Category Archives: la ‘parola’ della domenica
riflessioni sulle letture della messa domenicale
p. Maggi commenta il vangelo del ‘corpus domini’
LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA
commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Gv. 6,51-58
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Le parole che adesso leggeremo e commenteremo, quelle di Gesù nel vangelo di Giovanni, sono talmente gravi che, al termine di queste, gran parte dei suoi discepoli lo abbandonerà e non tornerà più con lui. Vediamo allora che cos’è di grave, di importante, che Gesù ha detto.
Nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni troviamo un lungo e intenso insegnamento sull’Eucaristia. Giovanni è l’unico evangelista che non riporta la narrazione della cena, ma è quello che, più degli altri, riflette sul profondo significato della stessa.
Quindi il capitolo 6 è un insegnamento, una catechesi alla comunità cristiana, sull’Eucaristia. Leggiamo il capitolo 6, dal versetto 51. “«Io sono»”, e Gesù rivendica la condizione divina, “«il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»”.
Gesù garantisce che l’adesione a lui è ciò che permette all’uomo di avere una vita di una qualità tale che è indistruttibile. Questa è la vita eterna. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane perché quanti lo accolgono e sono capaci di farsi pane per gli altri, diventino anch’essi figli di Dio. “«E il pane che io darò è la mia carne»” – Gesù adopera proprio il termine carne, che indica l’uomo nella sua debolezza, “«per la vita del mondo»”.
Quello che Gesù sta dicendo è molto importante: la vita di Dio non si da al di fuori della realtà umana. Non ci può essere comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. Quindi il dono di Dio passa attraverso la carne, dice Gesù. L’aspetto terreno, debole, della sua vita. Qui l’evangelista presenta una contrapposizione tra gli uomini della religione che si innalzano per incontrare Dio – un Dio che la religione ha reso lontano, inavvicinabile, inaccessibile – e, invece, un Dio che scende per incontrare l’uomo.
“Allora i Giudei”, con questo termine nel vangelo di Giovanni si indicano le autorità, “«si misero a discutere aspramente tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?»” Un Dio che, anziché pretendere lui i doni dagli uomini, si dona all’uomo fino ad arrivare a fondersi con lui, si fa alimento per lui. Questo è inaccettabile per le autorità religiose che basano tutto il loro potere sulla separazione tra Dio e gli uomini.
Un Dio che vuole essere accolto dagli uomini e fondersi con loro, questo per loro non solo è intollerabile, ma è pericoloso. Ebbene Gesù risponde loro: “«In verità, in verità io vi dico»”, quindi la doppia affermazione “in verità, in verità io vi dico” è quella che precede le dichiarazioni solenni, importanti di Gesù, “«Se non mangiate la carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita»”.
Gesù si rifà all’immagine dell’agnello, l’agnello pasquale. La notte del’Esodo Mosè aveva comandato agli ebrei di mangiare la carne dell’agnello perché avrebbe dato loro la forza di iniziare questo viaggio verso la liberazione e di aspergere il sangue sugli stipiti delle porte perché li avrebbe separati dall’azione dell’angelo della morte.
Ebbene Gesù si presenta come carne, alimento che da la capacità di intraprendere il viaggio verso la piena libertà, e il cui sangue non libera dalla morte terrena, ma libera dalla morte definitiva. Poi Gesù, tante volte non fosse stato chiara la sua affermazione, dice: “Chi mastica la mia carne”. Il verbo masticare i greco è molto rude, primitivo, in greco è trogon. Già il suono dà l’idea di qualcosa di primitivo, e significa “masticare, spezzettare”.
Quindi Gesù vuole evitare che l’adesione a lui sia un’adesione ideale, ma dev’essere concreta. Infatti dice: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna»”. La vita eterna per Gesù non è un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una possibilità di una qualità di vita nel presente. Gesù non dice “avrà la vita eterna”. La vita eterna c’è già. Chi, come lui, fa della propria vita un dono d’amore per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è indistruttibile.
“«E io lo risusciterò nell’ultimo giorno»”. L’ultimo giorno non è la fine dei tempi. L’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, è il giorno della morte in cui Gesù, morendo, comunica il suo Spirito, cioè elemento di vita che concede, a chi lo accoglie, una vita indistruttibile.
E Gesù conferma che la sua “«carne è vero cibo e il suo sangue è la vera bevanda»”. Con Gesù non ci sono regole esterne che l’uomo deve osservare, ma l’assimilazione di una vita nuova. E la sua carne è vero cibo, quello che alimenta la vita dell’uomo, e il suo sangue vera bevanda, cioè elementi che entrano nell’uomo e si fondono con lui. Non più un codice esterno da osservare, ma una vita da assimilare.
Gesù ci presenta un Dio che non assorbe gli uomini, ma li potenzia. Un Dio che non prende l’energia degli uomini, ma comunica loro la sua. E Gesù continua ad insistere: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui»”. Ecco la piena fusione di Gesù con gli uomini e degli uomini con Gesù.
Quello di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore. “«Come il Padre, che ha la vita»”, ed è l’unica volta che Dio viene definito come il Padre che è vivente, “«ha mandato me»”, il Padre ha mandato il figlio per manifestare il suo amore senza limiti, “«e io vivo per il Padre, così anche colui che mastica …»”, di nuovo Gesù insiste con questo verbo che indica non un’adesione teorica, ma reale e concreta, “«… me, vivrà per me»”.
Alla vita ricevuta da Dio corrisponde una vita comunicata ai fratelli. Questo è il significato dell’Eucaristia. E, come il Padre ha mandato il figlio ad essere manifestazione visibile di un amore senza limiti, così quanti accolgono Gesù sono chiamati a manifestare un amore incondizionato.
E conclude Gesù: “«Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono»”. Gesù mette il dito nella piaga del fallimento dell’Esodo. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto sono morti. I loro figli sono entrati. E Gesù contrappone il suo esodo che è destinato invece a realizzarsi pienamente.
