E. Bianchi commenta il vangelo

I frutti dell’amore

Beato Angelico (attr.), predella della Pala di Fiesole (part.), 1423-24

Beato Angelico (attr.), predella della Pala di Fiesole
1 novembre: festa di Tutti i santi
Commento al Vangelo di p. E. Bianchi
Bianchi

In questi ultimi decenni sono stati proclamati tanti santi e beati: mai c’è stata nella chiesa una stagione così ricca di canonizzazioni, segno anche di un’estesa “cattolicità” raggiunta dalla testimonianza cristiana. Eppure molti, all’interno e attorno alla chiesa, hanno la sensazione di non conoscere dei santi “vicini”, di non riuscire a discernere “l’amico di Dio” – questa la stupenda definizione patristica del santo – nella persona della porta accanto, nel cristiano quotidiano. Questo forse è dovuto anche al fatto che viviamo in una cultura in cui si privilegia l’apparire, un mondo in cui – come ha detto qualcuno – “anche la santità si misura in pollici”: molti allora cercano non il discepolo del Signore, ma l’ecclesiastico di successo, l’efficace trascinatore di folle, l’opinion leader capace di parole sociologiche, politiche, economiche, etiche, la star mediatica cui si chiede una parola a basso prezzo su qualsiasi evento, facendolo apparire il più eloquente a prescindere dalla consistenza della sua sequela del Signore.

Ma è proprio in questa ambigua ricerca della santità attorno a noi che ci viene in aiuto la festa di tutti i santi, la celebrazione della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, al cuore dell’autunno, dopo tutte le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, la chiesa ci chiede di contemplare la mietitura di tutti i sacrifici viventi offerti a Dio, la messe di tutte le vite ritornate al Signore, la raccolta presso Dio di tutti i frutti maturi suscitati dall’amore e dalla grazia del Signore in mezzo agli uomini. La festa di tutti i santi è davvero un memoriale dell’autunno glorioso della chiesa, la festa contro la solitudine, contro ogni isolamento che affligge il cuore dell’uomo: se non ci fossero i santi, se non credessimo “alla comunione dei santi” – che non certo a caso fa parte della nostra professione di fede – saremmo chiusi in una solitudine disperata e disperante. In questo giorno dovremmo cantare: “Non siamo soli, siamo una comunione vivente!”; dovremmo rinnovare il canto pasquale perché, se a Pasqua contemplavamo il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie della resurrezione, noi contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. A Pasqua cantavamo che la vite era vivente, risorta; oggi la chiesa ci invita a cantare che i tralci, mondati e potati dal Padre sulla vite che è Cristo, hanno dato il loro frutto, hanno prodotto una vendemmia abbondante e che questi grappoli, raccolti e spremuti insieme formano un unico vino, quello del Regno.

Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, noi siamo in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore. Oggi dalle nostre assemblee sale il profumo dell’incenso, segno del legame con la chiesa di lassù, la Gerusalemme celeste che attende il completamento del numero dei suoi figli ed è vivente, gloriosa presso Dio, con Cristo, per sempre.

Ecco il forte richiamo che risuona per noi oggi: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. E’ questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza a sempre nuove idolatrie, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore, nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile. Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la chiesa: “Noi non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni” (Eb 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio. In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno. E la loro vicinanza è davvero capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro, avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre” (Lc 22,42). Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo anche i santi che ancora operano sulla terra perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

Purtroppo oggi questa memoria dei santi, così come quella dei morti il giorno seguente, è svuotata dalla celebrazione, sempre più popolare, di Hallowen: un altro, triste segnale di come nella nostra società si scivoli con facilità e insensibilmente dal reale al virtuale. A un mondo invisibile, autentico e reale, il mondo della comunione dei santi, viene sostituito un mondo invisibile ma immaginario, una fiction fabbricata con le nostre mani per autoconsolazione. No, la comunione dei santi è sperimentabile, vivibile: noi non siamo soli qui sulla terra perché nel Cristo risorto siamo “communicantes in unum”!

Tratto da Dare senso al tempo, pp. 143-146




il commento al vangelo di domani

AMERAI IL SIGNORE TUO DIO E IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO 

Commento al Vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (26 ottobre) di p. Alberto Maggi:

maggi

Mt 22,34-40
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Il vangelo di questa domenica presenta l’ultimo attacco da parte dei capi spirituali del popolo, i farisei, contro Gesù. Gesù nel tempio aveva denunciato questi capi del popolo come ladri e assassini, ladri perché si sono impadroniti del popolo che era di Dio, e assassini perché l’hanno fatto con la violenza.
Allora si scatena tutta una serie di attacchi contro Gesù tesi a delegittimarlo di fronte alla folla. Ma in realtà in ogni attacco è Gesù che ne esce vincitore e la folla è sempre più entusiasta di lui.
Sentiamo cosa ci dice Matteo. Capitolo 22, versetti 34-40. Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, il risultato dell’attacco dei sadducei che volevano ridicolizzare Gesù trattando della risurrezione è che le folle erano colpite dal suo insegnamento. Quindi più tentano di delegittimare Gesù, più la gente è entusiasta.
Si riunirono insieme, qui l’evangelista cita il salmo 2 al versetto 2, dove si legge che i re della terra si riunirono insieme contro il Signore e il suo Messia. I re della terra vogliono mantenere il dominio sul popolo e sono contro il Signore che invece lo vuole liberare.
E uno di loro, un dottore della Legge… questa volta i farisei, visto com’era andato male quella volta che avevano presentato a Gesù il tributo di Cesare, questa volta si fanno forza con un esperto, con un dottore della Legge, un personaggio importante, uno di quelli la cui parola aveva lo stesso valore della parola di Dio. Lo interrogò per tentarlo. La traduzione dice “mettere alla prova”, ma il verbo è “tentarlo”. 
Questo verbo appare per la prima volta al capitolo 4 come opera delle tentazioni del diavolo, del satana nel deserto, e poi sarà usato sempre per definire le azioni dei farisei e dei sadducei.
I capi spirituali del popolo, quelli che pretendevano di essere i più vicini a Dio, in realtà sono strumenti del diavolo, del satana. Perché? Mentre il Dio di Gesù è amore che si mette a servizio, il loro è un potere che vuole dominare e chiunque sta a fianco del potere è uno strumento del diavolo.
Ebbene la tentazione è questa: “Maestro”. Per al terza volta si rivolgono a Gesù con questo titolo, sempre in bocca ai suoi nemici, o alle persone che gli sono ostili. “Nella Legge, qual è il grande comandamento?” Attenzione che la domanda non è rivolta per apprendere, ma per condannare. Loro lo sanno qual è il grande comandamento, quello più importante: l’osservanza del riposo del sabato, perché è l’unico comandamento che anche Dio osserva.
Dio e gli angeli il sabato, in cielo, non svolgono nessuna attività. L’osservanza di questo unico comandamento corrispondeva all’osservanza di tutta la Legge, la trasgressione di questo unico comandamento equivaleva alla trasgressione di tutta la Legge e per questo era prevista la pena di morte.
Ma perché rivolgono a Gesù questa domanda? Perché Gesù ha un fare per lo meno disinvolto nei confronti dei comandamenti. Ignora bellamente il sabato, continua a fare le sue attività a favore dell’uomo, e anche quando il ricco gli chiese quali comandamenti osservare per ottenere la vita eterna Gesù, nell’elenco che fece, omise i tre più importanti, quelli che erano privilegio esclusivo di Israele, i primi tre comandamenti e gli indicò quelli che erano patrimonio della cultura universale “non ammazzare” “non rubare” “non commettere adulterio”.
Quindi la domanda è tesa a denunciare Gesù. Gesù spiazza ancora una volta il suo interlocutore, gli hanno chiesto qual è il comandamento più importante, nella risposta Gesù non cita alcun comandamento, ma prende una frase con la quale iniziava il Credo di Israele, ‘”Ascolta Israele”, tratto dal libro del Deuteronomio, che è questa: “Amerai il Signore tuo Dio  con tutto il tu cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.
Il Deuteronomio aveva al terzo posto “con tutte le forze”, che indicava i beni della persona, ma Gesù sostituisce le forze con “la tua mente”. Perché Gesù omette le forze? Perché il Dio di Gesù non è un Dio che assorbe le energie degli uomini, ma è un Dio che agli uomini offre le sue, comunica le sue. Il Dio di Gesù non chiede, è un Dio che dà.
E afferma Gesù: “Questo è il primo e il grande comandamento”. Ma non era un comandamento. Gesù eleva al rango di comandamento l’amore a Dio totale. Ma subito dopo Gesù aggiunge: “Il secondo poi è simile a quello”. E qui prende un precetto dal libro del Levitico, “Amerai l tuo prossimo come te stesso”. Per Gesù l’amore a Dio non è reale se non si traduce in amore per il prossimo.
E, conclude Gesù: “Da questi due comandamenti”… Ripeto non sono comandamenti ma Gesù eleva l’amore a Dio che si manifesta poi nell’amore al prossimo a livello dei comandamenti più importanti, … “Dipendono tutta la Legge e i Profeti”. 
Legge e i Profeti è un espressione con la quale si indica la Bibbia, quella che noi chiamiamo Antico Testamento, appunto composto dalla Legge e dai Profeti. Quindi ancora una volta una domanda tesa a delegittimare Gesù e Gesù ne esce vincitore, proclamando una nuova realtà con Dio, non più basata sull’osservanza dei comandamenti, ma sull’accoglienza e la pratica del suo amore.

