il commento al vangelo della domenica

 

QUESTO E’ IL MIO CORPO, QUESTO E’ IL MIO SANGUE 

commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mc 14,12-16.22-26

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 

Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo al termine dell’alleanza. Nel capitolo 24 si legge che Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”. 
E’ da tener presente questo parametro per comprendere quello che ci scrive l’evangelista. 
Scrive Marco: “Mentre mangiavano prese” – non è scritto ‘il pane’, che avrebbe indicato un pane particolare rispetto al pane azzimo che si mangiava durante la cena pasquale; l’evangelista evita accuratamente qualunque riferimento alla cena pasquale. Gesù non ripete un rito antico, ma sta facendo qualcosa di completamente nuovo. Quindi Marco evita qualunque assomiglianza con la cena pasquale.
Quindi “prese un pane, benedì, lo spezzò, lo diede loro dicendo: «prendete, questo è il mio corpo»”.   
Ecco già la prima differenza con l’antica alleanza. Nell’antica alleanza Mosè ha presentato un libro, un libro che conteneva la legge, la volontà di Dio; ebbene, con Gesù inizia un’epoca nuova nel rapportarsi con Dio. 
Il credente, con Gesù, non è più, come nell’antica alleanza, colui che obbediva alle leggi del suo Signore, ma colui che accoglie l’amore del suo Signore. 
Mentre il libro della legge è un codice esterno all’uomo che l’uomo deve impegnarsi a osservare e molti non ci riescono, o non vogliono, la nuova alleanza non è basata su un agente – un libro – un qualcosa di esterno all’uomo, ma sulla effusione interiore della stessa vita divina.
Dio non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore, il suo stesso spirito, la sua stessa forza d’amore. Quindi non più un codice, una legge, ma un uomo – Gesù – che ci comunica la sua vita. 
Poi Gesù ”prese il calice”; e qui, mentre prima per il pane ha adoperato il verbo ‘benedire’ (eÙlogšw) – un termine conosciuto nel mondo ebraico –, per il calice usa il verbo ‘eÙcaristšw’, ‘ringraziare’, da cui deriva poi la parola Eucaristia. 
Perché questi due verbi differenti e non ha usato per esempio lo stesso ‘benedire’ entrambe le volte? 
L’evangelista si rifà alle due moltiplicazioni dei pani. 
Nella prima, in terra ebraica, Gesù benedì il pane (Mc 6,41); nella seconda, in terra pagana, Gesù rese grazie (Mc 8,6).
Allora nell’Eucaristia l’evangelista vuole radunare questi due elementi. Non è soltanto per il popolo d’Israele, ma è per tutta l’umanità.
Quindi Gesù “rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti”. Mentre l’evangelista non ha detto che il pane è stato mangiato, soltanto per il calice dice che bevvero tutti. 
Non basta accogliere Gesù come modello di comportamento, ma bisogna anche bere al calice – il calice è simbolo di morte, di donazione. Allora soltanto nell’accettazione di un impegno di vita che va fino alla morte, c’è la completezza della Eucaristia.
Ebbene, questo sangue non è il sangue dei tori, spruzzato esternamente sulle persone, ma, dice Gesù, “questo è il mio sangue dell’alleanza”. Tutti gli evangelisti indicano l’azione di Gesù come colui che battezza in Spirito Santo, però, stranamente, nessun evangelista ci dice ‘dove’, ‘quando’ e ‘come’ Gesù battezzi in Spirito Santo.  
Ecco, ecco il momento in cui la comunità, il credente, riceve questa effusione nello Spirito Santo, il battesimo nello Spirito Santo. Non è un sangue, come dei tori, che viene asperso esternamente all’uomo, ma una comunicazione interiore della stessa vita divina. E’ questo che dona all’uomo la capacità d’amore. 
E questo sangue, dice Gesù, “è versato per molti”. 
Nella cena pasquale si leggeva un salmo, il salmo 79 in cui il salmista dice che “l’ira di Dio veniva versata sui pagani”. 
Ebbene, per Gesù è cambiato il rapporto con Dio, non viene più versata l’ira di Dio, ma il suo sangue, un amore che accoglie tutti quanti. Questa è la novità proposta da Gesù. Quindi non più l’osservanza di norme esterne, ma Dio governa l’uomo comunicandogli la sua stessa capacità d’amore.  

 




il commento al vangelo della domenica

BATTEZZATE TUTTI I POPOLI NEL NOME DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO  

commento al Vangelo della domenica della ss. Trinità (31 maggio 2015) di p. Alberto Maggi 

