l vangelo del primo dell’anno

 

 

 

I PASTORI TROVARONO MARIA E GIUSEPPE E IL BAMBINO.
DOPO OTTO GIORNI GLI FU MESSO NOME GESU’

 commento al Vangelo del 1 gennaio 2015 (solennità di ‘Maria madre di Dio’) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

Lc 2,16-21
[In quel tempo, i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino,  adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua,  custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto,  com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù,  come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

1. Il “mistero” di questa festività è più profondo di tutto quanto sicuramente possiamo immaginare noi mortali. Se Maria è la madre di Dio, la prima cosa  che logicamente ci dice la Chiesa, all’inizio del nuovo anno, è che Dio ha una madre. E l’ha perché Dio si dà a conoscere a noi e si rende presente in  Gesù. Il motivo di fondo di questa festività risiede nel fatto della “trascendenza di Dio”. Se Dio è il Trascendente, noi umani non possiamo “conoscere”  Dio. Lo possiamo “rappresentare”, ma questa non smetterebbe di essere una mera “rappresentazione” umana. Nella tradizione cristiana ci viene detto che  Dio si è rivelato a noi, si è dato a conoscere a noi in Gesù, la cui madre è stata Maria.
2. La prima cosa che impariamo quest’anno è che Dio non vuole ceti, categorie, piedistalli di gloria che separano, distinguono, dividono, allontanano e  creano persino scontri. Dio è il primo che dà l’esempio di quest’abbassamento e ci dice che il cammino per essere come Lui vuole non è divinizzarsi, ma  umanizzarsi. Perché in questo modo, mediante l’umanizzazione, si è realizzato l’incontro di Dio con gli esseri umani. Nell’essere umano che è stato Gesù  conosciamo Dio e ci mettiamo in relazione con Lui.
3. Dio in Gesù ha avuto una madre. Una semplice ed umile donna di quel villaggio che era Nazareth quando Gesù è venuto a questo mondo. Maria ha educato  Gesù come tutte le mamme educano i loro figli. Maria ha forgiato la sensibilità di Gesù, la sua bontà, la sua fermezza ed anche la sua libertà. Se Gesù  è stato così ammirevole al punto che, comunque sia, ci ha rivelato Dio, quale donna e quale madre ammirevole è stata Maria per essere stata capace di educare
in questo modo Gesù!




il vangelo della domenica

IL BAMBINO CRESCEVA, PIENO DI SAPIENZA

 commento al Vangelo della domenica dopo natale (SACRA FAMIGLIA – 28 dicembre 2014) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

 

 

 

Lc 2, 22-40

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè,  portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del   Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia   di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era
un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo   Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la   morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e,   mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo
riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a   Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come   segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i  pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser.
Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi   rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo   Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a   lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla   loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era  su di lui.

1. Questo racconto vuole, prima di tutto, evidenziare la fedeltà dei genitori di Gesù alle osservanze che imponeva la religione di Israele. In una famiglia
così fu educato Gesù. È una cosa che impressiona, se pensiamo alla grande libertà poi avuta da Gesù di fronte a non poche osservanze di quella religione.

2. D’altra parte, in questo testo si parla di “purificazione”. Secondo la Legge di Mosé (Lv 12, 2-8), il parto e la mestruazione rendevano impure le donne.
E, secondo Es 13, 1-2, i maschi primogeniti dovevano essere consacrati al Signore. In non poche cose la religione non accetta la nostra natura e la nostra
umanità così com’è e stabilisce norme e riti per “purificare” quello che secondo le nostre convinzioni Dio ha fatto. Spesso le norme ed i rituali religiosi
pretendono di imporsi alla natura ed all’umanità, in maniera tale che pretendono di essere più importanti di quello che ha fatto Dio. Queste cose generano
resistenza e rifiuto della religione in non pochi ambienti. E così allontanano la gente da Dio, dalla fede, dalla Chiesa….
3. Simeone ed Anna sono persone esemplari in onestà, bontà, desideri di incontro con la salvezza e la soluzione che non diamo a questo mondo forse può
venire da coloro che cercano Dio e credono in Lui. Questo rispetto verso gli anziani, verso la loro esperienza e la loro esemplarità si dovrebbe promuovere
soprattutto in un tempo in cui gli eventi si succedono con tanta rapidità che ci sconcertano. In maniera tale che noi anziani corriamo oramai il pericolo
di non voler imparare dai giovani. Così come i giovani possono anche disinteressarsi della cultura accumulata nell’esperienza degli anziani. Tutti dobbiamo
rispettarci reciprocamente ed imparare gli uni dagli altri.

Gesù era clandestino: la vera storia di Natale

Gesù era clandestino e i suoi genitori varcarono le frontiere in modo irregolare. La vera storia del 25 dicembre e il racconto del compleanno di Gesù bambino.

Gesù era clandestino




p. Maggi commenta il vangelo del natale

 

NATALE: UN DIO DAL VOLTO UMANO  

          Solo un dio pazzo poteva pensare di diventare un uomo

p. Maggi

 

 

 

 

 

 

Ma chi glielo faceva fare al Signore di lasciare i privilegi della condizione divina per assumere le debolezze della condizione umana?

Da sempre gli uomini hanno cercato di diventare dèi, di innalzarsi sugli altri uomini, di considerarsi delle star al di sopra di tutti. Non si era mai sentito parlare di un dio che diventava uomo e lo rimaneva, abbassandosi al livello di ogni altra creatura. Il Signore l’ha fatto, per amore, per amore della sua creazione, l’umanità. Con la nascita di Gesù, Dio non è più lo stesso e l’uomo neanche. È cambiato completamente il rapporto tra Dio e gli uomini e tra questi e il loro Signore. Gli uomini avevano collocato la divinità nel più alto dei cieli, e pensavano di doverla raggiungere separandosi dalle altre creature attraverso particolari stili di vita, preghiere, sacrifici. Più l’uomo era religioso e più si separava da quanti non condividevano il suo stile di vita: le sue preghiere e le sue virtù lo allontanavano dalla gente comune, le sue devozioni lo separavano dal mondo. Ma più l’uomo religioso si separava dagli altri per incontrare Dio e più questi pareva allontanarsi, diventare irraggiungibile. Con Gesù si è capito perché. Con Gesù Dio non è più da cercare, ma da accogliere. Non bisogna salire per incontrare il Signore, ma scendere, perché in Gesù Dio si è fatto uomo, profondamente umano e si è messo a servizio degli uomini. Il dramma della persona religiosa era che più saliva e si separava dai suoi simili, e meno incontrava un Dio che invece scendeva e si poneva a livello degli uomini. L’uno saliva, l’altro scendeva, e non c’era possibilità alcuna di incontro o di contatto. Non solo: più la persona diventava religiosa, più si sentiva assorbita dalle cose divine, e più perdeva la sua umanità. Desiderava diventare spirituale come un angelo e non si accorgeva di essere soltanto disumana. Tutta presa a onorare Dio, la persona religiosa non si rendeva conto di disonorare il fratello che chiedeva attenzione. Si sentiva assorbita dal Signore, ma si allontanava dai fratelli. Tanta religione, tanta devozione, tante preghiere e sacrifici, non avevano prodotto che una persona atea. Che una persona sia religiosa o meno non si vede da quel che crede, ma da come ama, non da quanto prega, ma da quanto presta ascolto ai bisogni degli altri, non dai sacrifici, ma dal sapersi sacrificare per il bene dell’altro. Con Gesù, il Dio diventato uomo, l’uomo non deve salire per incontrare il Signore, ma scendere, e, come lui mettersi a servizio degli altri. In Gesù Dio si è rivelato profondamente umano, attento e sensibile alle sofferenze degli uomini e alle loro necessità. Più si è umani e più scopre il divino che è in noi. È questa la meravigliosa sorpresa del Natale del Signore: un Dio che non assorbe le energie degli uomini ma gli comunica le sue, un Dio che non chiede di vivere per lui, ma di lui, e, con lui e come lui, irradiare amore, tenerezza e compassione per ogni creatura. Auguri!