E di nuovo Gesù insiste: “«Chi mastica»”, quindi adesione piena e totale, non simbolica, “«questo pane vivrà per sempre»”. Chi orienta la propria vita, con Gesù e come Gesù, a favore degli altri, ha già una vita che la morte non potrà interrompere
p. Maggi commenta il vangelo della festa della Trinità
DIO HA MANDATO IL FIGLIO SUO PERCHE’ IL MONDO SIA SALVATO PER MEZZO DI LUI
commento al Vangelo della domenica della Trinità (15 giugno 1014) di p. Alberto Maggi:
Gv 3,16-18
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Dio non è un giudice, ma è colui che comunica vita e offre all’umanità la pienezza di vita che si è manifestata e presentata nel figlio unico, Gesù. E’ il vangelo di Giovanni, capitolo 3, versetti 16-18, ma che avremo bisogno di integrare con il 19 e il 20, altrimenti il brano, così com’è amputato per la liturgia, non si capisce. “Dio infatti ha tanto amato il mondo”, quindi c’è questa manifestazione d’amore di Dio verso il mondo. Dio non è un Dio pessimista, un Dio nauseato dall’umanità, ma un Dio innamorato dell’umanità. Ed è talmente innamorato, ha talmente amato il mondo, “da dare il proprio figlio unigenito perché chiunque crede in lui …”. Credere nel figlio unigenito significa credere nel modello di umanità. Qui Gesù viene presentato come il figlio unigenito. E’ figlio di Dio, in quanto Gesù manifesta Dio nella sua condizione umana, ma è figlio dell’Uomo in quanto rappresenta l’uomo nella condizione divina. Quindi in Gesù c’è il modello dell’umanità. Quanti hanno dato adesione a questo modello di umanità, e il modello di umanità, la crescita, la maturità piena dell’uomo, si ha in una capacità d’amore che non si lascia condizionare da nessuno. “Non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. La vita eterna per Gesù non è una promessa per il futuro, ma una possibilità nel presente. Chiunque vive mettendo nella sua vita un amore simile a quello che Dio ha per noi, cioè un amore totale, incondizionato e illimitato, ha già una vita di una qualità tale che si chiama eterna, non tanto per la durata, ma proprio per la qualità, che è indistruttibile: la morte non la potrà neanche scalfire. “Dio infatti non ha mandato il figlio”, e di nuovo insiste su questo “il figlio”, il figlio di Dio, il figlio dell’Uomo nella pienezza umana e che comporta la condizione divina, “nel mondo”, e qui non dice “per condannare”, il verbo è giudicare. Dio non è un giudice, ma colui che comunica vita. E il figlio lo stesso. Quindi non ha mandato il figlio per giudicare il mondo; questa era l’attesa dei farisei che attendevano un messia venuto a giudicare, a separare i buoni dai cattivi, i puri dagli impuri, ma non Dio, non Gesù. Quindi non ha mandato il figlio per giudicare, ma perché “il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Gesù offre una alternativa di vita, offre un’alternativa di società. Quanti l’accolgono sono con lui nella pienezza della vita. “Chi crede in lui” – e credere significa dare adesione a questo modello d’uomo, un uomo capace di un amore illimitato e incondizionato – “non è giudicato”. Quindi non si va incontro a nessun giudizio. L’idea di un giudizio è estranea al vangelo di Giovanni. Chi crede non va incontro a nessun giudizio, ma è già nella pienezza della vita. Al contrario, chi non crede è già stato giudicato, “perché non ha creduto nel nome dell’unigenito”. E’ l’uomo che si giudica da solo, rifiutando questa pienezza di vita, questo amore. Il rifiuto della pienezza di vita, che è Gesù, comporta la pienezza della morte. Questo è il significato che vuol dare l’evangelista, questo giudizio che poi diventa una condanna. Quindi il messaggio di Dio è assolutamente positivo: chi lo accoglie è nella pienezza di vita, chi lo rifiuta non viene giudicato, ma da sé stesso si condanna. Ed ecco allora i versetti 19 e 20 che fanno comprendere meglio questo pensiero che altrimenti così è amputato. E l’evangelista scrive: “La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce perché le loro opere erano malvage”. Ecco il giudizio. Quanti, pur vedendo brillare la luce del Signore se ne ritraggono, rimangono sotto l’ambito della morte. Quanti, invece, vengono attratti da questo cono di luce, entrano nella pienezza di vita. Infatti commenta l’evangelista, “Chiunque infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate”. Quindi non c’è nessun giudizio da parte di Dio, c’è una proposta positiva di vita. Chi lo accoglie è nella pienezza della vita; chi lo rifiuta perché questa pienezza di vita va contro i suoi interessi, va contro le sue aspirazioni, rimane nell’ambito della morte. Non per un giudizio di Dio, ma per un giudizio che l’uomo, per la sua scelta, si è dato da sé.
il vangelo di Pentecoste commentato da p. Maggi e p. Pagola
Gv 20,19-23
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si
trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a
voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i
peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
COME IL PADRE HA MANDATO ME ANCH’IO MANDO VOI
Commento al Vangelo di p. Maggi:
Il mandato di cattura era stato non solo per Gesù, ma emesso per tutto il gruppo. Fu Gesù, che in una posizione di forza disse alle guardie: “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. Gesù è stato il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Ma ora il pastore va in cerca delle sue pecore, quelle che si sono smarrite a causa del suo arresto e soprattutto della sua morte infamante. E Gesù ne va in cerca, per recuperarle. Nonostante sia già stato dato l’annunzio della risurrezione di Gesù, i discepoli stanno nascosti per paura delle autorità. Non basta sapere che Gesù è risuscitato, bisogna farne esperienza. E’ quello che ci dice l’evangelista Giovanni. Quindi, “la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei …”. I Giudei non sono il popolo, ma in questo vangelo rappresentano i capi, le autorità religiose. “Venne Gesù, stette in mezzo”, ecco il posto di Gesù nella comunità è al centro. Lui è il punto di riferimento. E’ lui il fattore di unità di tutto il gruppo. Quelle che seguono sono le prime parole che Gesù pronunzia, una volta risuscitato, nella pienezza della condizione divina, ed è un augurio di piena felicità. Il termine “pace”, dall’ebraico Shalom, indica molto più della nostra pace, ma indica tutto quello che concorre alla piena felicità degli uomini. Ma Gesù non si limita ad un annuncio verbale, a un semplice augurio, dimostra perché devono essere pienamente felici. “Detto questo, infatti, mostrò loro le mani e il fianco”. Sono i segni indelebili del suo amore. L’amore che lo ha spinto a dare la vita per i suoi non è stato la risposta in un’occasione drammatica, ma il normale atteggiamento di Gesù all’interno della comunità. Gesù non interviene nei momenti di emergenza e risponde col suo amore ai bisogni della comunità. Ma Gesù in mezzo alla comunità protegge, difende, aiuta e aumenta la capacità d’amore dei suoi discepoli che accolgono il suo amore. E infatti i discepoli gioirono. Se infatti prima erano nel timore, adesso sono nella gioia “nel vedere il Signore. E Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi». Mentre la prima pace era stata motivata dal fatto che l’amore, dice Gesù, che mi ha spinto a dare la vita per voi continua, la seconda pace è motivata dal fatto di essere chiamati a prolungare la stessa azione di Gesù. La pace e la felicità dell’uomo vengono da quest’amore ricevuto da Dio, e Gesù ha mostrato le mani e il fianco, ma viene anche dall’amore che va comunicato, e per questo Gesù, alla seconda pace, al secondo invito alla felicità, dice: “«Come il Padre ha mandato me»”, e il Padre ha mandato Gesù ad essere manifestazione visibile del suo amore, un amore incondizionato dal quale nessuna persona, qualunque sia il suo comportamento, la sua condotta, si possa sentire esclusa. Ebbene, “«Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»”, ecco la sorgente della felicità. I discepoli, ogni credente, è chiamato a prolungare la missione di Gesù a manifestare visibilmente l’amore del Padre. Questa è la fonte della gioia, della felicità piena. Quindi c’è un amore che viene comunicato, un amore che viene ricevuto da Dio, un amore che va comunicato agli altri. “Detto questo, soffiò”. L’evangelista ripete le stesse azioni di Dio sul primo uomo, quando si legge nel Libro del Genesi, capitolo 2, versetto 7, “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo, soffiò nelle sue narici, un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente”. Ugualmente Gesù. Gesù completa la creazione, comunica all’uomo lo Spirito, cioè la stessa capacità d’amore che il Padre ha comunicato a Gesù e che ora Gesù comunica, ma non a tutti, a quanti accolgono il suo invito a prolungare con il loro amore l’amore che hanno ricevuto, quelli che vanno come il Padre ha mandato Gesù. “«A coloro ai quali …»”, e qui non usa il verbo “perdonare”, ma “liberare dai peccati”. Per “peccato” l’evangelista non adopera quello che significa “colpa, sbaglio, mancanza”, ma una direzione sbagliata di vita. Cosa vuol dire l’evangelista? Qui Gesù non sta dando un potere ad alcuni, ma una responsabilità a tutta la comunità. La comunità deve essere questa luce dalla quale si effonde l’amore di Dio. Quanti, vivendo nell’ingiustizia, si sentono attratti da questa luce e vi entrano a far parte, hanno il passato (quello ingiusto) completamente cancellato. Invece coloro ai quali … e anche qui non c’è il verbo perdonare, ma “mantenere, trattenere, imputare”, “«Resteranno imputati»”. Cosa vuol dire l’evangelista? Quanti fanno il male non amano la luce, ma vedendo brillare la luce, si ritraggono ancora di più nel cono d’ombra delle tenebre. Quindi non è un potere della comunità, ma una responsabilità: far brillare l’amore di Dio. Quanti se ne sentono attratti, hanno il passato completamente perdonato, quanti invece vedono in questo amore una minaccia ai loro interessi, alle loro convenienze, se ne ritraggono e sotto la cappa delle tenebre, sotto la cappa della morte.