maggi

Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

La liturgia di oggi ci presenta la finale del Vangelo di Matteo, che al versetto 16 scrive “gli undici discepoli” – non sono più dodici, manca Giuda. Giuda ha scelto il denaro e il denaro lo ha distrutto, lo ha divorato, non ha scelto la beatitudine della povertà, cioè della condivisione solidale e continua, ma ha pensato soltanto al proprio interesse e chi pensa al proprio interesse si distrugge.
“Gli undici discepoli”, scrive l’evangelista, “intanto andarono in Galilea”. In Galilea per tre volte nel vangelo c’è l’invito di Gesù ad andare in Galilea dopo la sua risurrezione. Gesù non può essere sperimentato a Gerusalemme, la città santa e assassina, ma per sperimentarlo bisogna andare in Galilea – e per tre volte nel Vangelo di Matteo c’è questo invito – “sul monte che Gesù aveva loro indicato”.
Se per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, mai appare in questi inviti, l’invito ad andare su “il monte” che Gesù ha indicato. Gesù non ha mai indicato nessun monte. E perché gli undici vanno non su “un monte” – la Galilea è una zona montagnosa, ci sono tanti monti – ma su “il monte”?
Cosa vuol dire l’evangelista?
L’esperienza del Cristo risuscitato non è un privilegio concesso 2000 anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi. E l’ evangelista ce l’indica come?  Per sperimentare il Cristo risuscitato bisogna andare in Galilea su “il monte”. Questa espressione con l’articolo determinativo, “il monte”, è apparsa al capitolo 5, quando Gesù proclama le beatitudini su “il monte”.
Allora l’evangelista vuol dire che situarsi in Galilea su il monte significa situarsi nel cuore del messaggio di Gesù, le beatitudini. Le beatitudini invitano l’uomo a orientare la propria esistenza al bene dell’altro. Chi orienta la propria vita al bene dell’altro sente dentro di sé una forza, un’energia tale di vita che gli fa sperimentare il Cristo risuscitato. Quindi questo è possibile a tutti.
Continua l’evangelista: “Quando lo videro ”.
Vedere, nella lingua greca, si può dire in diversi modi; qui l’evangelista non adopera il termine che indica la vista “fisica”, ma la vista “interiore”.
Questo vedere non riguarda la vista, ma la fede. Ed è lo stesso che nelle beatitudini, nella beatitudine de “i puri di cuore”, Gesù aveva proclamato: “Beati i puri di cuore perché questi vedranno Dio” (cf Mt 5,8). Gesù non garantisce apparizioni o visioni, ma una profonda esperienza del Signore.
Quindi “lo videro, si prostrarono”. Prostrarsi  significa che riconoscono in Gesù qualcosa di diverso, vedono in Gesù la pienezza della condizione divina.
Però stranamente, scrive l’evangelista, “essi dubitarono”. Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, lo vedono! Non che in Gesù ci sia la condizione divina, si prostrano! Di che cosa dubitano?
L’unica volta che c’è il verbo “dubitare” in questo Vangelo è al capitolo 14, quando Pietro pretese di camminare sulle acque – e questo significava avere la condizione divina – ma incominciò ad affogare. E Gesù lo rimproverò: “uomo di poca fede, perché dubitasti? (Mt 14,32).
Allora in questo brano questa espressione “dubitare” dei discepoli si riferisce a che cosa? Anche loro pensano di avere la condizione divina, di arrivare alla condizione divina come Gesù, ma capiscono attraverso cosa è passato Gesù: l’ignominia della croce.
Allora dubitano di se stessi, non sanno se saranno anch’essi capaci di affrontare la persecuzione, la sofferenza e il martirio per arrivare alla condizione divina.
Ebbene Gesù, nonostante questa loro esitazione, li manda. Dice: “andate e fate discepoli tutti i popoli” – il termine indica le nazioni pagane, quindi proprio quelle popolazioni che erano emarginate, quelle popolazioni che erano disprezzate, proprio queste sono oggetto dell’amore di Dio.
Ed ecco il comando di Gesù “battezzandoli” – non è un rito liturgico quello che Gesù chiede di fare. Il verbo battezzare significa “immergere, inzuppare, impregnare”.  “Battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, nel nome di qualcuno indica una realtà.
Allora, è compito della comunità dei credenti di andare verso gli esclusi, verso gli emarginati, verso i rifiutati dalla religione e proprio a loro far fare una esperienza – di questo si tratta – della pienezza  dell’amore del Padre, colui che da la vita, del Figlio, colui nel quale questa vita si è pienamente realizzata, e dello Spirito, questa energia vitale.
“Insegnando”. E’ la prima volta nel Vangelo di Matteo che Gesù autorizza i discepoli ad insegnare. Non li autorizza ad insegnare una dottrina, ma una pratica: infatti “a praticare e a osservare tutto ciò che io vi ho comandato”.
E l’unica volta che appare qualcosa che Gesù comanda in questo Vangelo è riferito alle beatitudini. Non una dottrina da proclamare, ma una pratica da insegnare, “insegnate a praticare le beatitudini”, “insegnate a praticare la condivisione per amore, il servizio reso per amore”.
Se c’è questo – ecco la garanzia – “ecco io sono con voi”; Matteo aveva iniziato il suo Vangelo con l’espressione che Gesù è “il Dio con noi”  e termina con questa stessa espressone  “io sono con voi tutti i giorni fino …” – dispiace vedere qui nella nuova traduzione della CEI ritornare il termine inesatto, “fine del mondo”.
Non si tratta di fine del mondo, era meglio la vecchia traduzione dove si parlava di “fine dell’epoca, fine del tempo”; infatti la Bibbia di Gerusalemme dice “fino alla fine del tempo”.
Non si tratta di una scadenza, ma di una qualità di presenza; non c’è nessuna fine del mondo, Gesù non mette paura, Gesù assicura che se ci sono queste condizioni di andare comunicando amore, lui è sempre presente nella sua comunità e questo “per sempre” quindi non è una scadenza, ma una qualità della sua presenza.

 




il commento di p. Maggi e p. Agostino al vangelo della domenica

LO SPIRITO DI VERITA’ VI GUIDERA’ A TUTTA LA VERITA’ 

commento al vangelo della domenica di Pentecoste (24 maggio 2015)  di P. Alberto Maggi  p. Maggi

Gv 15, 26-27; 16, 12-15

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Per la festa della pentecoste la liturgia ci propone questo brano di Giovanni dove Gesù parla dell’attività e della realtà dello Spirito. Scrive l’evangelista “Quando verrà” – e dispiace vedere qui nella nuova traduzione della CEI il termine “Il Paraclito”. E’ un termine colto, è un termine tecnico, che non è comprensibile dalla gran parte della gente. Nella vecchia traduzione questo termine si era reso meglio con “consolatore”. Qual è il significato di questo termine greco “paraclito” che qui viene translitterato appunto senza darne poi la comprensione? Il “consolatore”, a differenza di colui che conforta  – il conforto è un conforto morale – ma “consolare” nella lingua greca significa “l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza”. In altre parti questo termine sarà applicato a Gesù come “avvocato difensore”, “colui che ci difende”. Allora, l’azione dello Spirito è quella di consolare, di difendere la comunità da ogni tipo di attacco e l’eliminazione alla radice di quella che è la causa della sofferenza. Quindi Gesù rassicura la sua comunità Quando verrà quindi il consolatore, questa forza, questa energia di Dio, “che vi manderò dal Padre”, quello che lui chiama “lo Spirito della Verità”, questa forza d’amore che proviene dal Padre, conduce l’uomo nella verità, e gli fa comprendere due realtà importanti: 1) chi è Dio, la verità su Dio, Dio è amore; 2) la verità sull’uomo, chi è l’uomo. L’uomo ha una dignità incredibile, è chiamato ad essere il figlio di questo Dio. “Egli darà testimonianza di me”.

Quindi questa forza, quest’energia d’amore che Gesù comunicherà sulla croce nel Vangelo di Giovanni ai suoi discepoli, l’accoglienza di questa potenza d’amore,  dilaterà l’esistenza dell’individuo e lo inserirà nella sfera dell’amore di Dio, gli farà comprendere molte cose. E, scrive l’evangelista che Gesù dice “e anche voi date testimonianza perché siete con me fin dal principio”. Dove si è fin dal principio? Fin dal principio Gesù nella sua attività si è messo sempre a fianco degli oppressi e mai degli oppressori, sempre dalla parte delle vittime, mai dalla parte dei carnefici, allora è un invito molto chiaro di Gesù alla sua comunità di stare sempre dalla parte degli ultimi. In questo stare sempre dalla parte degli ultimi emergerà la forza dello Spirito. Gesù avverte “ho molte cose ancora da dirvi, ma per il momento non  siete capaci di portarne il peso”, perché soltanto chi è pronto a orientare completamente la propria vita verso il bene degli altri, può entrare in sintonia con questa onda crescente d’amore che il Signore comunica. Però, assicura Gesù, “quando verrà lui, lo Spirito della verità”, ecco che torna questa definizione che lo Spirito  è quello che conduce l’uomo, “Vi guiderà a tutta la verità perché non parlerà da se stesso, ma dirà ciò che avrà udito e vi annuncerà” – e questo è importantissimo – “le cose future”. L’azione dello Spirito è una continua proposta del messaggio di Gesù, non è un nuovo messaggio, una nuova rivelazione, che fa comprendere le cose che vengono, le cose future. Lo Spirito spinge al futuro. Lo Spirito non ripete le cose del passato, c’è sempre la tentazione da parte degli uomini di rimpiangerei bei tempi di una volta, che erano belli soltanto perché sono passati e sono dimenticati, e quindi di rimpiangere un tempo passato e non dei proiettarsi verso il tempo che arriva. Ebbene, quando si rimpiange il tempo passato lì lo Spirito non può far nulla, perché lo Spirito di Dio è quello che – dice la scrittura – “fa nuove tutte le cose”. Allora, l’apertura al nuovo fa emergere lo Spirito. Cosa significa questo? Che la tensione della comunità cristiana ai sempre nuovo bisogni dell’umanità, farà scoprire nuove capacità di risposta. In  queste nuove risposte ai bisogni dell’umanità emerge lo Spirito della verità. Questa è la dinamica della vita del cristiano, quindi, sempre teso verso il nuovo, sempre pronto a dare nuove risposte, non le risposte antiche. Non si possono dare ai bisogni di oggi risposte antiche, ma formulare, inventare, creare, nuove risposte per i bisogni dell’umanità.