il commento di p. Agostino Rota Martir:

p. agostino

 

 

 

 

“Non molesterai il forestiero … non maltratterai la vedova o l’orfano.”

Dio sembra costruire il cammino di Israele mettendo al centro della sua identità il rispetto verso lo straniero, i soggetti deboli e indifesi, quelli che sono “curvi” anche a causa dell’oppressione.

Nella Bibbia ritorna tante volte il richiamo di non escludere, di non dimenticare i poveri ma di includere sempre più, saranno i profeti a richiamare il rischio e la trappola di costruirsi una identità di popolo ripiegata su se stessa, escludente.

Amare e conoscere Dio dal punto di vista di chi “sta fuori”, al margine, come lo straniero e il povero. Costoro sono lo specchio di Dio, il suo Volto noi non lo possiamo vedere, appare invece quello dei poveri, della vedova, dell’orfano e del forestiero. Certo sono volti segnati dalla vita, dal margine, dalla fatica, dall’oppressione e dall’esclusione. E’ un Dio che non aspetta di mostrare il suo Volto, quando quello del povero è diventato a modino, come noi lo vorremmo, senza i suoi fastidiosi difetti e furbizie..

E’ un Dio che si disloca continuamente, quante volte lo ha fatto con Israele, attraversando anche i suoi confini sacri, ma lo fa anche al suo interno mostrandosi là dove qualcuno è messo da parte, al margine o escluso. Lui si sposta dalla loro parte: con i migranti su fatiscenti barconi, sta con i Rom in accampamenti abusivi e nascosti alla vista dei cittadini per bene, sta con tutti coloro che vengono sgomberati in nome della sicurezza o per la tutela dell’arredo urbano, sta con i disoccupati e la loro disperazione, sta con le famiglie divise, con i mendicanti, si disloca dentro le piaghe nascoste..E’ un Dio nomade che non si stanca di chiedere ospitalità, accoglienza, comprensione.

“Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? ”

Non basta certo stare dentro i confini della Legge per obbedire e amare Dio, se vuoi veramente amare Dio devi dislocarti da te stesso per entrare nello spazio del prossimo, uno spazio a te “straniero”, diverso dal tuo, dal tuo mondo per costruire insieme il Sogno di Dio. .. Dio senza prossimo è un Dio astratto, su mia misura, un Dio che soddisfa e cura le nostre paure, ma incapace di liberarci. Il Dio di Gesù, invece ha l’odore del prossimo, e non può farne a meno.

Può forse bastare “non molestare” lo straniero, né maltrattare la vedova e l’orfano, per essere “buoni cristiani”? Gesù indica che per entrare nello spazio di Dio ci è richiesto di amare lo straniero, il nemico e questo è un salto che coinvolge cuore, anima e mente.

Ama il prossimo così come si presenta, non come vorremmo che fosse, è questa la sorpresa di Dio nella nostra vita, perché è l’amore che ci cambia reciprocamente.

 

25 Ottobre 2014




il commento al vangelo domenicale di p. Maggi

 

RENDETE A CESARE QUELLO CHE E’ DI CESARE E A DIO QUELLO CHE E’ DI DIO

  Commento al Vangelo della domenica ventinovesima dell’anno liturgico (19 ottobre) di p. Alberto :

 

 

p. Maggi

 

Mt 22,15-21


In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Dopo la serie di invettive con le quali Gesù ha accusato i capi spirituali del popolo di essere ladri e assassini – ladri perché si sono impadroniti del popolo e assassini perché hanno usato la violenza – c’è ora il contrattacco da parte di questi capi, che però hanno un problema. Gesù è seguito da tanta folla allora c’è bisogno di screditarlo.
Il vangelo che leggiamo, al capitolo 22 di Matteo, versetti 15-21, è il primo di una serie di attacchi con i quali i capi religiosi, i capi spirituali tenteranno di screditare Gesù, gli tenderanno delle trappole per diffamarlo e screditarlo di fronte alla gente.
Leggiamo. Allora. L’allora collega questo episodio alla denuncia che Gesù ha fatto con la parabola degli invitati alle nozze che hanno rifiutato quest’invito per motivi di interesse. La convenienza è quella che determina l’agire dei capi religiosi. Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio … questa espressione nei vangeli ha sempre un significato negativo di un complotto contro Gesù … per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi.
Quindi ora c’è una serie di trappole che vengono tese a Gesù, ma dalle quali Gesù uscirà tendendo lui a sua volta le trappole ai suoi accusatori. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, e qui c’è una sorpresa, con gli erodiani. Farisei ed erodiani si detestavano perché gli erodiani sono quelli del partito di Erode, che era un re fantoccio messo su dai romani, e i farisei detestavano questo re.
Tra di loro c’era una grande inimicizia, ma ora hanno un pericolo comune. Gesù è pericoloso sia per i farisei che per gli erodiani, allora si mettono insieme in combutta per eliminarlo. A dirgli “Maestro” … attenzione a questo titolo, nel vangelo di Matteo è sempre in bocca agli avversari di Gesù o a coloro che gli sono ostili, ma fa parte di quel linguaggio curiale usato per addolcire quello che vogliono dire. “Sappiamo che tu sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità”.
Quest’affermazione è vera, quindi riconoscono che Gesù afferma la via di Dio secondo verità, ma perché? “Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno.” Il contraltare è che loro, invece, Gesù li ha accusati che tutto quello che fanno è per essere ammirati, ecco la differenza. I farisei tutto quello che fanno è per essere glorificati, per essere ammirati, Gesù tutto quello che fa non è per la propria convenienza, ma per la convenienza del bene dell’uomo.
Quando si mette il valore dell’uomo come principio assoluto che regola la propria esistenza non si guarda in faccia a nessuno, non ci si cura dell’opinione della gente. Ed ecco l’insidia, “Dunque di’ a noi il tuo parere”, il termine è all’imperativo non è una richiesta, ma un’imposizione, “E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?” Cos’era il tributo a Cesare?
Da quando era stato nominato per la Giudea un procuratore romano nel VI d.C, c’era una tassazione per tutti, uomini e donne, dai 12 ai 65 anni. La domanda è tendenziosa. Perché? Perché proprio a causa del pagamento di questo tributo c’erano state tante sollevazioni. Basti pensare a quella famosa di Giuda il Galileo che si ribellò a questa tassa. Ebbene la domanda è una trappola, perché gli chiedono se è lecito o no pagare il tributo a Cesare, non dimentichiamo che siamo dentro l’area del tempio, come Gesù risponde si danneggia.
Perché se Gesù dice “Sì è lecito pagare il tributo a Cesare” va contro la legge per la quale l’unico Signore del popolo, l’unico riconosciuto come tale, è Dio. Se al contrario dice “No non paghiamo” ecco che era un sovvertitore, un ribelle, come era stato Giuda il Galileo. Siamo all’interno del tempio, ci sono le guardia e Gesù può essere subito arrestato.
Quindi Gesù come risponde si danneggia, sia che si dica favorevole, sia che si esprima contrario al pagamento di questo tributo. Ed ecco, a farisei ed erodiani che hanno teso una trappola a Gesù, tende loro a sua volta una trappola. Gesù a bruciapelo dice: “Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. Ma nel tempio era severamente proibito portare monete romane, perché per la legge espressa nel libro del Deuteronomio, nei comandamenti, si proibisce di fare qualunque figura umana.
Pertanto nel luogo più santo di Gerusalemme, il tempio, era assolutamente proibito portare monete, monete romane, che avevano delle effigi umane. All’ingresso del tempio c’erano dei cambiavalute che cambiavano le monete romane con le monete permesse nel tempio. Ma l’interesse – è questa la denuncia che sta facendo l’evangelista – è il vero Dio di questi farisei. Loro, che sono ossessionati dall’idea del puro e dell’impuro, che sono meticolosi, sono scrupolosi, quando si tratta di denaro non vanno tanto per il sottile.
Nel tempio, nel luogo più sacro, essi portano una monete che, agli occhi della religione, è considerata impura. Ma per gli interessi, per la convenienza, passano al di sopra di tutto questo. Ecco allora la trappola di Gesù quando loro ingenuamente gli presentano un denaro. Egli domandò loro: “Quest’immagine e l’iscrizione, di chi sono?” Gli risposero: “Di Cesare”. Infatti il denaro romano portava da una parte l’immagine di Tiberio con la scritta “Cesare figlio del divino Augusto, pontefice massimo”, e nel suo rovescio, c’era la madre dell’imperatore rappresentata come la dea della pace.
Comunque due figure umane. Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro… Loro hanno chiesto se è lecito pagare o no, Gesù non risponde se sia lecito o no pagare, lui usa un altro verbo che è “rendete”, cioè “restituite”. “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare”. Se non volete la sua dominazione non dovete usare i suoi benefici, per cui questo denaro non è vostro, restituitelo a Cesare.
Ma, ed è qui che l’evangelista vuole arrivare, “E a Dio quello che è di Dio”. Cos’è che devono restituire a Dio e che è di Dio? Gesù nella parabola dei vignaioli omicidi ha usato i capi religiosi e i capi spirituali che per interesse si sono impadroniti della vigna del Signore, si sono messi tra Dio e il popolo, imponendo le loro tradizioni, le loro leggi, occultando e oscurando l’amore di Dio per il suo popolo. Quindi bisogna disconoscere da una parte la signoria di Cesare, ma restituire quella di Dio che è stata usurpata dai farisei.
A queste parole, commenta l’evangelista, rimasero stupiti, meravigliati, e, lasciatolo, e se ne andarono. Se ne vanno per poi tornare, infatti più avanti torneranno alla carica con uno di loro, con un esperto, con un dottore della legge. E questa è soltanto la serie degli attacchi contro Gesù che faranno farisei, erodiani, sadducei e dottori della legge.




