commento di p. Maggi al vangelo della domenica

p. Maggi

 

XXXIII domenica del tempo ordinario

17 novembre  2013

CON LA VOSTRA PERSEVERANZA SALVERETE LA VOSTRA VITA

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Lc 21,5-19

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

La liturgia di questa domenica ci presenta che vuole essere di grande incoraggiamento per le comunità cristiane che sono sottoposte a degli attacchi esterni da parte della religione, dei governanti, ma anche interni da parte dei propri familiari. Allora le parole di Gesù non vogliono mettere paura, ma  toglierla, non vogliono scoraggiare i credenti, ma incoraggiarli.
Il brano prende l’avvio dall’ammirazione che i discepoli, che ancora non hanno capito la novità portata da Gesù, hanno del tempio. L’evangelista scrive: Mentre alcuni, si riferisce ai discepoli, parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi. Ebbene Gesù aveva dichiarato il tempio una spelonca di ladri un tempio dove Dio era diventato una sanguisuga, che anziché comunicare la vita ai suoi fedeli gliela toglieva, come nell’episodio che precede questo brano, quello della vedova, che poverina si dissanguava per mantenere in vita il Dio che la sfruttava.
Dio, nell’Antico Testamento, nella Legge, aveva previsto che con i proventi del tempio bisognasse mantenere proprio le categorie più deboli, rappresentate dalla vedova. Ebbene l’istituzione religiosa aveva deturpato il volto di Dio e non solo con i proventi del tempio non si mantenevano le vedove, ma erano le vedove, quindi la parte più debole della società, che dovevano dissanguarsi per mantenere in vita questo Dio vampiro.
Gesù non tollera tutto questo e allora all’ammirazione dei discepoli Gesù risponde: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”.
Questo è il primo dei grandi cambiamenti che avverrà nella storia. Ogni istituzione religiosa e civile che si oppone al bene dell’uomo, che sfrutta l’uomo, che umilia l’uomo, Gesù ci assicura – ed è questa la grande speranza, la grande certezza dei credenti – cadrà, anche se sembra una cosa impossibile, come il tempio di Gerusalemme, una delle meraviglie del mondo, uno splendore come ammirano questi discepoli, tutto cadrà.
Non c’è sistema di potere economico, politico, religioso che sfrutti l’uomo, lo schiacci, lo umili e non vedrà la fine. E Gesù quindi ha parole di incoraggiamento verso i suoi, verso la comunità cristiana, avvertendo però che tutto questo non sarà indolore, perché questa società si rivolterà contro i discepoli di Gesù che annunziano un mondo nuovo.
Gesù, e qui delude i suoi discepoli, non è venuto a restaurare il defunto regno di Israele, con la sua idea di grandezza, ma è venuto ad inaugurare il Regno di Dio, una nuova società alternativa e i principali nemici di questo regno saranno quei tre pilastri sacri di ogni società, pilastri che si reggono su valori considerati talmente sacri per la difesa dei quali si può dare la propria vita o si può togliere la vita all’altro, e sono Dio, Patria e Famiglia; sistemi di potere basati sull’obbedienza.
A Dio l’obbedienza del credente, attraverso i rappresentanti religiosi, il cittadino che deve obbedienza ai governatori e la famiglia dove la moglie deve obbedire al marito e il figlio al padre.
Ebbene saranno proprio questi tre ambiti che si rivolteranno contro Gesù e contro i suoi discepoli perché Gesù ha presentato un Dio diverso, un Dio che non comanda, ma che serve, un Dio soprattutto che non chiede obbedienza, ma somiglianza al suo amore.
Allora questi tre ambiti dominati dal potere e dall’obbedienza si rivolteranno contro i discepoli di Gesù che, con il loro annunzio di una società diversa, un modello di vita completamente differente, metteranno in crisi proprio le basi, le radici di questa società autoritaria. Ecco perché Gesù dice che “saranno portati di fronte alle sinagoghe, di fronte ai governanti, ma addirittura all’interno della famiglia ci sarà un odio mortale che farà sì che tra congiunti, appartenenti alla stessa famiglia, ci si ammazzerà”.
Perché? Perché l’adesione a Gesù verrà considerata un crimine talmente grave da annullare perfino i legami di sangue. Ma Gesù assicura: “Nonostante queste sofferenze, nonostante queste inevitabili tribolazioni, persecuzioni, siete i vincitori.” E conclude: “Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”.
E Gesù assicura che neanche un capello, la parte più piccola della persona, andrà perduto.
Quindi chi collabora al messaggio di Gesù, all’inaugurazione del Regno di Dio, è già vincitore contro queste forze che sembrano preponderanti, contro queste forze che schiacciano, questi poteri che sembrano indistruttibili, Gesù ci assicura: “Lavorate per il Regno e uno dopo l’altro, cominciando dal tempio di Gerusalemme, tutte queste istituzioni si dissolveranno nel nulla”.
Il brano dell’evangelista continua poi con il versetto 28 in cui conferma che è un’immagine di speranza, di salvezza e non di paura. Gesù annunzia: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina”. Quindi non catastrofi che mettono paura al gruppo di discepoli, ma l’annunzio di una grande verità: tutto quello che domina, che opprime e umilia l’uomo, man mano nella storia cadrà.
Questo comporterà inevitabili sofferenze ai componenti della comunità cristiana, ma questo non li deve scoraggiare perché sono già i vincitori.

p. Maggi commente il vangelo della domenica

 

p. Maggi

“Dio non è dei morti ma dei viventi”

 Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

domenica 10 novembre  2013 (32a del tempo ordinario)
Lc 20,27-38

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

I sadducei hanno congegnato bene la trappola in cui far cadere Gesù. Non osano affrontarlo sul piano dottrinale e politico perché sanno che potrebbero avere la peggio. Gesù infatti ha già zittito con le sue risposte i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani, ed è riuscito a lasciare senza parole anche i pur agguerriti farisei.
Scrive l’evangelista che “Costoro”, i farisei, “meravigliati della sua risposta, tacquero”. D’altro canto Gesù non possono eliminarlo perché Gesù ha un gran seguito tra la gente, ne farebbero un martire. E così i sadducei decidono di attirarlo in un terreno scivoloso da dove, una volta caduto, l’aspirante messia avrebbe avuto difficoltà a rialzarsi, il ridicolo e il discredito.
L’aristocratica casta sacerdotale dei sadducei, il cui nome deriva da sadoc, il sacerdote che consacrò come re Salomone, il figlio dell’amante di Davide e Betsabea, al posto del legittimo re 1
Adonia. Questa casta sacerdotale dei sadducei deteneva non soltanto il potere politico, ma anche il potere economico, erano molto ricchi.
Loro accettavano come parola di Dio soltanto i primi cinque libri della Bibbia e rifiutavano i libri dei profeti. Per quale motivo? Perché nei profeti è costante la denuncia di Dio contro l’ingiustizia che crea grandi ricchezze, ma anche tanta povertà. Quindi loro lo rifiutavano perché per loro andava bene la situazione così com’era.
Si rivolgono a Gesù con un titolo ossequioso, Maestro, ma in realtà non vanno a prendere da lui, vogliono soltanto screditarlo. E si rifanno a una questione che ha le sue basi nella legge di Mosè, nel libro del Levitico, dove Mosè prescrive: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello.
Qual è il significato di questa legge? La legge del levirato prevedeva che il cognato di una donna rimasta vedova e senza figli avesse l’obbligo di metterla incinta, perché era importante che il nome del marito continuasse. Era una maniera per diventare eterni, per perpetuare il proprio nome; ogni figlio portava il nome del padre.
Quindi quando una donna rimaneva vedova e, senza aver avuto un figlio maschio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta e il bambino nato avrebbe portato il nome del defunto. La legge prescrive: In modo da assicurargli la perpetuità, come c’è scritto nel libro del Deuteronomio: Perché il nome di questi non si estingua da Israele.
Secondo la cultura dell’epoca – e questo va compreso per una migliore comprensione del brano – il matrimonio aveva il solo scopo di assicurare una discendenza all’uomo, la donna serviva unicamente per mettere al mondo figli, figli maschi.
Quindi qui non si tratta di uno scrupolo sull’amore, ma su una realtà del figlio maschio. Allora, ispirandosi alla popolare storia di Sara, la sfortunata sposa alla quale morirono ben sette mariti la sera stessa delle nozze, i sadducei spacciano – come se fosse vera – la macabra vicenda di questi sette fratelli tutti morti senza essere riusciti ad avere un figlio da quella che è stata la moglie di tutti e sette.
Della donna ai sadducei non interessa nulla, non desiderano conoscere la sorte della donna, desiderano solo sapere a quale dei defunti, una volta risuscitati, spetterà poi averla per immortalare con un figlio maschio il proprio nome. Quindi non si tratta di un problema affettivo (di chi sarà la moglie?), ma chi da questa donna riuscirà ad avere un figlio maschio.
Quindi i sadducei cercano di ridicolizzare Gesù e di burlarsi di lui. Ebbene nella sua risposta Gesù si distanzia dall’interpretazione popolare della risurrezione, intesa come un ritorno alla vita fisica dei morti, e Gesù risponde che la vita dei risorti non dipende dalla procreazione, dal rapporto tra marito e moglie, ma proviene direttamente dalla potenza di Dio.
E Gesù cita gli angeli? Perché Gesù cita gli angeli? Perché i sadducei non credevano all’esistenza degli angeli. Come gli angeli ricevono la vita non certo dal padre e dalla madre, ma direttamente da Dio, così con la risurrezione la vita rimane eterna perché proviene da Dio.
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Ai sadducei, che si sono fatti forza dell’autorità di Mosè per opporsi a Gesù, Gesù ribatte a sua volta, riconducendosi proprio a Mosè, a quello che ha scritto, mostrando quanto sia miope e limitata la loro lettura della scrittura e si rifà alla risposta che Dio diede a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente, quando disse: “Il Signore è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”.
Quando si dice che il Signore è il Dio di … non si intende tanto il Dio creduto da … Abramo, Isacco o Giacobbe, ma il Dio che protegge Abramo, Isacco e Giacobbe. E come protegge? Protegge con la sua vita, tenendoli lontani dalla morte.
Quindi essere sotto la protezione di Dio significa avere la sua stessa vita e il Dio fedele non permette che muoiano quelli che lui ha amato. E il perché ce lo dice la frase più importante di tutto questo brano, che getta nuova luce sull’immagine della vita, della morte e delle risurrezione, “Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché vivono tutti per lui”.
Il Dio di Gesù non risuscita i morti, ma comunica ai vivi, ai viventi, la sua stessa vita, una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte.

