il commento al vangelo della domenica

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

commento al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario (16 agosto 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 6, 51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

L’evangelista ci presenta la conclusione del lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, tutto incentrato sull’Eucaristia.
Giovanni è l’evangelista che non ha il racconto della cena Eucaristica, ma in realtà è l’evangelista che, più degli altri, ne esplora i ricchissimi significati. Vediamoli.
Gesù, rivendicando la condizione divina con il nome “Io sono”, afferma di essere questo “pane vivo che discende dal cielo. Chi lo mangia vivrà per sempre”, quindi è un pane che consente una vita di una qualità tale che neanche la morte potrà scalfire, e, dichiara Gesù “il pane che vi darò è la carne per la vita del mondo”.
Qual è il significato di questa espressione? ‘La Carne’ indica l’uomo nella sua debolezza. La vita di Dio non si può dare al di fuori della realtà umana. Non può esserci comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. I doni dello Spirito passano attraverso l’umanità, più si è umani e più si scopre il divino che è in sé. 
Ebbene “i Giudei” – ricordo che con questo termine si indicano le autorità religiose, i capi – non accettano questo, si mettono a discutere aspramente e dicono “come può costui” – notiamo come i giudei si rivolgano sempre a Gesù con disprezzo, ed evitano sempre di nominarlo –  “darci la sua carne da mangiare?”
Un Dio che, anziché pretendere i doni si fa lui dono per la vita del mondo, questo è inaccettabile per un’istituzione religiosa che ha creato un Dio a sua immagine e somiglianza, e come essa sfruttatrice dei bisogni dell’uomo.
Ebbene, ecco la dichiarazione di Gesù “in verità, in verità vi dico” – affermazione importante che significa ‘vi assicuro, con certezza’ – “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. Questa carne e sangue sono un tema molto caro all’evangelista, che rimanda a Gesù quale  Agnello di Dio. Gesù è stato presentato fin dall’inizio di questo vangelo come l’Agnello di Dio, cioè l’agnello dell’esodo pasquale, quell’agnello di cui, secondo le indicazioni di Mosè,  bisognava mangiare la carne per avere la forza di iniziare questo esodo e il cui sangue avrebbe liberato dalla morte nella notte dello sterminio dei figli degli egiziani.
Ebbene Gesù viene presentato da questo evangelista come il vero Agnello, la carne darà la capacità di perpetuare questo esodo fino al suo pieno completamento e il sangue non libererà dalla morte terrena, da una morte fisica, ma libera dalla ‘morte per sempre’, cioè consentirà di vivere una ‘vita per sempre’.
E Gesù, a questa espressione già difficile da accettare per i giudei, mangiare la carne, aggiunge qualcosa che stride per la cultura e la mentalità ebraiche, cioè bere il sangue. Per evitare che intendano in maniera simbolica, in maniera metaforica, Gesù dice “chi mastica”. Qui l’evangelista per il verbo ‘mangiare’, usa il greco ‘trogo’ (trogo), che già dà l’idea di qualcosa di molto rude che significa ‘triturare’, ‘masticare’, quindi Gesù vuole evitare che ci sia un’adesione ideale; no, l’adesione deve essere completa.
“Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Di nuovo Gesù torna sul tema che gli è molto caro: la vita eterna non è collocata nel futuro, come una ricompensa per il buon comportamento tenuto nel presente, ma un’esperienza nel presente. Chi dà adesione a Gesù e come lui si fa carne per la vita degli uomini, si fa pane per il bene degli uomini, questo ha già una vita di una qualità tale che la morte non potrà interromperla.
E continua Gesù “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”. Il progetto di Dio è quello di fondersi con l’uomo. Mentre l’istituzione religiosa allontana  Dio dall’uomo per mettersi come unica mediatrice, Dio vuole fondersi con l’uomo e diventare una sola cosa con lui. Dichiara Gesù “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, c’è questa fusione tra Dio e l’uomo.
L’unico vero santuario nel quale si irradia l’amore di Dio da questo momento è l’uomo che lo ha accolto.
E, continua Gesù, “come il Padre, che ha la vita”  – è la prima volta nel vangelo il Padre viene dichiarato il Padre vivente, colui che comunica vita – “ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Non è soltanto la causa, ma è anche l’effetto. Chi mangia di Gesù vivrà grazie a lui, ma vivrà per lui. Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per essere testimone di un Dio ESCLUSIVAMENTE BUONO, di un amore fedele, così questo sarà  il destino e la missione di tutti quelli che accolgono Gesù.
L’unico vero santuario dove si manifesta l’amore di Dio è dove questo amore non esclude nessuno. E poi Gesù di nuovo ritorna sull’affondo “questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono”. Ricorda il fallimento dell’esodo che è avvenuto perché non hanno ascoltato la voce di Dio. “Chi mangia questo pane vivrà in eterno”, l’esodo di Gesù è destinato a realizzarsi pienamente.




il commento al vangelo della domenica

 IO SONO IL PANE VIVO DISCESO DAL CIELO 

  commento al vangelodella domnica diciannovesima del tempo ordinario 9 agosto 2015) di p. Alberto Maggi  e di p. Agostino Rota Martir

