il commento al vangelo della domenica

benedetti da chi ha volto e cuore luminosi
solennità Maria Santissima Madre di Dio

il commento di E. Ronchi al vangelo della ottava di natale

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.

Otto giorni dopo Natale, il Vangelo ci riporta alla grotta di Betlemme, all’unica visita riferita da Luca, quella dei pastori odorosi di latte e di lana, sempre dietro ai loro agnelli, mai in sinagoga, che arrivano di notte guidati da una nuvola di canto. E Maria, vittima di stupore, tutto custodiva nel cuore! Scavava spazio in sé per quel bambino, figlio dell’impossibile e del suo grembo; e meditava, cercava il senso di parole ed eventi, di un Dio che sa di stelle e di latte, di infinito e di casa. Non si vive solo di emozioni e di stupori, e lei ha tempo e cuore per pensare in grande, maestra di vita che ha cura dei suoi sogni.

All’inizio dell’anno nuovo, quando il tempo viene come messaggero di Dio, la prima parola della Bibbia è un augurio, bello come pochi: il Signore disse: Voi benedirete i vostri fratelli (Nm 6,22) Voi benedirete… è un ordine, è per tutti. In principio, per prima cosa anche tu benedirai, che lo meritino o no, buoni e meno buoni, prima di ogni altra cosa, come primo atteggiamento tu benedirai i tuoi fratelli. Dio stesso insegna le parole: Ti benedica il Signore, scenda su di te come energia di vita e di nascite. E ti custodisca, sia con te in ogni passo che farai, in ogni strada che prenderai, sia sole e scudo.

Faccia risplendere per te il suo volto. Dio ha un volto di luce, perché ha un cuore di luce. La benedizione di Dio per l’anno che viene non è né salute, né ricchezza, né fortuna, né lunga vita ma, molto semplicemente, la luce. Luce interiore per vedere in profondità, luce ai tuoi passi per intuire la strada, luce per gustare bellezza e incontri, per non avere paura. Vera benedizione di Dio, attorno a me, sono persone dal volto e dal cuore luminosi, che emanano bontà, generosità, bellezza, pace. Il Signore ti faccia grazia: di tutti gli sbagli, di tutti gli abbandoni, di qualche viltà e di molte sciocchezze. Lui non è un dito puntato, ma una mano che rialza.

Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace. Rivolgere il volto a qualcuno è come dire: tu mi interessi, mi piaci, ti tengo negli occhi. Cosa ci riserverà l’anno che viene? Io non lo so, ma di una cosa sono certo: il Signore si volterà verso di me, i suoi occhi mi cercheranno. E se io cadrò e mi farò male, Dio si piegherà ancora di più su di me. Lui sarà il mio confine di cielo, curvo su di me come una madre, perché non gli deve sfuggire un solo sospiro, non deve andare perduta una sola lacrima. Qualunque cosa accada, quest’anno Dio sarà chino su di me. E ti conceda pace: la pace, miracolo fragile, infranto mille volte, in ogni angolo della terra. Ti conceda Dio quel suo sogno, che sembra dissolversi ad ogni alba, ma di cui Lui stesso non ci concederà di stancarci.

(Letture: Numeri 6, 22-27; Salmo 66; Galati 4,4-7; Luca 2,16-21)

 

il commento al vangelo della domenica

natale del Signore

nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo

il commento di E. Ronchi al vangelo del natale di Gesù

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.

Un Vangelo immenso ascoltiamo oggi, che ci obbliga a pensare in grande. Giovanni comincia con un inno, un canto, che ci chiama a volare alto, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo. In principio era il Verbo e il Verbo era Dio. Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori dal tempo. Un mito? No, perché il volo d’aquila plana fra le tende dell’accampamento umano: e venne ad abitare, piantò la sua tenda in mezzo a noi.

Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che esistono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui (v 3). Nulla di nulla senza di lui. “In principio”, “tutto”, “nulla”, “Dio”, parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con il cosmo, in una straordinaria visione che abbraccia tempo, cose, spazio, divinità.