VIVERE DIO DAL DIDENTRO
il commento di p. Pagola:
Alcuni anni fa, il gran teologo tedesco, Karl Rahner, osava affermare che il principale e più urgente problema della Chiesa del nostro tempo è la sua “mediocrità spirituale”. Queste erano le sue parole: il vero problema della Chiesa è “continuare a camminare con rassegnazione e noia ogni volta sempre su più strade comuni di una mediocrità spirituale.”
Il problema non h…a fatto più che aggravarsi in queste ultime decadi. Di poco sono serviti i tentativi di rafforzare le istituzioni, salvaguardare la liturgia o vigilare l’ortodossia. Nel cuore di molti cristiani si sta spegnendo l’esperienza interiore di Dio.
La società moderna ha scommesso sull'”esteriore”. Tutto ci invita a vivere dal di fuori. Tutto ci pressa per
muoverci con fretta, quasi senza trattenersi in niente né in nessuno.La pace non trova fenditure per penetrare fino al nostro cuore. Viviamo quasi sempre nella corteccia della vita. Ci stiamo dimenticando quello che è assaggiare la vita dal didentro. Per essere umana, alla nostra vita le manca una dimensione essenziale: l’interiorità.
È triste osservare che neanche nelle comunità cristiane sappiamo curare e promuovere la vita interiore. Molti non
sanno quello che è il silenzio del cuore, non ci si abitua a vivere la fede dal didentro. Privati dell’esperienza interiore,
sopravviviamo dimenticando la nostra anima: ascoltando parole con l’udito e pronunciando discorsi con le labbra, mentre il nostro cuore è assente.
Nella Chiesa si parla molto di Dio, ma, dove e quando noi credenti ascoltiamo la presenza silenziosa di Dio nel più profondo del nostro cuore? Dove e quando noi credenti accogliamo lo Spirito del Risuscitato nel nostro interiore? Quando viviamo in comunione col Mistero di Dio dal didentro?
Accogliere lo Spirito di Dio vuol dire smettere di parlare solo con un Dio il quale lo collochiamo quasi sempre lontano e al di fuori di noi, vuol dire anche imparare ad ascoltarlo nel silenzio del cuore. Smettere di pensare a Dio con la testa, ed imparare a percepirlo nella cosa più intima del nostro essere.
Questa esperienza interiore di Dio, reale e concreta, trasforma la nostra fede. Uno si sorprende di come è riuscito a vivere senza scoprirlo prima. Ora si sa perché è possibile credere perfino in una cultura confiscata. Ora si conosce una gioia interiore.Mi sembra molto difficile da mantenere per molto tempo la fede in Dio in mezzo all’agitazione e alle frivolezze della vita moderna, senza conoscere, benché sia in maniera umile e semplice, alcuna esperienza interiore di quel Mistero di Dio.Che l’agitazione non spenga la voce di Dio nel nostro interiore. .José Antonio Pagola
il vangelo dell’Ascensione commentato da p. Maggi, Casati e Castillo
Mt 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
A ME E’ STATO DATO OGNI POTERE IN CIELO E SULLA TERRA
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Può sembrare alquanto strano che proprio per la festa dell’ascensione la liturgia ci presenti un vangelo dove questa non appare. L’ascensione viene narrata nel vangelo di Luca, in quello di Marco, ma non in Matteo. Ebbene il brano è proprio di Matteo, ma perché questo? Perché l’ascensione non è una separazione di Gesù dall’umanità, ma una vicinanza ancora più intensa, non è un’assenza, ma una presenza ancora più viva e partecipata. Ma vediamo il vangelo. E’ il capitolo 28 di Matteo, dal versetto 16. Sono gli ultimi versetti del vangelo di Matteo, il finale. “Gli undici discepoli”, manca Giuda. Egli ha fatto la sua scelta. Gesù ha detto “Non potete servire Dio e il denaro”, lui ha scelto il denaro che, dome tutti i falsi idoli, distrugge chi lo adora. Quindi Giuda non c’è. “Andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Ecco questo è abbastanza strano. E’ vero che per tre volte c’è stata l’indicazione che Gesù sarebbe stato visibile in Galilea; non a Gerusalemme. Gesù risuscitato non appare mai in questa città sinistra, luogo dell’istituzione religiosa, segno di morte. La vita è incompatibile con la morte. E per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, ma mai in nessuno di questi inviti veniva specificato il luogo. Invece qui gli undici vanno a colpo sicuro, “su il monte”, non un monte dei tanti che componevano la Galilea, ma “il monte che Gesù aveva loro indicato” Qual è questo monte? L’espressione “il monte” è apparsa all’inizio del vangelo, al capitolo 5, per indicare il monte delle beatitudini, dove Gesù ha annunziato il suo messaggio. Le beatitudini erano otto perché otto è il numero della risurrezione – Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana – e la cifra otto indica la pienezza di vita capace di superare la morte. Con Gesù la morte non solo non interrompe la vita, ma le permette di liberare tutte le sue energie e di fiorire in una forma nuova, piena e definitiva. Per questo gli undici vanno su il monte che è il monte delle beatitudini. Cosa vuole dire l’evangelista? Che l’esperienza del Cristo risuscitato non è stato un privilegio concesso duemila anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per tutti i credenti. Basta accogliere il messaggio di Gesù, praticare le beatitudini e fra queste c’era appunto quella che diceva “Beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio”. Infatti l’evangelista scrive: “Quando lo videro”, che non riguarda la vista fisica, ma la vista interiore, quella della fede, “si prostrarono”. Quindi vedono Gesù risuscitato, si prostrano, cioè riconoscono in lui la condizione divina. Ma c’è una stranezza, “Essi però dubitarono” Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, dato che lo vedono. Non che Gesù abbia la condizione divina, dato che si prostrano. Di cosa dubitano? Questo verbo “dubitare” appare solo due volte in questo vangelo e la prima volta era al capitolo 14, versetto 31, quando Pietro aveva voluto camminare sul mare, sulle acque, cosa che significava avere la condizione divina. Ma, ben presto, cominciò ad affogare perché si spaventò del vento. Pensava che la condizione divina provenisse da un privilegio concesso dall’alto e non per un impegno da parte dell’uomo di affrontare le avversità. Ebbene quando sta per affogare Gesù lo rimprovera “Uomo di poca fede perché hai dubitato?” Allora qui di cosa dubitano questi discepoli? Dubitano di essere di raggiungere anch’essi la condizione divina, perché hanno visto cosa costa: l’infamia del tradimento, dell’abbandono e della croce. Sono loro che, quando nell’ultima cena insieme a Pietro avevano assicurato a Gesù che non lo avrebbero rinnegato, invece, appena Gesù è stato arrestato, lo hanno tutti abbandonato. Per questo dubitano, di essere capaci di sopportare quello che Gesù ha sopportato, cioè l’abbandono, il tradimento e l’infamia della croce. Gesù si avvicina a loro e dice che gli è stato dato ogni potere in cielo e in terra, cioè la pienezza della condizione divina, e poi li invia. La relazione con Gesù è una relazione dinamica. L’amore di Dio non si centra su se stesso, ma vuole espandersi. Li manda a fare discepoli tutti i popoli, le nazioni pagane. E come? All’inizio del vangelo Gesù quando aveva chiamato i discepoli aveva detto: “Venite dietro di me e vi farò pescatori di uomini”. Cioè si trattava di togliere gli uomini dall’elemento mortale, l’acqua, per portarli in quello che dava loro la vita. Adesso Gesù dice dove e come. Dove? In tutta l’umanità. Il campo di lavoro dei discepoli di Gesù è tutta l’umanità. Come? Battezzandoli. Il verbo “battezzare” non ha il significato liturgico che poi renderà il verbo battezzare, che significa “immergere”. “Battezzandoli nel nome”, cioè nella realtà, “del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Il numero tre indica la pienezza, e qui vuole indicare la triplice realtà della condizione divina, cioè un amore incondizionato e illimitato. Sarebbe a dire: “Andate e ogni persona immergetela, impregnatela di questo amore”. “Insegnando”, ed è l’unica volta in cui Gesù autorizza i suoi discepoli ad insegnare, “a osservare”, letteralmente “a praticare”, “tutto ciò che vi ho comandato”. E l’unica cosa che Gesù ha comandato in questo vangelo, nel quale appare il termine “comando”, sono le beatitudini. La pratica delle beatitudini significa orientare la propria vita al bene degli altri. Questo non può essere insegnato con una dottrina, ma attraverso comunicazioni ed esperienze di vita. Ebbene, se c’è questo, ecco l’assicurazione di Gesù, “Io sono con voi”, infatti all’inizio del vangelo Matteo aveva presentato Gesù come “il Dio con noi”, un Dio che non era da cercare, ma da accogliere, e, con lui e come lui andare verso l’umanità. “Io sono con voi tutti i giorni fino …”, e non è la fine del mondo ma “… alla fine del tempo”. Gesù non sta dando una scadenza ma una qualità di una presenza. Ecco allora ritornando al tema dell’ascensione che non é una separazione di Gesù dagli uomini, ma una presenza ancora più intensa. Non è una lontananza, ma una vicinanza continua, crescente, tutti i giorni.