p. Maggi

Gv 6, 41-51

In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Con l’espressione ‘giudei’ nel vangelo di Giovanni, non si indica il popolo, ma i capi religiosi, le autorità religiose, e sono queste che mormorano contro Gesù. Che mormorino contro Gesù i capi si può capire, ma in questo vangelo mormorano contro Gesù sia la folla, ma anche i discepoli.
Gesù è riuscito a scontentare tutti quanti e vedremo in questo vangelo perché.
Qui gli scontenti sono i capi del popolo perché non possono ammettere che Gesù rivendichi la condizione divina. Gesù ha detto “io sono” – è il nome di Dio – “il pane disceso dal cielo”. Che un uomo pretenda di avere la condizione divina per le autorità religiose è un crimine intollerabile. Dio mette tutto il suo intento per avvicinarsi all’uomo e fondersi con lui; le autorità religiose hanno tutto l’interesse e mettono tutto l’intento per separare l’uomo da Dio, perché più Dio e l’uomo sono lontani, più essi si possono inserire quali unici mediatori.
E quindi non accettano la pretesa di Gesù di essere un uomo con la condizione divina.
Ecco perché replicano “ma non è costui il figlio di Giuseppe?” E Gesù dà un importante criterio per avvicinarsi e accoglierlo: “nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Cosa vuol dire per Gesù? Andare a Gesù significa riconoscere Dio come Padre, cioè colui che è a favore dell’uomo, perché Gesù è l’espressione dell’amore di Dio per tutta l’umanità.
Chiunque vede in Dio un alleato per l’uomo si sente poi attratto da Gesù. Ecco perché i capi non avvicineranno mai Gesù e non arriveranno mai a Dio, perché loro non sono interessati al bene dell’uomo, ma soltanto al proprio prestigio. Non conoscono il Padre, ma soltanto il loro interesse.
Questo amore che Gesù comunica è un amore che viene da Dio e quindi è indistruttibile, ecco perché Gesù può assicurare “io vi dico che chi crede”, cioè ‘chi da adesione a questo Gesù, a questo progetto d’amore di Dio per l’umanità, “ha la vita eterna”. La vita eterna per Gesù non è una promessa da conseguire nel futuro, per la buona condotta tenuta nel presente, ma una realtà che si può sperimentare in questa esistenza. Quindi Gesù non dice “chi crede avrà” poi nel futuro la vita eterna, ma “chi crede ha già”, sperimenta già adesso una vita di una qualità tale che è indistruttibile.
Poi Gesù dice quello che non dovrebbe dire, ecco perché riesce a scontentare tutti quanti, e mette il dito nella piaga. Gesù, rivendicando la condizione divina, “Io sono io pane della vita”, dice “i vostri padri”. Gesù avrebbe dovuto dire “i nostri padri”, anche lui è un componente del popolo di Israele, ma Gesù prende le distanze. Lui è mosso e segue il Padre, non i padri, non la tradizione del popolo.
“I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti”. Gesù mette il dito nella piaga del grande fallimento dell’esodo. Tutti quelli che sono usciti dalla schiavitù egiziana sono tutti morti nel deserto. Neanche uno è entrato nella terra promessa; i loro figli sono entrati nella terra promessa. Ma neanche Mosè c’è riuscito e sono tutti morti.
E perché sono morti? Secondo il libro di Giosuè e secondo il libro dei Numeri, sono morti per non aver dato ascolto alla voce di Dio. Allora Gesù dà un monito “come quella generazione morì nel deserto per non aver ascoltato la voce di Dio, anche voi rischiate di non entrare nella pienezza della libertà se non ascoltate questa voce.
Ed ecco allora Gesù che rivendica e conferma “se uno  mangia di questo pane” – che è lui, la sua vita – “vivrà in eterno”. La vita che Gesù comunica è una vita che non viene interrotta dalla morte. E poi questa preziosa indicazione “il pane che io darò è la mia carne”, l’evangelista usa il termine ‘carne’ che indica la debolezza dell’uomo, “per la vita del mondo”. Non esistono doni divini che non si manifestino nella debolezza della condizione umana.

 il commento di p. Agostino Rota Martir:

agostino

 

Gesù dà vita scendendo

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.”

Gesù è il pane disceso, perché la sua origine è in Dio, ma è anche lo stile costante della sua stessa vita, è il suo incessante comportamento con le persone che incontra, quello di “scendere” per farsi prossimo con il povero, l’ammalato, il lebbroso, con lo straniero, il peccatore..

Gesù attraverso il suo comportamento rivela che Dio manifesta se stesso dal basso, abbassandosi, andando oltre la Legge sacra del tempio. Non più un Dio che chiede all’uomo di salire per adorarlo nel tempio, ma di scendere nelle strade, nei vicoli, nelle case là dove l’uomo vive, lotta, spera per mostrare il suo Amore Liberante verso tutti. Il Dio di Gesù si disloca dal tempio, per scendere, proprio come l’incarnazione di suo Figlio Gesù, non per capriccio, ma per indicare la via capace di rivelare il suo Regno, quella di abbassarsi per fare spazio all’altro.

Donare senza scendere. Tipico di molti di noi, abbastanza diffuso anche dentro le nostre comunità: “Ti aiuto ma resto al sicuro nella mia posizione, possibilmente in alto. Ti dono qualcosa, ma fino ad un certo punto. Ti aiuto quando te lo meriti..” E’ l’aiuto senza relazione con l’altro, a distanza senza voler scendere più di tanto.

“La tentazione dell’essere al centro, nel senso di governare, dirigere, guidare, essere i protagonisti primi e principali di ciò che succede, è comune a tutti noi.” (Stella Morra, Dalle periferie un altro sguardo.)

Due fatti successi ultimamente, opposti tra di loro ma che ci aiutano a comprendere la “logica” del pane vivo disceso.

* Di fronte al bisogno di alloggi per accogliere dei profughi, un vescovo del Nord d’Italia offre i locali di un convento ormai vuoto, ma dei genitori di una scuola cattolica hanno rifiutato la loro presenza perché troppo vicina ai loro figli, mormorando pubblicamente la scelta del loro vescovo..Senz’altro ‘sti genitori “cattolici” sono ben lontani da Dio, anche se assidui frequentatori del tempio: e se invece, il pane vivo disceso dal cielo sta in mezzo a quei profughi rifiutati dai benpensanti timorati di Dio? Che occasione persa!

* Di segno opposto invece, la notizia di un deputato tedesco che sceglie di offrire la sua casa per dei richiedenti asilo, dopo aver ascoltato la loro storia in parrocchia.

Mangiare il pane vivo non significa forse fare spazio, perché l’altro possa crescere in me? Così la mia carne (la mia storia, le mie scelte..) si trasformerà in vita per il mondo, per chi attraversa il mio cammino.

Ecco, ripetersi il miracolo del pane disceso (che si disloca), mette in movimento le nostre certezze, le nostre stabilità.

Mangiare il pane vivo disceso dal cielo non può che portarci a scegliere da che parte stare e soprattutto il come starci.