natale 2014

https://www.youtube.com/watch?v=gzpMZ-X8tXs&feature=share

 

 




la nascita di Gesù bambino ‘in una grotta’: un commento appropriato

presepe innevato

 

 

 

A Natale hanno cacciato fuori Dio. Ma non è detto che a Lui dispiaccia.

un bel commento di don Cristiano Mauri:

don cristiano mauri

La grotta – o capanna che sia – ha il suo fascino, ammettiamolo. «E vieni in una grotta al freddo e al gelo»: ci piace, suona bene, ha persino il vago sapore romantico della semplicità, del “poveri ma belli” e della felicità per le piccole cose, in barba al disagio. Che tenerezza il bimbo nella mangiatoia, vero? D’altronde il Natale si nutre di buoni sentimenti e il quadretto della grotta di Betlemme ne è un serbatoio inesauribile.

Il fatto è che Gesù non nacque in una grotta. Gesù nacque fuori. Il che, di romantico e poetico ha ben poco. Ma i Vangeli non si preoccupano di far poesia e vanno al nocciolo, dichiarando con semplicità che per Lui non ci fu posto dentro la «stanza principale» di quella casa e perciò rimase fuori. Vero: la mangiatoia ci suggerisce che trovò posto nella stalla adiacente la sala principale, ma il concetto resta: rispetto al cuore pulsante della casa Gesù nacque fuori.

Non distante, per la verità, anzi vicino, vicinissimo. Però ai margini. Dell’ospitalità, della vita sociale, del mondo di relazioni familiari e non che riempiva la casa quella notte Gesù si sedette ai bordi, praticamente in uno sgabuzzino, discosto e come un po’ in disparte, senza prendere le distanze ma senza invadere il campo.

Una beffa, oltretutto. Perché non pareva esserci posto migliore: era la casa di Giuseppe, anzitutto, con tutte le garanzie che i legami di parentela possono offrire; e poi terra di Efrata, che significa terra feconda e ricca di frutti; infine a Betlemme che coi suoi molteplici significati (“casa del pane” in ebraico, “casa della carne” in arabo, “casa del dio della fertilità” nella radice etimologica più antica) suggeriva l’abbondanza come cornice sicura di quella nascita. D’altronde, da che mondo è mondo, la ricchezza è segno della benevolenza di Dio e di una sua speciale benedizione. Invece no, fuori. Non solo dai palazzi dei re, ma anche dal contesto sociale e familiare più normale e ordinario. Fuori dalla stanza apparecchiata, fuori dai riti di accoglienza, fuori dall’abbondanza di umanità: Gesù sta all’esterno. Là dove si portano i rifiuti, dove stanno i poveri, dove vivono i miserabili, dove c’è la solitudine e l’abbandono, la precarietà e la paura del futuro, dove si cerca di confinare il nemico e ogni presenza sgradita. Dentro stanno i ricchi, le cose preziose, i tesori da esibire o nascondere a seconda delle circostanze, dentro stanno gli amici e gli ospiti di riguardo, dentro c’è l’accoglienza, la fraternità, la sicurezza e la serenità.

Ma lì non ci va per “stare con i poveri”. Ci nasce. Gesù,  fuori – e non dentro – ci nasce, come ogni povero. Non si mette, cioè, semplicemente a loro fianco, bensì diviene uno di loro, povero a sua volta. Perché solo un povero può amare davvero i poveri, mentre da ricchi si finisce – anche involontariamente – con l’esercitare sempre un potere da un gradino superiore, quello della ricchezza che può fare beneficenza. Non poteva osare che in questo modo l’impresa di salvare l’uomo, ogni uomo: che ce ne saremmo fatti, del resto, di un Dio giustapposto? Come poter considerare Salvezza l’amore di Uno che semplicemente si siede accanto? Doveva prendere la carne, la mia, la nostra stessa carne per abitarne anzitutto i margini e le periferie, al di là di quella «stanza principale» che sono i tratti più nobili e presentabili di noi, quelli in cui volentieri si ospita il prossimo. In quel nascere fuori il Figlio di Dio doveva raggiungere le zone più oscure della nostra umanità, quelle di cui ci libereremmo volentieri mettendole alla porta, per il ribrezzo che abbiamo anche solo a considerarle. Così avviene: ai margini dell’abbondanza di Betlemme ogni fibra della nostra povertà umana viene abitata da Dio, il Dio che è povero fino alla fine perché nessuna nostra miseria sia mai una lontananza definitiva da Lui, il Dio che sta fuori perché è l’unico luogo in cui c’è così tanto posto da non escludere nessuno.

In quello spazio aperto, ai bordi di atmosfere casalinghe e familiari, il bambino nella mangiatoia fonda la Sacra Famiglia. Maria e Giuseppe, certo, ma soprattutto i pastori, coloro che – come gli sposi di Nazareth – hanno cercato il Figlio obbedendo alla voce del Padre. Non sono quelli della sala adiacente che già «avevano la loro ricompensa» di quel dentro ad essere chiamati dagli angeli, ma coloro che stavano fuori, ed erano abituati a starci, periferie umane, bassifondi della società. Giungono la solitudine, la fame, l’emarginazione, la pessima reputazione a fargli visita. Arrivano quelli “sbagliati”, quelli che non è bene fare entrare, dei quali è opportuno diffidare e che, se proprio devono star dentro, che almeno si diano una ripulita. Ma anche quelli a cui nessuno pensa, quelli tagliati fuori, di cui nessuno si ricorda, quelli della cui disponibilità ci si approfitta perché «non hanno una famiglia a cui badare», che non appartengono a nessuna categoria e dunque non possono accampar diritti. Attorno al Dio povero si raduna una comunità in virtù di una Parola udita, accolta, praticata. È la famiglia del Vangelo, la vera Sacra Famiglia, quella in cui si entra solo da poveri, spogli e liberi di ogni ricchezza e privilegio, persino quella dei legami di sangue. Quella Famiglia, fondata sull’obbedienza alla volontà di Dio e sulla Sua giustizia, sarà descritta da Gesù nel Suo ministero pubblico come il canale in cui scorrono la Misericordia, la Compassione, la Carità di Dio al di sopra di ogni cosa. È il dono del Dio povero ai poveri che hanno il coraggio di restare fuori, smettendo di invidiare chi sta dentro e di considerare la ricchezza come propria salvezza. È lo spazio – l’unico e il solo – in cui le miserie, mediocrità, solitudini, paure e insicurezze possono realmente essere deposte, curate, guarite senza vergogne e umiliazioni in relazioni che sono Salvezza.

Questi che osano rimanere poveri insieme al Povero saranno forse quelli capaci di costruire la Chiesa povera; certo non lo saranno coloro che da ricchi si travestono da poveri per recitare la parte del buon cristiano.

Chi non teme di esser fuori forse costruirà una Chiesa dalla quale nessuno – realmente nessuno – sarà mai e in alcun modo allontanato; certo non potrà farlo chi è occupato a dettare a chi sta fuori le condizioni per entrare.