 

 di seguito il commento di p. Agostino Rota Martir che legge da tempo il vangelo da dentro un ‘campo nomadi’ e coll’aiuto di rom musulmani riesce a cogliere del vangelo il cuore più innovativo e ‘ribelle’:

p. agostino

      Per una Pentecoste ribelle e un po’ zingara

 

Sabato scorso ho partecipato a Bologna con diversi amici, alla manifestazione dei Sinti e Rom.                   È stata una bella iniziativa: vivace, colorata e pacifica..anche troppo! Ma alla luce della festa della Pentecoste, non posso nascondere alcune note che mi lasciano un pò perplesso, anzi la dico così: la Pentecoste forse ci spinge ad osare di più, a sapere andar oltre. Pentecoste ed inni nazionali. All’inizio del corteo i Sinti hanno suonato  e cantato (magistralmente) l’inno di Mameli. Senz’altro è stata una nota ad effetto immediato, anche perché cantato meglio di tanti giocatori della nostra Nazionale di calcio. Comprendo bene le ragioni: “siamo italiani, non extra-comunitari”. Sottinteso: noi Sinti, non siamo Rom! ” Siamo in Italia da molte generazioni, non siamo arrivati sui barconi..” Ammetto la mia amarezza, anche se non mi sorprende, è come chi  dice: “prima gli italiani, poi..quel che resta delle briciole agli ultimi arrivati.”  I discriminati (e i Sinti lo sono) che creano a loro volta, altri discriminati e la catena non si ferma mai. Mentre camminavo per le vie di Bologna, Sinti, Rom, migranti, centri sociali, preti, laici, italiani..insieme, mi sono ritrovato proprio a pensare alla festa di Pentecoste. Lo Spirito Santo che scende su tutti e non guarda la scadenza del Permesso di Soggiorno o la validità del  passaporto, o l’appartenenza sociale tanto meno, appone il suo timbro al suo passaggio. Ogni cittadinanza, compresa quella dell’ultimo arrivato su un barcone, profugo o clandestino che sia, partecipa alla sua orchestra di colori e suoni, la Pentecoste è proprio la frantumazione degli inni nazionali, delle bandiere e dei confini nazionali. E’ l’implosione dei muri che dividono, sa più di sentieri, strade aperte verso l’infinito, di ponti.. “Com’è che  ciascuno di noi  sente parlare nella propria lingua nativa?”  Lo Spirito della Pentecoste valorizza le diversità di ciascuno per il bene di tutti. Siamo uguali ma diversi. Non c’è forse il rischio che in nome di una uguaglianza astratta, di una integrazione (spesso usata come arma di ricatto verso i Rom) e quant’altro appiattiamo le nostre diversità, fin’ anche  camuffarle? Nella Pentecoste  invece, ci si comprende anche nelle diversità..l’armonia si ottiene non certo con “le ruspe” o l’indifferenza o moltiplicando i controlli..è frutto di cammini, di pazienza e di ascolto e convivenze reciproche.

Non è forse una tentazione quella di voler sembrare tutti uguali, anche per ottenere ciò che spetta ad ogni essere umano, di diritto?

Pentecoste e sconfinamento della Chiesa.

E’ lo Spirito che sollecita lo sconfinamento della Chiesa, dei cuori stessi..in forme variegate di nomadismo che arricchirà sostanzialmente la storia e le stesse comunità cristiane, differenti tra di loro, sparpagliate e sempre in cammino. Più nomadi che stanziali, affinché lo Spirito del Vangelo manifesti il suo vigore, spesso ben lontano dai poteri! E’ una Chiesa di periferia,  più ribelle che integrata..spesso messa da parte, a volte vista come accessorio inutile, da scartare quando non serve più o diventa un fastidio.

Non sono poche le “sirene” che oggi rinnegano e cercano di nascondere, anche in nome di una presunta integrazione, la storia dei Sinti e Rom che è fatta anche di esodi, di cammini, di nomadismi di vario genere, spesso si sente dire e ripetere:  “Noi Rom, non siamo nomadi, è storia passata.”

Ma la Pentecoste, come il vento  non si “normalizza”..

Se un Sinto o un Rom si uniforma viene premiato, riceve riconoscimenti e attestati, se invece rimane Rom-Sinto, magari mantenendo il suo stile  di vita un po’ “zingaro” (compreso quello di nomadizzare quando lo ritiene necessario), è visto con disprezzo e sospetto.

Sta di fatto che la Pentecoste fa della Chiesa nomade, in uscita..non solo fisicamente, anche spiritualmente e mentalmente, condizione per vivere e capire il Vangelo.  E’  come il sigillo della Pentecoste impresso nell’anima dei cristiani: continuamente in uscita, ribelli ad ogni conformismo, con lo spirito nomade, attenti a non fossilizzarci in una cultura, capaci di andare sempre oltre, seminatori  e raccoglitori delle tracce dello Spirito sparpagliate in ogni storia, in ogni esistenza.

ghetti

“Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato..”

Buona Pentecoste!



il commento al vangelo della domenica

 IL SIGNORE FU ELEVATO IN CIELO E SEDETTE ALLA DESTRA DI DIO

commento al vangelo della domenica dell’Ascensione (17 maggio 2015) di P. Alberto Maggi 