Campo della Bigattiera (Pisa)

8 Agosto 2015

 




commento al vangelo della domenica

CHI VIENE A ME NON AVRA’ FAME E CHI CREDE IN ME NON AVRA’ SETE MAI! 

  commento al vangelo della domenica diciottesima del tempo ordinario (2 agosto 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Gv 6, 24-35

 

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbi, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mose che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

Con l’episodio della condivisione dei pani Gesù aveva voluto elevare la folla a livello prima di uomini, poi di persone adulte, di persone mature, ma la folla non ha voluto, voleva farlo re. Ha preferito la sottomissione alla libertà che Gesù aveva loro proposto e Gesù era scappato via.
Ebbene ora la folla lo rincorre, ne va in cerca – il verbo ‘ricercare’ nel vangelo di Giovanni è sempre negativo, è sempre per catturare, lapidare, uccidere Gesù – e, quando lo trova, si rivolge a lui chiamandolo ‘Rabbi’. Rabbi è il maestro della legge, non hanno compreso la novità proposta da Gesù, un
rapporto con Dio completamente nuovo, non più basato sull’obbedienza della legge, ma sull’accoglienza del suo amore.
E qui inizia un dialogo tra sordi, un dialogo all’insegna dell’incomprensione, perché la folla chiede il pane per sé  e Gesù li invitava a farsi pane per altri. Ecco che Gesù dice “voi mi cercate non perché avete visto dei segni”. Il segno cos’era? L’accoglienza di un dono generoso per farsi, a loro volta, dono generoso per gli altri, ricevere il pane per poi farsi pane per gli altri.
“Ma perché avete mangiato” – cioè avete preso il pane per voi, “e vi siete saziati”.
E avvisa Gesù “datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna”. La vita ha una parte biologica e ha bisogno di esser nutrita e una parte, quella eterna, che per crescere ha bisogno di nutrire. Quindi noi abbiamo due aspetti:
– La nostra vita biologica, deve essere nutrita
– Quella interiore, per crescere, invece, deve nutrire.
Allora Gesù dice “datevi da fare per questo”. “Perché”, assicura Gesù, “questo è il cibo che vi da il Figlio e su di lui il Padre ha messo il suo sigillo”, cioè Gesù è la garanzia della presenza divina nell’umanità.
Ed ecco che chiedono loro a Gesù cosa devono fare, e Gesù dice: “Questa è l’opera di Dio”. L’unica volta che appare nell’Antico Testamento il termine ‘opera di Dio’, è nel Libro dell’Esodo, capitolo 32, vers. 16, per indicare le tavole della legge. C’è un cambio di alleanza, il rapporto con Dio non è più basato sull’osservanza della legge, ma sull’accoglienza dell’amore di Gesù. Ed è questo che Gesù esprime “che crediate in colui che egli ha mandato”. Quindi non più l’obbedienza alle leggi, ma l’assomiglianza all’amore che in Gesù, garanzia della presenza divina, si manifesta.
Ma la folla non comprende e chiede: “che segno compi perché vediamo e crediamo?” Questo è tipico dell’esperienza religiosa: un segno da vedere per poter credere. E Gesù rifiuta sempre, Gesù non mostra un segno da vedere per credere, ma al contrario dice “credi, e tu stesso diventerai un segno che gli altri possono vedere”.
Allora Gesù, di fronte a questa reazione della folla che si rifà ai padri e non al Padre, che si rifà al passato e dice “i nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto”, si rifanno al passato per Israele, mentre Gesù li aveva invitati al presente, al Padre dell’umanità, Gesù dice che non è stato  Mosè in passato quello che ha dato la vera vita, ma il Padre “vi dà il pane dal cielo, quello vero”.
La richiesta della folla richiama la preghiera del Padre Nostro che, nel vangelo di Giovanni non è presente, “Signore, dacci sempre di questo pane”. Ecco, la folla è cresciuta, da ‘Rabbi’ – Rabbi è colui che insegna la legge – a ‘Signore’, hanno capito che in Gesù c’è una realtà divina.
Ed ecco la dichiarazione di Gesù “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà pane e chi crede in me non avrà più sete”. Gesù si presenta come la piena risposta alle esigenze di pienezza di vita che ogni uomo porta dentro di sé.

 

 

 




il commento al vangelo della domenica

 “DISTRIBUI’ A QUELLI CHE ERANO SEDUTI QUANTO NE VOLEVANO”

commento al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario (26 luglio 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Gv 6, 1-15