Colui che si spoglierà della propria abbondanza per ricevere in dono la Sacra Famiglia forse saprà edificare la Chiesa della Compassione; certo non lo farà chi si affanna senza posa nell’allestire lo spettacolo della carità cristiana.

Ti pare di non trovare Gesù a Natale?

Cerca fuori. Chissà mai…

 

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

 

 

ECCO CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

 commento al Vangelo della quarta domenica d’avvento ( 21 dicembre 2014)di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco  uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Nulla è impossibile a Dio. E’ con queste parole che si chiude l’episodio dell’annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria. Perché nulla sia impossibile a Dio si esige l’ascolto della sua parola, fidarsi di questa e poi ci vuole l’azione. L’evangelista chiude con questa assicurazione – che nulla è impossibile a Dio – l’episodio dell’annunciazione perché veramente la strada è tutta in salita. San Paolo nella prima lettera ai Corinzi dice che Dio ha scelto quello che è disprezzato, quello che è ignobile al mondo, quello che noi mai avremmo scelto per le nostre imprese. E’ quello che ha fatto Dio. Leggiamo il vangelo di Luca. Al sesto mese l’angelo Gabriele …. Gabriele in ebraico Gabri-el significa “la forza di Dio”, quindi è la forza della creazione che è capace di vincere qualunque resistenza. Fu mandato da Dio in una città della Galilea. Ecco cominciano già le difficoltà perché l’angelo di Dio non viene inviato  nella regione santa della Giudea, che aveva il nome del capostipite delle 12 tribù d’Israele, Giuda, il luogo dove risiedeva la presenza di Dio, nel tempio di Gerusalemme, ma in una regione talmente disprezzata che deve il nome al profeta Isaia che nel suo libro, al capitolo 28, versetto 23, indica questo posto come “il distretto dei Gentili”, cioè dei pagani, dei miscredenti. “Distretto” in ebraico si dice Ghelil, da cui Galilea. Quindi è la regione disprezzata, la regione delle persone che si credeva neanche sarebbero potute risuscitare, comunque esclusa dall’azione di Dio. E questa città della Galilea è chiamata Nazaret, mai nominata nell’Antico Testamento, mai nominata nella Bibbia. Un borgo selvatico abitato da trogloditi, vivevano nelle grotte, gente bellicosa. Giuseppe Flavio,  contemporaneo dei vangeli, dice che i Galilei sono bellicosi fin da piccoli. Ma c’è ancora di più … a una vergine, sposata … L’indicazione che ci dà l’evangelista facciamo difficoltà a comprenderla perché gli usi matrimoniali del tempo sono tanto lontani e diversi dai nostri. Il matrimonio avveniva in due tappe, una prima tappa chiamata sposalizio, quando la donna aveva 12 anni e il maschio 18, e dopo un anno la seconda fase del matrimonio chiamate nozze. Quindi qui abbiamo questa ragazza che era nella prima fase del matrimonio, quando ancora non era possibile che i coniugi vivessero insieme e avessero rapporti tra di loro. Questa donna è sposata. Quindi l’angelo è inviato a una donna. Dio mai aveva rivolto la parola a una donna, anche questo è tutto in salita, dice la Bibbia che dalla donna ha inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo. Sposata a un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Ecco ancora la strada in salita, tra tanti nomi che si potevano scegliere per questa ragazza che doveva dare alla luce Gesù viene scelto proprio il nome che nella Bibbia portava sfortuna. Perché? E’ il nome della sorella di Mosè, donna ambiziosa, castigata, punita severamente da Dio con la lebbra. E da quella volta il nome Maria non compare più nella Bibbia. E’ come un po’ nel nostro mondo cristiano il nome Giuda, che è un bellissimo nome e tra l’altro è il nome di uno degli apostoli (non solo il traditore di Gesù), ma siccome ricorda il tradimento nessuno mette al bambino il nome Giuda. E così non si metteva a una bambina il nome Maria perché ricordava una donna castigata da Dio. Quindi come vediamo la strada è tutta in salita. In Galilea, a Nazaret, una donna con questo nome che porta sventura; Entrando da lei, disse: “Rallegrati”, cioè gioisci, “Piena di grazia”, che non è una constatazione che l’angelo fa delle virtù di Maria, ma dice “riempita dalla grazia”. Dio non è attratto dai meriti di Maria, ma la riempie del suo amore. “Il Signore è con te”, è l’espressione con la quale Dio confermava la sua presenza a coloro che chiamava a compiere le sue azioni, come per esempio Gedeone. A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: “Non t mere, Maria, ecco hai trovato grazia presso Dio.” Quindi è Dio che la riempie del suo amore. “Concepirai un figlio”, e qui cominciano le novità che poi matureranno  lungo la vita di Gesù e il suo insegnamento. “Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”. Ma questo è inaudito, la donna non può dare il nome al bambino che nasce. E poi il nome del bambino che nasce è lo stesso del padre, qui invece è la donna che è chiamata a rompere con la tradizione, a rompere col passato, ad aprirsi al nuovo. E’ lei che deve dare il nome al bambino e non lo deve chiamare con il nome del marito, Giuseppe, come da tradizione, ma lo deve chiamare con questo nome Gesù. L’angelo dice che questo bambino “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono”, non erediterà il trono, ma è un’azione nuova. “Di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Questa è la promessa che l’angelo fa a Maria. Ebbene Maria non si scompone di fronte a questa novità e chiede soltanto le modalità. Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” appunto perché non era passata alla seconda fase del matrimonio, le nozze, quando cominciava la convivenza. Le rispose l’angelo … l’evangelista racchiude l’esistenza di Maria tra le due discese dello Spirito Santo, all’annunciazione e nel cenacolo con la Pentecoste. “Lo Spirito Santo scenderà su di te”, in Maria c’è una nuova creazione, una nuova generazione, “e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Modi di dire per far comprendere che colui che nascerà sarà il messia, l’inviato da Dio, il liberatore del popolo. Quindi su Maria scende lo Spirito Santo come al momento della creazione, quello che nasce è qualcosa di completamente nuovo. Perché l’angelo esclude in tutto questo Giuseppe? Perché il padre trasmetteva al figlio non soltanto la vita biologica, ma anche la tradizione religiosa, morale. Ebbene Gesù non seguirà i padri d’Israele, ma Gesù seguirà il padre, che è Dio. E l’angelo conferma: “Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Le parole che Dio aveva detto a Sara, anche lei anziana, con Abramo che non credeva nella possibilità di poter mettere al mondo un bambino, l’angelo le conferma a Maria, nulla è impossibile a Dio. L’azione di Dio con la sua forza creatrice non ha limiti, ma, come ricordavamo all’inizio, ha bisogno dell’ascolto da parte dell’uomo, di fidarsi di questa parola e poi la sua collaborazione. Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore”, non una serva. “Serva del Signore” era uno dei titoli che aveva il popolo di Israele, quindi Maria per l’evangelista identifica il popolo. “Avvenga di me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. Maria si fida, si fida completamente del Dio dei suoi padri, ora l’aspetta il compito più difficile: accogliere ed accettare il Dio di suo figlio, Gesù.