p. Maggi

Mc 16,15-20

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

L’ascensione del Signore non separa Gesù dalla vita dei credenti, ma il Signore si inserisce nella loro esistenza potenziandola con una forza, con un’energia ancora più grande di quella che prima potevano aver conosciuto. Ci viene proposto l’ultimo brano, l’ultimo pezzo del vangelo di Marco, che però non è di Marco. Il vangelo di Marco termina al cap. 16, vers. 8 con l’annuncio della Risurrezione di Gesù, ma senza le prove delle apparizioni. Questo destò scandalo nella comunità primitiva, per cui negli anni seguenti vennero aggiunte ben tre successive finali a questo vangelo, quella che leggiamo è una di queste.
Quindi non è di Marco, non è dell’evangelista, ma è indubbiamente frutto dell’esperienza della comunità cristiana.
Secondo l’autore di questo brano Gesù dice “andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo a ogni creatura”. La missione dei credenti è di andare, non di rimanere fermi, ma di andare a proclamare che cosa? La buona notizia. Sappiamo che il termine ‘vangelo’ significa ‘buona notizia’. E qual è questa buona notizia? Dio non è buono, è ESCLUSIVAMENTE buono; Dio è amore che chiede soltanto di essere accolto. Dio-amore che si offre non per togliere qualcosa all’uomo, ma per potenziare la sua esistenza. E   da questo amore di Dio nessuna persona, qualunque sia la sua condotta o il suo comportamento, può sentirsi esclusa.
Questa è la buona notizia. Dio ama tutti in maniera incondizionata, e questo va proclamato ad ogni creatura.
Aggiunge l’autore “chi crederà …” – ‘credere’ non significa aderire, accettare una dottrina, una verità, ma ‘credere’ significa accogliere questa potenza d’amore ed essere disposti poi a comunicarla agli altri. L’amore ricevuto da Dio si trasforma in amore comunicato.
“… sarà battezzato”. All’inizio di questo vangelo il battesimo era espressione di una conversione. Per ‘conversione’ si intendeva il ‘cambio di orientamento della propria esistenza’: se fino ad adesso ho vissuto per me, adesso deciso di orientare diversamente la mia vita e di vivere per gli altri. Come segno di questo cambio c’era questo rito del battesimo. Quindi chi aderisce a questo amore, lo accoglie e dimostra pubblicamente questo cambio nella sua esistenza, questi è già nella pienezza di vita.
“Ma chi non crederà sarà condannato”. Chi invece lo rifiuta e rimane nel suo egoismo, centrato soltanto sui propri bisogni e sulle proprie necessità, sarà condannato – non da Dio perché Dio è amore e non condanna, ma è lui stesso che si condanna.
Poi ci sono i segni classici che accompagneranno i credenti nella loro missione, è una protezione contro ogni forma di male, in particolare l’espressione finale “e questi guariranno”, beh, il testo greco non è proprio così. Il testo greco dice “e questi avranno bene”. Gesù, il Signore, non ci da la capacità – magari! – di guarire gli ammalati, ma di far sì che stiano bene, questo sì. Cioè un affetto, una premura, un’attenzione e un servizio in modo che le persona anche nella loro malattia, nella loro infermità, possano in qualche maniera stare bene.
“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo” – Quando leggiamo il vangelo occorre sempre distinguere ‘quello che l’evangelista ci dice’ da ‘come ce lo dice’. ‘Quello che ci dice’ è la Parola di Dio e questa è valida per sempre, ‘come lo dice’, l’autore usa le sue abilità letterarie, lo stile dell’epoca. Allora, in questo brano, si vede chiaramente la distinzione tra ‘quello che l’autore vuol dire’ e ‘come lo dice’. Dice che “fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”.  Cos’è che vuol dire l’evangelista? L’evangelista vuol dire alle autorità religiose: “Quell’uomo che voi avete condannato come bestemmiatore, come eretico, in realtà era Dio. Aveva la condizione divina.”
Quindi non era lui che bestemmiava, come hanno denunciato gli scribi la prima volta che hanno ascoltato Gesù, ma “siete voi i bestemmiatori che non avete riconosciuto la presenza di Dio”.
Come lo dice? Lo dice adoperando gli schemi letterari dell’epoca. Il ‘cielo’ non significa l’atmosfera, significa la dimora divina, Dio, Dio stesso, e ‘sedere alla destra’: a quell’epoca nella corte, accanto al re sedeva la persona che deteneva il suo stesso potere, un potere simile al suo. Quindi, l’evangelista adopera queste immagini conosciute dell’epoca per trasmettere una verità.
Che l’ascensione non sia una separazione di Gesù dalla vita dei credenti, lo afferma poi l’autore. Infatti dice “essi partirono e predicarono dappertutto mentre il Signore agiva insieme a loro”. Quindi il Signore
non è andato da qualche parte, ma l’evangelista vuol dire che in Gesù si manifesta la pienezza della condizione divina, e questo porta il Signore a rafforzare l’attività, il comportamento dei suoi discepoli.
“E confermava la parola” – ‘la parola’ è la buona notizia, il messaggio, “con i segni che l’accompagnavano”. La parola non è credibile, non è veritiera, se non è accompagnata da segni quali l’amore, il perdono e la condivisione.

 

 

 




il commento al vangelo della domenica

 NESSUNO HA UN AMORE PIU’ GRANDE DI QUESTO: DARE LA VITA PER I PROPRI AMICI 

commento al vangelo della domenica sesta di pasqua (10 magio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

 

 

 

 

Gv 15, 9-17

 

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Il segno distintivo di un credente, di un cristiano, è una gioia piena, traboccante, da poter essere comunicata agli altri. E Gesù, in questo brano del Vangelo, ce ne dice il perché.
Vediamo. Scrive l’evangelista: “Come il Padre ha amato me”. Dio ha amato il figlio, Gesù, comunicandogli il suo spirito, cioè la sua stessa capacità d’amore. “Anch’io ho amato voi”, lo spirito, l’energia, la capacità, la forza d’amore che Gesù ha ricevuto dal Padre, lui la comunica a quanti lo accolgono. “Rimanete nel mio amore”; l’amore Gesù lo ha manifestato nel capitolo 13 lavando i piedi ai suoi discepoli. Il servizio è l’unica garanzia di rimanere nell’amore del Signore. L’amore del Signore, è vero, è credibile, quando si trasforma in atteggiamenti di servizio nei confronti degli altri. L’amore, quindi, non rimane un sentimento, ma un atteggiamento concreto che rende più bella, più leggera la vita dell’altro.  
E qui Gesù afferma “Se osserverete i miei comandamenti”. Lui ha lasciato un unico comandamento, “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Le attuazioni pratiche, concrete di questo unico comandamento, quindi tutte le volte che questo comandamento diventerà realtà attraverso forme nuove, inedite, di servizio, di collaborazione, di condivisione, di generosità, questo per Gesù equivale ai ‘comandamenti’.
Ed ecco l’annunzio di Gesù “Vi ho detto queste cose”, cos’è che Gesù ha detto? Qui siamo al cap. 15, alla metà, nella prima metà Gesù ha paragonato il Padre al vignaiolo. Qual è l’interesse del vignaiolo? Che la vigna porti sempre più frutta abbondante. Quindi è il vignaiolo che ci pensa, che cura, protegge, elimina quegli elementi nocivi che impediscono al tralcio di portare più frutto. Allora “vi ho detto queste cose”, quali sono queste cose che Gesù ha detto? Di non preoccuparsi di nulla; l’unica preoccupazione del credente, del tralcio, è di portare più frutto, e amare sempre di più. Alla sua vita non ci deve pensare perché ci pensa – e qui il cambio è favorevole al credente – ci pensa direttamente il Padre. Quindi l’invito di Gesù è di camminare nella vita sentendo sempre alle proprie orecchie un Padre che ti sussurra: “Non ti preoccupare, fidati di me”.
Questa è la radice della gioia; “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia” – è la gioia stessa di Gesù, e Gesù è Dio, quindi una gioia divina – “sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La caratteristica del credente è la gioia, una gioia che non dipende dalle circostanze della vita, se le cose mi vanno bene o mi vanno male, se gli altri mi vogliono bene o non me ne vogliono, questa gioia è interiore e viene da questa profonda esperienza. Il Padre si occupa di me perché io ho deciso di occuparmi degli altri.
Quindi l’esperienza di sentirsi profondamente amato, questa è la fonte della gioia.
E, torna a ripetere Gesù, “Questo è il mio comandamento”. Gesù sottolinea che è il SUO comandamento, per contrapporlo a quelli di Mosè. La norma di comportamento nella comunità di Gesù è l’unico comandamento, quello dell’amore e, infatti, ripete “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”.
E aggiunge: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Qui non significa soltanto il gesto estremo, supremo, del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Quindi tutta l’esistenza dell’individuo è orientata verso il bene dell’altro.
A questo punto Gesù – ed è la prima volta nel Vangelo – dichiara che i suoi discepoli sono i suoi amici: “Voi siete miei amici”. Mosè, il servo di Dio, aveva instaurato una relazione fra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza, Gesù, che è il Figlio di Dio, propone un’alleanza non tra dei servi, ma tra dei figli, e non con un Signore, ma con un Padre. Quindi la proposta che ci fa Gesù è una relazione di Figli con il Padre basata sulla somiglianza. Bene, questa relazione porta all’amicizia con Gesù. E Gesù in maniera enfatica dice “Non vi ho mai chiamato servi” – la traduzione dice “non vi chiamo più servi”, ma in realtà Gesù MAI ha chiamato i suoi discepoli ‘servi’, il testo greco è enfatico dice “no, non vi ho mai chiamato servi!”
La relazione di Gesù con i suoi discepoli non è quella del Maestro con dei servi, ma una relazione di amicizia. E, alla conclusione di questo brano, “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi perché 2
andiate e portiate frutto”. Il ‘portare frutto’ è condizionato dall’ ‘andare’. Non è un rimanere statici, rimanere fermi ad attendere che gli altri vengano da noi, ma è ‘andare’. E dove bisogna andare? Seguire Gesù. E Gesù è il santuario visibile dell’amore di Dio che si dirige verso gli esclusi da Dio. Quindi tutte quelle persone che dalla religione si sentono escluse e si sentono rifiutate, questo è il campo della missione del credente.
E’ lì che si porta molto frutto. Se c’è questo, ci assicura Gesù, tutto quello che chiederemo al Padre, nel suo nome – nel nome non significa usare la formula ‘per Cristo nostro Signore’, ma nella misura in cui ci identifichiamo con lui e che assomigliamo a lui – stiamo sicuri che il Padre ce lo concede.
Questa è la radice e la fonte della gioia.