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

p. Maggi

 

p. Maggi ci aiuta alla migliore comprensione del vangelo della domenica 3 novembre, 31a del tempo ordinario:

IL FIGLIO DELL’UOMO ERA VENUTO A CERCARE E A SALVARE CIO’ CHE ERA PERDUTO 

Lc 19,1-10

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Poco prima del vangelo di questa domenica, Luca racconta l’episodio dell’uomo ricco, lo definisce un notabile, un capo, che si avvicinò a Gesù per chiedergli che doveva fare per entrare nella vita eterna. Gesù gli rispose ricordandogli i comandamenti che si riferivano al comportamento nei confronti del prossimo, e, considerato che costui aveva tutto osservato fin dalla sua giovinezza – per cui la vita eterna era già assicurata – Gesù lo invitò a preoccuparsi di questo mondo e di questa vita, seguendolo, vendendo tutto quello che aveva per darlo ai poveri.
Quell’uomo era un perfetto osservante della legge, come del resto corrispondeva all’essere notabile, un capo, ma non accetta l’invito di Gesù. Il suo interesse si centrava sulla vita eterna, sull’aldilà, mentre Gesù lo voleva invitare a collaborare alla trasformazione di questa vita, contribuendo alla felicità di tutti gli uomini.
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Ma il notabile, come del resto tutti i ricchi, desidera che niente cambi, per  mantenere la sua posizione di privilegio e di prestigio. Fu in quell’occasione che Gesù disse che la ricchezza era un ostacolo praticamente insormontabile per entrare nel Regno di Dio; la famosa frase di Gesù “E’ più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel Regno di Dio”.
Ebbene, nel vangelo di questa domenica, invece, Zaccheo, anche lui è ricco. In quanto pubblicano non poteva certo vantarsi dicendo di aver osservato tutti i comandamenti dalla sua gioventù. Come lui stesso riconosce era un ladro che aveva estorto il denaro alla gente.
Zaccheo non è interessato alla vita eterna e Gesù non gli chiede di vendere quello che ha per darlo ai poveri e seguirlo. E’ lui, è Zaccheo che lo decide.
Accoglie Gesù nella sua casa, nella sua vita, e tutto cambia.
Da ricco si ritrova povero; dice: “Do la metà di quello che possiedo ai poveri e se ho rubato a qualcuno restituisco quattro volte tanto”, quindi lui che era ricco si ritrova a non esserlo più, ma finalmente è felice.
Scrive l’evangelista che fa tutto questo pieno di gioia. Il pubblicano ha rotto con l’ingiustizia che scandiva con la sua vita. E Gesù proclama: “Oggi”, quindi non è una promessa per il futuro, “per questa casa è venuta la salvezza”.

L’affermazione di Gesù è importante perché noi tendiamo sempre a proiettare la salvezza di cui Gesù parla nell’aldilà. La salvezza è già presente, una salvezza che si riferisce a questa vita, non all’aldilà, una salvezza che però agli occhi dei ricchi del mondo è una rovina.
Il notabile, alle parole di Gesù, l’evangelista scrive che divenne Assai triste perché era molto ricco. Il ricco notabile era interessato all’aldilà, proiettava la sua salvezza in un mondo futuro; Zaccheo, che ha rotto con l’ingiustizia, ha sperimentato la salvezza in questo mondo, nella sua vita terrena. La salvezza per Gesù non è garantirsi un posto nell’aldilà, anche il notabile ce l’aveva assicurato con l’osservanza dei comandamenti, ma liberarsi da tutto quello che impedisce in questa vita di essere pienamente liberi per collaborare con il Cristo alla realizzazione del Regno di Dio.
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il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

anemoni

CHI SONO IO PER GIUDICARE?

domenica 27 ottobre, 3oa domenica del tempo ordinario
vangelo: Lc 18, 9-14 : il fariseo e il pubblicano
La parabola del fariseo ed il pubblicano normalmente sveglia non in pochi cristiani un rifiuto grande verso il fariseo che  si presenta davanti a Dio arrogante e sicuro di sé, ed una simpatia spontanea verso il pubblicano che riconosce   umilmente il suo peccato. Paradossalmente, il racconto può svegliare in noi questo sentimento: “Io ti ringrazio, perché non sono come questo fariseo.”   Per comprendere correttamente il messaggio della parabola, dobbiamo pensare che Gesù non la racconta per criticare i settori farisei, bensì per scuotere la coscienza di “alcuni che, ritenendosi giusti, si sentivano sicuri di se stessi e disprezzavano gli altri”. Tra questi ritroviamo, certamente, non pochi cattolici dei nostri giorni.   … Il discorso del fariseo ci rivela il suo atteggiamento interiore: “Oh Dio! Ti ringrazio perché non sono come quell’altro”. Che razza di discorso è questo di credersi migliore degli altri?
Un fariseo, fedele alla legge e puntuale nelle sue cose, può vivere in un atteggiamento pervertito. Questo uomo si sente giusto davanti a Dio e, proprio per questo motivo, si trasforma in giudice che disprezza e condanna quelli che non sono come lui. Il pubblicano al contrario, riesce solamente a dire: “Oh Dio! Abbi compassione di questo peccatore”. Questo uomo riconosce umilmente il suo peccato. Non può glorificarsi della sua vita. Si raccomanda alla compassione di Dio. Non si confronta con nessuno. Non giudica gli altri. Vive in realtà davanti a sé stesso e davanti a Dio.   La parabola è una penetrante critica che smaschera un atteggiamento religioso ingannevole che ci permette di vivere davanti al Signore sicuri della nostra innocenza, mentre condanniamo dalla nostra presupposta superiorità morale chiunque non pensa o agisce come noi.   Circostanze storiche e correnti trionfalistiche lontane dal vangelo ci hanno resi specialmente  noi cattolici deboli verso questa tentazione. Per questo motivo, dobbiamo leggere la parabola ognuno di noi in atteggiamento autocritico: Perché ci crediamo migliori degli agnostici? Perché ci sentiamo più vicini a Dio noi che coloro che non si interessano al Signore? Che cosa c’è in fondo a certi discorsi che si fanno in merito alla conversione dei peccatori? Che cosa significa per noi riguardo a come si deve porre riparo ai propri peccati senza vivere convertendosi a Dio?   Recentemente, davanti alla domanda di un giornalista, Papa Francesco fece questa affermazione: “Chi sono io per giudicare un gay?”. le Sue parole hanno sorpreso quasi tutti. Nessuno si aspettava una risposta tanto semplice ed evangelica di un Papa cattolico. Tuttavia, questo è l’atteggiamento di chi vive in realtà d’innanzi al Signore.
José Antonio Pagola