 

 




il vangelo della domenica

 


VEGLIATE: NON SAPETE QUANDO IL PADRONE DI CASA RITORNERA’

 

 
Mc 13,33-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
commento al Vangelo della I DOMENICA AVVENTO ( 30 novembre  2014)di p. Alberto Maggi
p. Maggi
Il capitolo 13 del vangelo di Marco è indubbiamente il più difficile e complesso di tutto il suo vangelo. Ne è cosciente lo stesso evangelista che proprio al versetto 14 scrive “che il lettore comprenda”, perché sa che sta dicendo qualcosa di molto complesso.
A complicare il quadro ci sono le scelte incomprensibili dei liturgisti che, per esempio, nel brano di oggi mutilano il versetto iniziale, quello che aiuta nella comprensione di tutto il brano. Pertanto leggiamo il capitolo 13 del vangelo di Marco, ma iniziamo dal versetto 32, che è stato omesso dai liturgisti.
Gesù, dopo aver parlato della fine di Gerusalemme e della fine di tutti i poteri che schiacciano e umiliano l’uomo, e per questo si richiede la collaborazione dei discepoli, annunzia la fine individuale di ogni suo discepolo.
E dice, “Quanto però a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio, eccetto il Padre”. L’espressione “quel giorno” finora nel vangelo di Marco appare tre volte e sempre in relazione alla morte ed esaltazione di Gesù, cioè alla vittoria di Gesù sulla morte. Questa volta invece è applicataai discepoli per far comprendere che anche la morte dei discepoli non sarà una fine, ma un inizio, non una sconfitta, ma una vittoria.
Ebbene Gesù dice “non vi preoccupate perché il Padre lo sa”. Questo sapere non è un semplice conoscere, ma un sapere per operare. Nel momento della propria fine, anche se drammatica e traumatica come quella di Gesù, ci sarà il Padre che verrà in aiuto ai suoi.
Quindi è un brano che invita alla piena fiducia, a non preoccuparsi. Non è importante conoscere il momento della propria fine, ma sapere che quel momento è nelle mani del Padre. Quindi il messaggio di Gesù è pienamente positivo ed è un invito alla piena fiducia. Detto questo Gesù, con due imperativi dice: “Fate attenzione, vigilate”. Vigilare significa rinunciare a dormire. Il sonno nei Vangeli è l’immagine della rinuncia all’attività. Quindi l’invito è a restare in attività, perché anche se sapete che la vostra fine è nelle mani del Padre, spetta a voi collaborare con un’attività fedele al messaggio della buona notizia.
E poi Gesù dà questa immagine. “E’ come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato …” E qui la traduzione che abbiamo è “dato il potere ai suoi servi”, ma in realtà è “data la sua stessa autorità ai suoi servi”, il termine greco è molto enfatico. Qui il padrone, il signore della casa è Gesù dopo la morte. Gesù non ha servi, lui l’ha detto chiaramente in questo vangelo “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”.
Si tratta dei servi della comunità, cioè gli uni a servizio degli altri. Ebbene Gesù, a coloro che mettono la propria vita a servizio degli altri, concede la sua stessa autorità. Cos’è l’autorità? L’autorità nel vangelo di Marco è la capacità di esercitare una funzione divina con la quale si comunica vita.
Attraverso il dono dello Spirito Gesù comunica questa sua autorità, questo Spirito anche ai suoi discepoli. “A ciascuno il suo compito e ha comandato …”, il verbo comandar appare una sola volta in questo Vangelo, riferito ai comandamenti di Mosè, qui invece c’è il comandamento di Gesù. E’ la nuova relazione con Dio, che non è più impostata sulle leggi di Mosè, ma sull’accoglienza del suo amore.
E il comandamento qual è? Il comandamento lo dà il portiere, che in quella cultura era colui che era responsabile della sicurezza di coloro che stavano dietro. E’ una figura collettiva che riguarda l’impegno di tutta la comunità. “… e ha comandato al portiere di vegliare”.  Il verbo “vegliare” verrà ripetuto tre volte e sappiamo che il numero tre significa quello che è completo, quindi una stretta vigilanza.
Gesù invita i componenti della sua comunità ad esercitare una funzione permanente di servizio che li renda riconoscibili. Non un servizio una volta ogni tanto, ma un servizio che sia il distintivo della comunità. Se c’è questo la fine non deve preoccupare perché il Padre viene in soccorso.
E Gesù continua: “Vigilate dunque: voi non sapete quando il signore della casa…” questo signore della casa è contrapposto al signore della vigna di cui Gesù aveva parlato, dove la vigna era l’immagine di Israele. Ebbene ora non c’è più la vigna, immagine di Israele, ma c’è la casa, immagine di familiarità, di umanità, perché il messaggio di Gesù non è più limitato a un popolo, a una nazione, a una religione, ma è un messaggio universale, e la casa è un’immagine che tutta l’umanità può comprendere.

E poi qui Gesù divide la notte in quattro parti (la sera, mezzanotte, il canto del gallo e il mattino), secondo l’uso romano e non tre secondo l’uso ebraico, per far comprendere che questo messaggio non è più limitato a questa nazione, ma si estende in tutta l’umanità. E’ un messaggio valido per gli uomini di ogni condizione e di ogni latitudine.
E di nuovo l’avviso di Gesù: “Fate in modo che, giungendo all’improvviso… ” – all’improvviso significa un’irruzione che non lascia tempo di cambiare atteggiamento – “.. non vi trovi addormentati” come purtroppo li troverà al momento della cattura nel Getsemani, quando questi discepoli saranno addormentati, incapaci di dare adesione a Gesù nel momento più importante della sua esistenza.
E la conclusione: “Quello che dico a voi lo dico a tutti”, Quel messaggio che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli è un messaggio per tutta l’umanità. Il servizio, come distintivo che rende riconoscibile la persona, il discepolo, in maniera permanente, abituale e distinguibile, è quello che permette al Padre di occuparsi dei suoi quando sarà il momento della fine.

il commento vocale di p. Maggi

VEGLIATE:
NON SAPETE QUANDO IL PADRONE DI CASA RITORNERA’


commento al Vangelo di p. José María CASTILLO

Castillo

. L’Avvento è il tempo (4 settimane) che dedichiamo alla preparazione del Natale, il giorno nel quale si ricorda che Dio, in Gesù, si è fatto presente  nella storia. Preparare il Natale è, prima di tutto, aspettare la venuta di Gesù per accoglierlo nelle nostre vite. Il Natale si riproduce e si ripete
tutti i giorni. Perché tutti i giorni Gesù si fa presente nella nostra storia, nella vita di ognuno di noi, in quello che facciamo ed in quello che tralasciamo  di fare. Gesù si fa presente nella bontà, nell’amicizia, nella sincerità, nell’onestà, nel bene che facciamo e nella felicità che comunichiamo per contagio  a coloro che si sentono male, tristi e bisognosi. Così Gesù entra nella storia di ogni persona e nella storia della società e della Chiesa.
2. Ma questo vangelo ci dice qualcosa di molto più forte. L’appello alla vigilanza, che qui ci ricorda Gesù, è la conclusione del discorso che, secondo  Marco, Gesù ha pronunciato prima della sua morte. In questo discorso Gesù ha annunciato due cose: 1) la distruzione totale del Tempio (Mc 13,1-2); 2) la  caduta del sole, della luna e delle stelle (Mc 13, 24-25) che indicano, secondo i profeti (Is 13,34; Ger 4, 20-23; Ez 32,7, etc.), la  fine elenco  rovina dei grandi imperi, dei poteri oppressori dell’umanità. Così il vangelo ci dice che la bontà, l’onestà, l’umanità e l’umiltà, tutto questo ha una
forza così grande che è più potente della religione e della politica. Ci lamentiamo di come va male la Chiesa e del male che fanno i politici. La nostra  bontà senza limiti è la forza che può mettere fine a tutto questa marciume. La cosa importante è che siamo convinti di questo.
3. Preparare il Natale è prima di tutto intensificare la nostra onestà, la nostra umanità, la nostra integrità e la nostra sensibilità davanti alla sofferenza  altrui. Ma per questo abbiamo bisogno di pregare, di rivolgerci a Gesù senza stancarci mai. Solo così saremo vigilanti aspettando il continuo avvento di  Gesù nella storia delle nostre vite e delle vite di tutti.