commento al vangelo di don Angelo Casati
Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”.
Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai?
Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai?
“La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”.
Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile.
L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”.
Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione.
E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”.
Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore?
Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore.
“L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”.
L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”.
Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo.
Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro.
Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori.
E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.
Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende.
Scrive P. Tillich:
“Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale.
Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione.
Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza.
Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”.
E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.
l commento del teologo Castillo:
Si legge nel Vangelo di oggi, festa dell’ASCENSIONE:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”
.”Questo finale del vangelo di Matteo (scritto dopo il 70 d.c., anno della distruzione di Gerusalemme) è la proiezione di un desiderio provocato dalla emarginazione religiosa causata dai conquistatori romani; il desiderio di trasformarsi nella religio…ne universale, che si impone alle altre religioni e che, con il passare del tempo, è stata – con il papato – il prolungamento del preteso imperialismo universale di Roma. Ebbene, in problematiche di «religione», le pretese di universalità si traducono
inevitabilmente in violenza, divisioni, sfide, conflitti, desideri di dominio e di prepotenza.
Un «dio» che pretende di essere universale, per questo stesso motivo pretende
ugualmente di annullare gli altri «dèi», frutto di culture millenarie e costitutive dell’identità di milioni di esseri umani. Non sarebbe più ragionevole intendere e vivere l’esperienza religiosa come l’ha intesa (con il discorso delle beatitudini) e vissuta il Gesù terreno? Non sarebbe, per questo stesso motivo, più logico vivere la fede in Gesù come fede nella bontà, nel rispetto, nella tolleranza, nell’aiuto di tutti per tutti, quali che siano le forme concrete di convinzioni e di pratiche religiose che ogni popolo ed ogni cultura vive in concreto? Ecco una delle questioni più serie che ci pone la festa dell’Ascensione del Signore ”
(P. Josè Maria Castillo).
il commento di p. Maggi e p. Pagola al vangelo della domenica
Gv 14,15-21
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
PREGHERO’ IL PADRE E VI DARA’ UN ALTRO PARACLITO
commento al Vangelo dell,a sesta donenica di pasqua (25 maggio 2014) di p. Alberto Maggi:
Per la prima volta nel vangelo di Giovanni Gesù chiede amore verso se stesso. Ma lo fa soltanto dopo aver manifestato al massimo la sua capacità d’amore, facendosi servizio per i suoi, dopo aver lavato loro i piedi. Siamo al capitolo 14 del vangelo di Giovanni, dal versetto 15.
Gesù dice: “«Se mi amate»”, quindi per la prima volta chiede amore verso di sé, «osserverete i miei comandamenti»”. C’è un unico comandamento che Gesù ha lasciato nel corso della cena, cioè di amarsi gli uni gli altri come lui li ha amati, cioè come lui li ha serviti. Quindi Gesù dice: “Se mi amate servitevi gli uni gli altri”.
Non è un amore che Gesù chiede nei propri confronti, ma la prova dell’amore verso Gesù è l’amore scambievole che si fa servizio verso gli altri. Ebbene, come risposta a questo amore, Gesù annuncia che pregherà il Padre, “«Ed egli vi darà un altro Paraclito»”, un termine greco che è difficile tradurre nella nostra lingua, e significa “colui che viene in soccorso, colui che aiuta, che difende”, il protettore. Non è
un nome dello Spirito, ma una funzione. Gesù, fintanto che era vivo, provvedeva lui a questa funzione di pastore che protegge i suoi ed è pronto a dare la vita. Bene, ora che non ci sarà più, ci sarà il suo Spirito.
E sarà un vantaggio. Infatti Gesù dice “«perché rimanga con voi per sempre»”. Mentre Gesù non sempre poteva essere con i suoi discepoli, il suo Spirito sarà sempre nella sua comunità. Il fatto che rimane per sempre significa che l’azione di questo Spirito non interviene nei momenti di pericolo o nelle situazioni
di emergenza, ma le precede. E questo dà piena sicurezza e serenità alla comunità cristiana. Gesù definisce questo Spirito “l«o Spirito della verità»” – la verità è l’amore che si fa servizio – “«che il mondo non può ricevere»”.
Il mondo è il sistema di potere che è incompatibile con l’amore che si fa servizio. Infatti dice “perché non lo vede e non lo conosce”. In questo vangelo quelli che non conoscono Gesù, quelli che non conoscono il Padre, sono le autorità religiose. Chi vive in un ambito di potere non può neanche minimamente capire cosa significhi un amore che si fa servizio. E Dio è questo.
“«Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi»”. L’evangelista adopera lo stesso verbo dello Spirito che rimane su Gesù. “«E sarà in voi»”. Come lo Spirito rimane in Gesù, così questo Spirito rimane nella comunità dei credenti. E poi Gesù dà la sicurezza – sta annunziando la sua morte – “«Non vi lascerò orfani: verrò da voi.»” La sua non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. “«Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più»”, il mondo di potere non lo potrà più vedere fisicamente, “«invece voi mi vedrete»”; cosa significa? La sintonia con la vita di Gesù lo rende presente, vivo e vivificante all’interno della sua comunità.
“«Perché io vivo e voi vivrete»”. Chi nella sua vita nutre gli altri sperimenterà sempre colui che si è fatto pane di vita per alimentare i suoi. “«In quel giorno»”, che è il giorno della morte e dell’effusione dello Spirito, “«Voi saprete che io sono nel Padre mio»”, nella pienezza della condizione divina, “«E voi in me e io in voi»”.
Si realizza quello che da sempre l’evangelista aveva annunziato: Dio è amore che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore in modo che la comunità diventi l’unico santuario visibile nel quale si irradia l’amore di Dio. Nella comunità dei credenti Dio assume il volto umano e gli uomini assumono il volto divino.
E Gesù conclude dicendo: “«Chi accoglie i miei comandamenti»”, sottolinea che sono i suoi comandamenti, e non quelli di Mosè. E l’unico comandamento, le attuazioni pratiche di questo unico comandamento dell’amore che si fa servizio, per Gesù sono importanti come i comandamenti. “«E li osserva, questi è colui che mi ama»”.
Quindi l’amore verso Gesù non è rivolto alla sua persona ma si dirige verso gli altri nella pratica dei suoi comandamenti, cioè nel far propri gli stessi valori di Gesù. Più gli uomini sono umani e più permetteranno al divino di affiorare in loro. Questa è la sintonia d’amore di Dio con gli uomini, e degli uomini con Dio.