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

p. Maggi

commento, molto bello, al vangelo di domani 27 ottobre, 30a del tempo ordinario: Lc18, 9-14

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 p. Alberto Maggi

 

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

 

 

“Siate santi perché io sono santo”, questo è l’imperativo, la richiesta del Dio dell’Antico Testamento, e la santità viene intesa come la scalata verso Dio attraverso l’osservanza di regole, di precetti, di comandamenti, di pratiche religiose.

Ebbene stranamente questo invito non appare mai nella bocca di Gesù. Mai Gesù in nessuno dei vangeli chiede: “Siate santi come io sono santo”. Ma Gesù insistentemente e continuamente rivolge l’invito “Siate compassionevoli come il Padre vostro è compassionevole”. Perché tutto questo? Ce lo spiega Luca nella parabola che adesso esaminiamo, il capitolo 18, versetti 9-14, e l’evangelista ci fa vedere il differente orientamento.

Nella santità l’uomo che scala verso la santità, verso Dio – il traguardo è Dio – ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio. Ma chi desidera portare gli uomini verso Dio inevitabilmente fa sì che qualcuno rimanga indietro, altri rimangano esclusi. Ecco la novità di Gesù è stata che lui non ha voluto portare gli uomini verso Dio, la scalata della santità, ma lui ha fatto qualcosa di diverso: ha portato Dio verso gli uomini e se nella scalata verso la santità l’uomo va verso Dio grazie ai suoi meriti (ma non tutti possono o vogliono avere questi meriti), nel fatto che Gesù porti Dio agli uomini, quel che conta non è il merito delle persone, ma il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità.

Un Dio che non ama le persone nonostante i loro peccati, ma proprio per questo li ama. Questa è la novità sconvolgente che Gesù ha portato. E Gesù la mette in scena con questa parabola conosciuta come del “Fariseo e pubblicano”, che ha una precisa indicazione iniziale. L’evangelista scrive che Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti – dove giusti significa “a posto con Dio” – e disprezzavano gli altri.

E presenta gli antipodi della società di Israele, il Santo per eccellenza, il Fariseo, la persona che, come dice il nome (Fariseo significa separato), si separa dagli altri attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, e la persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, il pubblicano, un individuo che, anche se volesse, non può più cambiare quel mestiere che lo rende impuro.

Ebbene il Fariseo in questa preghiera ringrazia il Signore più per sé che per gli altri e cosa presenta al Signore? Presenta al Signore quelli che sono i suoi tentativi di arrivare a lui attraverso le pratiche religiose più degli altri. Dice il Fariseo: “Digiuno due volte alla settimana”, ma il digiuno obbligatorio era richiesto una sola volta all’anno. No, lui fa di più, lui digiuna tutte le settimane e addirittura due volte.

E poi si vanta: “Pago le decime”, le decime sono l’offerta di una decima parte del raccolto e del bestiame al tempio, al Signore, “di tutto quello che possiedo”. Non paga solo per ciò che è prescritto, ma per tutto quello che possiede.

Quindi è una persona che tenta di arrivare a Dio attraverso una pratica incessante e continua, e come vedremo straripante, di osservanze che Dio non ha mai chiesto. Perché Dio non ha mai chiesto queste cose, Dio già attraverso i profeti aveva detto: “Imparate cosa significa Misericordia voglio e non sacrifici”.

Ebbene quest’uomo che vuole andare verso Dio e ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio se ne trova escluso. Perché? Dice Gesù che da lontano c’era un pubblicano, la persona immersa nel peccato fino al collo, che pure osa rivolgere questa preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, usando la formula imperativa. Cioè gli dice: “Sii benevolo, mostrami la tua misericordia”.

Allora abbiamo da una parte la persona spirituale, ricca della sua santità, che offre i suoi meriti al Signore, dall’altra la persona che non ha nulla da presentare, se non la sua condizione di peccatore, dalla quale, ripeto, non può più venir via e mostra la sua miseria.

Da una parte il merito, dall’altra il bisogno. Ebbene la sentenza sconvolgente, sconcertante di Gesù: “Io vi dico: ‘Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato’ ”. Ricordate che all’inizio Gesù aveva detto che la parabola era per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. E aveva presentato il giusto, il Fariseo, e il disprezzato. Adesso le sorti si rovesciano.

Il pubblicano disprezzato qui diventa giusto. “Tornò a casa sua giustificato”, che significa a posto con Dio, mentre l’altro no. Quella che Gesù ha presentato è una novità che forse ancora non riusciamo a comprendere ma che ci deve spingere a questo imperativo: Il Signore non ci chiede di essere santi, perché la santità separa dagli altri, forse avvicinerà a Dio, ma inevitabilmente allontana dal resto della gente (la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose). Gesù ci chiede di essere la carezza compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi meriti, ma per i suoi bisogni.

Questo è l’insegnamento della buona notizia di Gesù.

 

 

 

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

il biblista p. Pagola commenta il vangelo della domenica

 

croce

commento di p. Pagola al vangelo di domani, domenica XXIX del tempo ordinario (20 ottobre 2013)

Lc 18, 1 – 8:

CONTINUIAMO A CREDERE NELLA GIUSTIZIA?