il vangelo della domenica

SIEDERÀ SUL TRONO DELLA SUA GLORIA E SEPARERÀ GLI UNI DAGLI ALTRI

Mt 25,31

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.  E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

p. Maggi il commento di p. Maggi:

Nel vangelo di Matteo che commentiamo, cap. 25, versetti 31-46, viene riportato l’ultimo importante insegnamento di Gesù. Per questo insegnamento Gesù si rifà ad un’immagine conosciuta nel mondo ebraico e la troviamo nel Talmud dove si legge che nell’aldidà il Santo, che benedetto sia, prenderà un rotolo della Torah, la Legge, se lo poserà tra i ginocchi e dirà: “Chi se ne è occupato venga e riceverà la sua ricompensa”.
Ebbene Gesù prende come modello questa descrizione, ma ne cambia i contenuti. Quello che determina la realizzazione dell’individuo non è il rapporto che avrà avuto con la legge, con Dio, ma la relazione, il rapporto che avrà avuto con le altre persone. Perché questo? Con Gesù, Dio – come descrive Matteo all’inizio del suo vangelo – è il Dio con noi. Allora con Gesù la direzione dell’umanità non è più verso Dio, ma con Dio e come Dio verso gli uomini.
Il Dio di Gesù non chiederà mai se si è creduto in lui, ma se si è amato come lui.
Vediamo allora l’insegnamento di Gesù. Gesù si presenta come il figlio dell’Uomo che appare nella sua gloria, e divide i popoli pagani. Non è un giudizio universale. Israele è già stata giudicata in questo vangelo, è il giudizio di quanti non hanno conosciuto Dio.
Ebbene, come il pastore separa le pecore dalle capre dividerà le persone. Così come il contadino distingue i frutti buoni dai frutti fradici, come il pescatore in questo vangelo ha saputo distinguere i pesci buoni e scartare quelli marci, così il Signore riconosce subito chi ha orientato la propria vita per il bene degli altri.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti dal Padre mio”, li benedice perché sono quelli che hanno realizzato il progetto di Dio sull’umanità. E poi elenca sei azioni di bisogno, di sofferenza, di necessità da parte dell’umanità con le risposte che sono state date.
Di queste sei azioni nulla riguarda l’atteggiamento verso la religione, nulla riguarda il comportamento verso Dio, ma quello avuto nei confronti dei bisogni dei bisognosi dell’umanità. Quello che consente la vita eterna non è quindi il comportamento religioso, ma un comportamento umano.
Quello che distacca in queste sei situazioni è il carcerato. “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. A quel tempo il carcerato non suscitava la compassione, non suscitava pietà, ma soltanto disprezzo. Andare a trovare un carcerato significava anche alimentarlo, visto che i carcerieri certo non provvedevano alla sua alimentazione. La sorpresa di queste persone alle quali Gesù ha detto che hanno fatto tutte queste cose a lui … “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, ecc”.
Ebbene la risposta di Gesù: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli …” Chi sono i fratelli più piccoli? Sono gli invisibili della società, sono i bisognosi, gli emarginati, gli esclusi. Ebbene Gesù lo considera fatto a lui. Questo non significa che bisogna amare gli altri per Gesù, ma amarli con Gesù e come Gesù.
E poi ecco il rovescio della medaglia. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti …” E’ importante sottolineare questo. Mentre prima Gesù ai giusti li ha chiamati 
“benedetti dal Padre mio” qui li dichiara “maledetti”, ma non dal Padre suo; Dio non maledice, Dio è soltanto benedizioni. Questa maledizione – è l’unica volta in cui appare nel vangelo – richiama la prima maledizione presente nella Bibbia, nel libro del Genesi, scagliata su Caino che ha assassinato il proprio fratello.
Allora Gesù è molto severo. Non offrire aiuto, non rispondere agli elementari bisogni, alle sofferenze, alle necessità degli altri, equivale a un omicidio. Sono maledetti non da Dio, ma il loro egoismo, la loro chiusura ai bisogni degli altri, li ha come maledetti. Chiunque si chiude alla vita si maledice.
“Maledetti, nel fuoco eterno”, il fuoco eterno significa quello che distrugge tutto, “preparato per il diavolo”. E’ l’ultima volta in questo vangelo che compare il diavolo nella sua distruzione finale, significa la sua sconfitta definitiva perché va a finire nel fuoco eterno che ha l’immagine di quello che distrugge tutto, “e i suoi angeli”, cioè i suoi emissari, quelli che si sono fatti strumenti di morte. Queste persone Gesù non le rimprovera per aver fatto qualcosa di male, ma sono diventati strumenti di morte perché non hanno fatto il bene in occasioni di necessità, in occasioni di sopravvivenza.
Anche questi rispondono – e lo fanno riassumendo tutte le situazioni di disagio dell’umanità, la fame, la sete, ma è interessante il finale “e non ti abbiamo servito?” che i giusti non lo dicono. Loro ovviamente credono di aver servito il Signore, di averlo servito nella liturgia, nel culto, non hanno compreso che con Gesù Dio non chiede di essere servito, ma lui che è Dio si mette a servizio degli uomini perché gli uomini con lui e come lui si mettano a servizio degli altri.
Ed ecco la sentenza di Gesù: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. Quindi, ancora una volta, quello che determina la riuscita nella vita e il comportamento della persona non è il rapporto avuto con Dio, ma il rapporto avuto con gli altri. Quando ci si chiude agli altri ci si chiude a Dio.
E se ne andranno questi al supplizio eterno, questa è un’immagine tratta dal libro del profeta Daniele, capitolo 12, versetto 2, che significa il fallimento definitivo della propria vita. Il termine tradotto con “supplizio” in greco significa “mutilare”. La punizione quindi non è dovuta al Padre, ma sono essi stessi che si sono puniti in quanto la loro è una vita mutilata, una vita che non è giunta alla pienezza.
Quindi non è un castigo, ma il fallimento totale, quello che nell’Apocalisse verrà definito “morte seconda”. Ma il vangelo termina con un’immagine positiva, “I giusti invece alla vita eterna”. Quanti hanno vissuto facendo del bene, comunicando vita a chi ne aveva bisogno, questi hanno realizzato la propria esistenza e soprattutto realizzato il progetto di Dio sull’umanità.

CRISTO, RE DELL’UNIVERSO

   il commento di p. Agostino:p. agostino

La Regalità di Gesù’ ha come orizzonte, non la forza, il controllo, la minaccia, ma ciò che ci appare fragile, inutile. La si misura dallo spazio concesso al povero: “dall’affamato, dallo straniero accolto, dal malato e dal carcerato che abbiamo visitato”. I poveri sono la porta d’ingresso principale di questo Regno. Non ci verrà chiesto se siamo stati fedeli a delle prescrizioni morali, se abbiamo rispettato i precetti liturgici, quanti pellegrinaggi fatti a Lourdes o Medijugore.. No, di tutto questo.   