 




il vangelo della domenica

 CHI RIMANE IN ME E IO IN LUI PORTA MOLTO FRUTTO

commento al vangelo della quinta domenica di pasqua (3 maggio 2015) di P. Alberto Maggi:

maggi

Gv 15, 1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

In una famosa pagina del profeta Ezechiele, il profeta descrive il legno della vite. Che pregi ha? Nessuno. Il legno della vite è l’unico legno tra gli alberi della campagna con il quale non si può fare nulla; non ci si può fare un oggetto, un attrezzo utile. Il legno della vite è buono soltanto per far passare la linfa vitale ai tralci e produrre frutta. Quindi il legno della vite è il legno inservibile, se non per portare frutto. Ed è a questa immagine del Profeta Ezechiele che Gesù si riallaccia nel famoso discorso della vite e dei tralci, contenuto nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni.
Gesù, ancora una volta, rivendica la pienezza della condizione divina. Quando Gesù dice “Io sono”, questo rappresenta la pienezza della condizione divina, perché “Io sono” è il nome di Dio.
Nella cultura d’Israele la vite era immagine del popolo, del popolo di Israele. C’è il famoso cantico d’amore del Signore per la sua vigna, contenuto nel capitolo 5 del Profeta Isaia; anche il Profeta Geremia parla di Israele come di una vite. Bene Gesù dichiara di essere “la vera vite”, quindi ci sono delle false viti. Gesù continua quel processo di sostituzione con le realtà di Israele con la propria persona:
– non la manna dal cielo, ma lui è il vero pane che da vita al popolo; – lui è la vera luce al contrario della legge; – lui è la vera vite, lui è il vero popolo piantato dal Signore.  
E il Padre “è l’agricoltore”. Allora ci sono dei ruoli ben distinti: Gesù è la vite, dove scorre la linfa vitale, il Padre è l’agricoltore. Qual è l’interesse dell’agricoltore? Che la vigna porti sempre più frutto e infatti, scrive l’evangelista, “ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie”. Qual è il significato di questa espressione? L’evangelista sta parlando della comunità cristiana dove c’è un amore che viene comunicato dal Signore, un amore ricevuto dal Signore, e questo amore si deve trasformare in amore dimostrato agli altri. E questo è caratteristico dell’Eucaristia. Nell’Eucaristia si accoglie un Gesù che si fa pane, fonte di vita, per poi essere disposti a farsi pane, fonte di vita per gli altri. Ci può essere il rischio che nella comunità ci sia una persona che assorba questa linfa vitale, assorba questa energia, assorba questo amore, assorba questo pane, ma poi non si faccia pane per gli altri, non trasformi l’amore che riceve in amore per gli altri. E’ un elemento passivo, che pensa soltanto al proprio interesse, a se stesso, e quindi non comunica vita.
Ebbene, non gli altri tralci, e neanche Gesù, ma il Padre, prende e lo toglie, perché è un tralcio che è inutile.
“Ma ogni tralcio che porta frutto”, cioè il tralcio che succhiando questa linfa vitale, quindi nell’Eucaristia il tralcio che ricevendo Gesù come pane si fa poi pane per gli altri, porta frutto.  Dispiace vedere che ancora i traduttori rendono il termine con ‘potare’  che non è quello adoperato dall’evangelista. Il verbo adoperato da Giovanni è ‘purificare’, non ‘potare’. Sono due cose completamente diverse. Cosa significa purificare? Il Padre che ha a cuore che il tralcio porti più frutto sa individuare quegli elementi nocivi, quelle impurità, quei difetti che ci sono nel tralcio e lui provvede a eliminarli. Questo è importante, l’azione è del Padre; non deve essere il tralcio a centrarsi su sé stesso, ad individuare i propri difetti e cercare di eliminarli, perché centrandosi su sé stesso farà un danno irreversibile.
L’uomo si realizza non quando pensa a se stesso, alla propria perfezione spirituale, che può essere tanto illusoria e lontana quanto è grande la propria ambizione; l’uomo deve centrarsi sul dono totale di sé, che è immediato. Allora, in ognuno di noi ci sono dei limiti, ci sono dei difetti, ci sono delle brutte tendenze. Ebbene noi non ci dobbiamo preoccupare. Sarà il Padre che, se vede che questi limiti, questi difetti, queste tendenze sono di impedimento al portare più frutto, lui penserà ad eliminarli, non noi. Perché facendolo noi possiamo andare a toccare quelli che sono i fili portanti della nostra struttura e fare dei danni tremendi.
Allora “Il Padre lo purifica”. Questo da piena serenità; l’unica preoccupazione del tralcio è portare frutto, tutti gli impedimenti a frutti abbondanti ci penserà il Padre, non gli altri tralci, neanche la vite, ma il Padre. Perché? “Perché porti più frutto”.
E dichiara Gesù “Voi siete già puri”, ecco vedete,  quando i traduttori traducono il verbo con ‘potare’ anziché ‘purificare’, non rendono questo gioco di parole che l’evangelista fa tra il verbo ‘purificare’ e l’aggettivo ‘puri’. Quindi prima Gesù ha detto “Lo purifica”, e poi dice “voi siete già puri”. Perché? “A causa della parola che vi ho annunziato”. La parola di Gesù è un amore che si fa servizio. Ciò che purifica l’uomo non è il fatto che gli lava i piedi, ma la disponibilità poi di lavare a sua volta i piedi agli altri. Quindi questa parola, il messaggio di Gesù, un amore che si fa servizio, rende pura la persona.  
Secondo la concezione dell’epoca Dio era nella sfera della santità, della purezza e soltanto chi era puro poteva entrarci pienamente in contatto. Ebbene, l’amore che si traduce in servizio è la garanzia di essere in pieno contatto con il Signore. E Gesù ripete e dice “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.” Quindi Gesù torna di nuovo a insistere che questo amore da lui ricevuto si deve trasformare in amore comunicato, altrimenti si è inutili.
Ritorna Gesù a rivendicare il suo titolo, la condizione divina: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui”, in questo processo dinamico di fusione di Dio – Dio chiede soltanto di essere accolto nella vita del credente, per dilatarne l’esistenza –  “porta molto frutto”. Si da la vita agli altri, più si da e più si riceve. Si ha soltanto quello che si è donato, più il dono della vita agli altri è grande, è illimitato, più la risposta di Dio sarà illimitata.
Poi Gesù avverte: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca”. Questa espressione che abbiamo tradotto con ‘secca’, letteralmente ‘inaridisce’, l’evangelista la prende dal Profeta Ezechiele, quando vede la situazione del popolo, come una vallata piena di ossa secche, nel capitolo 37, indicando il popolo senza Spirito. Ebbene, chi non rimane in Gesù, chi ricevendo questo amore non lo comunica agli altri, si inaridisce, perché, ripeto, si possiede soltanto quello che si dona agli altri. E poi, ecco la garanzia di Gesù, che purtroppo noi nel linguaggio popolare abbiamo un po’ ridimensionato. Tutti quanti conosciamo l’espressione “Chiedete quello che volete e vi sarà dato”, però dimentichiamo le due condizioni che Gesù pone:
– se rimanete in me, quindi se c’è questo amore da lui ricevuto che si trasforma in amore comunicato agli altri  – se le mie parole rimangono in voi, quindi rimangono come indirizzo dell’orientamento della vita, dell’esistenza un amore che si fa servizio per gli altri
A questo punto, solo a questo punto, preceduto da queste due condizioni, Gesù dice “Chiedete quello che volete e vi sarà dato”. Quindi, quando si vive in sintonia con il Signore, quando la vita dell’uomo si fonde con quella di Dio fino a diventare una sola cosa, l’unico che si chiederà sarà il dono dello Spirito, una capacità ancora più grande d’amare. Perché al resto il Padre ci pensa. Il Padre non risponde ai bisogni e alle necessità dei suoi figli, ma li precede. Questo dà tanta sicurezza.
Ed ecco il finale: “In questo è glorificato il Padre mio”. C’era l’immagine che Dio dovesse essere glorificato attraverso opere straordinarie, magnificenze gloriose, no, l’unica maniera per manifestare la gloria di Dio, la rivelazione del suo amore, è un amore che gli assomiglia, “Che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.
L’unica maniera per dar gloria a Dio è manifestare nella nostra vita un perdono, una misericordia, una condivisione che in qualche maniera gli assomiglino.
 