la festa di Dio “per i cattivi e per i buoni”

Dio preparatore di feste

piace così, a p. Agostino Rota Martir, leggere il vangelo: non da una canonica ma da un ‘villaggio’ rom, e guardare a Dio e definirlo come ‘preparatore di feste’, non, moralisticamente, solo per buoni, ma per tutti i suoi figli, ‘per i cattivi e per i buoni’, così come ci dice Gesù nel vangelo di questa domenica, scartando solo chi si mette fuori contesto da solo perché incapace di aprirsi alla gioia della festa

 

p. agostino

qui di seguito il suo commento al vangelo della domani:

 

 

Dalla vigna al Banchetto di nozze.

Dal lavoro alla festa.

Dai campi ben allineati di una vigna ai crocicchi delle strade.

 

Noi preti in genere, ci troviamo più a nostro agio con l’invito al lavoro nella vigna, un po’ meno con quello della festa. Purtroppo, lo riconosco vero anche in me!

Ci affascina di più una fede “operosa” e dinamica rispetto a quella che emerge da questa parabola: un re che invita tutti alle nozze del Figlio, ma proprio tutti.

Noi abbiamo la tendenza a catalogare: buoni e cattivi, giusti e colpevoli, credenti e atei.. possibilmente gli uni da una parte, gli altri dall’altra, in posti ben separati come al teatro o allo stadio, giusto per non alimentare confusione.

Insomma una fede lineare, con un’identità forte e chiara, quasi granitica sempre pronta a dare risposte sicure ad ogni domanda.

 

Ecco, ci va un pochino stretto quel Dio che scombussola il tavolo delle nostre regole, che cambia facilmente le carte in tavola e che perde tempo ad organizzare feste e banchetti ad ogni occasione.

 

La festa invita a ridere con i poveri, a cantare con gli emarginati, a giocare con i delinquenti..chi non ha compreso che invitare alla tavola della festa è più importante che dar da mangiare, chi non ha recepito che il tempo delle condivisioni, della gratitudine del sorriso è più importante che il dono di beni di consumo, allora si, ciò è molto triste.“ (Claude Dumas, sacerdote Sinto Francese)

 

“Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?” Appunto senza la gioia, il sorriso della festa, la festosità dello stare insieme..

 

Perché, me lo chiedo spesso, noi siamo più solleciti a organizzare pranzi e cene per i poveri, per i senza tetto, per i barboni.. ma spesso disertiamo le feste preparate dai poveri?

Diamo la priorità ad altri impegni, forse più importanti (preparare corsi di formazione per operatori pastorali..) O forse, per timore di essere trovati senza l’abito nuziale?

 

Di certo Dio sorriderà di noi e della nostra convinzione di stare a lavorare per il suo regno, mentre Lui partecipa alla festa, mangiando e danzando la gioia di stare insieme ai suoi prediletti.

 

 

 




il commento al vangelo della domenica

TUTTI QUELLI CHE TROVERETE CHIAMATELI ALLE NOZZE 

Commento al Vangelo della domenica ventottesima del tempo ordinario (12 ottobre) di p. Alberto Maggip. Maggi

Mt 22,1-14

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

La parabola dei vignaioli assassini ha scatenato l’ira dei sacerdoti e dei farisei che, scrive l’evangelista, capirono che parlava di loro. Nessun segno di pentimento, né di conversione, ma cercano di catturarlo per eliminarlo. Ebbene di fronte a questa minaccia Gesù, non solo non indietreggia, ma rincara la dose con al terza e ultima parabola con la quale Gesù polemizza con le autorità giudaiche. Queste tre parabole sviluppano progressivamente il tema di fondo, la denuncia contro le massime autorità religiose che si mostrano refrattarie e ostili al disegno di Dio. In questa parabola Gesù dice il perché, qual è il motivo di questa ostilità: la convenienze, l’interesse.