Senza di lui nulla di ciò che esiste è stato fatto. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il pettirosso di stamattina, tutta la vita è fiorita dalle sue mani. Nessuno e niente nasce da se stesso…

Natale: veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino e ogni anziano, ogni malato e ogni migrante, tutti, nessuno escluso; nessuna esistenza è senza un grammo di quella luce, nessuna storia senza lo scintillio di un tesoro, abbastanza profondo perché nessun peccato possa mai spegnerlo.​

E allora c’è un frammento di Verbo in ogni carne, un pezzetto di Dio in ogni uomo, c’è santità in ogni vita.

La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno vinta! Le tenebre non vincono la luce. Non la vincono mai. La notte non sconfigge il giorno. Ripetiamolo a noi e agli altri, in questo mondo duro e triste: il buio non vince.

“In principio era il Verbo e il Verbo era Dio…”. Che vorrei tradurre: in principio era la tenerezza / e la tenerezza era Dio. E la tenerezza di Dio si è fatta carne.

Natale è il racconto di Dio caduto sulla terra come un bacio (B. Calati).

Natale è il brivido del divino nella storia (papa Francesco). Per questo siamo più felici a Natale, perché ascolti il brivido, rallenti il tempo, guardi di più tuo figlio, gli dai una carezza…Gesù è il racconto della tenerezza di Dio (Ev. Ga.), porta la rivoluzione non della onnipotenza o della perfezione, ma della tenerezza e della piccolezza: Dio nell’umiltà, il segreto del Natale. Dio nella piccolezza, forza dirompente del Natale. Dio adagiato sulla povera paglia come una spiga nuova.Noi non stiamo aspettando Qualcuno che verrà all’improvviso, ma vogliamo prendere coscienza di Qualcuno che, come una luce, già abita la nostra vita.

(Letture Messa del giorno: Isaia 52,7-10; Salmo 97; Ebrei 1,1-6; Giovanni 1,1-18)

il commento al vangelo della domenica

i sogni di Giuseppe sono quelli di Dio


I sogni di Giuseppe sono quelli di Dio
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di avvento

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore
(….).

Tra i testimoni che ci accompagnano al Natale appare Giuseppe, mani callose e cuore sognante, il mite che parla amando. Dopo l’ultimo profeta dubbioso, Giovanni Battista, di domenica scorsa, ora un altro credente, un giusto anche lui dubbioso e imperfetto, l’ultimo patriarca di una storia mai semplice e lineare. Giuseppe che non parla mai, silenzioso e coraggioso, concreto e sognatore: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. E lì sono al sicuro, perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. La sua casa è pronta, il matrimonio è già contratto, la ragazza abita i suoi pensieri, tutto racconta una storia d’amore vero con Maria. Improvvisamente, succede: Maria si trovò incinta e Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto, insieme a quel figlio non suo. L’uomo “tradito” cerca comunque un modo per salvare la sua ragazza che rischia la vita come adultera; il giusto “ingannato” non cerca ritorsioni contro di lei, vuole ancora proteggerla, perché così fa chi ama. Ripudiarla…

Ma Giuseppe è insoddisfatto della decisione presa. Si dibatte dentro un conflitto emotivo e spirituale: da un lato l’obbligo di denuncia e dall’altro la protezione della donna amata. A metà strada tra l’amore per la legge di Mosè: toglierai di mezzo a te il peccatore (cfr Dt 22,22), e l’amore per la ragazza di Nazaret. E accade un secondo imprevisto, bello e sorprendente. Giuseppe ha un sogno, in cui il volto di Maria si mescola a quello degli angeli. Prima decide, poi arriva da Dio un sogno, arriva solo dopo, senza esimerlo dalla fatica e dalla libertà: “Non temere di prendere con te Maria”.