E infine la conclusione, “«Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui»”. Quindi Gesù conferma che se c’è questo dinamismo di un amore ricevuto che si trasforma in amore comunicato, la comunità diventa l’unico santuario dove si manifesta l’amore del Padre. Quanto più grande sarà la risposta degli uomini praticando l’amore verso gli altri, tanto più grande sarà la risposta del Padre con una nuova effusione di Spirito e di nuove capacità d’amore ai suoi.
LO SPIRITO DELLA VERITÀ
commento al vangelo di p. Pagola:
Gesù sta salutando i suoi discepoli. Li vede tristi ed abbattuti. Presto non l’avranno più con loro. Chi potrà riempire il vuoto che egli lascerà?
Fino ad ora egli è stato colui che si è preso cura di loro, li ha difesi dagli scribi e dai farisei, ha sostenuto la loro fede debole e vacillante, loro hanno pian piano scoperto la verità di Dio ed egli li ha iniziati nel suo progetto umanizzatore.
Gesù parla loro appassionatamente dello Spirito. Non li vuole lasciare orfani. Egli stesso chiederà al Padre che non li abbandoni che dia loro “un altro difensore” affinché “stia” sempre con loro. Gesù lo chiama “lo Spirito della verità”. Che cosa si nasconde in queste parole di Gesù?
Questo “Spirito” della verità non bisogna confonderlo con una dottrina. Questa verità non bisogna cercarla nei libri dei teologi né nei documenti della gerarchia. È qualcosa di molto più profondo. Gesù dice che “vive con noi e sta in noi”. È alito, forza, luce, amore… che arriva a noi dal mistero ultimo di Dio. Dobbiamo accoglierlo con cuore semplice e fiducioso.
Questo “Spirito” della verità non ci trasforma in “proprietari” della verità. Non viene affinché imponiamo ad altri la nostra fede né affinché controlliamo la loro ortodossia. Viene per non lasciarci orfani di Gesù, e c’invita ad aprirci alla sua verità, ascoltando, accogliendo e vivendo il suo Vangelo.
Questo “Spirito” della verità non ci fa manco “portinai” della verità, bensì testimoni. La nostra faccenda non è disputare, combattere né sconfiggere avversari, bensì vivere la verità del Vangelo ed amare Gesù conservando i suoi “mandati.”
Questo “Spirito” della verità sta all’interno di ognuno di noi difendendoci da tutto quello che può separarci da Gesù. C’invita ad aprirci con semplicità al mistero di un Dio, Amico della vita. Chi cerca questo Dio con onestà e verità non sta lontano da lui. Gesù disse in una certa occasione: “Chiunque è della verità, ascolta la mia voce”. È certo.
Questo “Spirito” della verità c’invita a vivere nella verità di Gesù in mezzo ad una società dove frequentemente la bugia è chiamata strategia; lo sfruttamento, commercio; l’irresponsabilità, tolleranza; l’ingiustizia, ordine stabilito; l’arbitrio, libertà; la mancanza di rispetto, sincerità…
Che senso può avere la Chiesa di Gesù se lasciamo che si perda nelle nostre comunità lo “Spirito della verità”?. Chi potrà salvarla dall’autoinganno, dalle deviazioni e dalla mediocrità generalizzata? Chi annuncerà la Buona Notizia di Gesù in una società tanto necessitata di spirito e di sicurezza?
Contribuisci a diffondere lo “Spirito” della verità.
José Antonio Pagola
p. Maggi commenta il vangelo della domenica
IO SONO LA VIA, LA VERITA’ E LA VITA
commento al Vangelo della domenica quinta di pasqua (18 maggio 2014) di p. Alberto Maggi:
Gv 14,1-12
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in
Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei
mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto,
verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io
vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli
disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete
veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo
sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi
tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che
io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne
compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».
Sono gli ultimi momenti che Gesù sta con i suoi discepoli e Gesù li vuole rassicurare, tranquillizzare. Vuol far loro comprendere un paradosso: che la sua morte non sarà una perdita per loro, ma un guadagno; che la sua morte non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. Quindi Gesù, che ha appena annunziato il tradimento di Pietro ai discepoli che sono turbati e sui discepoli sta per abbattersi una tempesta tremenda, Gesù li rassicura che Dio è con lui. Ecco perché Gesù dice: “«Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me»”. E poi rassicura sull’effetto della sua partenza e dice che “«Nella casa del Padre vi sono molte dimore»”. Qui bisogna comprendere bene questo versetto alla luce poi del versetto 23 quando Gesù dirà: “«Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui»”. Non si tratta qui di una dimora presso il Padre, ma del Padre che viene a dimorare tra gli uomini. Questa è la novità, la grande novità proposta da Gesù: non c’è più un santuario dove si manifesta Dio, ma in ogni persona che lo accoglie, lì Dio si manifesta. Quindi il Dio di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con la persona, dilatare la sua capacità d’amore. Questa sarà la sua dimora. Ma perché Gesù parla di “molte dimore”? Perché, essendo Dio amore, l’amore non si può esprimere e manifestare in una forma sola, ma in molteplici forme quanto molteplici sono le nature degli uomini, le loro situazioni. Poi Gesù continua questa rassicurazione dicendo che dove lui è saranno anche loro, cioè nella sfera della dimensione divina, nella sfera dell’amore. E qui Gesù viene interrotto da uno dei discepoli, Tommaso, che chiede, letteralmente: “«Non sappiamo dove t’incammini»”. E’ un verbo che indica un cammino senza ritorno. Lui non capisce come la morte possa avere degli aspetti positivi. E Gesù risponde con un’affermazione solenne, importante: “«Io sono»”, quindi rivendica la condizione divina, “«La via»”, cioè un cammino verso qualcosa e questo
cammino è verso “«la verità»”. Gesù non afferma di avere la verità, Gesù non dice: “Io ho la verità”, ma “Io sono la verità”. e non chiede ai discepoli di avere la verità, ma di essere la verità. Grande è la differenza. Chi ha la verità, per il fatto stesso di possederla, si ritiene in grado di giudicare, e condannare chi non la pensa come lui. Essere nella verità significa essere inseriti nello stesso dinamismo d’amore di Dio che vede il bene dell’uomo come valore assoluto. Essere nella verità significa non separarsi da nessuno, ma essere accanto a tutti in un atteggiamento d’amore che si trasforma in servizio. La verità è un dinamismo divino che non si può esprimere attraverso formule dottrinali, ma soltanto attraverso un’offerta d’amore e comunicazione di opere d’amore. E al finale c’è “la vita”. Chi segue Gesù in questo cammino ed è come lui verità, arriva verso la vita indistrutti ile, la pienezza della vita. E poi Gesù dice ai discepoli: “«Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre»”. Stranamente on dice “lo conoscerete nel futuro, ma Gesù afferma: “«Fin da ora lo conoscete e lo avete veduto»”. Dov’è
che i discepoli hanno veduto e conosciuto il Padre? Nella lavanda dei piedi. Gesù, che è manifestazione visibile di Dio, ha mostrato chi è Dio: amore che si fa servizio.
Allora, più autentica è l’adesione a Gesù, facendo della propria vita amore e servizio per gli altri, e più grande sarà la conoscenza del Padre. E qui c’è un altro discepolo, questa volta Filippo; lui non capisce come in Gesù si possa manifestare Dio e replica: «Mostraci il Padre e ci basta»”. Ecco l’importante rivelazione di Gesù: “«Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre»”. Al termine del prologo a questo vangelo, Giovanni aveva fatto un’importante dichiarazione: “Dio nessuno lo ha mai visto, solo il figlio ne è la rivelazione”. Cosa significa questo? Che non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù. L’evangelista invita a sospendere il pensiero su Dio, la conoscenza di Dio e a centrarsi su Gesù. Tutto quello che Gesù fa e dice, tutto questo è Dio.