I cittadini di Tor Speranza che hanno cacciato quei poveri ragazzi, colpevoli di essere stranieri a casa nostra, questa domenica hanno diritto di partecipare alla Messa? Coloro che dichiarano apertamente di non essere razzisti, ma che vorrebbero tutti i Rom dentro i forni crematori, come potranno accostarsi tranquillamente all’altare per ricevere l’Eucarestia? Hanno forse più diritto loro di ricevere la comunione, rispetto a un divorziato/a o a dei conviventi, ma capaci di porsi al fianco dei poveri nello stile del Vangelo?   

La Regalità di Gesù’ la riconosciamo guardando il volto del povero, del malato, dell’escluso, dello straniero. Perché è attraverso i loro occhi Dio guarda il mondo e l’intero universo. Il tempo dato al povero è sacro, in un certo senso consacra anche la nostra esistenza, anche senza saperlo “assomigliamo” a Dio: ” Quando Signore ti abbiamo visto affamato..?”

Ecco la regalità di Cristo, ha i volti dell’escluso ed e’ una regalità che ci da noia e che sgomberiamo volentieri in nome della sicurezza, come sta avvenendo in questi giorni anche qui a Pisa. Siamo sempre più affascinati dai lineamenti del vincitore, del suo luccichio, del profumo di incenso, perché convinti che l’ odore del povero, del Rom, del migrante, del disgraziato non può rendere gloria a Dio. Sarebbe una bestemmia per tanti cristiani e bravi sacerdoti.

Ed e’ un atteggiamento che hanno non solo i preti, i vescovi, ma anche i fedeli. Un modo di comportarsi che porta a dire: Ma noi siamo quelli che stanno con Signore. E da tanto guardare al Signore, finisce che non guardiamo le necessità del Signore, non guardiamo al Signore che ha fame, che ha sete, che e’ in prigione, che e’ in ospedale. In pratica non guardiamo il Signore nell’emarginato e questo e’ un clima che fa tanto male.” (papa Francesco, 17 nov. 2014)   

Ma mi chiedo come l’attenzione al povero, può essere anche una garanzia di salvezza fin da ora, non solo riservata al momento del nostro definitivo incontro con Dio?

Ti ringrazio o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli.”  Le cose che i poveri (affamati, malati, carcerati, stranieri..) rivelano, ieri come oggi è che attraverso la loro esistenza fragile ci svelano la profezia di Dio. Le nostre vite cambiano non tanto perché facciamo qualche elemosina qua e là, ma perché loro sono la fonte del nostro cambiamento. E’ un Dio che ci umanizza attraverso la debolezza.

E’ una Regalità a portata di mano di tutti: “ L’affamato è lì, all’angolo della strada, e chiede diritto di cittadinanza.”  

 

Campo Rom dio Coltano (PI)  –  21 Novembre 2014

 




il commento al vangelo di p. Maggi, p. Bianchi e p. Agostino

 

SEI STATO FEDELE NEL POCO, PRENDI PARTE ALLA GIOIA DEL TUO PADRONE! 

maggi

commento al Vangelo della domenica trentatreesima  del tempo ordinario (16 novembre) di p. Alberto Maggi:

Mt 25,14-30

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:  «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.  Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

Con Gesù il rapporto con Dio, con il Padre, cambia. Non più servi del Signore, ma figli del Padre. Ma un’idea sbagliata di Dio può rovinare l’esistenza della persona e impedire il passaggio da servo a figlio.
Sentiamo cosa ci scrive Matteo nel suo vangelo, capitolo 25, dal versetto 14 al 30. Gesù sta parlando del regno, del Regno dei Cieli. “Avverrà infatti come a un uomo che, partendo, chiamò i suoi servi …”, nel mondo orientale tutti i dipendenti di un personaggio importante vengono chiamati servi anche se, come in questo caso, si tratta di funzionari di alto rango.
“… E consegnò loro i suoi beni.” Questo signore non lascia i suoi beni in custodia, ma li trasferisce. Il verbo “consegnare” utilizzato dall’evangelista, significa un “dare” senza poi riprendere. “A uno diede cinque talenti”. Il talento era una misura di valore molto importante, un talento oscillava tra i 26 e i 36 Kg d’oro; un talento corrispondeva circa a 6.000 denari, cioè a 20 anni di salario di un operaio, quindi una fortuna.
Ebbene “a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno”, letteralmente “la forza”. Il signore, il padrone conosce i suoi funzionari e sa le loro capacità. “Colui che aveva ricevuto cinque talenti subito andò a impiegarli”, e lo stesso fa quello che ne aveva ricevuti due. Il primo ne guadagna altri cinque, e l’altro ugualmente raddoppia, ne guadagna altri due, agiscono da signori, come se il talento fosse loro.
“Colui invece che aveva un solo talento…”, attenzione non è che con un solo talento riceva poco, ma ripeto un talento sono circa 30 Kg d’oro o 20 anni di paga di un operaio, quindi un’enorme fortuna, ma costui rimane servo, non si sente signore. “… andò a fare una buca nel terreno”. Seppellendo questo talento è come se seppellisse la propria vita, ma lo fa anche perché, secondo il diritto rabbinico, se uno seppelliva il denaro che gli era stato dato, in caso di furto, non era tenuto a restituirlo.
Quindi prende tutte le precauzioni, lui non crede nella generosità del suo padrone “e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi viene …” l’evangelista parla al presente, a rappresentare un’azione che continua nella comunità di Gesù, “e volle regolare i conti con loro”. Non viene per farsi restituire quello che lui aveva donato, ma vedere che cosa ne hanno fatto.
“Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: ‘Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. Ebbene a questo punto il signore, il padrone, non chiede indietro quello che lui aveva dato, ma gioisce ed escama: “’Bene … “, e questa esclamazione assomiglia a quella del creatore nel libro del Genesi quando Dio, il creatore, ammira la sua opera, “’Servo buono e fedele – gli disse il suo padrone – sei stato fedele nel poco … “’, dice nel poco, ma si tratta di un’enormità, una fortuna immensa, 150 Kg d’oro, una fortuna straordinaria, e il padrone dice che era poco.
“’Ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”’. Lo invita a far parte di tutte le sue sostanze, di tutta la sua vita e lo fa passare dalla condizione di servo a quella di padrone, libero come lui. Ugualmente per quello che ne aveva ricevuti due. Invece è diversa la situazione per colui che aveva ricevuto un talento.
“Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e gli disse: ‘Signore, so… ‘”, lui ragiona in base a quello che sa, ma è una conoscenza sbagliata. “’… so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso’”, ma questa è un’immagine distorta che non viene
giustificata dalla narrazione. Nella narrazione vediamo un padrone non generoso, ma follemente generoso, che non solo non vuole indietro l’enorme fortuna che ha lasciato ai suoi funzionari, ma addirittura li fa parte di tutto il suo patrimonio, di tutta la sua vita.
“’Ho avuto paura’”. Ecco qui dove vuole arrivare l’evangelista, un’immagine distorta di Dio, la paura di Dio può essere fatale per la persona, che ha paura di agire per timore del rimprovero, o di sbagliare. Dirà Giovanni  nella prima lettera “Nell’amore non c’è timore. Chi teme non è perfetto nell’amore”.
“’Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento…’”, mentre gli altri se ne sono impossessati e hanno agito liberamente, costui è rimasto servo, e sottolinea “’… sotto terra: ecco ciò che è tuo’”. Non l’ha mai considerato proprio. Ed ecco la reazione del padrone. “Il padrone gli rispose: ‘Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato’”, omette la definizione “uomo duro”,”’ e raccolgo dove non ho sparso …’”, il padrone non è d’accordo con l’immagine che il servo ha di lui, è un’immagine distorta.
“’Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse’”. La paura di sbagliare, nell’individuo, ha paralizzato la sua azione, la sua crescita. Ed ecco la sentenza. “’Toglietegli dunque il talento… ‘”, non ha saputo che farsene, era una fortuna e non l’ha saputa usare, anzi per lui questa fortuna che il signore gli aveva dato era diventata motivo di angoscia, di ansia e preoccupazione. Allora il signore gli dice “è inutile che la tieni, “’… e datelo a chi ha i dieci talenti.’”.
Questo individuo non viene punito per aver fatto qualcosa di male, semplicemente non ha fatto nulla. Ed ecco la sentenza, “’.. perché a chiunque ha…’”, questo verbo avere lo abbiamo già trovato nel vangelo di Matteo nella parabola dei quattro terreni, e indica produrre, colui che produce, “chiunque ha”, cioè chiunque produce e fa fruttare ciò che gli viene dato, “’… sarà nell’abbondanza; ma a chi non oha, verrà tolto anche quello che ha.’”
Chi produce amore riceve da parte del Padre una grande, maggiore capacità d’amare. Chi invece non ama, chi non dirige la propria vita per gli altri, questa si atrofizza e rimane senza nulla. “’E il servo inutile …”, inutile perché non ha saputo che farsene di questa fortuna, “’… gettatelo fuori nelle tenebre’”. In realtà c’è già perché seppellendo il talento ha seppellito se stesso, “’…  là sarà pianto e stridore di denti’”.
“Pianto e stridore di denti” è un’espressione equivalente un po’ al nostro italiano “strapparsi i capelli”. E’ la disperazione per aver fallito la propria esistenza.