Tu vuoi già prenderla con te, solo che hai paura. Non temere di amarla, Giuseppe, chi ama non sbaglia.Dio non interviene a risolvere i problemi con una bacchetta magica, non ci salva dai conflitti ma è con noi dentro i problemi, e opera in sinergia con la nostra testa e il nostro cuore, con l’intelligenza e l’empatia, ma insieme anche con la nostra capacità di immaginare e di ipotizzare soluzioni nuove. È l’arte divina dell’accompagnamento, che cammina al passo con noi, verso l’unica risposta possibile: proteggere delle vite con la propria vita.Da chi ha imparato Gesù a ribaltare la legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non ascoltando da Giuseppe il racconto di come si sono conosciuti con Maria, di come è stato il loro fidanzamento e poi il matrimonio, ai figli piace sentire queste storie. Da chi ha capito il piccolo Gesù che l’amore viene prima di tutto, che è sempre un po’ fuorilegge? Maria e Giuseppe, poveri di tutto, ma Dio non ha voluto che fossero poveri d’amore, perché sarebbero stati poveri di Lui.

(Letture: Isaia 7, 10-14; Salmo 23; Romani 1,1-7; Matteo 1,18-24).

il commento al vangelo della domenica

quella nuova creazione che passa nelle storie di chi vive ai margini


San Giovanni in prigione

il commento di E. Ronchi al vsngelo della terza domenica di Avvento – Anno A

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” ( Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.

Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere.

La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?” Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.

Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?

Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue.

Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.

(Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11)

il commento al vangelo della domenica

l’annuncio del Battista

il regno dei cieli è vicino


L’annuncio del Battista: il regno dei cieli è vicino
il commento di E. Ronchi al vangelo della seconda domenica di avvento

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». (…)

Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno: a) esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce.. b) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza “vicino”. Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra. c) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.​

È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme.

Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.

(Letture: Isaia 11,1-10; Salmo 71; Romani 15,4-9; Matteo 3,1-12)

il commento al vangelo della domenica

l’attesa come arte

il commento di E. Bianchi al vangelo della prima domenica di Avvento, anno A

Mt 24,37-44
 

³⁷In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. ³⁸Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, ³⁹e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. ⁴⁰Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. ⁴¹Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. ⁴²Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. ⁴³Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. ⁴⁴Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”.

Di fronte a questo vangelo la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore.

Inizia un nuovo anno liturgico nel quale, domenica dopo domenica, ascolteremo il vangelo secondo Matteo. Ma inizio e fine di un anno liturgico possono solo mettere davanti a noi ciò che sta sempre nel nostro futuro: la venuta del Figlio dell’uomo, il nostro incontro con lui. Il nostro Dio è il Signore “che è e che viene” (Ap 4,8), perché è già venuto nella carne fragile e mortale di Gesù, il figlio di Maria morto e risorto, viene in ogni ora nella vita del discepolo per attirarlo a sé, verrà nell’ora dell’esodo di ciascuno di noi da questo mondo, alla fine dei tempi, per introdurci tutti e definitivamente nel suo Regno di pace e di vita piena. Gesù è “il Veniente” (ho erchómenos: Ap 1,4.8; 4,8), e il suo giorno, “il giorno del Signore” (jom ’Adonaj, kyriakè heméra), sarà la parousía, la manifestazione ultima e definitiva.  

Nel brano evangelico odierno ascoltiamo parole di Gesù dette non alle folle ma in disparte, solo ai discepoli (cf. Mt 24,3), al “piccolo gregge” (Lc 12,32), nelle ore che precedono la sua fine, attraverso l’arresto, la condanna e la morte. Sul monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme, dove si contempla la città santa e il tempio nel suo splendore, Gesù avverte: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo conosce, è un termine fissato alla storia che solo Dio conosce” (cf. Mt 24,36). Per questa ignoranza da parte degli umani, quando ci sarà la parousía, la venuta del Figlio dell’uomo, regneranno l’indifferenza, la distrazione, il non sapere. Gesù dice queste parole con tristezza, ma sa che per l’umanità è sempre come ai tempi di Noè, quando venne la grande inondazione e colse l’umanità impreparata.  