 Luca riporta nel suo vangelo una breve parabola per indicarci che Gesù la ha narrata per spiegare ai suoi discepoli come dovevano pregare sempre senza scoraggiarsi. Questo tema è molto caro all’evangelista che, in varie occasioni, ripete sempre la stessa cosa. Naturalmente, la parabola è stata letta quasi sempre come un invito a badare alla perseveranza nel rapporto tra noi e Dio e del nostro dialogo continuo con lui. Tuttavia, se osserviamo il contenuto del racconto e la conclusione a cui arriva lo stesso Gesù, ci accorgiamo che la chiave della parabola è

 la sete di giustizia. Fino a quattro volte si ripete l’espressione “fare giustizia”. più che un modello di discorso, la vedova del racconto è esempio ammirabile di lotta per la giustizia in mezzo ad una società corrotta che abusa dei più deboli.

 Il primo personaggio della parabola è un giudice che “non teme Dio e non gli importa niente degli uomini”. È l’incarnazione esatta della corruzione che viene denunciata ripetutamente dai profeti: i potenti non temono la giustizia di Dio e non rispettano la dignità e né i diritti dei poveri. Questi non sono dei casi isolati. I profeti denunciano la corruzione del sistema giudiziario in Israele e la struttura maschilista di quella società patriarcale.

 Il secondo personaggio è una vedova indifesa in mezzo ad una società ingiusta. Da un lato, vive subendo gli oltraggi di un “avversario” più potente di lei, e dall’altro, è vittima di un giudice al quale non gli importa in assoluto della sua persona e né della sua sofferenza. Così vivono milioni di donne di tutti i tempi nella maggioranza dei paesi.

 Nella conclusione della parabola, Gesù non parla del dialogo esatto da intrattenere con il Padre. Prima che niente, chiede fiducia nella giustizia di Dio: “Non farà Dio giustizia ai suoi eletti che gli gridano giorno e notte?”. Questi eletti non sono “i membri della Chiesa” bensì i poveri di tutti i paesi che vanno chiedendo giustizia. Di essi è il regno di Dio.

 Dopo, Gesù fa una domanda che è tutta una sfida per i suoi discepoli: “Quando verrà il Figlio dell’Uomo, troverà questa fede sulla terra?”. Egli non sta pensando alla fede come adesione dottrinale, bensì alla fede che è incoraggiamento per la vedova, modello di indignazione, resistenza attiva e coraggio per reclamare giustizia verso i corrotti.

 È tutto questo la fede ed il dialogo dei cristiani soddisfatti delle società del benessere? Sicuramente, ha ragione J. B. Metz quando denuncia che nella spiritualità cristiana ci sono troppi cantici e poche grida di indignazione, troppa compiacenza e poca nostalgia di un mondo più umano, troppa consolazione e poca fame di giustizia.

 José Antonio Pagola

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

croce
DIO FARA’ GIUSTIZIA AI SUOI ELETTI CHE GRIDANO VERSO DI LUI 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM

XXIX domenica del tempo ordinario (20 ottobre 2013)
Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Il versetto iniziale di questo brano, Luca capitolo 18, i primi otto versetti, riferisce che Gesù diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Ebbene questo versetto può ingannare e sviare l’attenzione del lettore: non si tratta dell’insegnamento sulla preghiera – o sulla preghiera insistente – tema che Gesù ha già trattato – ma sulla realizzazione del Regno di Dio.
L’insegnamento di Gesù sulla preghiera, al capitolo 12 di questo vangelo è molto chiaro. E’ l’invito a non preoccuparsi, come fanno i pagani, ma ad essere sempre pienamente fiduciosi nell’azione d’amore del Padre. Gesù aveva detto: “E voi non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno”.
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Quindi non c’è neanche da chiedere al Signore perché il Signore non viene incontro ai nostri bisogni, ma li precede addirittura. Ma quello che Gesù ha a cuore è “Cercate piuttosto il suo Regno e queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Questo sta a cuore a Gesù, ed è questo il tema: la realizzazione del Regno di Dio. Perché? Liberati quindi da ogni preoccupazione questi discepoli sono invitati a lavorare per realizzare il Regno di Dio, cioè la società alternativa dove anziché accumulare si condivide, dove anziché comandare ci si mette a servizio degli altri, e per questo non c’è bisogno di salire in alto sopra alle altre persone, bensì di scendere. Questo è il Regno di Dio, la società alternativa che fa parte del progetto di Dio sull’umanità.
Per questo Gesù l’ha posto nell’unica preghiera che ha insegnato, il Padre Nostro, dicendo “venga il tuo regno”, che non si riferisce alla venuta di qualcosa che ancora non c’è, ma qualcosa che si allarga e si estende. Infatti, dal momento che c’è una comunità di uomini, di discepoli, di donne, che accolgono le beatitudini, il Regno c’è già.
Gesù aveva detto “Beati voi poveri”, quelli che hanno fatto questa scelta della società alternativa, “perché vostro è il Regno di Dio”. Non dice che il Regno sarà, il Regno c’è.
Quindi si tratta di ampliare, di estendere ancora gli effetti di questo Regno. Ebbene, questo Regno si deve allargare grazie all’impegno dei credenti che operano per il progetto di Dio sull’umanità, che è quello – come ha cantato Maria nel Magnificat – di disperdere i superbi, di rovesciare i potenti dai troni e di rimandare i ricchi a mani vuote.
Questo è quello che Gesù vuole e che i discepoli devono realizzare. Questo è il Regno di Dio. Per questa ragione Gesù ai farisei che gli chiedono beffardi: “Quando verrà questo Regno?” perché pensano che sia un’utopia irrealizzabile, ha risposto: “Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, non è qualcosa di clamoroso, di sensazionale, che scende dall’alto. E nessuno dirà: ‘Eccolo lì’ oppure ‘Eccolo là’. Ecco il Regno di Dio è in mezzo a voi”.
Sono piccole comunità di credenti che hanno accolto il messaggio di Gesù e iniziano quest’opera di liberazione dell’umanità. Pertanto il brano in questione, questo capitolo 18 di Luca, i primi otto versetti, rappresenta un incoraggiamento alle comunità cristiane, le comunità del Regno,  che possono scoraggiarsi, avvilirsi vedendosi sole, fragili di fronte all’enormità dell’ingiustizia della società che le circonda, che è il loro stile.
E la preghiera è finalizzata alla realizzazione della giustizia del Regno di Dio. In questo è il significato dell’insistenza della preghiera. Gesù rassicura: Il Regno di Dio e la sua giustizia – Il termine giustizia in questo brano appare quattro volte, è questo il tema centrale – si realizzeranno.
Ma, perché questo diventi realtà, occorre da parte dei discepoli la rottura coni falsi valori della società, rottura che i discepoli ancora non hanno praticato. Per questo il brano si conclude con lo scetticismo di Gesù: “Ma il Figlio dell’Uomo quando verrà troverà la fede sulla terra?”
Gesù aveva parlato della venuta del Figlio dell’Uomo in coincidenza con la distruzione di Gerusalemme. Gesù l’aveva detto: Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’Uomo si
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manifesterà, nella rovina di Gerusalemme, nella distruzione del tempio Dio viene come liberato e quindi gli si permette di andare verso tutta l’umanità.
Ebbene i discepoli, quando Gesù si manifesterà, saranno ancora impegnati nella realizzazione del Regno di Dio? La finale del vangelo di Luca ne dubita. I discepoli non  hanno ancora rotto con i valori della società, frequentano il tempio – così finisce il vangelo di Luca – quel tempio che Gesù aveva definito un covo di ladri e di discepoli di Emmaus riconoscono ancora come “nostre autorità” gli assassini di Gesù.
Quindi tutto il brano è un invito a non scoraggiarsi per seguire colui che ha detto, in un altro vangelo, quello di Giovanni, “Coraggio io ho vinto il mondo!” Chi si impegna a favore della vita sarà sempre più forte della morte. Chi si impegna a favore della luce vincerà sulle tenebre.

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

 

