione di Giacomo e Giovanni al rifiuto dei Samaritani è logica e umana: farla pagare, occhioper occhio.

Gesù si voltò, li rimproverò e si avviò verso un altro villaggio.

Nella concisione di queste parole si staglia la grandezza di Gesù. Uno che difende perfino la libertà di chi non la pensa come lui.

La logica umana dice: i nemici si combattono e si eliminano. Gesù invece vuole eliminare il concetto stesso di nemico. E si avviò verso un altro villaggio.

C’è sempre un nuovo paese, con altri malati da guarire, altri cuori da fasciare, altre case dove annunciare pace. Gesù non cova risentimenti, lui  custodisce sentieri verso il cuore dell’uomo, conosce la beatitudine del salmo: beato l’uomo che ha sentieri nel cuore (Salmo 84,6). E il Vangelo diventa viaggio, via da percorrere, spazio aperto. E invita il nostro cristianesimo a non recriminare sul passato, ma ad iniziare percorsi. Come accade anche ai tre nuovi discepoli che entrano in scena nella seconda parte del Vangelo: le volpi hanno tane, gli uccelli nidi, ma io non ho dove posare il capo. Eppure non era esattamente così. Gesù aveva cento case di amici e amiche felici di accoglierlo a condividere pane e sogni. Con la metafora delle volpi e degli uccelli Gesù traccia il ritratto della sua esistenza minacciata dal potere religioso e politico, sottoposta a rischio, senza sicurezza. Chi vuole vivere tranquillo e in pace nel suo nido sicuro non potrà essere suo discepolo.

Noi siamo abituati a sentire la fede come conforto e sostegno, pane buono che nutre, e gioia. Ma questo Vangelo ci mostra che la fede è anche altro: un progetto da cui si sprigiona la gioiosa fatica di aprire strade nuove, la certezza di appartenere ad un sistema apertoe non chiuso.Il cristiano corre rischio di essere rifiutato e perseguitato, perché, come scriveva Leonardo Sciascia, «accarezza spesso il mondo in contropelo», mai omologato al pensiero dominante. Vive la beatitudine degli oppositori, smonta il presente e vi semina futuro.

Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Una frase durissima che non contesta gli affetti umani, ma che si chiarisce con ciò che segue: Tu va e annunzia il Regno di Dio.Tu fa cose nuove. Se ti fermi all’esistente, al già visto, al già pensato, non vivi in pienezza («Non pensate pensieri già pensati da altri», scriveva padre Vannucci). Noi abbiamo bisogno di freschezza e il Signore ha bisogno di gente viva.

Di gente che, come chi ha posto mano all’aratro, non guardi indietro a sbagli, incoerenze, fallimenti, ma guardi avanti, ai grandi campi del mondo, dove i solchi dell’aratro sono ferite che però si riempiono di vita.

(Letture: 1 Re 19,16.19-21; Salmo 15; Galati 5,1.13-18; Luca 9,51-62).

Ronchi

 




il commento di A. Maggi al vangelo della domenica

PRESE LA FERMA DECISIONE DI METTERSI IN CAMMINO VERSO GERUSALEMME

TI SEGUIRO’ OVUNQUE TU VADA

commento al vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario (26 giugno 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 9,51-62