Nel libro della Genesi (cf. Gen 6,5-9,17), il diluvio universale è presentato come castigo di Dio su un’umanità da lui creata ma diventata malvagia, violenta. Decodificando quel testo, possiamo comprendere che, allora come oggi, a volte sembra prevalere su tutto la violenza, l’immoralità, la perdita della dignità umana e della fraternità. In questo caso emerge con evidenza che le scelte di uomini e donne sono mortifere, che il comportamento umano sfigura la terra in un modo devastante, ben rappresentato dalle acque del diluvio o dal deserto che avanza. E di fronte a eventi che fanno prendere coscienza della nostra responsabilità, si manifesta come gli umani siano stati fino all’ultimo distratti, incapaci di capire ciò che stavano preparando con il loro comportamento. 

Gesù non dice che la generazione nella quale avverrà “il giorno del Signore” sarà immorale o particolarmente perversa, ma ne denuncia solo l’indifferenza. Sono uomini e donne che vivono: nascono, crescono, si innamorano, si sposano, mangiano e bevono… Sì, vivono, e su questo loro vivere Gesù non pronuncia condanne, proponendo loro un programma ascetico. Denuncia solo la “non conoscenza” (ouk égnosan), il non essere pronti, l’essere indifferenti a ciò che invece va cercato prima di tutto ed è essenziale a una vita veramente umana, che risponda alla volontà e alla vocazione del Creatore.  

Dunque nessun castigo da parte di Dio, ma semplicemente la manifestazione della situazione in cui si trova l’umanità di fronte alla presenza e alla venuta del Figlio dell’uomo. Purtroppo noi oscilliamo tra febbre apocalittica con predizioni catastrofiche e indifferenza verso questo evento che, tardando così tanto, pensiamo non ci debba tormentare. Ma questo evento non può essere da noi rimandato alla fine della storia, quasi pensando che non ci riguardi, perché in realtà nell’esodo di ciascuno di noi, nel passaggio da questo mondo all’al di là della morte, saremo messi di fronte alla presenza del Figlio dell’uomo veniente nella gloria. Accadrà dunque che tutto si consumerà quando impareremo dagli eventi che la morte arriva per gli uni prima che per gli altri, sicché chi è con noi al lavoro può essere preso e noi lasciati in vita, o viceversa. Non c’è la stessa ora per tutti, non c’è la stessa occasione per tutti, ma per tutti c’è una fine! Anche questo dovrebbe essere di insegnamento, quasi profezia del giudizio di Dio, quando avverrà una separazione tra quelli che entreranno nel Regno, perché esercitati nella comunione con gli altri, e quelli che non potranno entrare, perché non hanno voluto conoscere la comunione con gli altri ma si sono nutriti di philautía, di amore egoistico di sé. Come nelle sette lettere alle chiese dell’Apocalisse (cf. Ap 2-3), il Signore viene e la sua venuta è giudizio in ogni istante!  

Occorre dunque essere a conoscenza del piano di salvezza di Dio, occorre vegliare e tenersi pronti. Come un padrone di casa che sa che il ladro verrà nella notte: che cosa farà? Veglierà, starà sveglio e in attesa, in modo da non lasciare che la sua casa venga scassinata. Ecco la postura del discepolo: sa che il Figlio dell’uomo viene, anche se non conosce l’ora della sua venuta, e forte di questa consapevolezza vive nella vigilanza, nell’attesa. Non si lascia andare, non si distrae, ma pur vivendo umanamente bene, continua a vigilare per aprire prontamente al Signore quando arriverà; verrà sorprendendoci, ma, proprio perché atteso, sarà anche accolto prontamente e con grande gioia.  