In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Giovanni è l’unico tra gli evangelisti che non riporta il racconto della cena eucaristica, con le parole e i gesti di Gesù sul pane e sul vino, ma in realtà è l’evangelista che senz’altro più degli altri ne approfondisce il significato e ne svela la ricchezza. In particolare lo fa in questo capitolo 6. Scrive l’evangelista che era vicina la Pasqua, la festa dei giudei, ma la folla, anziché salire a Gerusalemme per   celebrare la Pasqua, viene attratta da Gesù. La folla ha compreso che in Gesù si manifesta il vero santuario di Dio dal quale si irradia il suo amore.
Ebbene, Gesù, vedendo la folla, pensa lui a provvedere al suo sostentamento. Mentre nel deserto, nell’Esodo era stata la folla che, attraverso Mosè aveva dovuto chiedere a Dio e aveva dovuto supplicare per avere il pane, qui Gesù previene le necessità della gente. L’evangelista indica qual è l’azione divina: Dio non risponde ai bisogni della gente, ma precede e previene le sue necessità.
E l’evangelista descrive questa azione della condivisione dei pani e dei pesci parlando di un ragazzo “che ha cinque pani d’orzo”. Perché cinque pani d’orzo? Perché l’evangelista vuole richiamare un fatto che era scritto nell’Antico Testamento quando Eliseo, il profeta, con venti pani d’orzo sfamò cento persone.
“E due pesci”. Vediamo ora, ed è importante, perché l’evangelista ci da attraverso questi segnali l’indicazione precisa del significato dell’Eucaristia; vediamo qual è l’indicazione che ci dà Gesù. Gesù dice “Fateli sedere”, perché questo particolare? Per mangiare i pani e i pesci potevano stare in piedi, sdraiati, seduti, perché Gesù dà questo preciso ordine, letteralmente “fateli sdraiare”?
Nei pranzi solenni, nei pranzi festivi, in particolare per la Pasqua, i signori, cioè quelli che avevano dei servi da cui potevano farsi servire, mangiavano sdraiati su dei lettucci. Chi mangiava così? Quelli che erano signori, quelli che avevano dei servi. Ebbene, la prima azione di Gesù è far sentire le persone “signori”; Gesù si fa servo perché i servi si possano sentire signori. Quindi la prima indicazione di Gesù, che dice ai discepoli, collaboratori di questa Eucaristia, è di far sdraiare la gente.
E l’evangelista ci dà l’indicazione che “c’era molta erba in quel luogo”. Questo è un richiamo a un Salmo, il Salmo 72, nel quale si prevedeva l’arrivo del Messia “in campi ondeggianti di erba e di frumento”. Quindi l’evangelista vuol dire che è arrivato il Messia atteso. L’evangelista aggiunge “in quel luogo”. ‘Luogo’ è un termine tecnico che indica il tempio di Gerusalemme, il santuario dove si manifesta Dio. Ora Dio non si manifesta più in un santuario costruito dall’uomo, ma nella persona di Gesù.
“Si misero dunque a sedere”, e l‘evangelista indica il numero di queste persone in 5000. Perché questo numero? Sia perché è il numero della prima comunità cristiana secondo il Libro degli Atti, al capitolo 4, ma soprattutto perché i multipli di 50 indicano, nell’Antico Testamento, l’azione dello Spirito. “Pentecoste”, termine greco che significa ‘cinquantesimo giorno dopo la Pasqua’, è il giorno dell’effusione dello Spirito. Quindi l’evangelista vuol far comprendere che non c’è soltanto un alimento fisico, ma c’è una comunicazione dello Spirito di Dio.
“Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede”. Sono gli stessi gesti che gli altri evangelisti pongono a Gesù nell’ultima cena. “Gesù prende i pani, e, dopo aver reso grazie” – ringraziare significa che ciò che si ha non è proprio, ma è dono ricevuto e va diviso con gli altri – “li diede a quelli che erano seduti”.
Gesù non chiede a questa folla che partecipa a questa condivisione dei pani se sono purificati e non chiede neanche di purificarsi. Non bisogna purificarsi per ricevere il pane, che è Gesù, ma è l’accogliere, il mangiare questo pane di Gesù, che purifica. Questa è l’indicazione preziosa che ci dà  l’evangelista. Ebbene, mangiano, e l’evangelista dice che dai pezzi avanzati raccolgono 12 canestri. I numeri, ovviamente, sono tutti figurati, tutti simbolici. Il numero dodici rappresenta Israele.
Però, purtroppo, la gente non ha capito questo segno. Questo segno di Gesù, che lui, il Signore, si faceva servo per far sì che i servi si sentissero liberi, non è stato compreso. Infatti “la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva ‘Questi è davvero il profeta’ “. Il profeta era quello promesso da Mosè, loro non hanno capito la novità portata da Gesù, e sono pronti a sottomettersi.
Infatti, “Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re” – vogliono sottomettersi, vogliono la sottomissione e non la libertà. Gesù li aveva chiamati alla libertà, ma loro non sanno che farsene e vogliono essere dominati; vogliono fare di Gesù un re.
E Gesù “si ritirò di nuovo sul monte”. Come Mosè dopo il tradimento del popolo con il vitello d’oro, il peccato d’idolatria, risalì sul monte, così Gesù sale su il monte. L’azione del popolo di farlo re, lui la considera un peccato di idolatria, un tradimento.
“Lui da solo”. Perché da solo? Perché anche i discepoli condividono la mentalità della folla.

 

 

 

 




il commento al vangelo della domenica

 ERANO COME PECORE CHE NON HANNO PASTORE

commento al Vangelo  della domenica sedicesima del tempo ordinario (19luglio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

Mc 6, 30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.


El’unica volta nel Vangelo di Marco in cui appare il termine di “apostolo” che non indica un titolo, una carica, ma una funzione: significa “inviato”. Quando i discepoli sono inviati, sono “apostoli”.
Ebbene questi apostoli, i discepoli, “si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”. Ma Gesù non li aveva autorizzati ad insegnare e anche quello che hanno fatto non era quello che Gesù li aveva incaricati di fare. Abbiamo visto già nella volta scorsa come questi discepoli non fanno ciò per cui Gesù li aveva inviati. Quindi loro hanno fatto e insegnato e Gesù non si mostra molto felice di questa loro relazione e infatti dice “Venite in disparte”. Questo ‘disparte’ è un termine tecnico adoperato dagli evangelisti – lo troviamo più volte non solo in Marco, ma anche negli altri autori del Vangelo – che indica sempre incomprensione o ostilità, o addirittura, opposizione a Gesù.
Quindi tutte quelle volte che Gesù prende i discepoli ‘in disparte’ è perché da parte dei discepoli c’è incomprensione, ostilità o opposizione al messaggio di Gesù. Allora questi discepoli che non hanno fatto ciò di cui Gesù li aveva incaricati e addirittura si sono messi ad insegnare – Gesù non li ha mai autorizzati ad insegnare. C’è differenza nella lingua greca tra ‘insegnare’ e ‘predicare’. ‘Insegnare’ significa adoperare le categorie dell’Antico Testamento per annunziare il nuovo e questo sarà un ruolo che Gesù si prende per se, solo Gesù sa ciò che dell’Antico è ancora buono per annunziare la novità del Regno. Quindi Gesù non autorizza mai i discepoli ad insegnare, li manda invece a ‘predicare’. ‘Predicare’ significa l’annunzio con categorie nuove.
Quindi loro hanno insegnato, hanno preso le categorie dell’Antico Testamento e hanno prodotto un risultato un poco confuso. Infatti, scrive l’evangelista che “molti venivano”. Probabilmente questi discepoli hanno annunziato il Messia secondo le categorie nazionaliste e questo ha creato entusiasmo. Mentre Gesù nella sinagoga del suo paese è stato accolto da scetticismo, la predicazione dei discepoli è accolta con entusiasmo. Quindi significa che la linea di Gesù e quella dei discepoli non è la stessa.
“Allora”, scrive l’evangelista, “andarono con la barca in un luogo deserto, in disparte”. Quindi Gesù li vuole separare dalla folla perché loro hanno creato una falsa attesa, quella del Messia trionfante, il Messia vincitore.
E, notiamo questo particolare “sceso dalla barca” – l’evangelista avrebbe dovuto scrivere ‘scesero dalla barca’. No, i discepoli rimangono sulla barca, Gesù li distanzia dalla folla. “Gesù vide una gran folla ed ebbe compassione”. Questo ‘avere compassione’ è un termine tecnico dell’Antico Testamento e anche del Nuovo che è adoperato esclusivamente per Dio. Gli uomini hanno misericordia, ma è solo Dio che ha compassione. La ‘compassione’ non è un sentimento, ma un’azione divina con la quale si restituisce vita a chi vita non ce l’ha.
Nell’Antico Testamento è riservata esclusivamente a Dio, nel Nuovo a Dio e a Gesù. Ebbene la compassione di Gesù verso questo popolo che non ha vita è perché erano “pecore che non hanno pastore”. Mosè aveva chiesto che ci fosse sempre un pastore nel suo popolo perché il gregge non fosse sbandato e invece la folla è come ‘pecore che non hanno pastore’. Ma in realtà i pastori ce li avevano, tanti, forse anche troppi, è che questi pastori non si curavano del bene del popolo, ma soltanto dei propri interessi. Non curavano la salute, la vita del popolo, ma difendevano i propri privilegi; non servivano il gregge, ma lo dominavano.
Allora Gesù, di fronte a questa situazione che era stata già denunciata dai profeti, prende lui il ruolo di pastore.
Da questo momento Gesù sarà il vero pastore di Israele. “E si mise a insegnare loro molte cose”. Gesù non insegna dottrine per dominare le persone, ma, lo vedremo, si fa alimento, comunicazione vitale, che consente al popolo di vivere