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

I discepoli di Gesù lo accompagnano ma non lo seguono. Cioè, anche se sono vicini fisicamente, sono distanti perché loro proseguono l’idea di un messia vincitore e trionfatore. Nel capitolo 9 del vangelo di Luca, dal versetto 51 c’è un brano importante che purtroppo le traduzioni come minimo inesatte o inadatte, non rendono. Infatti se leggiamo questo vangelo è scritto che
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui elevato sarebbe stato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. E poi lo vedremo, in un villaggio di Samaritani non lo accolgono. Ma perché? Allora cerchiamo di tradurre letteralmente il testo e vedremo che questa incongruenza in realtà non lo è.
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui elevato sarebbe stato in alto, quindi Gesù viene presentato dall’evangelista già nel cammino finale verso la città assassina dei profeti, quella che lo ammazzerà. E qui l’evangelista non dice “egli prese al ferma decisione”, ma letteralmente scrive Indurì il suo volto verso Gerusalemme. Questa è un’espressione che appare anche nell’Antico Testamento che significa andare contro qualcuno.
Ad esempio nel libro del profeta Geremia, al capitolo 21, versetto 10, si legge: Volgo la mia faccia contro questa città per farle del male. E’ il Signore che parla. Oppure nel libro di Ezechiele al capitolo 21 versetto 7, il Signore dice: “Figlio dell’uomo, volgi la faccia verso Gerusalemme e parla contro i suoi santuari!”
Allora questa espressione che l’evangelista adopera: “indurì il suo volto verso Gerusalemme”, significa che Gesù va contro Gerusalemme, va per contestare questa città che pretendeva rappresentare Dio in realtà era l’assassina di tutti i profeti inviati da Dio.
Ma i discepoli non lo capiscono. Gesù manda dei messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani… sappiamo la rivalità e l’inimicizia che c’era tra Samaritani e Giudei, si detestavano, era un’inimicizia secolare. Per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Ma non dicono come era Gesù verso Gerusalemme, dicono che Gesù andava a Gerusalemme, ma i Samaritani pensano che, essendo ritenuto questo Gesù il messia, vada a Gerusalemme per prendere il potere e per poi sottomettere i popoli pagani e sottomettere anche i Samaritani.
Ecco perché non lo vogliono ricevere. Sono stati i discepoli che non hanno capito l’intenzione di Gesù. E che non lo comprendano si vede dalla reazione di due discepoli, i più fanatici, Giacomo e Giovanni, che Marco nel suo vangelo chiama “i figli del tuono” per il loro carattere autoritario, e chiedono: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” Il riferimento al profeta Elia che in un episodio localizzato proprio nella Samaria, brucia cinquanta alla volta degli emissari, dei soldati, che erano andati da lui.
Quindi credono che Gesù sia una sorta di Elia, un uomo che, con la violenza, faccia rispettare la legge di Dio, la volontà di Dio. Ma Gesù si voltò e li rimproverò esattamente come fa con i demoni.
E si misero in cammino verso un altro villaggio, sempre in Samaria. Quindi l’incomprensione, l’ostilità dei Samaritani è dovuta all’incomprensione da parte dei discepoli. E sempre in Samaria ci sono tre individui – uno di questi è invitato direttamente da Gesù – che chiedono di seguirlo. Il numero tre non vuole  essere numerico e indica la totalità, la completezza. Allora sono regole per la sequela di Gesù, valide per tutti. Un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. E Gesù mette delle condizioni, gli fa capire: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi”. Volpi e uccelli sono gli animali più insignificanti che esistano,  “Ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”.
Quindi Gesù dice: “Attento! Mi vuoi seguire? Ma non pensare a onore, carriera o successo. Ma, peggio degli animali più inutili e insignificanti, io non ho neanche una casa, non ho nulla dove posare il capo. In mezzo invece l’evangelista presenta l’individuo che Gesù invita alla sua sequela. 
A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Può sembrare disumana questa risposta di Gesù “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”.  Non è una risposta disumana quella di Gesù. Il padre rappresenta il passato. Allora seppellire il padre significa tenere ancora in grande onore, in grande onore, in grande rispetto il passato.
Gesù no, Gesù chiede una rottura radicale con il passato. Il vino nuovo non può essere messo dentro gli otri vecchi, quindi “Lascia che la gente che vive nel passato – i morti – seppellisca i suoi morti. Tu va e annuncia la novità”.
E infine il terzo. “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Nella Bibbia c’era l’episodio conosciuto di Elia che consentì a Eliseo che consentì a Eliseo di andare a congedarsi dai propri familiari. Gesù invece no.
L’urgenza del regno di Dio non permette nostalgie per il passato, ma bisogna distaccarsene radicalmente. E Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”.
Questa frase di Gesù non significa avere un rapporto distaccato o disumano con la propria famiglia, nulla di tutto questo, ma che l’urgenza di annunziare la buona notizia, il regno di Dio, è talmente importante che non si può avere nessuna nostalgia per quello che appare soltanto come il passato.