Quindi tutte le idee, le immagini, i pensieri, le conoscenze che uno ha di Dio, e non li riscontra in Gesù, devono essere eliminati perché sono incompleti o falsi. Gesù è molto chiaro: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. E qual è questo Padre che si manifesta in Gesù? Amore che si fa servizio, come abbiamo visto nella lavanda dei piedi. e Gesù, di fronte all’incredulità dei discepoli, dice loro che, se non gli vogliono credere per le sue parole lo credano almeno per le opere. Le opere – e le opere di Gesù sono tutte azioni con le quali lui comunica e arricchisce la vita degli altri – sono l’unico criterio di credibilità. Il finale è espresso in formula solenne,
con l’Amen, Amen, cioè “«In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio»”, le opere di Gesù sono tutte comunicazioni vitali per gli altri e poi Gesù dice – e può sembrare sbalorditivo, “«ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre»”. Come si fa a compiere azioni più grandi di Gesù? Gesù non ha potuto rispondere a tutti i bisogni dell’umanità, ed è nella comunità dei discepoli che si rifà al suo nome e mette come unico valore assoluto della propria esistenza – l’unico e sacro – il bene dell’uomo, una comunità che si mette in questo dinamismo dell’ “essere verità”, quindi non di avere la verità per giudicare gli altri, ma di essere per avvicinare tutti, questa è una comunità dove l’azione divina crescerà e sarà in misura traboccante a favore degli altri. Dice Gesù: “Tutto questo sarà perché io vado al Padre”, perché lui collabora con loro. Quindi Gesù li assicura che la sua morte non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa e vivificante.
p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo
IO SONO LA PORTA DELLE PECORE
Commento al Vangelo della quarta domenica (11 maggio 2014) dopo pasqua di p. Alberto Maggi:
Gv 10,1-10
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Per aver aperto gli occhi al cieco nato, Gesù è stato considerato dai capi religiosi come un nemico di Dio, un peccatore. Allora adesso è Gesù che si rivolge a loro direttamente, Gesù parla ai farisei al capitolo 10 del vangelo di Giovanni, descrivendo i sedicenti pastori di Israele con le stesse caratteristiche dei lupi. Come i lupi, infatti, sono dei ladri e dei briganti. Ladri perché si sono impossessati di ciò che non è loro, e briganti perché usano la violenza per sottomettere il popolo. Ma vediamo questo brano importante di Giovanni che contiene un monito molto severo a quelli che pretendono essere i pastori del popolo. Gesù dichiara apertamente che tutti quelli che hanno preteso essere le guide del popolo, sono briganti – hanno usato la violenza – e sono dei ladri perché si sono impossessati del gregge che era di Dio, non certo loro. Ora invece appare Gesù, il legittimo pastore. E il legittimo pastore si descrive come colui che “entra dalla porta” e “le pecore ascoltano la sua voce”. Perché le pecore? Il gregge è immagine del popolo. Perché ascoltano la sua voce? Perché la gente riconosce nelle parole di Gesù la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro. Questa è la forza del messaggio di Gesù. Ebbene, quando si ascolta questa voce, si vede nel messaggio di Gesù la risposta al proprio bisogno di pienezza di vita, Gesù instaura un rapporto personale con ciascuno, “chiama ciascuna pecora per nome e le conduce fuori”. Il termine “condurre” è lo stesso adoperato nell’Antico Testamento per indicare l’esodo. Quella di Gesù è una liberazione, toglie il gregge dal recinto, dall’atrio dell’istituzione religiosa giudaica, non per rinchiuderle in un altro recinto, ma per dare loro la piena libertà. Infatti, scrive l’evangelista, che quando Gesù “ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”. Quello che mantiene la fedeltà alla sequela di Gesù è che nella voce di Gesù si sente la risposta ai bisogni dell’uomo. Quindi Gesù non rinchiude le pecore in un altro recinto, ma dona loro la libertà. Poi, più che una costatazione, è un consiglio quello che Gesù sembra dare, “Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui”. Fuggire, questo è il consiglio che Gesù dà. Fuggire da quelli che sembrano pastori, in realtà sono lupi. E, come tali, portano soltanto la distruzione. Fuggiranno via da lui perché? “Perché non conoscono la voce degli estranei”. Le pecore, il gregge, il popolo conosce la voce di chi le ama, ma non la voce di chi le vuole sfruttare. Sono estranei perché? Perché non ascoltano la voce del popolo, non sono vicini alla gente. Ecco allora che il popolo poi non ascolta la loro voce, perché non hanno nulla da dire loro. Ebbene, commenta l’evangelista, “Gesù disse loro”, ai farisei, “questa similitudine”, molto molto chiara e molto severa, “ma essi non capirono di che cosa parlava loro”. Come mai non capiscono? Perché non sono le sue pecore. Non hanno desiderio di pienezza di vita. Loro naturalmente non sono dei sordi, ma degli ostinati. Capiscono che, se accolgono il messaggio di Gesù, devono perdere tutto il loro potere, il loro prestigio, e, anziché dominare, devono mettersi, come sta facendo Gesù, a servizio degli altri. E questo le autorità, i capi, i farisei, non lo vogliono. Loro vogliono esercitare il dominio sul popolo, non il servizio. Allora Gesù, visto che non hanno capito, ancora in maniera più cruda e più chiara, rivendica di essere “la porta delle pecore”, e, afferma Gesù, “«Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma …»”, ecco la costatazione, “«… le pecore non li hanno ascoltati.»” Il popolo può essere sottomesso per paura, ma non per scelta. Il popolo può essere dominato, può essere soggiogato, ma quando finalmente ascolta il messaggio di libertà, ascolta un messaggio d’amore, ecco che il popolo rinasce. Quindi Gesù assicura che il popolo non li ha mai ascoltati. Loro hanno imposto il loro messaggio, lo hanno obbligato, ma non li hanno convinti. Gesù invece non impone il messaggio, proprio perché la sua parola convince. Questa è la caratteristica che contraddistingue il messaggio che viene da Dio e quello che non viene da Dio: il primo viene offerto, perché è un messaggio d’amore e l’amore può essere soltanto offerto, e mai imposto. Il messaggio delle autorità religiose invece viene imposto, è una dottrina che viene imposta, perché? Perché i capi sono i primi a non credere nei suoi benefici. Se qualcosa è buono non c’è bisogno di imporla. E continua Gesù, rivendicando ancora di essere la porta, una porta che però non si chiude. Dice Gesù: “«Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà …»”. Gesù non viene a rinchiudere in un altro recinto, ma a dare la piena libertà, perché, soltanto dove c’è la piena libertà c’è la dignità e la pienezza dell’uomo. E qui l’evangelista scrive che “«troverà pascolo»”. E adopera il termine pascolo che in greco è nomè, che assomiglia molto a nomos, che significa “legge”. In Gesù non si trova una dottrina da osservare, ma un pascolo, l’amore che alimenta la vita delle persone. E infine la conclusione di nuovo, “«Il ladro non viene
se non per rubare, uccidere e distruggere»”, quindi Gesù associa i pastori ai ladri, cioè ai lupi. Quelli che sembrano i pastori che dovrebbero difendere il gregge dai lupi, sono peggio dei lupi, perché uno dei lupi ha paura, invece di pastori si fida. E, conclude Gesù: “«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»”. I capi del popolo si sono impossessati della gente, portandola alla rovina. Sono loro che, in nome di Dio, hanno sfruttato il popolo, sacrificandolo alle loro ambizioni, alla loro sete di potere, insensibili ai sacrifici che impongono e alle sofferenze che causano. Ma ora è venuto Gesù è il suo messaggio è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro. E, quando si ascolta questa voce, tutte le altre perdono importanza.