Sentiamo allora il vangelo di Matteo, cap. 22 versetti 1-14. Gesù riprese a parlare loro, ai sommi sacerdoti, agli anziani e anche ai farisei, con parabole. “Il regno dei cieli”, è importante che Gesù parli di un regno dei cieli, non di un regno nei cieli, non sta parlando dell’aldilà ma della nuova società alternativa che Dio vuole inaugurare su questa terra. “E’ simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”. Ancora una volta tornano un padre e un figlio e questa volta Gesù paragona il regno dei cieli, cioè il regno di Dio, questa nuova alternativa che lui è venuto a proporre, con la festa più bella e gioiosa che c’è nella vita degli individui, una festa di nozze. “Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”. Ebbene il re non si scoraggia, manda altri servi e ora comprendiamo il motivo di questo rifiuto. E’ strano che si rifiuti di partecipare a una festa bella e gioiosa. “Dite agli invitati: ‘Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!’” Cerca di attirarli con l’aspetto più attraente della festa, cioè una grande mangiata. In tempi di grande fame, in tempi di grande miseria, si aspettavano le nozze per abbuffarsi. Ma Gesù dice: “Quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari”. Rifiutano la proposta de regno per il proprio interesse. Gesù smaschera l’atteggiamento dei capi dell’istituzione religiosa che tutto quello che fanno è per la propria convenienza. Partecipare a un pranzo di nozze non è produttivo, non conviene, e, a una proposta di vita, rispondono con una di morte. “Altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero”. E’ la sorte dei profeti inviati dal Signore. Quindi a una proposta di pienezza di vita, come le nozze, rispondono con una di pienezza di morte. “Allora il re si indignò: mandò le sue truppe”, e qui Gesù usa il linguaggio dei profeti, un linguaggio colorito e sta annunziando quella che sarà la sorte di Gerusalemme, che uccide i profeti, che ha seminato violenza e sarà travolta dalla violenza. “Fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. E’ la sorte che capiterà a Gerusalemme. Ma ecco la parte positiva. “Poi disse ai suoi servi: ‘La festa di era pronta, ma gli invitati non ne erano degni; ora andate …’” e qui è importante la traduzione, trovo scritto “i crocicchi delle strade”, ma non si tratta di crocicchi. Il termine greco indica il punto finale di un territorio, là dove le strade romane terminavano e iniziavano i sentieri di campagna. Era il punto finale del territorio, ma l’inizio di altri territori. Allora Gesù in questa parabola mette in bocca al re queste parole, di andare alle periferie, di questo si tratta. Le periferie è dove vivono gli esclusi, gli emarginati. E’ un’indicazione che l’evangelista da ai missionari per sapere dove orientare la loro predicazione. Andare nelle periferie, dato che ci sono le persone emarginate, i lontani, i rifiutati. “’E tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’”, tutti, non c’è più un popolo eletto, ma c’è una chiamata universale. “Usciti per le strade i servi radunarono tutti quelli che trovarono”, è interessante che Gesù parli prima di cattivi e poi di buoni, non c’è un giudizio, l’amore di Dio è offerto a tutti. L’amore di Dio non è concesso come un premio per i meriti delle persone, ma come un regalo per i loro bisogni. “Cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale”. La veste nel Nuovo Testamento e nel libro dell’Apocalisse, indica le opere buone delle persone, e il re rimprovera questa persona che non ha l’abito, di cui vedremo ora il significato. “Gli disse: ‘Amico, come mai sei entrato qui senza abito nuziale?’ Quello ammutolì”. Qual è il significato? Non basta entrare nella sala del banchetto. L’invito è aperto a tutti, ma una volta entrati occorre cambiare. Gesù ha messo la conversione come condizione per appartenere al regno di Dio. A una società basata sui valori dell’avere, del salire, del comandare, Gesù offre una possibilità alternativa di una società diversa dove ci sia la condivisione, lo scendere e il servire. Questo è l’abito, quindi non basta entrare, ma bisogna cambiare. “Allora il re ordinò ai servi: ‘Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”’. Adoperando le immagini tipiche e il linguaggio colorito dei profeti della scrittura, Gesù parla della frustrazione per la perdita di un’occasione unica nella propria vita. La conclusione: “Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Per molti si intende tutti. L’amore di Dio è rivolto a tutti, ma purtroppo ci sono poche persone che l’accolgono in pienezza.




il vangelo della domenica

commento al vangelo della XXVII domenica del TEMPO ORDINARIO – 5 ottobre 2014

Mt 21,33-43

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:  «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.  Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

DARA’ LA VIGNA IN AFFITTO AD ALTRI CONTADINI 

  commento al Vangelo di p. Alberto Maggi 

Dopo aver detto alle massime autorità religiose, ai sommi sacerdoti, agli anziani, che le categorie da loro ritenute escluse dall’azione divina, quali erano pubblicani e prostitute, avrebbero preso il loro posto nel regno di Dio, Gesù si rivolge alle massime autorità, sommi sacerdoti e anziani, dicendo: “Ascoltate”.
Non è un invito, ma un imperativo, un ordine. “Ascoltate un’altra parabola”. E’ la terza parabola che Gesù fa e che ha come protagonista la vigna. La vigna era l’immagine del popolo di Israele secondo la figura che si trova nel libro del profeta Isaia al capitolo 5.
Infatti è proprio una vigna la protagonista di questa parabola. C’era un uomo che possedeva un terreno, vi piantò una vigna e qui l’evangelista, con una serie di termini, indica la grande premura di questo signore per la vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e vi costruì una torre. Quindi indica la grande premura del padrone per questa vigna.
La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo dei frutti … i termine adoperato per esprimere il “tempo” significa “il tempo propizio”, il tempo opportuno, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare i suoi frutti.
L’evangelista insiste sul fatto che i frutti sono del padrone. Ma i contadini presero i servi, uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. E’ la sorte dei profeti. Continuamente Dio ha mandato profeti nel suo popolo e continuamente questi profeti sono stati rifiutati, perseguitati e spesso sono stati uccisi. Perché? I profeti da sempre invitano a un cambiamento, ma coloro che sono installati nel potere non desiderano cambiare, ma mantenere il loro privilegio, la loro posizione di prestigio.
Mandò di nuovo altri servi più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Sa ultimo mandò loro il proprio figlio. L’espressione indica l’unico figlio, che è quello che rappresenta il padre, che eredita tutto. Dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio”.
Che illusione! Le autorità religiose hanno rispetto soltanto per se stesse, ma non rispettano gli altri, perché tutto quello che loro fanno, come adesso Gesù denuncerà, è basato sulla loro convenienza e non sul bene degli altri.
Ma i contadini, visto il figlio, e il termine figlio appare per la terza volta, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” Gesù smaschera il fatto che il vero Dio del tempio si chiama interesse, si chiama convenienza. Gesù non è morto perché questa fosse la volontà di Dio, ma è morto per l’interesse della casta sacerdotale al potere.
Quindi il calcolo che fanno questi contadini, che poi vedremo sono le autorità religiose, è basato soltanto sulla loro convenienza. Mentre Gesù, per il bene degli uomini, ha sacrificato la propria convenienza, le autorità per la propria convenienza, sacrificano il bene degli uomini e non esitano addirittura ad assassinare il figlio di Dio.
Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Essere cacciati fuori significa, secondo il libro del Levitico, capitolo 24, versetto 14, la condanna che era riservata ai bestemmiatori. Le massime autorità religiose del popolo, ritengono Gesù, il figlio di Dio, un nemico di Dio, un bestemmiatore. E come tale va eliminato.

“Quando verrà dunque il padrone della vigna, cosa farà ai contadini?”  E i sommi sacerdoti e gli anziani, ai quali Gesù ha rivolto la parabola, emettono la propria sentenza. “Quei malvagi li farà morire miseramente”. Per rendere meglio il testo greco bisognerebbe tradurre con “farà miserabilmente perire questi miserabili” oppure “quei malvagi malamente li distruggerà”.
Quindi si danno loro stessi la sentenza. “E darà in affitto la vigna ad altri contadini”, ai popoli pagani, “che gli consegneranno i frutti a suo tempo”.
E Gesù con profonda ironia, teniamo presente che si rivolge a persone pie, i sommi sacerdoti e gli anziani che conoscono la scrittura, come se fossero ignoranti, dice, citando il Salmo 118: “Non avete mai letto nelle Scritture: ‘la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo’”, la pietra che è stata scartata era in realtà la pietra più importante.
“Questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”. Ed ecco la sentenza di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio”. Già Gesù lo aveva detto che le categorie ritenute dalla religione le più lontane, quali erano le prostitute e i pubblicani, sono passate avanti, non nel senso di precedere, ma di prendere il posto, adesso Gesù lo dice chiaramente “sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo”, si intende un popolo pagano, “ che ne produca i frutti”.
E’ una pena che nella versione liturgica sia stato tolto il versetto 45 che è quello che fa comprendere a chi è rivolta questa parabola. “Udite le sue parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlavano di loro e cercavano di catturarlo, ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta”.
Le parole di Gesù non suscitano un desiderio di pentimento, le autorità non si pentono mai, ma soltanto l’eliminazione di chi le ha smascherate.Il nemico di Dio non è il peccato. Il peccatore che accoglie l’amore del Signore si può convertire. Il nemico di Dio nei vangeli si chiama convenienza. La convenienza rende refrattari e ostili all’azione divina. E’ quello che leggiamo nel vangelo di Matteo, capitolo 21, versetti 33-43
croce

CRISI RELIGIOSA

il commento di p. Pagola:

La parabola dei “vignaioli omicidi” è un racconto nel quale Gesù va scoprendo con accenti allegorici la storia di Dio con il suo popolo eletto. È una storia triste. Dio lo aveva curato dall’inizio con tutto l’affetto. Era la sua “vigna prediletta”. Sperava di fare di loro un popolo esemplare per la sua giustizia e la sua fedeltà. Sarebbero stati una “grande luce” per tutti i popoli.Tuttavia quel popolo andò rifiutando e uccidendo uno dopo l’altro i profeti che Dio gli inviava per raccogliere i frutti di una vita più giusta. Per ultimo in un gesto incredibile d’amore inviò loro il suo proprio Figlio. Ma i capi di quel popolo lo uccisero. Cosa può fare Dio con un popolo che delude in una maniera così cieca e ostinata le sue aspettative?I capi religiosi che stanno ascoltando attentamente il racconto rispondono spontaneamente negli stessi termini della parabola: il padrone della vigna non può far altro che uccidere quei lavoratori e dare la sua vigna in mano ad altri. Gesù tira rapidamente una conclusione che non aspettano: Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.Esegeti e predicatori hanno interpretato frequentemente la parabola di Gesù come la riaffermazione della Chiesa cristianacome “il nuovo Israele” dopo il popolo giudeo che, in seguito alla distruzione di Gerusalemme l’anno settanta, si è disperso in tutto il mondo.Tuttavia, la parabola sta parlando anche di noi. Una lettura onesta del testo ci obbliga a porci gravi domande: stiamo producendo nei nostri tempi “i frutti” che Dio attende dal suo popolo: giustizia per gli esclusi, solidarietà, compassione verso chi soffre, perdono…?Perché Dio dovrebbe benedire un cristianesimo sterile dal quale non riceve i frutti che attende? Perché dovrebbe identificarsi con la nostra mediocrità, le nostre incoerenze, le deviazioni e la poca fedeltà? Se non rispondiamo alle sue aspettative, Dio continuerà ad aprire vie nuove al suo progetto di salvezza con altri che producano frutti di giustizia.Noi parliamo di “crisi religiosa”, “scristianizzazione”, “abbandono della pratica religiosa”… Non starà Dio preparando la via che renda possibile la nascita di una Chiesa più fedele al progetto del regno di Dio? Non è necessaria questa crisi perché nasca una Chiesa meno potente ma più evangelica, meno numerosa ma più impegnata a fare un mondo più umano? Non verranno nuove generazioni più fedeli a Dio?José Antonio Pagola.




p. Maggi e don Luciano commentano il vangelo della domenica

maggi

 

“PENTITOSI ANDO’ “

I PUBBLICANI E LE PROSTITUTE VI PASSANO AVANTI NEL REGNO DI DIO  

 commento al Vangelo della domenica ventiseiesima del tempo ordinario (28 settembre) di p. Alberto Maggi

Mt 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

I capi religiosi sono furibondi contro Gesù perché Gesù ha dichiarato che il tempio è un covo di ladri dando implicitamente a loro dei “banditi”. Allora si scagliano contro Gesù e chiedono con quale autorità Gesù faccia questo. E Gesù non risponde.
Gesù dice: “Prima ditemi voi con che autorità esercitava Giovanni il Battista. Veniva il suo insegnamento dal cielo”, cioè da Dio, “o dagli uomini?”.
E le autorità non rispondono. Non rispondono perché tutto quel che determina il comportamento delle autorità religiose è in base al loro unico Dio, quello che regola la loro esistenza, la convenienza. Tutto quello che fanno è per la loro convenienza.
Ed è in base alla loro convenienza che ragionano. Se diciamo “del cielo”, allora diranno “E perché non gli avete creduto?” Quindi confessano di non aver creduto all’inviato da Dio. Se diciamo “dalla terra”, la gente pensa che Giovanni è un profeta e quindi noi ci rimettiamo. Quindi non rispondono.
Allora è ad essi che Gesù rivolge questa parabola di Matteo, cap. 21,28-32.

Quindi quello che Gesù dice è rivolto alle massime autorità religiose. “«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli, si rivolse al primo e disse: ‘Figlio… ‘» “
Il termine greco adoperato dall’evangelista è pieno di tenerezza. Potremmo tradurlo meglio con “Figliolino mio”. E’ lo stesso verbo da cui nasce la parola “partorire”, e quindi è un verbo di grande tenerezza materna. “«’Oggi vai a lavorare nella vigna’»”, la vigna si sa è immagine del popolo di Israele. “«Egli rispose: ‘Non ne ho voglia’, ma poi si pentì e vi andò»”.
Quindi c’è un primo figlio che risponde di no all’invito del Signore, ma poi si pente. “«Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: ‘Sì signore’»”. Mai fidarsi di quelli che dicono Si Signore! Questo secondo non ha un rapporto con il padre, non ha detto “Sì padre”, dice “Si signore”. Lui è un signore al quale obbedire.
“«Ma non vi andò»”. Nelle parole di Gesù c’è l’eco della denuncia ripresa dallo stesso Gesù del profeta Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”. “Si, Signore”, ma non hanno nessuna intenzione di collaborare all’azione di questo signore al quale si rivolgono con tanto ossequio. E Gesù aveva detto: “Non chi mi dice Signore Signore …” Quindi queste persone si sa già che sono escluse dalla realtà di Dio.
E Gesù allora chiede alle autorità religiose, “«Quale dei due ha compiuto la volontà del padre?»” Ecco che appare il termine “Padre”. Sarebbe stato meglio che anche questa volta fossero stati zitti, che non avessero risposto. Invece rispondono. “«Risposero: ‘il primo’»”.
“E Gesù disse loro: «In verità…»” Quindi è un’affermazione solenne, importante, “«Io vi dico …»” E Gesù contrappone ai sommi sacerdoti anziani, i primi della società, gli intimi di Dio, pubblicani e prostitute, gli ultimi della società, gli esclusi da Dio.
“«Pubblicani e prostitute vi passano avanti»”. La costruzione del verbo greco , tradotto con “passare avanti”, non indica precedenza, cioè vi passano avanti e poi voi venite, ma indica esclusione, cioè vi hanno preso il posto.
 Quelli che voi pensate siano responsabili del ritardo del regno di Dio, loro ci sono già e voi siete rimasti fuori. E Gesù conclude: “«Giovanni»”, ecco che ritorna l’argomento del Battista, “«infatti venne a voi sulla via della giustizia e non gli avete creduto»”.
Mai le autorità religiose crederanno ad un inviato da Dio. Mai! Sono completamente refrattarie agli annunci divini. Sono completamente sordi alla parola del Signore. “«I pubblicani e le prostitute»”, cioè le categorie considerate da Dio, quelle per le quali si credeva fosse ritardato il regno, “invece gli hanno creduto”.
“«Voi al contrario avete visto queste cose ma poi non vi siete nemmeno pentiti»”. Ecco tre volte nel vangelo di Matteo appare il verbo “pentire”. Qui nella parabola del figlio che si pente, nel caso di Giuda il traditore che si pente, ma le autorità no. Le autorità non si pentiranno mai. Si è pentito Giuda, ma le autorità non si pentiranno mai., perché quello che determina il loro comportamento è la convenienza, l’unico Dio nel quale essi credono.
Non hanno altra divinità alla quale rispondere. L’evangelista ci fa comprendere che le autorità religiose sono completamente refrattarie alla buona notizia di Gesù perché dovrebbero perdere il loro potere, i loro privilegi e il loro prestigio. E la buona notizia di Gesù è un invito ad essere espressione dell’amore che si fa servizio per gli uomini.