 




il commento di A. Maggi al vangelo della domenica

TU SEI IL CRISTO DI DIO. IL FIGLIO DELL’UOMO DEVE SOFFRIRE MOLTO

  commento al vangelo della domenica dodicesima del tempo ordinario (19 giugno 2016) di p. Alberto Maggi

Maggi

Lc 9,18-24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

L’inizio di questo brano di vangelo è:  Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Ma in realtà Luca non scrive così. Questo è un tentativo di armonizzare una apparente incongruenza che c’è in questo brano. Allora leggiamo dal testo originale greco cosa ci scrive l’evangelista. Anzitutto Gesù non viene nominato, e l’espressione “Un giorno” è assente.
Inizia dicendo che Si trovava (Gesù), da solo a pregare. Non in un luogo solitario, Gesù prega da solo. Perché allora le traduzioni riportano Si trovava in un luogo solitario? Perché poi l’evangelista scrive: I discepoli erano con lui. Quindi non può pregare da solo se i discepoli erano con lui. Ma in realtà l’evangelista vuole indicare, come ha già fatto altre volte, che i discepoli stanno accompagnando Gesù ma non lo seguono.
Quindi Gesù è nella solitudine. E’ solo. I discepoli, pur stando con lui, non gli sono solidali. Ebbene Gesù pose loro questa domanda: “Le folle …”, le folle alle quali Gesù aveva mandato i discepoli per annunziare la novità della notizia del Regno di Dio, “chi dicono che io sia?”. E’ una sorta di esame che Gesù fa per vedere se l’effetto della predicazione dei discepoli è andato a buon fine. Il risultato fa cadere le braccia, è un fallimento.
Essi risposero: “Giovanni il Battista”. Perché Giovanni il Battista? Giovanni Battista era già stato assassinato da Erode, ma si credeva che i martiri sarebbero risuscitati prontamente. “Altri dicono Elìa”. Elìa era il profeta bellicoso che, attraverso la violenza, faceva osservare la legge divina, “Altri uno degli antichi profeti che è risorto”.  Sono tutti personaggi che riguardano il passato. Nessuno ha compreso chi è Gesù, il nuovo che Dio esprime con la sua figura.
Questa confusione è dovuta alla confusione che i discepoli hanno nella loro testa. Accompagnano Gesù ma ancora non  hanno capito chi è e soprattutto qual è la sua missione e il suo destino.
Allora domandò loro (tornando alla carica): “Ma voi”, – rivolgendosi a tutto il gruppo – “chi dite che io sia?». Come fa spesso risponde Pietro a nome di tutti, pretendendo di essere il leader, il capo del gruppo. Pietro rispose: “Il Cristo di Dio”. Non è una buona risposta, tant’è vero che vedremo che Gesù non solo li sgrida, ma l’evangelista usa il termine, il verbo, che si adopera per gli indemoniati.
Perché non è una buona risposta? Il Cristo di Dio, cioè il messia di Dio, con l’articolo determinativo, indica quello che è atteso dalla tradizione, cioè il messia vendicatore, il messia liberatore, il messia che avrebbe conquistato il potere e scacciato i romani.
Sono le stesse espressioni che useranno gli avversari di Gesù quando sarà sulla croce, quando gli diranno “Salvi se stesso se è il Cristo”, cioè quest’uomo così potente come può finire in croce? Che la risposta sia sbagliata si vede dalla reazione di Gesù.
Egli ordinò loro severamente, letteralmente sgridò, ed è il verbo che si adopera per cacciare i demoni, quindi la risposta di Pietro non solo non è esatta, non solo non viene da Dio, ma è una risposta demoniaca perché insegue questi sogni di potere.  Di non riferirlo a nessuno, perché la risposta non è esatta. Se Pietro ha definito Gesù il Cristo, Gesù ora si riferisce a se stesso come Il Figlio dell’uomo. Nei vangeli Gesù parla di sé come il Figlio di Dio. Figlio di Dio è Dio nella condizione umana e il Figlio dell’uomo è l’uomo nella condizione divina.