NUOVA RELAZIONE CON GESÙ
il commento di p. Pagola:
Nelle comunità cristiane dobbiamo vivere un’esperienza nuova di Gesù ravvivando la nostra relazione con lui. Metterlo decisamente nel centro della nostra vita. Passare da un Gesù confessato in maniera routinaria ad un Gesù accolto vitalmente.
Il vangelo di Giovanni da alcuni suggerimenti importanti parlando della relazione delle pecore col suo Pastore.
La cosa prima è “ascoltare la sua voce” in tutta la sua freschezza ed originalità. Non confonderla col rispetto delle tradizioni né con la novità delle mode. Non lasciarci distrarre né stordire da altre voci strane che, benché si ascoltino nell’interno della Chiesa, non comunicano la sua Buona Notizia.
È importante sentirci chiamati da Gesù “con il nostro nome”. Lasciarci attrarre personalmente da lui. Scoprire poco a poco, ed ogni volta con più gioia che nessuno risponde come lui alle nostre domande più decisive, ai nostri aneliti più profondi e alle nostre necessità ultime.
È decisivo “seguire” Gesù. La fede cristiana non consiste in credere cose su Gesù, bensì in credergli: vivere confidando nella sua persona. Ispirarci al suo stile di vita per orientare la nostra propria esistenza con lucidità e responsabilità.
È vitale camminare avendo Gesù “davanti a” noi. non fare il percorso della nostra vita in solitudine. Sperimentare in qualche attimo, benché in maniera rozza che è possibile vivere la vita a partire dalla sua radice: da quel Dio che ci viene offerto in Gesù, più umano, più amico, più vicino e salvatore più delle nostre teorie.
Questa relazione viva con Gesù non nasce in noi in maniera automatica. Si va svegliando nel nostro interiore di forma fragile ed umile. Al principio, è quasi solo un desiderio. In generale, cresce circondata di dubbi, interroganti e di forma resistente. Ma, non so come, arriva un momento nel quale il contatto con Gesù incomincia a segnare decisivamente la nostra vita.
Sono convinto che il futuro della fede tra noi si sta decidendo, in buona parte, nella coscienza di chi in questi momenti si sente cristiano.
In breve, la fede si sta ravvivando o si va estinguendo nelle nostre parrocchie e comunità, nel cuore dei sacerdoti e dei fedeli che le formiamo.
La nostra diminuzione di fede incomincia a penetrare in noi dallo stesso momento in che la nostra relazione con Gesù perde forza, o rimane addormentata a causa della routine, dell’indifferenza e della superficialità. Per questo motivo, il Papa Francesco ha riconosciuto che “dobbiamo creare spazi motivanti e risanatori… posti dove rigenerare la fede in Gesù”.
Dobbiamo ascoltare la sua chiamata. Relazionati con Gesù, egli ti chiama con il tuo nome.
José Antonio Pagola
p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo della domenica
3a domenica di Pasqua
( 4 maggio 2014)
Lc 24,13-35
Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro:
«Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più
lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al
tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la
via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi:
lo riconobbero nello spezzare il pane
Dai vangeli traspare che i discepoli sembrano essere più delusi della risurrezione di Gesù che della sua morte. Nel vangelo più antico, che è quello di Marco, il testo termina con l’annunzio della risurrezione di Gesù alle donne, ma queste non dicono nulla a nessuno. La stessa delusione traspare dal vangelo di Luca con l’episodio dei discepoli di Emmaus. Perché questa delusione per la risurrezione di Gesù? Se Gesù è morto significa semplicemente che hanno sbagliato messia, perché il messia non può morire. Quindi se Gesù è morto, hanno sbagliato personaggio e c’è soltanto da attendere un nuovo messia. A quell’epoca i messia nascevano come funghi, quindi significava che s’erano sbagliati. Ma, ed è questa la delusione, se Gesù è risuscitato, allora tutte quelle speranze di restaurazione del regno di Israele, di dominio sopra gli altri popoli pagani, vanno a farsi benedire. Ecco la delusione che traspare in questo brano in cui ci sono questi discepoli che si recano dove? E’ importante la località. Èmmaus era un luogo importante perché era il paese dove c’era stata una battaglia tra Giuda Maccabeo e i pagani, ed era stata vinta dagli ebrei. Era il luogo della speranza del Dio liberatore, con la sconfitta dei pagani e la liberazione di Israele. Ebbene Èmmaus richiamava tutto questo, la vittoria sui pagani e la liberazione di Israele. Quindi, visto che Gesù è morto, e non era lui evidentemente il messia, ecco che questi discepoli se ne tornano nel luogo che per loro è quello della rivincita e della vendetta di Dio sui pagani. Di questi discepoli soltanto di uno viene detto un nome, che è tutto un programma. Si chiama Clèopa,
che è un’abbreviazione di Cleopatros, che significa “del padre illustre, del padre glorioso”. Ecco, questi discepoli sono infarciti di ambizione, di gloria, di successo. E’ questo il messia che loro vogliono, il messia trionfatore. Incontrano Gesù e, naturalmente, non lo riconoscono. Loro guardano al passato e non possono scoprire il Gesù che si presenta nel nuovo e a lui confidano tutta la loro delusione. “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele”. Ma Gesù non è venuto a liberare Israele, Gesù è il salvatore dell’umanità. Gesù non è venuto a restaurare il defunto regno di Davide, ma ad inaugurare il regno di Dio. E ancora negli Atti degli Apostoli si legge che, visto che i discepoli non hanno compreso questo, una volta risuscitato Gesù, per ben quaranta giorni li riunisce e parla loro di un’unica tematica: il regno di Dio.
Ebbene, al quarantesimo giorno, uno dei discepoli gli chiede “Ma è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno di Israele?” Gesù parla del regno di Dio, ma loro non intendono, sono ciechi e sordi, perché la loro idea e la loro speranza è la restaurazione del regno di Israele. Allora Gesù “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò…”
Il termine utilizzato dall’evangelista è quello da cui deriva il termine “ermeneutica”, termine tecnico che significa interpretazione. Quindi Gesù più che spiegare, interpreta la scrittura. Perché questo? Perché la scrittura può essere appresa soltanto con l’amore. Chi mette al primo posto, come valore assoluto, il bene dell’uomo, può comprendere la scrittura. Questa è la chiave d’interpretazione dell’antico e del nuovo.
Ebbene, quando sono vicini al villaggio – il villaggio nei vangeli è sempre simbolo di tradizione, di incomprensione del messaggio di Gesù – i discepoli sono diretti al villaggio, sono diretti alla tradizione, non riescono a comprendere il nuovo, mentre Gesù, scrive l’evangelista, “fece come se dovesse andare più lontano”. Gesù va verso il nuovo e loro invece vanno verso il vecchio. Comunque chiedono a Gesù di rimanere con loro. E “quando fu a tavola con loro, prese il pane”, come ha fatto nell’ultima cena, ripete gli stessi gesti, “recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”. “Allora”,
scrive l’evangelista, “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Gesù è riconoscibile quando il pane viene preso e spezzato. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, spezza la sua vita per gli uomini, perché quanti lo accolgono e sono capaci a loro volta di farsi pane e alimento di vita per gli altri, diventino figli dello stesso Dio.