 

 




il commento al vangelo della domenica

 

 PRESE A MANDARLI

commento al Vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario (12 luglio 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mc 6, 7-13

 

 

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo  non  vi  accogliessero  e  non  vi  ascoltassero,  andatevene  e  scuotete  la  polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Dopo l’insuccesso di Gesù durante la predicazione nella sinagoga, dove è stato accolto da scetticismo e Gesù stesso si meravigliava per la loro incredulità, Gesù associa alla sua attività i dodici. I dodici sono i discepoli che rappresentano il nuovo Israele che era appunto composto dalle dodici tribù.
“Gesù prende a mandarli”, scrive Marco, “a due a due”, perché sono una comunità, non si presentano come leader  o portatori di un messaggio, ma deve essere una comunità che vive questo messaggio. E “Da loro il potere sugli spiriti impuri”. Spirito significa energia, forza; quando questa forza proviene da Dio si chiama Santa, non soltanto per la qualità, ma per l’attività che separa l’uomo dalla sfera del male e del peccato e lo attrae in quella del bene. Quando queste energie vengono da realtà diverse da Dio, o addirittura contrarie, si chiamano impure perché trattengono e lo mantengono nella sfera dell’impurità, cioè dell’impossibilità della comunicazione con Dio – secondo la cultura dell’epoca.
“E ordinò” – è l’unica volta che ordina qualcosa in questo Vangelo, quindi deve essere qualcosa di molto importante, che dobbiamo prendere seriamente. Cos’è che Gesù ordina? Gesù ordina “di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura”.
Perché questo? Perché la vita dei discepoli deve mostrare la verità dell’annuncio. Non si può andare ad annunciare la buona notizia di Gesù, che è una notizia in cui l’uomo si fida pienamente di Dio e si fida pienamente degli altri, un messaggio che è di rinuncia all’ambizione, se poi il proprio comportamento, il proprio  abbigliamento,  il  proprio  stile  di  vita  lo  contraddicono.  Quindi  la  vita  dell’annunciatore  del messaggio deve dimostrare la verità.
Quindi Gesù, che normalmente è parco di descrizioni, qui fa una descrizione molto dettagliata, addirittura di come deve essere l’abbigliamento di questi discepoli; dice di “calzare i sandali” – i sandali  
sì perché devono camminare molto – ma di “non portare due tuniche”, avere due tuniche era un lusso dei ricchi. Quindi i discepoli non devono smentire con il proprio comportamento l’annunzio di questo amore universale di un Dio che si mette a servizio degli altri.
Poi  Gesù  invita  questi  discepoli  ad  essere  liberi  dall’affanno  economico,  ad  affidarsi  completamente; dice  che  devono  essere  liberi  anche  interiormente,  e  infatti  dice  “dovunque  entriate  in  una  casa rimanetevi finché non sarete partiti di lì”. Perché quest’indicazione? Perché gli ebrei quando erano in viaggio  cercavano  spesso  ospitalità  soltanto  in  caso  di  altri  ebrei,  non  andavano  in  casa  di  pagani. Perché?  Perché  la  casa  di  un  pagano  era  impura.  Oppure  non  andavano  a  casa  di  ebrei  che  non sapevano  essere  pienamente  osservanti  delle  regole  della  purezza  o  della  impurità  riguardo  ai  generi alimentari.
Ebbene, Gesù chiede di essere liberi; nella casa dove entrate, che siano osservanti o meno, lì rimanete. Quindi bisogna essere liberi per poter liberare. “Ma”, avvisa Gesù, “se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andandovene, scuotete la polvere sotto i vostri piedi”. Questo era un gesto simbolico che facevano gli ebrei, quando ritornavano dalla terra pagana, prima di entrare in Israele,  scuotevano  la  polvere  dei  sandali  per  non  portare  neanche  un  briciolo  di  terra  pagana,  terra impura, nella terra santa. Quindi l’evangelista indica che quanti non accolgono questi annunciatori del messaggio, vanno trattati come i pagani.
Pagano allora non è chi non crede o chi crede in un’altra religione, ma chi non accoglie, chi non presta aiuto.  Chi  non  riflette  nella  sua  condotta  l’amore  universale  di  Dio  è  un  pagano.  Quindi  Gesù  invia  i discepoli ad annunziare questo messaggio della buona notizia, e quanti non lo accolgono vanno trattati come i pagani; quindi ‘pagano’ non dipende dal Dio in cui credi, ma dall’atteggiamento di accoglienza e di ospitalità.
“Ed essi partiti” – ecco qui c’è da chiedersi ‘ma hanno fatto quello che Gesù aveva detto loro di fare o no?’  Perché  Gesù  non  aveva  invitato  i  discepoli  a  predicare  la  conversione,  ed  eventualmente  la conversione era per il regno dei cieli, non li aveva invitati a scacciare i demoni, aveva dato il potere sugli spiriti impuri, che è un’altra cosa, e di ungere i malati con olio, ecc.
I  discepoli  non  hanno  fatto  quello  che  Gesù  ha  indicato  loro.  E  infatti  vedremo  nel  seguito  di  questo Vangelo  che  Gesù  li  chiamerà  in  disparte  e  impedirà  loro  di  annunziare  un  messaggio  che  lui  non  ha autorizzato.