 




il commento al vangelo della domenica

 

CRISTO PATIRA’ E RISORGERA’ DAI MORTI IL TERZO GIORNO 

commento al vangelo della terza domenica di pasqua (19 aprile 2015) di P. Alberto Maggi

maggi

 

Lc 24, 35-48

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi:
sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Se nessun evangelista ci descrive il momento della risurrezione di Gesù, tutti in modi diversi ci danno indicazioni su come le comunità di tutti i tempi possono fare l’esperienza del risuscitato. Il brano che oggi esaminiamo è al capitolo 24 di Luca, dal versetto 35.
E’ la conclusione dell’episodio conosciuto come quello dei discepoli di Emmaus. In questo brano possiamo distinguere  cinque momenti importanti che sono indicazioni preziose per le comunità dei credenti di tutti i tempi. La prima è che Gesù viene riconosciuto nel momento dello spezzare del pane. E’ un’allusione all’Eucaristia dove Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, alimento di vita, perché quanti lo accolgono e poi sono capaci a loro volta di farsi pane, cioè alimento di vita, spezzando la loro vita per gli altri, diventino figli dello stesso Dio.
In questa dinamica di amore ricevuto e amore comunicato si fa l’esperienza del Cristo risuscitato. Quindi la prima indicazione: Cristo si riconosce nello spezzare del pane.
La seconda è che quando Gesù si manifesta, e questa è una caratteristica di tutti gli evangelisti, si pone sempre in mezzo. Gesù non si mette né in alto, né davanti, il che avrebbe creato una gerarchia tra chi gli è più vicino. Gesù si mette in mezzo e tutti i discepoli sono attorno. C’è una uguaglianza di relazione con lui. Gesù in mezzo non attrae verso se, non assorbe le energie dei suoi, ma comunica loro le sue e li spinge per quello che è un mandato.
E quando Gesù si manifesta, non augura la pace, non dice “la pace sia con voi”, ma dona la pace, che rappresenta quello che concorre alla pienezza della felicità degli uomini. Nel brano in questione i discepoli sono sconcertati perché per loro Gesù è morto e non sanno spiegare come se lo ritrovano vivo, allora Gesù vuol far comprendere loro che non è uno spirito, ma una persona che ha la condizione divina.
La condizione divina non annulla la fisicità della persona, ma la dilata e la trasfigura. E’ in questo senso che poi San Paolo nella prima lettera ai Corinti dirà: “Si passa da un corpo animale a un corpo spirituale”. E per questo l’immagine che l’evangelista ci dà di Gesù, che prende il pesce arrostito e lo mangia.
Per comprendere quello che sta accadendo l’evangelista poi mette quest’espressione strana: Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi”. Come sarebbe “quando ero ancora con voi?” C’è in questo momento, ma adesso lo è in una maniera differente, quindi la possibilità dell’esperienza del Cristo risuscitato è per il credenti di tutti i tempi in una maniera naturalmente differente.
Poi Gesù apre la mente alle scritture. Come fa Gesù ad aprire la mente alle scritture? Lo ha fatto già con i discepoli di Emmaus interpretandole. Le scritture vanno lette con lo stesso spirito con cui sono state scritte, cioè l’amore di Dio per l’uomo. Allora per comprendere le scritture bisogna mettere come valore assoluto nella propria esistenza l’amore assoluto di Dio per l’umanità.
Questo fa comprendere la scrittura. Ecco perché l’evangelista dice: Allora aprì la loro mente per comprendere le scritture.
E infine come abbiamo detto Gesù non assorbe i discepoli per sé, non li attrae, ma comunica la sua forza e li spinge fuori. Ed ecco il mandato finale. Inviare tutti i popoli, si intendono i popoli pagani, a predicare la conversione, il cambiamento di vita. La conversione nei vangeli significa un cambio di vita radicale nel proprio comportamento, nella scala dei valori, di non vivere più per sé, per i propri bisogni, ma per il bene e i bisogni degli altri.
Questo atteggiamento di radicale rottura con il proprio passato e orientamento della propria vita al bene degli altri ottiene il perdono dei peccati. Dice Gesù: “la conversione per il perdono dei”, cioè la cancellazione de peccati,  non come è stato tradotto “la conversione e il perdono dei peccati”.
Gesù con una nota polemica aggiunge: “Cominciando da Gerusalemme”. L’evangelista adopera il termine sacrale Ierusalem, che indicava l’istituzione religiosa. Ebbene per Gesù l’istituzione religiosa, Gerusalemme, la equipara ai popoli pagani. Anch’essa ha bisogno di conversione per ottenere il perdono dei peccati

 




il commento al vangelo della domenica

 

 

“OTTO GIORNI DOPO VENNE GESU’ “

commento al vangelo della seconda domenica di pasqua (12 aprile 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