In ogni caso, di fronte a questo vangelo – dobbiamo confessarlo – la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Come diceva Ignazio Silone: “I cristiani dicono di attendere il Signore, e lo aspettano come si aspetta il tram!”. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore. Siamo ricondotti a comprendere che noi, pur vagabondi e mendicanti sulla terra per un pugno di anni – “settanta, ottanta se ci sono le forze” (Sal 90,10) –, in quel giorno avremo bisogno solo della misericordia del Signore.

il commento al vangelo della domenica

 il Signore è dentro al nostro dolore


Il Signore è dentro al nostro dolore

(In quel tempo) il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».(…) Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentaquattresima domenica del tempo ordinario

Sul Calvario, fra i tre condannati alla stessa tortura, Luca colloca l’ultima sua parabola sulla misericordia. Che comincia sulla bocca di un uomo, anzi di un delinquente, uno che nella sua impotenza di inchiodato alla morte, spreme, dalle spine del dolore, il miele della compassione per il compagno di croce Cristo. E prova a difenderlo in quella bolgia, e vorrebbe proteggerlo dalla derisione degli altri, con l’ultima voce che ha: non vedi che anche lui è nella stessa nostra pena? Parole come una rivelazione per noi: anche nella vita più contorta abita una briciola di bontà; nessuna vita, nessun uomo sono senza un grammo di luce. Un assassino è il primo a mettere in circuito lassù il sentimento della bontà, è lui che apre la porta, che offre un assist, e Gesù entra in quel regno di ordinaria, straordinaria umanità. Non vedi che patisce con noi? Una grande definizione di Dio: Dio è dentro il nostro patire, crocifisso in tutti gli infiniti crocifissi della storia, naviga in questo fiume di lacrime. La sua e nostra vita, un fiume solo. “Sei un Dio che pena nel cuore dell’uomo” (Turoldo). Un Dio che entra nella morte perché là entra ogni suo figlio. Per essere con loro e come loro. Il primo dovere di chi vuole bene è di stare insieme a coloro che ama.Lui non ha fatto nulla di male. Che bella definizione di Gesù, nitida, semplice, perfetta: niente di male, a nessuno, mai. Solo bene, esclusivamente bene. Si instaura tra i patiboli, in faccia alla morte, una comunione più forte dello strazio, un momento umanissimo e sublime: Dio e l’uomo si appoggiano ciascuno all’altro. E il ladro che ha offerto compassione ora riceve compassione: ricordati di me quando sarai nel tuo regno. Gesù non solo si ricorderà, ma lo porterà via con sé: oggi sarai con me in paradiso. Come un pastore che si carica sulle spalle la pecora perduta, perché sia più agevole, più leggero il ritorno verso casa. “Ricordati di me” prega il peccatore, “sarai con me” risponde l’amore. Sintesi estrema di tutte le possibili preghiere. Ricordati di me, prega la paura, sarai con me, risponde l’amore. Non solo il ricordo, ma l’abbraccio che stringe e unisce e non lascia cadere mai: “con me, per sempre”. Le ultime parole di Cristo sulla croce sono tre parole da principe, tre editti regali, da vero re dell’universo: oggi-con me-nel paradiso. Il nostro Gesù, il nostro idealista irriducibile, di un idealismo selvaggio e indomito! Ha la morte addosso, la morte dentro, e pensa alla vita, per quel figlio di Caino e dell’amore che sgocciola sangue e paura accanto a lui. È sconfitto e pensa alla vittoria, a un oggi con me, un oggi di luce e di comunione. Ed è già Pasqua.