La parabola dei talenti

XXXIII domenica del tempo Ordinario A
Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

Mt 25,14-30

La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli uomini, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male…
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza (tanto meno a quella economica o finanziaria), non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso la comunità cristiana che sovente è tiepida, senza iniziativa, contenta di quello che fa e opera, paurosa di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno neppure leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere rende cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
E allora leggiamo con intelligenza questa parabola la cui prospettiva – lo ripeto – non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni che egli ha fatto a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua – cinque lingotti di argento a uno, due a un altro –, affinché la facciano fruttare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa.
“Dopo molto tempo” – allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) – il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, … entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Viene infine quello che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti: “Da quando mi hai fatto fiducia, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Luca; cf. Lc 19,22) il servo confessa di avere un’immagine del Signore che si è fabbricata: un padrone che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato…
Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio e pigro. Malvagio perché hai obbedito all’immagine del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato”. Lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”.
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
 

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Luciano Manicardi La responsabilità
Giancarlo Bruni Investire bene i talenti

agostino

La parabola dei talenti

la parabola commentata da p. Agostino Rota Martir a partire dal suo luogo di ‘osservazione e lettura’ del vangelo: la condivisione della sua vita in un campo di rom

Ogni essere umano e’ portatore e messaggero di talenti. Tutti lo sono, non solo quelli che riteniamo per bene, affidabili, seri, responsabili Agli occhi di Dio lo e’ anche chi è considerato un “buono a nulla”, il carcerato, l’accattone, il clandestino, il fannullone?

Ecco, mi chiedo “quell’uomo in viaggio” (le parabole di Gesu’ quasi sempre trattano di uomini in viaggio, in movimento) affiderebbe i suoi beni anche a quest’ultima categoria?

Li consegnerebbe a un Rom, a un migrante appena sbarcato a Lampedusa, ad un tossico, ad una famiglia sfrattata, a un mendicante, ad un uomo del tutto normale, come il mio vicino di casa?  

Consegnare tutti quei talenti (che non sono certo briciole!), solo a chi e’ affidabile, con tutte le credenziali al loro posto (anche se oggi su pochi metteremmo la nostra mano sul fuoco), caro Signore “viaggiatore misterioso” rischi ben poco, vai sul sicuro: troppo comodo e questo non è da Te.

Quindi immagino che Gesu’ nel raccontare quest’altra parabola, intendesse includere proprio tutti, compresi quei servi che noi senz’altro avremmo d’istinto scartato, proprio per la loro inaffidabilità.

Sì, mi piace vederlo così: un Dio che consegna le chiavi di casa sua e tutto quello che ci sta dentro, proprio a tutti, anche ai Rom del campo abusivo sotto casa sua, al servo svogliato e un po’ fannullone, al malato di mente, a chi ha perso il lavoro e non riesce più a reagire, al vecchio che vive di soli ricordi, anche a quel giovane che spreca il suo tempo a inseguire fantasie illusorie, al detenuto schiavizzato e abbruttito dal sistema carcerario disumano..

Chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.”

E’ vero, e’ un Dio che fa piovere (talenti) sui buoni e sui malvagi, cioè offre cammini di santità proprio a tutti, anche a quelli che poi lo deluderanno.

E’ un Signore a cui piace il rischio di dar fiducia alle persone, di scommettere sulla loro creatività e ingegnosità. Anche se questo, lo farà passare agli occhi di tanti come un ingenuo, un “buonista” come si sente ripetere tanto ai nostri giorni a tipi come lui.

E poi, siamo così sicuri che la “contabilità” di Dio, coincida sempre secondo i nostri calcoli?

Gli ultimi saranno i primi.”

“Fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.”

 

Di certo è che i talenti degli ultimi in genere, sono sepolti da una valanga di sospetti e diffidenze: quasi impossibile notarli. Invece i talenti dei cosi detti bravi, sono sempre illuminati a vista, abbagliano così tanto che a volte, ci impediscono di vedere tutto attorno.

Ma Dio non si lascia ingannare dai nostri bagliori, sa vedere perle (talenti) che brillano anche sotto il letame della storia.

Spesso chi sa di essere “bravo/a” sente il bisogno di verniciare di Dio i suoi talenti (come fa spesso la cantante Vip suor Cristina), chi invece sa di non contare niente, li vive in silenzio e in umiltà, come se si vergognasse di coinvolgere Dio nella sua “insignificante vita”, temono di sporcarLo.

Invece, e’ proprio così che facciamo felice Dio. “Bene, servo buono e fedele.. prendi parte alla gioia del tuo padrone.”

Si, e’ bello riconoscere e gioire per i talenti messi a frutto grazie alla nostra esistenza e il nostro impegno, ancora più bello scoprirli vivi e luminosi anche là dove nessuno si degna di guardare e con stupore incrociare lo sguardo di Dio proprio dentro queste vite.

 

Campo Rom di Coltano (PI) – 13 Novembre 2014

 




p. Maggi commenta il vangelo

p. Maggi

PARLAVA DEL TEMPIO DEL SUO CORPO 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi nella DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE – 9 novembre 2014

 
Gv 2,13-22

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.  Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

La nuova relazione proposta da Gesù tra Dio e gli uomini comporta la scomparsa delle istituzioni dell’antica alleanza e, tra queste, la prima che Giovanni ci presenta nel suo vangelo è il tempio. Mentre i profeti denunciavano un culto ipocrita e auspicavano una purificazione del tempio, Gesù va al di là, Gesù lo abolisce.
E’ quanto leggiamo nel capitolo 2 di Giovanni, dal versetto 13 al 22. Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei. L’evangelista è polemico, perché la Pasqua nell’Antico Testamento viene sempre definita come “la Pasqua del Signore”, ma per Giovanni la Pasqua è dei Giudei. Con “giudei” in questo vangelo non si intende tanto il popolo giudaico, ma le autorità, i capi religiosi.
Non è più una festa di liberazione del popolo, ma è la festa dei dominatori di questo popolo. E Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio … nel tempio non trova gente che prega, ma trova commercio, trova affari. Trovò nel tempio venditori di buoi, pecore, colombe e là seduti, cioè installati, i cambiavalute. Il vero Dio del tempio è il denaro.

Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio. Il messia veniva raffigurato con una frusta, il flagello, con la quale doveva scacciare via gli esclusi dal tempio, i peccatori. Qui invece Gesù prende la frusta ma scaccia via quelli che sono l’anima del tempio.
Scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore. Per prima cosa le pecore, che è immagine del popolo, che è il vero animale sacrificale. Le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi; Gesù non accetta un culto a Dio legato all’interesse. E ai venditori di colombe disse … E’ strano che Gesù se la prenda proprio con i venditori di colombe, non con quelli di buoi. Disse: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”
Perché Gesù se la prende proprio con i venditori di colombe? Perché era l’animale che potevano offrire i poveri. Gesù non tollera che i poveri vengano sfruttati in nome di Dio. E, citando il profeta Zaccaria, dice che la casa del Padre suo non può essere un luogo di interessi o di affari.
I suoi discepoli fraintendono il gesto di Gesù e pensano che Gesù sia una sorta di Elia, il profeta che col suo zelo violento doveva preparare la strada al messia; infatti i suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”. Allora i Giudei, cioè i capi, reagirono e gli dissero: “Quale segno”, cioè “quale autorità”, “ci mostri per fare queste cose?”
Rispose loro Gesù… E per comprendere la risposta di Gesù occorre distinguere i due termini differenti che l’evangelista adopera. Un termine greco ieros, tempio, che significa tutta l’area sacra, ma l’altro nella risposta di Gesù è naos, che significa il santuario di questo tempio, cioè il luogo che indicava la presenza e la residenza di Dio in questo tempio.
Ed è questo secondo che compare nella risposta di Gesù. “Distruggete questo santuario e in tre giorni lo farò risorgere”. Per Gesù la morte sarà la massima manifestazione di Dio. I Giudei, i capi non comprendono. “Questo santuario è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?” Ma egli parlava del santuario del suo corpo.
Con Gesù cambia la relazione con Dio. Con Gesù il vero dal quale Dio manifesta e irradia la sua misericordia, la sua compassione, non è un santuario costruito da mani di uomo, dove le persone devono andare portando le offerte, ma l’unico vero santuario sarà la persona di Gesù e quanti lo accoglieranno come modello di vita, un santuario che non attenderà le persone, ma andrà incontro alle persone. Incontro a chi? Agli esclusi dal tempio, agli emarginati dalla religione.
Questo nuovo santuario non chiederà offerte, ma sarà lui che offrirà il suo amore a tutti gli uomini.




il commento al vangelo

 

CHI CREDE NEL FIGLIO HA LA VITA ETERNA

E IO LO RISUSCITERO’ NELL’ULTIMO GIORNO 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi 
COMMEMORAZIONE DI TUTTI I DEFUNTI 
2 novembre 2014

maggi

 
Gv 6,37-40

In quel tempo, Gesù disse alla folla:  «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.  Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

Per la commemorazione dei fedeli defunti, la liturgia ha scelto un brano del vangelo di Giovanni, il  lungo discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul pane della vita, al capitolo 6, versetti 37-40.
In questo lungo discorso ai suoi discepoli Gesù afferma che si fa pane, alimento di vita, perché quanti poi lo accolgono siano capaci a loro volta di farsi pane e alimento di vita per gli altri. In questo ricevimento del pane, che è Gesù, e nel farsi pane per gli altri c’è questa comunicazione della vita di Dio, di una vita divina, capace di superare la morte.
Ma sentiamo cosa dice Gesù secondo Giovanni. “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me”. Il desiderio di pienezza di vita che il Padre come creatore ha posto nell’intimo di ogni uomo trova la piena risposta in Gesù. Gesù è la piena risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro.
E Gesù afferma “Colui che viene a me, io non lo caccerò fuori”. Il verbo “cacciare” in questo vangelo appare 6 volte, due volte quando Gesù caccia le pecore dal tempio e poi dal recinto dell’istituzione religiosa, significando la libertà che Gesù è venuto a portare ai suoi; una volta per l’istituzione che caccia, scaccia fuori dalla sinagoga coloro che credono in Gesù; e infine l’ultima volta  – positiva – l’annunzio che il principe del mondo sarà cacciato fuori.
E’ la vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre. Gesù non caccia nessuno, lui è solo accoglienza. 
“Perché sono disceso dal cielo ..”, questa discesa dal cielo non va intesa in senso spaziale, ma teologico. Vuol dire che l’origine di Gesù non è meramente umana, ma divina. Con la discesa dello Spirito Santo, Gesù, il Cristo, è la definitiva presenza di Dio tra gli uomini.
L’evangelista, al termine del suo Prologo, aveva scritto che Dio nessuno l’ha mai visto, solo il Figlio unigenito ne è la rivelazione. Gesù è la piena manifestazione, la piena presenza di Dio tra gli uomini.
 “Non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.  La volontà del Padre e la volontà di Gesù sono identiche: entrambi desiderano comunicare vita, e vita abbondante, agli uomini. E poi Gesù afferma “E’ questa la volontà”, con l’articolo determinativo, non ci sono tante volontà. A volte si fa coincidere la volontà di Dio con gli avvenimenti tragici, tristi, di sofferenza della vita. Nel vangelo la volontà è unica e positiva.
Sentiamola. “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”.
Per la prima volta nel vangelo di Giovanni compare l’espressione “ultimo giorno” che poi comparirà sette volte, di cui quattro in questo lungo discorso, sempre associato al verbo “risuscitare”. L’ultimo giorno nel vangelo di Giovanni, che cadenza secondo il ritmo di una settimana il suo vangelo, è quello della morte di Gesù.
Quando Gesù, annunziando che tutto è compiuto, che il progetto di Dio sull’umanità si è realizzato, consegna il suo spirito, dona lo spirito. Quindi l’ultimo giorno è il giorno della morte, ma che è un’esplosione di vita. Gesù, morendo, consegna la vita di Dio, consegna il suo spirito. “Questa infatti è la volontà del Padre mio”.
Gesù torna di nuovo a ripetere, a ribadire quale sia la volontà. E Gesù si è definito il figlio dell’Uomo, è stato definito il figlio di Dio, qui si parla soltanto di “figlio”. Vedere il figlio significa riconoscere la capacità dell’uomo di essere il figlio di Dio realizzando in sé il progetto del creatore.
“Chiunque vede il Figlio e crede”, cioè da la sua adesione, “in lui abbia vita eterna”, senza l’articolo come invece viene tradotto. Perché questa definizione dell’evangelista? Perché l’omissione dell’articolo? Perché la vita eterna avrebbe potuto far pensare a quella della credenza giudaica, cioè una vita che iniziava dopo la morte, come un premio per la buona condotta tenuta nella vita presente. No Gesù dice “Che lui abbia vita eterna”, una vita che è già eterna, non tanto per la durata indefinita, ma per la qualità, che è divina e quindi indistruttibile.
Il dono dello spirito, ci assicura Gesù, porta con sé il dono della risurrezione già in questa vita. Gesù dirà poi più avanti che chi crede in lui non farà mai l’esperienza della morte.