Gv 20, 19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il
Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Le prime parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la stessa fine del loro maestro – il mandato di cattura era per tutto il gruppo di Gesù – sono: “Pace a voi”. Non sono un augurio, un invito, Gesù non dice: “La pace sia con voi”, ma sono un dono, Gesù dona loro la pace.
Nel termine “pace” viene racchiuso tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell’uomo, in una parola alla “felicità”, quindi Gesù si presenta con il dono di una pienezza di felicità. E poi mostra loro subito il perché devono essere felici, infatti mostra le mani e il fianco, cioè mostra la permanenza dei segni dell’amore, con il quale Gesù ha dato la vita per i suoi discepoli.
Infatti al momento dell’arresto Gesù aveva detto alle guardie “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. E’ il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Poi Gesù torna di nuovo a ripetere questo dono della pace, ma questa volta è perché la comunichino all’umanità. Infatti, dopo aver ripetuto “Pace a voi”, Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me…”, il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore sino alla fine, “… così anch’io mando voi”.
Gesù invita i suoi discepoli a prolungare nel tempo l’offerta di vita di Gesù. E per questo comunica loro la sua stessa capacità d’amare, cioè comunica lo Spirito Santo. L’attività di Gesù, che in questo vangelo è stata descritta come quella dell’agnello che toglie il peccato del mondo, e toglie il peccato del mondo effondendo sulle persone lo Spirito Santo, viene prolungata dalla sua comunità.
Deve proporre e offrire ad ogni persona una pienezza di vita, una pienezza d’amore. E poi Gesù continua dicendo: “Coloro ai quali cancellerete i peccati saranno cancellati, a coloro ai quali non cancellerete, non saranno cancellati”, questo è il verbo adoperato dall’evangelista. Cosa vuol dire Gesù? Non dà un potere per alcuni, ma una capacità, una responsabilità per tutti.
La comunità deve essere come la luce che splende nelle tenebre. Quanti vivendo nelle tenebre se ne sentono attratti ed entrano a far parte del raggio d’azione di questo amore, hanno il passato completamente cancellato. Quanti invece, pur vedendo brillare questa luce, si ritraggono ancora di più nelle tenebre – Gesù l’aveva detto: “Chi fa il  male odia la luce” – rimangono sotto la cappa dei loro peccati, sotto la cappa delle tenebre di morte.
A questo incontro di Gesù con i suoi discepoli non c’era Tommaso. Come mai Tommaso era assente? I discepoli erano nascosti per paura di fare la stessa fine di Gesù. Tommaso non ha paura; Tommaso è colui che al momento della risurrezione di Lazzaro aveva detto: “andiamo anche noi a morire con lui”. Ecco perché Tommaso è chiamato “il gemello”, quello che più assomiglia a Gesù. Tommaso non è presente e quando gli dicono che Gesù è apparso, lui non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere.
E lo fa con quell’espressione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi … “, è l’equivalente dell’italiano, quando di fronte ad una notizia, noi diciamo “Non ci posso credere! Non è possibile!”
Non stiamo negando il fatto, significa che è troppo bello. Otto giorni dopo, il ritmo è quello della celebrazione eucaristica. E’ nell’eucaristia che Gesù si fa presente e comunica il suo amore. Gesù si manifesta a Tommaso che si guarda bene dal mettere il dito nelle piaghe di Gesù, ma prorompe nella più alta professione di fede di tutti i vangeli.
Gesù era stato descritto dall’inizio del vangelo, come il Dio che nessuno aveva mai visto e che in lui si era manifestato. Tommaso lo comprende, si rivolge a Gesù chiamandolo “Mio Signore e mio Dio”. Il brano si conclude con una beatitudine. I credenti di tutti i tempi non sono svantaggiati nei confronti di coloro che hanno fatto quest’esperienza, ma addirittura avvantaggiati, perché hanno la beatitudine che non è stata detta per i discepoli, “Quanti crederanno senza aver bisogno di vedere”, Gesù li proclama “beati”. Quanti chiedono un segno da vedere per poter credere, Gesù li invita a credere per essere loro segno  che gli altri possono vedere. Questa è la buona notizia di Gesù che la comunità dei discepoli è chiamata a portare.




il commento al vangelo della domenica

 

 

DOMENICA DELLE PALME

commento al vangelo della ‘benedizione delle palme’ (domenica 29 marzo 2015) di P. Alberto Maggi:

p. Maggi

Mc 11,1-11

Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù.
E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!».

La Domenica delle Palme fa sorgere spontaneo l’interrogativo: come è stato possibile che la folla che ha accolto osannante Gesù al suo ingresso a Gerusalemme  sia la stessa che poi griderà “Crocifiggi”?
Il perché ce lo dice Marco nei primi undici versetti del capitolo 11 del suo vangelo, che riguardano l’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Gesù e i suoi discepoli sono vicini a Gerusalemme verso il monte degli Ulivi, e Gesù mandò due dei suoi discepoli nel villaggio di fronte. Il termine “villaggio” è un termine tecnico che nei vangeli indica sempre incomprensione o opposizione alla novità portata da Gesù.
Perché il villaggio è il luogo della tradizione. E’ il luogo attaccato ai valori tradizionali del passato. E quindi quando appare nei vangeli il termine “villaggio” è una chiave di lettura che l’evangelista ci da per farci comprendere la sua narrazione e indica sempre incomprensione o opposizione a quello che Gesù farà, come vedremo in questo brano.
“«Entrando in esso troverete un …»”-  non è puledro, ma asinello, ed è importante l’esatta traduzione di questo termine – “«… legato»”. Il riferimento dell’evangelista è al profeta Zaccaria, al capitolo 9, versetto 9, una profezia nella quale il profeta indicava “ecco a te viene il tuo Re”, a Gerusalemme, “egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. E’ l’immagine di un messia diverso da quello atteso dalla tradizione.  
Dobbiamo tenere presente che la cavalcatura regale era la mula. L’asino era la cavalcatura dei servi. Quindi un messia, un re, completamente diverso da quello atteso. Ebbene questo messia, dice Zaccaria, “è quello che farà sparire il carro da guerra e annuncerà la pace alle nazioni”. Quindi non un messia di violenza, un messia di potere, un messia di forza, ma un messia di pace. Questa profezia era stata come ignorata e censurata. Nella selezione dei testi rabbini e scribi avevano scelto soltanto quei brani che indicavano un potere, una forza, un dominio, una supremazia di Israele sopra tutte le altre nazioni.
Ebbene Gesù dice “«Slegatelo e portatelo qui»”, cioè slegate questa profezia. I discepoli devono constatare che la figura di messia proposta da Gesù corrisponde ai dati della scrittura. “«E se qualcuno vi dirà: ‘Perché fate questo?’, rispondete …»”, non è “il Signore ne ha bisogno, ma “«…il suo padrone ne ha bisogno»”. L’asinello appartiene a Gesù perché sarà lui che realizzerà questa profezia. Lo slegano e lo portano a Gesù. Portarono l’asinello a Gesù, “vi gettarono sopra i loro mantelli”, quindi i discepoli danno adesione a Gesù come re e messia di pace, di servizio.
“Ed egli vi …”, non è salì sopra, ma vi sedette sopra. Gesù vi si installa. Come poi lui sarà presentato seduto alla destra di Dio, qui seduto sopra questo asinello, significa che questa profezia di un messia di pace, di un messia di servizio, gli è propria. “Molti stendevano i propri mantelli sulla strada”. Altri invece fanno il gesto che era tipico di sottomissione al re (stendere le fronde dei campi). Quindi c’è un’incomprensione sul gesto di Gesù.
E infatti, scrive l’evangelista, che Gesù si trova in mezzo a due fuochi. Lui che era stato presentato al capitolo 10, versetto 32, all’inizio di questo cammino verso Gerusalemme, come colui che precedeva i suoi discepoli, adesso non è più Gesù ad indicare il cammino. L’evangelista scrive “Quelli che precedevano”, sono altri che indicano il cammino, che vogliono che Gesù realizzi i loro desideri. “Quelli che lo seguivano, gridavano”.
Il verbo gridare è stato adoperato dall’evangelista sia per gli spiriti impuri che per il cieco di Gerico che hanno quest’immagine del messia della tradizione, del messia figlio di Davide. Infatti cos’è che gridano? “«Osanna!»”, espressione ebraica che significa “dai, salvaci” e il salmo 118 che veniva cantato per celebrare i generali vittoriosi, “osanna, salvaci”.
“«Benedetto il regno che viene»”, ecco l’equivoco. Questo regno non è in alcun modo il regno di Dio proposto da Gesù, ma l’evangelista scrive “«del nostro padre Davide»”.  Mentre Gesù ha parlato del vostro padre del cielo, loro attendono il regno del “nostro padre Davide”. Cosa significa il regno di Davide? Il regno di un dominatore che cambia tutto con la forza e che schiaccia ogni resistenza. Quindi un regno che si impone con la forza, con la violenza.
Gesù invece è venuto ad annunziare il regno di Dio. Un regno che, per la sua realizzazione, esige il cambiamento interiore e profondo dell’intimo delle persone. Un cambio di valori: non vivere più per sé, ma per gli altri. Quindi il regno di Dio esige la conversione, l’altro esige la forza. Ecco perché poi continuano chiedendo: “«Osanna»”, cioè salvaci, “«nel più alto dei cieli!»” Cioè chiedono l’appoggio di Dio per realizzare questo progetto.
Appena la folla si accorgerà che Gesù non è il messia di forza, il messia di potere, che lui non è venuto a restaurare il defunto regno del re Davide, ma ad inaugurare il regno di Dio, questo messia sarà inutile.
Ecco perché la stessa folla che lo ha acclamato con “Osanna”, sarà quella che poi griderà “Crocifiggi!”