p. Maggi
13 ottobre 2013

 (28° domenica del tempo ordinario)
NON SI E’ TROVATO NESSUNO CHE TORNASSE INDIETRO A RENDERE GLORIA A DIO, ALL’INFUORI DI QUESTO STRANIERO 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Lc 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo di questa domenica, il vangelo di Luca, capitolo 17, versetti 11-19, sembra apparentemente semplice, una lettura molto facile. In realtà è forse uno dei brani del vangelo di Luca tra i più complessi e i più complicati.
Vediamo un po’ di comprendere le contraddizioni e i significati che l’evangelista ci vuol dare in questo brano. Scrive Luca: Lungo il cammino verso Gerusalemme. L’evangelista adopera il termine greco Ierusalem che indica la città santa. Gesù va per lo scontro finale con quella che era la Santa Sede dell’epoca, l’istituzione più sacra che esistesse al mondo, dove c’era il tempio del Signore.
E Gesù va per scontrarsi con questa istituzione. L’itinerario che l’evangelista presenta però è alquanto strano. Luca scrive che Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Avrebbe dovuto scrivere che attraversava la Galilea e poi la Samaria. Infatti se abbiamo più o meno un’idea di com’era la Palestina al tempo di Gesù, al nord c’è la Galilea, al centro c’è la Samaria, la regione
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abitata dagli eretici, dalle persone considerate le più ripugnanti e più lontane da Dio, e infine al sud c’era la Giudea con Gerusalemme.
Quindi l’evangelista avrebbe dovuto scrivere che Gesù attraversava la Galilea e la Samaria. Perché invece l’evangelista dice che attraversava la Samaria e la Galilea? Perché vuole incentrare l’attenzione del lettore su quello che avviene in terra di Israele, in Galilea.
Entrando in un villaggio… Ecco l’evangelista ci da delle indicazioni preziose che aiutano l’interprete, il commentatore. Quando nei vangeli appare il termine “villaggio”, si intende sempre ostilità, incomprensione o rifiuto del messaggio di Gesù. Come mai questo? Perché il villaggio è il luogo ancorato alla tradizione, il luogo sottomesso alla città.
Ma mentre nella città le mode vanno, vengono, cambiano, nel villaggio attecchisce la tradizione. Quindi il villaggio è là dove vige l’imperativo “perché cambiare si è sempre fatto così”. Quindi tutte le volte che nel vangelo troviamo l’indicazione “villaggio”, indica il luogo della tradizione ad oltranza e l’incomprensione o il rifiuto del messaggio di Gesù.
E qui c’è una sorpresa, Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi. Non è possibile. I lebbrosi non potevano stare in un villaggio. I lebbrosi, in quanto infetti, causa di infezione, dovevano stare fuori dal villaggio. Come mai qui l’evangelista ci dice che questi lebbrosi stanno dentro al villaggio? L’evangelista, al di là del racconto storico, ci vuole dare indicazioni preziose: quanti vivono all’interno della tradizione, quanti vivono sottomessi alla religione tradizionale, sono come i lebbrosi, cioè sono impuri.
Non hanno nessuna possibilità di contatto con Dio. Questi sono lebbrosi proprio perché stanno dentro al villaggio. E qui l’atteggiamento di questi lebbrosi è abbastanza strano. Si fermarono a distanza. Da una parte l’evangelista ha detto che gli vennero incontro, e dall’altra si fermano a distanza.
Da una parte trasgrediscono alla legge che impediva ad un lebbroso di avvicinarsi alle persone, ma dall’altra la osservano. Attraverso l’immagine di questi lebbrosi l’evangelista vuol far vedere il difficile cammino dei discepoli, che sono affascinati dalla parola di Gesù, dalla libertà che il suo messaggio comporta, ma sono ancora schiavi della tradizione religiosa che hanno nel sangue.
E dissero ad alta voce: “Gesù” … e la traduzione dice “maestro”, ma in realtà è “capo”, ebbene così in questo vangelo si sono rivolti a Gesù soltanto i discepoli e in particolare Pietro. E’ un artifizio letterario con il quale l’evangelista vuole indicare che nella figura di questi lebbrosi lui vuole rappresentare i discepoli. E proseguono: “Abbi pietà di noi!” Quindi da una parte sono sottomessi a una religione che impedisce loro la piena comunione con Dio, e dall’altra vorrebbero esserne liberati, ma non ne hanno le forze, chiedono aiuto a Gesù.
Appena li vide, Gesù disse loro… Gesù non li guarisce, Gesù non li cura, ma dà loro un comando: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Gesù li invita ad uscire dal villaggio, i sacerdoti stavano a Gerusalemme, quindi Gesù li invita ad abbandonare il luogo della tradizione, della tradizione religiosa, dove vige l’imperativo, questa sì che è l’autentica lebbra che impedisce agli uomini il rapporto con Dio. Si è sempre fatto così, perché cambiare? 2
Infatti, mentre essi andavano, furono purificati. Gesù non compie nessuna azione sui lebbrosi, Gesù li invita ad uscire dal villaggio. Quando escono dal villaggio, prima ancora di arrivare dai sacerdoti per accertare l’avvenuta guarigione, ecco che si trovano purificati. Ma c’è una sorpresa. Uno di loro, vedendosi guarito, quindi Gesù guarisce, purifica tutti e dieci, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi – mettersi ai piedi di qualcuno era segno di discepolato – per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ecco la sorpresa dell’evangelista. Sono guariti tutti e dieci, sono purificati, ma uno soltanto torna per ringraziare. E chi lo fa? La persona più lontana da Dio, la persona esclusa da Dio, la persona per la quale non c’era salvezza. La persona il cui solo nome, Samaritano, era qualcosa di ripugnante. Dare del Samaritano a una persona era il peggiore degli insulti possibili, quando vogliono offendere Gesù gli danno del Samaritano.
Quindi la persona più lontana da Dio, la persona che si ritiene esclusa da Dio, è colui che invece percepisce l’azione di Dio nella sua vita. Ed infatti Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio” … Rendere gloria a Dio era un privilegio esclusivo del popolo di Israele, dal quale i Samaritani erano esclusi … “all’infuori di questo straniero?” cioè della persona più lontana da Dio.
E gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” L’evangelista con questo brano ci indica e ci insegna che cos’è la fede. Che cos’è la fede? Molti ritengono la fede un dono di Dio. Non è così. Se la fede fosse un dono di Dio avrebbero ragione molti che si sentono esentati dall’averla, dicendo: “A me Dio non l’ha data. Beato te che hai tanta fede”.
Oppure altri hanno fede, ma poi quando capita un rovescio nella vita, che può sempre succedere, dicono “Avevo tanta fede, ma poi l’ho persa”. No! La fede non viene da Dio, e la fede o c’è o non c’è. Non è che si ha per un po’ di tempo e poi si perde. La fede non è un dono di Dio agli uomini, ma è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutta l’umanità.
Ma, stranamente, in questo vangelo, quelli che vengono elogiati per la loro fede sono le persone ritenute più lontane da Dio. Sembra quasi che le persone che vivono all’interno di un sistema religioso abbiano come un filtro che impedisca loro di vedere l’azione di Dio e di avere fede. Infatti Gesù in questo vangelo elogia la fede di un centurione pagano, elogia la fede di una prostituta, il ricettacolo di ogni impurità, la persona più lontana da Dio.
Lo stesso Gesù elogia la fede di una emorroissa, una persona che era considerata impura come un lebbroso; Gesù elogia la fede del cieco, che era considerato un maledetto da Dio. Mentre, al contrario, Gesù rimprovera i suoi discepoli, gente di poca fede. La religione, tutto quell’insieme di pratiche, di credenze che sono state insegnate agli uomini, è il filtro che impedisce all’umanità di scorgere l’amore che Dio desidera comunicare ad ogni persona, nessuno escluso.
Non c’è nessuno al mondo che possa ritenersi escluso dall’azione di Dio. E’ la religione – ecco la vera lebbra – che divide tra puri e impuri, tra degni e no, tra meritevoli e no, ma non Dio. L’amore di Dio si rivolge a ogni creatura. Accoglierlo e rispondere, questo si chiama fede

“siamo credenti!” : p. Pagola commenta il vangelo di domani

anemoni

il commento del teologo biblico Pagola sul vengelo di domani 7 ottobre, 27a domenica del tempo ordinario
Lc 17, 5 – 10

SIAMO CREDENTI?