 




il commento al vangelo della domenica

UN PROFETA NON E’ DISPREZZATO SE NON NELLA SUA PATRIA

commento al Vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario (5 luglio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

  Mc 6, 1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?».
Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

In questo brano drammatico l’evangelista ci presenta la triste situazione del popolo sottomesso all’autorità. Il popolo non può permettersi di avere un’opinione propria, deve pensare esattamente quello che le autorità decidono che deve pensare: se le autorità dicono, impongono che quello che è bianco è nero, il popolo deve credere così. Questo è il peccato contro lo Spirito Santo.
Ma vediamo cosa ci dice l’evangelista.
Dice che “Gesù venne nella sua patria”, evita di parlare di Nazareth, perché il caso non è relegato al piccolo paese di Nazareth, ma si estende a tutta la nazione di Israele. Gesù “giunto il sabato si mise a insegnare nella sinagoga”, è la seconda volta che Gesù insegna nella sinagoga.
La prima volta a Cafarnao l’esito era stato positivo, c’era stata la stessa reazione di qui, la gente è rimasta stupita, però s’era detto “questo sì che ha autorità” – cioè ha mandato divino – “non i nostri scribi” (Mc 1, 21-22). Quindi la prima volta la situazione era stata positiva.
Ma Gesù aveva gettato discredito sui teologi ufficiali, sugli scribi, che erano passati al contrattacco, avevano messo in guardia la gente: attenti a quest’uomo, a questo Gesù, perché è vero che vi guarisce,   ma lo fa per infettarvi ancora di più, perché è uno stregone, agisce per opera di Beelzebùl, il principe dei demòni. E il popolo lo crede.
Infatti qui la gente rimane stupita del suo insegnamento, ma non c’è una reazione positiva, e si chiedono “da dove gli vengano queste cose?”. Non percepiscono in Gesù la condizione divina, perché gli scribi hanno detto che in Gesù c’è una condizione diabolica, loro devono credere quello che le autorità impongono di credere. E si stupiscono dei prodigi e dicono che “sono compiuti dalle sue mani”, come se Gesù fosse uno stregone. Evitano di nominare Gesù, si riferiscono a lui con profondo disprezzo “Non è costui”, quindi evitano di pronunciare il nome e poi passano all’offesa, lo chiamano “il figlio di Maria”.
Un figlio, nel mondo palestinese, veniva sempre chiamato con il nome del padre, anche quando il padre era defunto; il figlio conservava sempre il nome del padre. Quindi avrebbero dovuto dire “non è il figlio di Giuseppe?” ; ma ignorano Giuseppe. Dire che qualcuno è il figlio di una donna significa che la paternità è dubbia e incerta. Quindi passano alle offese e passano alla realtà, elencando i suoi parenti, fratelli e sorelle, cioè gli appartenenti al suo clan familiare e, conclude l’evangelista, che tutto questo per loro “era motivo di scandalo”.
Quindi la situazione del popolo è tremenda: pur avendo ascoltato l’insegnamento di Gesù, non ne percepiscono l’autorità divina perché le autorità religiose, per non andare contro il proprio interesse – loro sì che sanno che Gesù è di condizione divina, ma se lo riconoscono perdono l’influsso e il prestigio sul popolo – hanno detto che Gesù opera per azione di Beelzebùl, il principe dei demòni.
E qui c’è la conclusione amara di Gesù che fa eco a quello che c’è scritto nel vangelo di Giovanni “Egli venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”(Gv 1,11.)
Gesù dice “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria”. E’ il destino dei profeti, in nome del Dio del passato le autorità religiose non riconoscono mai un Dio che si manifesta nel presente.
I profeti sono coloro che allargano lo spazio, dilatano la conoscenza di Dio, ma sono proprio le autorità religiose che, in nome della tradizione, non accolgono e non riconoscono questa novità di Dio e il popolo è sottomesso a questa loro tradizione. E quindi Gesù non può compiere nulla e “si meravigliava della loro incredulità”.
E’ la tristezza di Gesù vedendo l’oppressione dell’istituzione religiosa su un popolo. Quelli che si erano posti come rappresentanti di Dio sono quelli che impediscono la conoscenza di Dio al popolo. 

 




il commento al vangelo della domenica

FANCIULLA IO TI DICO, ALZATI!

commento al vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario (28 giugno 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

Mc  5,21-43

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano.
Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

Nella narrazione della risurrezione della figlia del capo della sinagoga e della guarigione della donna affetta da flusso di sangue, l’evangelista intende rappresentare la situazione del popolo di Israele. Il popolo, che è sottomesso alla legge, è morto e il popolo che è escluso dalla legge vive una situazione di impurità, rappresentato dalla donna con il flusso di sangue.
Ciò che unisce i due episodi è:
– la cifra ‘dodici’, indicata come anni di malattia per la donna e come età per la figlia del capo della sinagoga. Il numero ‘dodici’, lo sappiamo, è il numero che rappresenta le dodici tribù di Israele, quindi indica tutto il popolo di Israele. – E l’altro termine è il termine ‘figlia’ (qug£thr), adoperato da Gesù per la donna che viene guarita, e per indicare la figlia del capo della sinagoga.
In entrambe le situazioni si guarisce, si recupera la vita attraverso una trasgressione.  Gesù tocca, prende la mano della bambina, del cadavere – ed era proibito nel Libro del Levitico toccare un cadavere – e la bimba ritorna in vita, mentre nel brano, che adesso vediamo di comprendere e di esaminare, è la stessa donna che compie questa trasgressione.
Scrive l’evangelista che questa “donna”, anonima – significa che è un personaggio rappresentativo nel quale ogni lettore si può immedesimare – “aveva perdite di sangue”. Il sangue è la vita, e perdere sangue significa perdere la vita. Una donna in queste condizioni, secondo il Libro del Levitico, è una donna in perenne condizione di impurità. Se non è sposata non trova nessuno che la sposa, se è sposata non può avere rapporto con il marito, quindi è destinata alla sterilità, anzi il marito la può addirittura ripudiare. Quindi una donna che non ha nessuna speranza; è impura, non può entrare nel tempio, non può celebrare la Pasqua, è equiparata a un lebbroso.
Allora, per la donna non ci sono speranze; se continua ad osservare la legge va incontro alla morte, ma lei, che ha sentito senz’altro la parola di Gesù, il messaggio di Gesù, il Gesù che ha purificato il lebbroso, il Gesù che non guarda i meriti delle persone, ma i loro bisogni, ci prova. Ci prova di nascosto perché una donna che, nelle sue condizioni, pubblicamente e volontariamente, toccava un uomo, veniva messa a morte, perché lo rendeva impuro.
Ebbene, sentendo parlare di Gesù, ha sentito appunto questo amore dal quale nessuno si sente escluso, un Dio che guarda le necessità delle persone. “Da dietro gli toccò il mantello” e quindi la donna, secondo il Libro del Levitico, secondo la Parola di Dio, compie una trasgressione, compie un sacrilegio.
Gesù avverte, avverte che una “forza era uscita da lui”, una forza di vita e chiede “chi mi ha toccato le vesti?”  Il comportamento dei discepoli è quello di considerare Gesù quasi uno scriteriato, dice “tu vedi la folla che ti si stringe attorno e ti chiedi ‘chi ti ha toccato’?”.
Cosa vuole dire l’evangelista? I discepoli sono accanto a  Gesù, ma non gli sono vicini, loro lo accompagnano, ma non lo seguono. Non basta stare accanto a Gesù per percepirne e riceverne la forza della vita. 
Ma Gesù guarda “per vedere colei che aveva fatto questo”. E la donna impaurita e tremante … Impaurita perché? Ha compiuto una trasgressione per cui merita la pena di morte e quindi magari si attende il rimprovero, il castigo dal Signore.
“Gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità”. Ecco, quello che, agli occhi della religione, è considerato un sacrilegio, agli occhi di Gesù invece … “Gesù le disse ‘Figlia’ “ – è lo stesso termine (qug£thr) adoperato per la figlia del capo della sinagoga che indica quindi il popolo di Israele – “ ‘La tua fede ti ha salvata!’ “
La tua fede? La donna ha trasgredito un precetto religioso; ebbene, quello che, agli occhi della religione è una trasgressione e un sacrilegio, per Gesù è un gesto di fede. Dio non si concede come un premio per la buona condotta, ma come un regalo. Il premio dipende da chi lo riceve, il regalo dalla generosità del donatore. E quindi nessuno si può sentire escluso dal Signore.
E non solo. Gesù non la manda al tempio a offrire i due piccioni come era previsto dalla legge, ma dice “Va’ in pace”, va’ verso la felicità.
E’ iniziata una nuova epoca dove non più l’uomo deve offrire a Dio, ma deve accogliere un Dio che si offre a lui perché la sua vita sia piena e felice.