IL MIRACOLO DEL PENTIMENTO   

il commento di don Luciano:
  La Parola di Dio è sempre molto incisiva e molto efficace.  Un uomo aveva due figli’. Si potrebbe tradurre così: un uomo aveva due stili di vita, due anime, due cuori: un cuore che dice sì; uno che dice no, che dice e poi si contraddice. Sì, siamo tutti così, contradditori e incerti. Siamo una contraddizione vivente, che S. Paolo stigmatizza in questo modo: ‘Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio’ (Rm 7,19). Uno che dice di sì e uno che lo contraddice. Due figli, due figure contrastanti, che ci assomigliano moltissimo. Abbiamo tutti due anime, davanti a Dio e davanti agli uomini, quella dell’apparire (fingere), e quella dell’essere veri (anche se nessuno vede e sa); quando mettiamo la maschera e quando la togliamo.  Gesù sa molto bene come siamo fatti, non si illude! Nessuno dei due figli può vantare un’obbedienza perfetta.  Non esiste un terzo figlio ideale che, senza contraddizioni, dice e fa (Gesù a parte!). La nostra vita non ha un percorso lineare. Non esistono cristiani perfettamente coerenti nelle parole e con i fatti. E questo perché il nostro rapporto con Dio non è vissuto sempre in piena libertà, in quanto non è sempre un rapporto d’amore. Infatti, se noi, come questi due figli della parabola, riuscissimo a scoprire che Dio non è un padrone, ma un ‘padre vero’, con cui vivere un rapporto di amore, allora sì che troveremmo la libertà, saremmo felici e obbediremmo anche volentieri a un padre così.  E’ proprio vero: Dio non ha bisogno di schiavi che lavorino nella sua vigna, ma di figli… La differenza decisiva tra i due figli della parabola sta tutta qui: uno diventa figlio (il primo), è coinvolto nel fare la volontà del padre; l’altro (il secondo) rimane un servo, esecutore di ordini. Ma la parola più importante del Vangelo di oggi è: ‘si pentì’ e vi andò’. Ha riflettuto, si è messo in discussione e ha cambiato vita.  ‘Pentirsi’: mutare avviso, ri-credersi, ripensarci. Ma il primo figlio ha cambiato soprattutto il modo di vedere il padre. E così diventa veramente ‘figlio’. Quanto mi riempie il cuore di gioia la figura del primo figlio che si pente, ci ripensa, si ricrede e finalmente diventa ‘figlio’ nel vero senso della parola. Mi fa pensare che per Dio ‘non è mai troppo tardi’!  Si possono sempre riscattare tante pagine sbagliate della nostra storia. Finché siamo su questa terra, per noi è sempre possibile dare una sterzata, ‘raddrizzare la nostra vita’. Dio, soprattutto con il suo perdono, mi permette sempre di ricominciare e mai da zero.  ‘La nostra vita si rinnova in una serie di inizi che non finiscono mai’ (S. Gregorio di Nissa).  Guai se nel cammino di fede ci scoraggiamo e diciamo: ‘Sono fatto così, e non posso farci proprio nulla!’ oppure: ‘Lascio perdere tutto, perché, se continuo così, sono un ipocrita!’.  Dio non chiude mai il conto con noi: ogni giorno ci chiama alla conversione, basta che lo ascoltiamo e lo vogliamo! Un prete così ha risposto a chi gli confidava con tristezza la sua lontananza da Dio: ‘Ma io non riesco a credere in Dio’, gli veniva detto in un colloquio. E lui osservava: ‘Ciò che importa è che Dio creda in te!’. Dio crede in
noi sempre, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi nel dire il ‘sì’ che lui attende.       Spesso nella nostra vita di cristiani c’è un’incoerenza cronica tra ciò che professiamo in chiesa e la nostra vita di fuori, in casa, per strada, al lavoro. Più volte nel Vangelo di Matteo Gesù dice che non bastano le parole, ma ciò che conta veramente è ‘fare’ la volontà di Dio. Paolo VI ha affermato in maniera molto forte che la rottura tra fede e vita è senza dubbio il dramma vero della nostra epoca. Il messaggio di Gesù è molto attuale.  La fede non può essere solo sentimento, devozione, emozione, slancio di un momento, che non entra mai nelle pieghe della vita. Quante volte in noi la fede rimane esclamazione sentimentale, fatta di parole dolci. Una fede che ci fa sentire buoni, devoti, lasciando intatte tutte le nostre povertà e ingiustizie che commettiamo ogni giorno.  Oppure: quante volte la nostra fede rimane esclusivamente liturgica, fatta di belle cerimonie, di momenti belli vissuti insieme, ma poi, usciti dalla chiesa, tutto finito! La fede è assumersi un impegno di vita e portarlo fino in fondo. Quante volte ci accorgiamo di essere più capaci di un grande sforzo che di una lunga perseveranza e di un lungo tirocinio evangelico. Sui principi siamo sempre tutti d’accordo e nelle azioni risultiamo sempre tutti peccatori: ciò che diversifica è l’atteggiamento che assumiamo quando siamo smascherati nella nostra doppiezza o superficialità. Perché invece non vedere queste situazioni, oggettivamente umilianti, come la modalità caparbia del Signore di rompere la nostra corazza che ci impedisce di accogliere profondamente la correzione? Che sia la Scrittura, che sia una vicenda in cui siamo coinvolti, che sia la parola franca di un fratello: possono essere tutti strumenti mediante i quali la nostra esistenza riacquista libertà e vigore, strappandoci alla cecità del nostro orgoglio e della nostra autosufficienza.       Com’è possibile allora che i nostri ‘sì’ rimangano ‘sì’ e non diventino ‘no’? I nostri ‘sì’ rimarranno ‘sì’ solo se la nostra amicizia con Gesù sarà sempre più forte e costante. Perché in lui c’è stato solo il ‘sì’. Lui è l’ Amen  di Dio, il testimone fedele. Nell’Amen di Cristo sulla croce i nostri ‘sì’ rimangono ‘sì’.      E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. I pubblicani e le prostitute sono migliori di voi, sacerdoti e anziani del popolo, perché, nonostante i loro peccati, sono capaci di amare. Voi, invece, vi chiudete nella vostra presunta irresponsabilità, nel vostro perbenismo, legalismo e siete incapaci di amare e quindi di mettervi in discussione.  Il Signore non ha paura dei nostri peccati, della nostra debolezza. Il problema non è non sbagliare mai, il che è impossibile. Il problema è conservare in fondo al cuore, nonostante tutto, un angolino dove io possa essere ancora vero, dove possa commuovermi di fronte all’amore che mi insegue e cambiare. La Chiesa non ha mai avuto paura di proporre come modelli di vita cristiana dei grandi peccatori, che hanno talmente amato da pentirsi e diventare santi: S. Agostino, S. Camillo de Lellis, S. Margherita da Cortona… E’ più grande un uomo che sbaglia, ma conserva la capacità di pentirsi e quindi di amare, di commuoversi, di un uomo che, magari sbaglia di meno, ma è freddo, prigioniero delle sue regole e incapace di amare.
Le tue parole, Gesù, suonano come un insulto  per i devoti e gli osservanti di ieri e di oggi, per tutti quelli che ritengono di aver diritto ad un premio, ad un posto di riguardo nel Regno che tu annunci.
Prostitute e pubblicani non sono certamente stinchi di santi, eppure avvertono la necessità di pentirsi, di cambiar vita. Diversamente da noi che, molto spesso, ci siamo costruiti un sistema di vita impermeabile al tuo Vangelo, alla tua richiesta di mutare
direzione, atteggiamenti, stile di vita.
Ti abbiamo sulle labbra, ma il nostro cuore è lontano da te. Discutiamo di problemi teologici e pastorali, ma diamo per scontato che le nostre scelte siano le migliori, che le nostre idee siano quelle giuste, che non ci sia dunque nulla da togliere, da aggiustare, da trasformare nella nostra esistenza.
Signore,  fa’ che non siamo mai troppo sicuri di noi stessi, fa’ che sappiamo metterci in discussione, fa’ che ci convertiamo ogni giorno




il commento al vangelo domenicale di p. Maggi e di p. Agostino

SEI INVIDIOSO PERCHE’ IO SONO BUONO?