 

 




il commento al vangelo

 
 SE IL CHICCO DI GRANO CADUTO IN TERRA MUORE, PRODUCE MOLTO FRUTTO

commento al Vangelo della quinta domenica di quaresima (22 marzo 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 12,20-33

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

L’evangelista, nel brano del capitolo 12, versetti 20-33, presenta il primo e unico contatto di Gesù con degli stranieri. Sono dei greci che sono saliti a Gerusalemme per andare al tempio per la festa della Pasqua, ma incontrano Gesù. Gesù è il vero santuario nel quale si irradia l’amore divino.
E il brano è la risposta all’allarme scatenatosi tra i Farisei che si sono chiesti tra loro: “Vedete che non concludete nulla? Ecco il mondo gli è andato dietro”. Ed ecco la risposta: è il mondo che va dietro a Gesù.
L’evangelista scrive che “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano alcuni greci”, greci è un termine con il quale si indica genericamente i pagani. E qui c’è tutta una strana trafila. “Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea”, perché fanno per avvicinarsi a Gesù, che era ebreo, una garanzia di apertura, e vanno da un discepolo che ha un nome greco, che significa una 
mentalità aperta, e che era di un luogo di confine dove quindi i costumi erano meno rigidi che nell’istituzione religiosa giudaica. “E gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù»”.
Questa è la risposta a quello che disse Gesù, “chi vede il figlio e crede in lui abbia la vita eterna”, che non è soltanto un vedere, ma è vedere per conoscere e poi credere. Ebbene Filippo non va direttamente da Gesù, ma va da Andrea, l’altro dei discepoli che ha un nome greco. Questo fa capire le difficoltà della primitiva comunità di aprirsi all’universalismo proposto da Gesù.
E infine “Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù”. La risposta di Gesù sembra fuori luogo, sembra che non c’entri niente con questa richiesta. Infatti “Gesù rispose loro: «E’ venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato»”. Perché Gesù dà questa risposta al desiderio dei greci di vederlo? Perché Gesù sta parlando della sua morte, e sulla croce si manifesterà la condizione divina di Gesù. E quindi Gesù dice che quando lui sarà morto il suo amore sarà compreso universalmente.
Perché? Mentre una dottrina dipende dal contesto culturale, dalle sue formulazioni storiche, l’amore è il linguaggio universale che tutti possono comprendere. E l’amore di Dio manifestatosi in Gesù sulla croce sarà l’unico linguaggio che tutta l’umanità può comprendere. Quindi la risposta di Gesù, anche se apparentemente fuori luogo, invece è in tono.
Verrà il momento in cui tutti quanti comprenderanno il linguaggio universale, che è quello dell’amore. E qui Gesù, parlando della sua morte, ma anche della morte di ogni persona, manifesta un’importante verità. “«In verità, in verità»”, la doppia affermazione “in verità”, significa che  Gesù sta dicendo qualcosa di sicuro, qualcosa di molto vero, “«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo»”.
Il chicco di grano ha dentro di sé delle energie che hanno bisogno di trovare l’ambiente ideale per liberarsi e sprigionarsi. Se rimane solo tutto questo non ha effetto. L’evangelista qui fa comprendere che in ogni persona ci sono delle capacità e delle potenzialità che gli sono sconosciute e che si liberano soltanto attraverso di sé. E Gesù aggiunge, “«Se invece muore, produce molto frutto»”.
Gesù getta una luce molto positiva sul fatto della morte. In ogni persona c’è un’energia vitale che attende di manifestarsi in una forma nuova e la morte è il momento che permette tutto questo. Quindi la morte non imprigiona l’uomo, ma lo libera. La morte non diminuisce l’individuo, ma lo potenzia. La morte non confina l’esistenza della persona, ma la dilata.
In ogni persona ci sono delle potenzialità che soltanto nel momento della morte si possono liberare e fiorire. Quindi Gesù toglie dal fatto della morte qualunque elemento negativo, di distruzione, per parlarne invece come di fioritura di vita, per la vita delle persone.
E Gesù dà questo importante criterio su questo fatto del chicco che deve farsi dono per potersi sviluppare. “«Chi ama la propria vita la perde e chi odia …»”, era tipico della mentalità ebraica parlare di amore e odio nel senso comune di “preferire” che noi usiamo abitualmente. Quindi non si tratta di odiare qualcosa, ma di preferire o meno. Allora Gesù sta dicendo “chi ama la propria vita”, cioè chi pensa soltanto a sé stesso – questo è il significato – si perde. La persona si realizza nella misura in cui ha  la capacità di donarsi agli altri. Dare non è perdere, ma è guadagnare. La vita si possiede nlla misura in cui si dà.
Allora chi pensa soltanto per sé finisce col perdersi; chi invece non pensa solo a sé stesso, questo si realizza per sempre. Qui Gesù torna di nuovo sul tema che a lui è caro, la vita eterna, non considerata come un premio al futuro, ma come una possibilità nel presente.
E Gesù continua: “«Se uno mi vuole servire»”, il verbo “servire”, indica una scelta libera di collaborazione con Gesù, “«mi segua e dove sono io…»”, Gesù finirà sul patibolo riservato ai maledetti dalla società, ai rifiutati dalla società, “«là sarà anche il mio servitore»”. Non si può servire Gesù stando a distanza di sicurezza. Se si segue Gesù bisogna essere capaci anche di affrontare le inevitabili sofferenze e persecuzioni che vivere come lui ha comportato.
Ma, conclude Gesù, “«Se uno serve me, il Padre lo onorerà»”, quindi alla croce, che è il massimo disonore, corrisponde il massimo onore, quello del Padre. E come onora il Padre l’individuo? Manifestandosi in lui. Più l’uomo si dona, più la presenza del Padre si manifesta in lui. Ed ecco che ogni individuo, non solo Gesù, diventa l’unico verso santuario dal quale si irradia e si manifesta l’amore di Dio per l’umanità.