 




il commento al vangelo della domenica

CHI E’ COSTUI CHE ANCHE IL VENTO E IL MARE GLI OBBEDISCONO?

commento al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario (21 giugno 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 4, 35-41

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

A conclusione della parabola del seminatore Gesù aveva paragonato il Regno di Dio a un granello di senape che, gettato nell’orto della casa, fa un albero così grande che gli uccelli del cielo ci vengono a fare il nido.
Cosa voleva dire Gesù? Il Regno di Dio non è più riservato a un popolo, a una nazione, a una religione, ma è aperto a tutta l’umanità. Tutta l’umanità può trovarvi rifugio, può trovarvi accoglienza, può trovare la sua casa. Questo è il significato di ‘fare il nido’.
Quindi Gesù vuole far comprendere, piano piano, ai riottosi discepoli che lui non è venuto a restaurare il defunto regno di Israele, ma a inaugurare il Regno di Dio, non il privilegio di un popolo, ma l’amore di Dio che non conosce limiti ed è effuso per tutta l’umanità.
Ma qui incominciano i guai e le difficoltà.
Scrive l’evangelista che “lo stesso giorno”, quindi dopo che Gesù ha paragonato il Regno di Dio a questo albero dove tutti possono trovare rifugio, “venuta la sera” – cinque volte c’è questa espressione ‘venuta  la sera’ nel vangelo di Marco, ed è sempre in senso negativo, indicando contrarietà, opposizione o, come in questo caso, incomprensione verso Gesù e il suo messaggio.
“Gesù dice ai suoi discepoli: ‘passiamo all’altra riva’ “.
‘Passare all’altra riva’ significa andare in terra pagana. Ebbene, ogniqualvolta Gesù invita i suoi discepoli ad andare all’altra riva, succede sempre un incidente, c’è sempre resistenza. I discepoli non ne vogliono sapere; loro, anche se Gesù predica il Regno di Dio, capiscono ‘il regno di Israele’, pensano al dominio di Israele sopra tutte le altre nazioni, che dovevano essere sottomesse, dovevano essere dominate; gli israeliti avrebbero dovuto prendere i tesori di questi popoli e non pensano a portare i tesori di Dio ai pagani.
Quindi Gesù dice “andiamo all’altra riva”. E, scrive l’evangelista, che “congedata la folla, lo presero con sé”. Non ne vogliono sapere di condividere Gesù con gli altri, il gruppo ha preso possesso di Gesù, lo tiene quasi come prigioniero.
Ebbene, che cosa succede? Si scatena “una grande tempesta di vento”.
L’evangelista si rifà un po’ alla storia di Giona che resiste all’incarico divino e la sua resistenza provoca una grande tempesta. Il Signore aveva detto a Giona “Vai in terra pagana a predicare la conversione”, e Giona fa un calcolo: “ma se vado in terra pagana e predico la conversione, poi il Signore li perdona”; allora prende la direzione opposta perché non ne vuol sapere di portare l’amore di Dio ai pagani e si scatena una grande tempesta.
Anche qui, che cos’è questa tempesta? Questa tempesta, figurativamente, è la resistenza dei discepoli ad andare in terra pagana. Ma la tempesta riguarda soltanto i discepoli. Vedete, la descrizione che fa l’evangelista dice che “le onde si rovesciavano sulla barca, tanto che ormai era piena”, e Gesù a poppa dormiva.
Impossibile! Impossibile dormire con una tempesta del genere, ma l’evangelista vuol dire che questa tempesta non riguarda Gesù perché lui vuole andare verso i pagani, sono i discepoli che provocano questa tempesta.
Ebbene, i discepoli reagiscono, svegliano Gesù e gli chiedono “Maestro, non ti importa che siamo perduti?“.
“Gesù si destò, minacciò il vento e disse al mare: «taci, calmati!»“. Questa è un’espressione che indica la condizione divina, quella che ancora di Gesù non hanno capito. Vedete che l’hanno appena chiamato ‘Maestro’, e poi alla fine si chiederanno: ‘ma chi è costui?’
Diceva il salmo, il salmo 107 e il salmo 89, che Dio domina il mare e le tempeste, quindi Gesù mostra la sua condizione divina perché vuol far comprendere che andare incontro ai pagani non è andare contro la volontà di Dio, ma è proprio manifestare l’amore di quel  Dio “per il quale” –  Pietro formulerà questa bellissima espressione –  “nessuna persona è esclusa dal suo amore”. 
Dirà Pietro, dopo l’iniziale resistenza ad andare verso i pagani, “che Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo” (At 10,28). Non c’è nessun uomo al mondo che possa sentirsi escluso dall’amore di Dio.
Quindi Gesù, che è Dio, vuole portare questo amore ai pagani, i discepoli gli resistono.
E Gesù li rimprovera, Gesù non apprezza la richiesta di aiuto che hanno fatto e dice loro che non hanno ancora fede, non hanno quel briciolo di fede come il chicco di senape per portare l’amore di Dio all’umanità.
Ecco, di fronte a quest’avvenimento il commento dei discepoli:  “chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”.
Quindi si rendono conto che Gesù non è soltanto quel maestro al quale si erano rivolti, ma in lui c’è qualcosa di straordinario, qualcosa di nuovo, che, piano piano, lungo il corso del vangelo, andremo conoscendo