(Letture: Secondo libro di Samuele 5,1-3; Salmo 121; Lettera ai Colossesi 1,12-20; Luca 23,35-43)

il commento al vangelo della domenica

l’uomo è al sicuro nelle mani del Signore


L’uomo è al sicuro nelle mani del Signore
il commento di E. Ronchi al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario

Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». (…) Diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. (…) Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Il Vangelo adotta linguaggio, immagini e simboli da fine del mondo; evoca un turbinare di astri e di pianeti in fiamme, l’immensità del cosmo che si consuma: eppure non è di questo che si appassiona il discorso di Gesù. Come in una ripresa cinematografica, la macchina da presa di Luca inizia con il campo largo e poi con una zoomata restringe progressivamente la visione: cerca un uomo, un piccolo uomo, al sicuro nelle mani di Dio. E continua ancora, fino a mettere a fuoco un solo dettaglio: neanche un capello del vostro capo andrà perduto. Allora non è la fine del mondo quella che Gesù fa intravvedere, ma il fine del mondo, del mio mondo. C’è una radice di distruttività nelle cose, nella storia, in me, la conosco fin troppo bene, ma non vincerà: nel mondo intero è all’opera anche una radice di tenerezza, che è più forte. Il mondo e l’uomo non finiranno nel fuoco di una conflagrazione nucleare, ma nella bellezza e nella tenerezza. Un giorno non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, delle piramidi millenarie, della magnificenza di San Pietro, ma l’uomo resterà per sempre, frammento su frammento, nemmeno il più piccolo capello andrà perduto. È meglio che crolli tutto, comprese le chiese, anche le più artistiche, piuttosto che crolli un solo uomo, questo dice il vangelo. L’uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio. Perché il nostro è un Dio innamorato. Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia; ad ogni tornante di distruttività appare una parola che apre la feritoia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello andrà perduto…; risollevatevi….Che bella la conclusione del vangelo di oggi, quell’ultima riga lucente: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, occhi alti, liberi, profondi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, e guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che appare: viene continuamente qualcuno il cui nome è Liberatore, esperto in nascite. Mentre il creato ascende in Cristo al Padre/ nell’arcana sorte / tutto è doglia di parto: /quanto morir perché la vita nasca! (Clemente Rebora). Il mondo è un immenso pianto, ma è anche un immenso parto. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Ma quando il Signore verrà, troverà ancora fede sulla terra? Sì, certamente. Troverà molta fede, molti che hanno perseverato nel credere che l’amore è più forte della cattiveria, che la bellezza è più umana della violenza, che la giustizia è più sana del potere. E che questa storia non finirà nel caos, ma dentro un abbraccio. Che ha nome Dio.

(Letture: Malachia 3,19-20a; Salmo 97; Seconda Lettera ai Tessalonicesi 3,7-2; Luca 21,5-19)

il commento al vangelo della domenica

non è la vita che vince la morte, ma l’amore


Non è la vita che vince la morte, ma l’amore
il commento di E. Ronchi al vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario

Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» .

Sono gli ultimi giorni di Gesù. I gruppi di potere, sacerdoti, anziani, farisei, scribi, sadducei sono uniti nel rifiuto di quel rabbì di periferia, sbucato dal nulla, che si arroga il potere di insegnare, senza averne l’autorità, senza nessuna carta in regola, un laico qualsiasi. Lo contestano, lo affrontano, lo sfidano, un cerchio letale che gli si stringe intorno. In questo episodio adottano una strategia diversa: metterlo in ridicolo. La storiella paradossale di una donna, sette volte vedova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l’hanno sposata sarà moglie quella donna? Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigionare in questioni di corto respiro, ci invita a pensare altrimenti e più in grande: Quelli che risorgono non prendono moglie né marito. La vita futura non è il prolungamento di quella presente. Coloro che sono morti non risorgono alla vita biologica ma alla vita di Dio. La vita eterna vuol dire vita dell’Eterno.

Io sono la risurrezione e la vita, ha detto Gesù a Marta. Notiamo la successione: prima la risurrezione e poi la vita, con una sorta di inversione temporale, e non, come ci saremmo aspettati: prima la vita, poi la morte, poi la risurrezione. La risurrezione inizia in questa vita. Risurrezione dei vivi, più che dei morti, sono i viventi che devono alzarsi e destarsi: risorgere. Facciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. “Se nel tuo paradiso non posso ritrovare mia madre, tieniti pure il tuo paradiso” (David. M. Turoldo). Bellissimo il verso di Mariangela Gualtieri: io ringraziare desidero per i morti nostri che fanno della morte un luogo abitato.