Qui presenta se stesso come l’uomo che ha la pienezza della condizione divina. E’ questo l’oggetto dell’odio mortale dell’istituzione religiosa, che può dominare gli uomini, li può sottomettere fintanto che rimangono in una condizione infantile, ma quando l’uomo raggiunge la pienezza della condizione divina – e questa non è una prerogativa esclusiva di Gesù, ma una possibilità per tutti i suoi discepoli – è l’allarme dell’istituzione. Infatti, Gesù afferma:  “Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato …” E qui di seguito Gesù indica il Sinedrio, il massimo organo giuridico di Israele.
“Dagli anziani” (i senatori), “dai capi dei sacerdoti”, (che sarebbero i sommi sacerdoti), “e dagli scribi”, (i teologi), “venire ucciso…” L’istituzione, quella che credeva di essere la rappresentante di Dio, quando Dio manifesta se stesso in Gesù, non solo non lo riconosce, ma addirittura ne chiede l’eliminazione, l’uccisione. 
“E risorgere il terzo giorno”, il terzo giorno significa in maniera definitiva, in maniera completa. Poi Gesù a questi discepoli che ancora non hanno capito e come abbiamo detto all’inizio lo accompagnano ma non lo seguono…. Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me…”, Gesù aveva invitato questi discepoli ad andargli dietro, “rinneghi se stesso”.
Cosa significa rinnegare se stesso? Passare per un rinnegato. A quei valori della società: Dio, Patria e Famiglia, a cui Gesù chiede di rinunciare e mettere al posto di Dio il Padre, al posto della Patria il Regno di Dio e al posto della famiglia la comunità, e quindi passare e quindi passare per un rinnegato da parte della società. 
“Prenda la sua croce”. Qui l’evangelista adopera il verbo “sollevare”. Era il momento in cui il condannato doveva sollevare da terra il patibolo, cioè l’asse orizzontale della croce, caricarselo sulle spalle, e poi, condotto da boia fuori della città dove c’era l’asse verticale, quello sempre conficcato, e lì essere crocifisso, con questa tortura terribile.
Gesù non si rifà alla morte della croce, ma al momento tremendo del massimo disprezzo, della massima solitudine, perché era un dovere per i parenti, per gli amici, insultare e malmenare il condannato a questa tortura terribile. Allora Gesù dice: “Se volete venirmi dietro rinunciate ad ogni forma di ambizione e di successo, accettate di perdere completamente la reputazione, di essere completamente soli”.
“Ogni giorno”, quindi accettare quotidianamente questo rifiuto da parte della società, specialmente da parte dell’istituzione religiosa che si vede minacciata da queste persone che raggiungono, grazie alla sequela di Gesù, la condizione divina.
“E mi segua”. Quindi è la condizione che Gesù mette. Va sottolineato che la croce nei vangeli mai fa riferimento ai dolori, alle malattie, alle sofferenze che si incontrano nella vita. Dio non manda le croci, ma la croce viene presa dall’uomo come scelta libera per seguire Gesù. E per seguire Gesù bisogna essere pienamente liberi.
E chi tiene alla propria reputazione, chi tiene al proprio nome, chi tiene alla carriera, non è una persona libera e non può seguire Gesù. E Gesù conclude: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”. Quindi Gesù conclude affermando che chi vive per se stesso distrugge la propria esistenza, chi vive per gli altri è quello che la realizza in pienezza.