 




il commento al vangelo della domenica

E’ IL PIU’ PICCOLO DI TUTTI I SEMI, MA DIVENTA PIU’ GRANDE DI TUTTE LE PIANTE DELL’ORTO

commento al Vangelo della undicesima domenica del tempo ordinario (14 giugno 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

A conclusione del discorso della parabole, contenute nel capitolo 4 del vangelo di Marco, Gesù presenta due parabole che annunciano la potenzialità, la potenza e la forza che c’è nel suo messaggio. Sentiamo, capitolo 4 di Marco, versetto 26.
Dice Il Regno di Dio…, lo sappiamo il Regno di Dio è la società alternativa venuta a proporre da Gesù, una società in cui al posto dell’accumulare per sé ci sia la gioia di condividere, e dove anziché comandare ci sia il servire.
E’ come un uomo che getta il seme sulla terra. Già in questo capitolo Gesù ha parlato del seminatore che getta il seme. Il seme è la sua parola, il suo messaggio. La predilezione di Gesù per immagini che riflettono la vita agrícola indica che nel suo messaggio, nella sua buona notizia, c’è una forza che scatena il processo vitale per la crescita e la maturazione dell’individuo.  
Dice Gesù: Dorma o vegli, di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.  Poiché la terra produce spontaneamente (letteralmente automaticamente), prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Questa crescita si rifà a quando Gesù aveva parlato della produzione del trenta, del sessanta e del cento, e all’invito che aveva fatto ai suoi discepoli: con la misura con la quale misurate, cioè quello che date, sarete misurati.
Quello che Gesù ci assicura e che vuole dire è che l’assimilazione del messaggio è un processo intimo e personale nel quale nessuno può interferire. Quando il frutto è pronto, qui l’evangelista adopera il verbo “consegnare”, che è lo stesso che adopererà per il tradimento, la consegna di Gesù. Cosa significa “quando il frutto è pronto per consegnarsi”?
Consegnarsi significa collaborare all’azione vivificante di Gesù fino alla fine, anche a rischio della propria vita. Si mette mano alla falce perché è venuta la mietitura”.
Questa è l’immagine di grande gioia. Bisogna rifarsi al mondo agricolo quando la festa della mietitura è la festa più importante, basta pensare come viene cantata e osannata nei Salmi. Il salmo 126 dove si legge Mieterà con gioia.
Quindi non è un’immagine negativa, un’immagine di giudizio, ma è l’immagine della piena gioia, la persona realizza se stessa ed entra nella piena felicità quando, come Gesù, riesce a donare se stessa.
Quello che Gesù ci sta assicurando è che l’uomo e il messaggio di Gesù sono fatti l’uno per l’altro. Se non si incontrano rimangono sterili, ma quando si incontrano l’homo potenzia e libera tutte quelle potenzialità, quelle forze, quelle energie d’amore che l’incontro con la parola di Gesù, l’incontro con la buona notizia, riescono a liberare.
E continua Gesù: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio e con quale parabola possiamo descriverlo?” E qui Gesù si rifà a un’immagine tradizionale contenuta nel capitolo 17 del profeta Ezechiele dove il regno di Dio veniva immaginato come un cedro, il re degli alberi, sopra un monte altissimo, qualcosa che richiama l’attenzione per la sua magnificenza. Nulla di tutto questo. Dice Gesù: “Esso è come un granellino di senape”, il granellino di senape, lo sappiamo, è minuscolo, non ha neanche un millimetro di diametro, “Quando viene seminato per terra è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra, ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti… “ e qui Gesù crea attesa.
Uno s’aspetterà, conoscendo la profezia di Ezechiele, che ne nasca il più grande di tutti gli alberi, invece Gesù dice con profonda ironia: “Diviene il più grande di tutti gli ortaggi”. L’albero della senape, l’arbusto della senape cresce nell’orto di casa. E’ un arbusto insignificante, non richiama l’attenzione per la sua magnificenza. Raggiunge un metro e mezzo nei punti più adatti, lungo il lago di Galilea a volte raggiunge anche i tre metri, ma è una pianta comune, anzi è un infestante e non richiama l’attenzione.
Cosa ci vuole dire Gesù? Che il regno, anche nel momento del suo massimo sviluppo, non sarà appariscente, trionfalistico, spettacolare, ma una realtà modesta. Quindi con queste due  
parole Gesù assicura a colui che accoglie il suo messaggio che questo porterà dei frutti, perché ha una potenza grande, soltanto che richiede pazienza, perché il processo di crescita è lento.
L’altro messaggio è che il regno di Dio c’è già, non bisogna aspettarsi chissà quali spettacolari manifestazioni di questo regno, sono piccole realtà modeste, ma vive e vivificanti. Quindi il regno di Dio esisterà dove ci sono le comunità che hanno accolto il suo messaggio.
A conclusione, Con molte parabole di questo genera annunziava loro la Parola, secondo quello che potevano intendere. Perché secondo quello che potevano intendere? Non è una questione di orecchie, di udito, ma una questione di amore, una questione di cuore.
Nella misura in cui si è capaci come Gesù del dono della propria vita, si comprende il suo messaggio. E poi conclude l’evangelista: Senza parabole non parlava loro ma, in privato … letteralmente “in disparte”. E’ la prima delle sette volte in cui l’evangelista adopererà questa chiave di lettura. Tutte le volte in cui usa l’espressione “in disparte”, significa incomprensione se non addirittura ostilità da parte dei suoi discepoli.
Ancora ci sarà tanta strada da fare prima che comprendano la realtà del regno di Dio.