Commento al Vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario (21 settembre) di p. Alberto Maggi

maggi

Mt 20,1-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

Non è facile accettare un Dio che anziché premiare i buoni e castigare i malvagi fa invece “sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), offrendo a tutti il suo amore. Un Dio del genere sembra ingiusto, come il padrone della parabola narrata da Gesù (Mt 20,1-15). In essa viene presentato un proprietario terriero che assolda dei braccianti per la sua vigna. L’importanza del lavoro fa sì che sia il padrone stesso a uscire da casa all’alba, per andare alla piazza del paese, e ingaggiare operai (Mt 20,1). La paga era un denaro il giorno, ed è questa che il padrone assicura ai lavoratori. La gran disponibilità di mano d’opera faceva sì che con una sola chiamata di operai si potesse soddisfare il fabbisogno dell’intera giornata.
Invece, a sorpresa, verso le nove del mattino, il padrone esce di nuovo, in cerca di altri operai. Non lo fa per la necessità della vigna, i primi chiamati sono più che sufficienti, ma li assolda perché essi sono ancora disoccupati, e senza lavoro, in quella società, significa non mangiare. È al loro bisogno che il padrone pensa. E a questi promette di dare un compenso in base al lavoro fatto (“quello che è giusto”, Mt 20,4).
A metà giornata, l’uomo torna di nuovo in piazza, e assolda altri operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Ormai di operai nella vigna ce ne sono abbastanza, ma il padrone è più preoccupato dal fatto che ci siano persone senza lavoro che del suo interesse. Ed è ormai quasi il tramonto, verso le cinque del pomeriggio, quando il padrone si reca in cerca di altre persone che nessuno ha chiamato a lavorare. Manca soltanto un’ora al termine della giornata lavorativa, ormai nessuno li prenderà più. Non hanno lavorato, quindi non mangeranno. Se nessuno ha pensato a loro, se ne occupa il padrone della vigna, che chiama anche questi a lavorare, senza parlare però di alcun compenso: non lavoreranno neanche un’ora, e potranno essere ripagati con un tozzo di pane.
La piazza del paese è deserta. Nessun bracciante è in attesa del lavoro: sono tutti alla vigna, che sovrabbonda di operai. Quelli che hanno iniziato il lavoro all’alba, sono stati ben felici di veder arrivare durante tutto il giorno altre braccia per aiutarli nel lavoro; con il loro apporto la giornata non è stata pesante. La loro felicità si trasforma in entusiasmo quando vedono che il fattore comincia a pagare gli ultimi, quelli che hanno lavorato un’ora scarsa, e dare loro un denaro: non è una paga, ma un regalo. Se quelli che hanno lavorato un’ora ricevono quanto era stato pattuito con i primi lavoratori per una giornata intera, a quelli che hanno sopportato il peso della giornata e la calura certamente verrà dato almeno tre volte tanto.
Ma quando questi vedono che sono retribuiti con un denaro, come era stato pattuito, sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto. Il signore della vigna non è stato ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Non toglie nulla a quelli che hanno lavorato dall’alba, ma vuole dare lo stesso salario anche agli ultimi. Difendendo il suo comportamento, il padrone della vigna si definisce buono (“Sei invidioso perché io sono buono?”, Mt 20,15). Nell’atteggiamento del proprietario della vigna, Gesù raffigura quello del Padre.
Dio non è un padrone severo, ma un signore generoso che non retribuisce gli uomini secondo i loro meriti, ma secondo i loro bisogni, perché il suo amore non è concesso come un premio, ma come un regalo. Quel che motiva il suo agire è la necessità dell’uomo, la sua felicità. E se a qualcuno questo comportamento può sembrare ingiusto, e non gli sta bene, è perché il suo è un “occhio maligno” (Mt 20,15), quello dell’avaro, dell’invidioso (Dt 15,9), di colui che fa tutto per la sua convenienza. Questi non potrà mai capire l’agire di un Dio che non “cerca il proprio interesse” (1 Cor 13,5), ma quello dell’uomo.

p. agostino

Dio germoglia dalla strada.

il commento di p. Agostino dalla sua convivenza coi rom di Coltano

Sembra proprio, alla luce di questa parabola dedicata al Regno dei cieli, che questi non sempre si concilia con il “merito”, parola chiave oggi in tanti nostri contesti sociali.

Oggi quasi tutto si misura in base al merito, al rendimento. Qualche anno fa circolava con disinvoltura quella bruttissima espressione: meritocrazia.

Vedo il rischio che la meritocrazia comprometta e annulli un’altra parola, quella della gratuità, della bontà, tipica dell’essere umano e del cuore di Dio. E questo può succedere anche in contesti religiosi, soprattutto quando ci si confronta con gli ultimi, che in nome di una carità efficiente e moderna (in sinergia, come si usa ripetere spesso)), si fa prevalere quasi sempre il merito, il risultato.

 

“Ti aiuto quando te lo meriti!

Se cambi (come voglio io), meriti la mia comprensione.

Se smetti di accattonare.

Se mandi i bambini a scuola.

Se ti cerchi un lavoro.

Se stai a quello che ti dico, potrai avere (meritare) qualcosa in cambio.

Se hai il Permesso di Soggiorno in regola puoi dormire qui.

Se.. se.. se..”

 

Più contabili e ragionieri che accompagnatori.

Noi spesso guardiamo gli ultimi dall’alto dei nostri meriti, delle nostre conquiste: dall’alto in basso. Il padrone della vigna, invece calcola partendo proprio dagli ultimi arrivati, dalle loro necessità. Non un Dio ragioniere, contabile. Noi riusciamo a farlo? Come traduciamo questo sguardo di bontà, questo atteggiamento anche nei nostri cammini pastorali?

Dio sembra guardare il mondo proprio attraverso gli occhi degli ultimi arrivati nella sua vigna. Anche oggi, questo provoca diverse reazioni dei “buoni-bravi”:

 

“ Ma come? Questi migranti appena arrivati, quanto ci costano! Lo stato gli dà 35 € al giorno e sono i nostri soldi, e noi che affrontiamo la crisi, lo stato non ci da niente!”

“Quanto sono furbi e insistenti..devono imparare a rispettare le regole!”

“La precedenza a noi, che abbiamo lavorato e faticato, poi quel che rimane a loro, che non hanno fatto niente.”

 

Amico, io non ti faccio torto..oppure sei invidioso perché io sono buono?”

 

Che ci piaccia o no, anche gli ultimi hanno una loro specifica “missione”: quella di scuotere e disturbare le nostre certezze granitiche, come il nostro sentirci “buoni” a distanza di sicurezza dagli ultimi e di credere di avere Dio sempre e solo dalla nostra parte.. Attraverso gli ultimi arrivati forse, lo stesso Dio ci sussurra, che ancora oggi Lui entra nella nostra storia sui loro passi:: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri. Le vostre vie non sono le mie vie.” (Is. 55, 8)

E’ un Dio che manifesta e rivela la sua bontà partendo dagli ultimi, che (ci) guarda dal basso, dal fondo, mai sazio di uscire lungo le strade del mondo, capace di raggirare le nostre regole e continua ancora oggi a far germogliare il suo “magistero” dalla strada, proprio grazie a loro: gli ultimi arrivati!

 

Ebbene, quale Dio annunciamo nelle nostre assemblee, nei nostri convegni pastorali?

Il Dio visto con gli occhi dei “primi” o attraverso gli occhi degli “Ultimi”?

 

 

 

 

 

 




il vangelo della domenica commentato da p.Maggi

p. Maggi

CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO 

Commento al Vangelo della ESALTAZIONE DELLA CROCE  (14 settembre 2014, domenica ventiquattresima del tempo ordinario) di p. Alberto Maggi

Gv 3,13-17

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.»

Nel dialogo con il fariseo Nicodemo, capo dei Giudei, Gesù si rifà ad un episodio conosciuto della storia di Israele contenuto nel Libro dei Numeri.
Al capitolo 3, versetto 14 l’evangelista scrive: “«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto»”; i serpenti erano stati inviati da Dio per castigare il popolo secondo lo schema classico di “castigo-salvezza/perdono”. In Gesù invece c’è soltanto salvezza.
“«Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo»”, Gesù si riferisce alla sua futura morte in croce e parla del Figlio dell’uomo, cioè l’uomo che ha la pienezza della condizione divina.
“«Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna»” – credere nel Figlio dell’uomo significa aspirare alla pienezza umana che risplende in questo figlio dell’uomo.
Per la prima volta appare in questo vangelo un tema molto caro all’evangelista, cioè quello della vita eterna. La vita eterna non è, come insegnavano i farisei, un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una qualità di vita già nel presente. E si chiama “eterna” non tanto per la durata senza fine, ma per la qualità indistruttibile.
E questa vita eterna non si avrà in futuro, ma si ha già. Chiunque da adesione a Gesù, quindi aspira alla pienezza umana che risplende in Gesù.
“«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito»”, il Dio di Gesù non è un Dio che chiede, ma un Dio che offre, che arriva addirittura a offrire se stesso. “«Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»”.
La vita eterna non si ottiene, come insegnavano i farisei, osservando la legge, cioè un codice esterno all’uomo, ma dando adesione al Figlio dell’uomo. E Gesù appare qui come il dono dell’amore di Dio per l’umanità. Dio è amore che desidera manifestarsi e comunicare. E Gesù è la massima espressione di questa manifestazione e comunicazione di Dio. “«Dio infatti non ha mai mandato il Figlio nel mondo per condannare»”, anche se il verbo qui non è condannare, ma “«giudicare il mondo»”.
Di nuovo qui Gesù sta parlando con un fariseo, demolisce le attese di un messia giudice del popolo. Quindi il Figlio non è venuto per giudicare il mondo, “«ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»”. Dio è amore e in lui non c’è né giudizio né condanna, ma c’è soltanto offerta di vita.