E’ questa l’esperienza che rende percepibile la presenza di Gesù. “Ma egli” … non sparì come è scritto nella traduzione, ma letteralmente “… divenne invisibile”. Gesù non è scomparso, ma è invisibile perché
Gesù ormai è visibile soltanto nel pane che si spezza, nel pane che è condiviso, nella comunità che si fa pane per gli altri. Infatti, quando tornano a Gerusalemme dagli altri discepoli, quello che i due di
Èmmaus raccontano … “narravano di ciò che era accaduto lungo la via”. “Lungo la via” era il luogo della semina sul terreno, che Gesù già aveva spiegato … “viene il satana”, che è l’immagine del potere che toglie via il messaggio. Ecco perché loro non avevano capito l’annunzio, le parole di Gesù, perché sono immersi in questa ideologia di potere che li rende refrattari alla parola del Signore. E come l’avevano riconosciuto? Nello spezzare del pane. Questo criterio era valido allora ed è valido ancora oggi. Gesù è riconoscibile nel suo corpo e il suo corpo è la comunità che si riunisce per farsi alimento per gli altri.
commento al vangelo di p. A. Pagola:
accogliere la forza del vangelo
Due discepoli di Gesù vanno allontanandosi da Gerusalemme. Camminano tristi e desolati. Nel loro cuore si è spenta la speranza che avevano riposto in Gesù, quando lo hanno visto morire sulla croce. Tuttavia, continuano a vivere pensando a lui. Non possono dimenticarlo. Sarà stata tutta un’illusione?
Mentre conversano e discutono di tutta la cosa da loro vissuta, Gesù si avvicina e si mette a camminare con loro.
Tuttavia, i discepoli non lo riconoscono. Quel Gesù nel quale tanto avevano confidato e che avevano amato forse con passione, sembra loro ora un viandante strano.
Gesù si unisce alla loro conversazione. I viandanti lo ascoltano in un primo momento sorpresi, ma poi qualcosa si va a poco a poco svegliando nel loro cuore. Non sanno esattamente che. Più tardi diranno: “Non stava ardendo il nostro cuore mentre ci parlava per la strada?”
I viandanti si sentono attratti dalle parole di Gesù. Arriva il momento in cui hanno bisogno della sua compagnia. Non vogliono lasciarlo andare: “Rimani” con noi”.
Durante la cena, saranno aperti loro gli occhi e lo riconosceranno. Questo è il primo messaggio del racconto: Quando accogliamo Gesù come compagno del nostro cammino, le sue parole possono svegliare in noi la speranza persa.
Durante questi anni, molte persone hanno perso la loro fiducia in Gesù. A poco a poco, Egli è stato trasformato dentro di loro in un personaggio strano e irriconoscibile. Tutto quello che sanno di lui è quello che possono ricostruire, in maniera parziale e frammentaria, e tutto a partire da quello che hanno ascoltato da predicatori e catechisti.
Senza dubbio, l’omelia delle domeniche compie un compito insostituibile, ma risulta chiaramente insufficiente affinché le persone di oggi possano entrare in contatto diretto e vivo col Vangelo. Come si può portare a termine, davanti ad un popolo che deve rimanere muto, senza esporre le proprie inquietudini, domande,e problemi? E’ difficile che si riesca a rigenerare a volte la fede vacillante di tante persone che cercano, senza saperlo di ritrovarsi con Gesù.
Non è che sia arrivato il momento di instaurare, al di fuori del contesto della liturgia domenicale, uno spazio nuovo e differente per ascoltare insieme il Vangelo di Gesù?
Perché non riunirci laici e presbiteri , donne ed uomini, cristiani convinti e persone che sono interessati per mezzo della fede, ad ascoltare, condividere, dialogare ed accogliere il Vangelo di Gesù?
Dobbiamo dare al Vangelo l’opportunità di entrare con tutta la sua forza trasformatrice in contatto diretto ed immediato coi problemi, con le crisi, con le paure e le speranze della gente di oggi. Presto sarà troppo tardi per recuperare tra noi la freschezza originale del Vangelo.
José Antonio Pagola
il commento al vagelo di p. Maggi
OTTO GIORNI DOPO VENNE GESU’
commento al Vangelo della seconda domenica di pasqua (27 1prile 2014) di p. Alberto Maggi :
Gv 20,19-31
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Le prime parole che Gesù pronuncia ai suoi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la stessa fine del loro maestro – il mandato di cattura era per tutto il gruppo di Gesù – sono: “Pace a voi”. Non sono un augurio, un invito, Gesù non dice: “La pace sia con voi”, ma sono un dono, Gesù dona loro la pace. del termine “pace” viene racchiuso tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell’uomo, in una parola alla “felicità”, quindi Gesù si presenta con il dono di una pienezza di felicità. E poi mostra loro subito il perché devono essere felici, infatti mostra le mani e il fianco, cioè mostra la permanenza dei segni dell’amore, con il quale Gesù ha dato la vita per i suoi discepoli. Infatti al momento dell’arresto Gesù aveva detto alle guardie “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. E’ il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Poi Gesù torna di nuovo a ripetere questo dono della pace, ma questa volta è perché la comunichino all’umanità. Infatti, dopo aver ripetuto “Pace a voi”, Gesù aggiunge: “Come il Padre ha mandato me…”, il Padre ha mandato il figlio a dimostrare un amore sino alla fine, “… così anch’io mando voi”. Gesù invita i suoi discepoli a prolungare nel tempo l’offerta di vita di Gesù. E per questo comunica loro la sua stessa capacità d’amare, cioè comunica lo Spirito Santo. L’attività di Gesù, che in questo vangelo è stata descritta come quella dell’agnello che toglie il peccato del mondo, e toglie il peccato del mondo effondendo sulle persone lo Spirito Santo, viene prolungata dalla sua comunità. Deve proporre e offrire ad ogni persona una pienezza di vita, una pienezza d’amore. E poi Gesù continua dicendo: “Coloro ai quali cancellerete i peccati saranno cancellati, a coloro ai quali non cancellerete, non saranno cancellati”, questo è il verbo adoperato dall’evangelista. Cosa vuol dire Gesù? Non dà un potere per alcuni, ma una capacità, una responsabilità per tutti. La comunità deve essere come la luce che splende nelle tenebre. Quanti vivendo nelle tenebre se ne sentono attratti ed entrano a far parte del raggio d’azione di questo amore, hanno il passato completamente cancellato. Quanti invece, pur vedendo brillare questa luce, si ritraggono ancora di più nelle tenebre – Gesù l’aveva detto: “Chi fa il male odia la luce” – rimangono sotto la cappa dei loro peccati, sotto la cappa delle tenebre di morte. A questo incontro di Gesù con i suoi discepoli non c’era Tommaso. Come mai Tommaso era assente? I discepoli erano nascosti per paura di fare la stessa fine di Gesù. Tommaso non ha paura; Tommaso è colui che al momento della risurrezione di Lazzaro aveva detto: “andiamo anche noi a morire con lui”. Ecco perché Tommaso è chiamato “il gemello”, quello che più assomiglia a Gesù. Tommaso non è presente e quando gli dicono che Gesù è apparso, lui non esprime la sua incredulità, ma il disperato bisogno di credere. E lo fa con quell’espressione: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi … “, è l’equivalente dell’italiano, quando di fronte ad una notizia, noi diciamo “Non ci posso credere! Non è possibile!” Non stiamo negando il fatto, significa che è troppo bello. Otto giorni dopo, il ritmo è quello della celebrazione eucaristica. E’ nell’eucaristia che Gesù si fa presente e comunica il suo amore. Gesù si manifesta a Tommaso che si guarda bene dal mettere il dito nelle piaghe di Gesù, ma prorompe nella più alta professione di fede di tutti i vangeli. Gesù era stato descritto dall’inizio del vangelo, come il Dio che nessuno aveva mai visto e che in lui si era manifestato. Tommaso lo comprende, si rivolge a Gesù chiamandolo “Mio Signore e mio Dio”. Il brano si conclude con una beatitudine. I credenti di tutti i tempi non sono svantaggiati nei confronti di coloro che hanno fatto quest’esperienza, ma addirittura avvantaggiati, perché hanno la beatitudine che non è stata detta per i discepoli, “Quanti crederanno senza aver bisogno di vedere”, Gesù li proclama “beati”. Quanti chiedono un segno da vedere per poter credere, Gesù li invita a credere per essere loro segno che gli altri possono vedere. Questa è la buona notizia di Gesù che la comunità dei discepoli è chiamata a portare.