Gesù aveva ripetuto loro in diverse occasioni: “Che piccola è la vostra fede!”. I discepoli non protestano. Sanno che ha ragione. Sono oramai gia da molto tempo con lui. Lo vedono dedito totalmente al Progetto di Dio; egli pensa solamente di fare il bene; egli vive solamente per fare la vita di tutti più degna e più umana. Lo potranno seguire fino alla fine?

Secondo Luca, in un determinato momento, i discepoli chiedono a Gesù: “Aumenta” la nostra fede. Sentono che la loro fede è piccola e debole. Devono fidarsi più di Dio e credere più in Gesù. Non lo capiscono molto bene, ma non discutono. Fanno secondo loro la cosa più importante: gli chiedono aiuto affinché faccia crescere la loro fede.

La crisi religiosa dei nostri giorni non rispetta gli apprendisti. Noi parliamo di credenti e non credenti, come se fossero due gruppi ben definiti: alcuni hanno fede, altri no. In realtà, non è così. Quasi sempre, nel cuore umano c’è, contemporaneamente, un credente ed un non credente. Per questo motivo, anche per noi che ci definiamo “cristiani” dobbiamo porci questa domanda: Siamo realmente credenti? Chi è Dio per noi? L’amiamo? È egli che dirige la nostra vita?

La fede può debilitarsi in noi senza che ci abbia assaltato mai un dubbio. Se non la curiamo, essa può diluirsi a poco a poco semplicemente nel nostro interiore per rimanere ridotta ad un’abitudine che non osiamo abbandonare. Distratti da mille cose, non cerchiamo oramai più di comunicare con Dio. Viviamo praticamente senza lui.

Che cosa possiamo fare? In realtà, non c’è bisogno di grandi cose. È inutile che ci facciamo propositi straordinari perché sicuramente non li compiremo. La cosa prima è pregare come quello sconosciuto che un giorno si avvicinò a Gesù e gli disse: “Credo, Signore, vieni in aiuto nella mia incredulità”. È buono ripeterlo con cuore semplice. Dio ci capisce. Egli sveglierà la nostra fede.

Non dobbiamo parlare con Dio come se stesse fuori di noi. Egli sta dentro. La cosa migliore è chiudere gli occhi e rimaner in silenzio per sentire ed accogliere la sua Presenza. Neanche dobbiamo intrattenerci in pensare a lui, come se fosse solo nella nostra testa. Egli è nella cosa intima del nostro essere. Dobbiamo cercarlo nel nostro cuore.

La cosa importante è insistere fino ad avere una prima esperienza, benché sia piccola, benché solo duri alcuni istanti. Se un giorno percepiamo che non siamo soli nella vita, se captiamo che siamo amati da Dio senza meritarlo, tutto cambierà. Non importa che abbiamo vissuto dimenticandoci di lui. Credere in Dio, è, prima che niente, fidarsi dell’amore che egli ha per noi.

José Antonio Pagola

“se aveste fede!” p. Maggi sul vangelo di domani

 

vivere
XXVII TEMPO ORDINARIO – 6 ottobre 2013
SE AVESTE FEDE! – Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Lc 17,5-10
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Nel vangelo di Luca Gesù presenta due immagini della vita quotidiana, del rapporto tra i servi e il loro padrone, ma completamente differenti. Addirittura in contrasto.
Nella prima, nel capitolo 12 di questo vangelo, Gesù parla di un signore che, tornando a notte fonda a casa, e trovando i servi ancora svegli, cosa farà? Non solo non si farà servire, ma passerà lui a servirli. E’ immagine dell’Eucaristia, dove il Signore, a quanti hanno deciso di mettere la loro vita a servizio degli altri, comunica le sue stesse capacità d’amore, per un esercizio ancora più grande e generoso.
Qui invece, nel brano che la liturgia oggi ci presenta, al capitolo 17 di Luca, versetti 5-10, l’immagine che Gesù presenta è completamente diversa. E’ un signore che quando il servo torna dal campo pretende di essere servito. E anzi dirà: “Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?”
Come mai questo contrasto? Cosa significa?
Vediamolo allora nel contesto. Gesù ha invitato i suoi discepoli ad essere “figli dell’Altissimo”, a somigliare a Dio. E’ come si assomiglia a Dio? 1
Gesù ha detto: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”. E l’esercizio della misericordia Dio lo manifesta nel perdono concesso sempre, un perdono gratuito, un perdono anticipato. E Gesù chiede ai discepoli di perdonare sempre”.
Gesù dirà ai suoi discepoli che “se sette volte al giorno uno ti dice ‘sono pentito’ tu …” – e usa l’imperativo – “gli perdonerai”. Quindi Gesù vuole rendere i suoi discepoli figli di Dio, pienamente liberi, ma per farlo occorre essere capaci di un amore simile a quello del Signore.
E l’esercizio del perdono gratuito ne è la prova. Per fare questo però bisogna abbandonare quel rapporto servo-Signore, con l’obbedienza alla legge, che faceva parte dell’antica alleanza. Mosè, il servo del Signore, aveva imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza alla sua legge. Gesù, il figlio di Dio, propone una nuova relazione tra dei figli e il loro Padre, basata sull’accoglienza e la somiglianza all’amore del Padre.
Il credente per Gesù non è più colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Se i discepoli non lo fanno, se i discepoli sono incapaci di questa misericordia che si manifesta nel perdono, rimangono nella condizione dei servi. Quindi il brano di oggi mette i discepoli di fronte a un’alternativa: continuare con la vecchia tradizione ad essere servi del Signore senza mai riuscire a percepirne l’amore, e quindi incapaci poi di comunicarlo agli altri, oppure accogliere la novità portata da Gesù, essere figli di Dio, pienamente liberi.
E la libertà si manifesta nell’amore gratuito e nel perdono concesso a tutti.
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