il vangelo domenicale commentato da p.Maggie p.Pagola

maggi
SE TI ASCOLTERA’ AVRAI GUADAGNATO IL TUO FRATELLO 

commento al Vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (7 settembre) di p. Alberto Maggi 
Mt 18,15-20
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Dopo aver parlato dello scandalo della comunità verso i piccoli, cioè gli emarginati, che possono essere scandalizzati da quello che vedono all’interno della comunità in termini di ambizione, di superiorità, Gesù ora arriva a parlare dello scandalo dei dissidi all’interno della comunità. E’ quanto scrive Matteo al capitolo 18, versetti 15-20.
“«Se tuo fratello»”, quindi si tratta di un componente della comunità, “«commetterà una colpa contro di te, va’ e …»”, non ammoniscilo, come riporta questa traduzione, ma “«convincilo»”. Non è la posizione di un superiore verso un inferiore per ammonirlo, ma è la posizione del fratello che cerca di ricomporre l’unità, cerca di superare il dissidio. Sempre ricordando quanto Gesù già ha ammonito, cioè che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello, occorre stare attenti che uno non abbia la trave conficcata nel suo (trave che deforma la sua realtà).
“«Tra te e lui solo»”, quindi al dissidio non deve essere data pubblicità, si deve risolvere il problema. Ed è la persona offesa che deve andare verso l’offensore, perché chi sbaglia, chi offende spesso non ha il coraggio, non ha la forza di chiedere scusa, di chiedere perdono. Allora deve essere la parte lesa, la persona offesa, che va verso l’offensore e ricomporre il dissidio.“«E se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi con te una o due persone»”; sono quelli che nella comunità svolgono il ruolo di costruttori di pace, “«perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»”. Secondo quanto affermava il libro del Deuteronomio, capitolo 19, versetto 15, sulla validità di una testimonianza.
“«Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»”. Il termine greco è ecclesia che rappresenta la comunità dei convocati, l’assemblea dei convocati da Gesù, “«E se non ascolterà neanche la comunità, sia per te»”, quindi non per la comunità, ma per te, “«come il pagano e il pubblicano»”. Cosa significa? Non significa che quest’individuo, causa del dissidio, vada escluso dall’amore della comunità, e neanche dal tuo amore, ma significa che questo amore sarà a senso unico.
Mentre nella comunità l’amore donato viene anche ricevuto, perché i fratelli si scambiano vicendevolmente questo amore, verso la persona che è causa del dissidio, l’amore va dato come quello verso i nemici. Gesù dirà di amare i nemici, dirà di pregare per i persecutori. Quindi non significa escludere questa persona dal tuo amore, ma amarlo in perdita, a senso unico.
E sempre parlando della tematica del perdono, Gesù assicura: “«In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo»”. Si tratta sempre del perdono, chi non perdona lega il perdono di Dio, “«E tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto in cielo»”. Si tratta del perdono, Il perdono di Dio diventa operativo ed efficace quando si traduce in perdono verso gli altri. Quindi chi non perdona lega il perdono di Dio, mentre chi perdona lo scioglie.
Al termine del capitolo, al versetto 35, infatti, Gesù dirà: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore il vostro fratello”. Quindi questa affermazione di Gesù non riguarda la concessione alla sua comunità del potere di legiferare in ogni materia e in ogni campo, ma della responsabilità nel concedere il perdono: se non perdoni leghi il perdono di Dio.
E poi Gesù conclude: “«Ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo»”, il verbo mettere d’accordo è Sinfoneo, da cui la parola “sinfonia”. E’ importante perché indica la vita della comunità. Sinfonia significa che diverse voci, diversi strumenti suonano ciascuno dando il meglio di sé. Non ci deve essere una uniformità di voci e di suoni, ma c’è una varietà nell’unico spartito che è quello dell’amore. Quindi è l’amore vissuto nelle varie forme, fiorito nelle varie modalità.
“«Per chiedere qualunque cosa, il Padre mi oche è nei cieli gliela concederà. Perché dove due o tre …»”, ecco ritornano i due o tre che sono stati fautori della pace, coloro che sono andati a eliminare il dissidio, la loro funzione di costruttori di pace, rende manifesta la presenza del Signore. “«… sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro»”.
E ritorna la tematica cara all’evangelista, quella del Gesù, il Dio con noi. Mentre nella tradizione ebraica si diceva che dove due o tre si riuniscono per studiare la Torah, la legge, la Shekinà, cioè la gloria di Dio è in mezzo a loro, Gesù si sostituisce alla legge. L’adesione a Dio non avviene più attraverso una legge esterna all’uomo, ma nell’immedesimazione con una persona: Gesù, il Figlio di Dio, il modello dell’umanità. Gesù assicura che quando c’è questa unità, quando si ricompongono i dissidi all’interno della comunità, la sua presenza è ininterrotta e crescente.

croce
commento al vangelo di p. Pagola

Benché le parole di Gesù, raccolte da Matteo, sono di grande importanza per la vita delle comunità cristiane, poche volte attraggono l’attenzione di commentatori e predicatori. Questa è la promessa di Gesù: “Dove due o tre stanno riuniti nel mio nome, lì io sto in mezzo a loro”.
Gesù non sta pensando a celebrazioni massicce come quelle della Piazza di San Pietro a Roma. Benché solo siano due o tre, lì egli sta in mezzo a loro. Non è necessario che sia presente la gerarchia; non è necessario che siano molti i riuniti.

La cosa importante è che “siano” riuniti, non dispersi, né nemici tra loro: che non vivano disprezzandosi alcuni con gli altri. Egli è decisivo: “che si riuniscano nel suo nome”: che ascoltino la sua chiamata che vivano concordi col suo progetto del regno di Dio. Che Gesù sia il centro del suo piccolo gruppo, e questa presenza viva e reale di Gesù è quella che deve incoraggiare, guidare e sostenere le piccole comunità dei suoi seguaci. È Gesù che deve incoraggiare il loro discorso, le loro celebrazioni, progetti ed attività. Questa presenza è il “segreto” di ogni comunità cristiana viva.
Noi cristiani non possiamo riunirci oggi nei nostri gruppi e comunità in qualche generico modo: per abitudine, per inerzia o per compiere alcuni obblighi religiosi. Saremo molti o, forse, pochi, ma la cosa importante è che noi ci riuniamo nel suo nome, attratti dalla sua persona e dal suo progetto di fare un mondo più umano.
Dobbiamo ravvivare la nostra consapevolezza che siamo comunità di Gesù. Ci riuniamo per ascoltare il suo Vangelo, per mantenere vivo il suo ricordo, per contagiarci del suo Spirito, per accogliere in noi la sua gioia e la sua pace, per annunciare la sua Buona Notizia.

Il futuro della fede cristiana dipenderà in buona parte dalle cose concrete che noi cristiani faremo nelle nostre comunità nelle prossime decadi. Non basta quello che potrà fare Papa Francesco nel Vaticano, non possiamo neanche riporre le nostre speranze nel pugno di sacerdoti che potranno essere ordinati nei prossimi anni. La nostra unica speranza è Gesù Cristo.
Siamo noi quelli che dobbiamo centrare le nostre comunità cristiane nella persona di Gesù come l’unica forza capace di rigenerare la nostra fede consumata e abitudinaria. L’unico capace di attrarre gli uomini e le donne di oggi, l’unico capace di generare una fede nuova in questi tempi di incredulità.

Il rinnovamento delle istanze centrali della Chiesa è urgente. I decreti
e le riforme, necessarie. Ma niente di tanto decisivo come il ritornare con radicalità a Gesù Cristo.
Contribuisci a rigenerare la fede cristiana in Gesù.

José Antonio Pagola