L’eternità non è una terra senza volti e senza nomi. Forte come la morte è l’amore, tenace più dello sheol (Cantico). Non è la vita che vince la morte, è l’amore; quando ogni amore vero si sommerà agli altri nostri amori veri, senza gelosie e senza esclusioni, generando non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità, di profondità, di vastità. Un cuore a misura di oceano.

Anzi: “non ci verrà chiesto di abbandonare quei volti amati e familiari per rivolgerci a uno sconosciuto, fosse pure Dio stesso. Il nostro errore non è stato quello di averli amati troppo, ma di non esserci resi conto di che cosa veramente stavamo amando” (Clive Staples Lewis). Quando vedremo il volto di Dio, capiremo di averlo sempre conosciuto: faceva parte di tutte le nostre innocenti esperienze d’amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall’interno. Tutto ciò che in esse era autentico amore, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo. Inizio di ogni risurrezione.

(Letture: Secondo libro dei Maccabei 7,1-2.9-14; Salmo 16; Seconda lettera ai tessalonicesi 2,16-3,5; Luca 20,27-38)

il commento al vangelo della domenica

Zaccheo

non ci sono casi disperati per Gesù

il commento di E: Ronchi al vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».
Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia.

Il Vangelo è un libro di strade e di vento. E di incontri. Gesù conosceva l’arte dell’incontro, questo gesto povero e disarmato, potente e generativo. Siamo a Gerico, forse la più antica città del mondo. Gesù va alle radici del mondo, raggiunge le radici dell’umano. Gerico: simbolo di tutte le città che verranno dopo. C’è un uomo, piccolo di statura, ladro come ammette lui stesso alla fine, impuro e pubblicano (cioè un venduto) che riscuoteva le tasse per i romani: soldi, bustarelle, favori, un disonesto per definizione. E in più ricco, ladro e capo dei ladri di Gerico: è quello che si dice un caso disperato. Ma non ci sono casi disperati per il Signore. Zaccheo sarebbe l’insalvabile, e Gesù non solo lo salva, ma lo fa modello del discepolo. Gesù giunto sul luogo, alza lo sguardo verso il ramo su cui è seduto Zaccheo. Guarda dal basso verso l’alto, come quando si inginocchia a lavare i piedi ai discepoli. Il suo è uno sguardo che alza la vita, che ci innalza! Dio non ci guarda mai dall’alto in basso, ma sempre dal basso verso l’alto, con infinito rispetto. Noi lo cerchiamo nell’alto dei cieli e lui è inginocchiato ai nostri piedi. «Zaccheo, scendi subito, devo fermarmi a casa tua». Il nome proprio, prima di tutto. La misericordia è tenerezza che chiama ognuno per nome. “Devo”, dice Gesù. Dio deve venire: a cercarmi, a stare con me. È un suo intimo bisogno. Lui desidera me più di quanto io desideri lui. Verrà per un suo bisogno che gli urge nel cuore, perché lo spinge un fuoco e un’ansia. A Dio manca qualcosa, manca Zaccheo, manca l’ultima pecora, manco io. “Devo fermarmi”, non un semplice passaggio, non una visita di cortesia, e poi via di nuovo sulle strade; bensì “fermarmi”, prendendomi tutto il tempo che serve, perché quella casa non è una tappa del viaggio, ma la meta. “A casa tua”, Il Vangelo è cominciato in una casa, a Nazaret, e ricomincerà ancora dalle case, anche per noi, oggi. L’infinito è sceso alla latitudine di casa: il luogo dove siamo più veri e più vivi, dove accadono le cose più importanti, la nascita, la morte, l’amore. «Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia». Accogliere Gesù è ciò che purifica Zaccheo: non deve prima cambiare vita, dare la metà ai poveri, e solo dopo il Signore entrerà nella sua casa. No. Gesù entra, ed entrando in quella casa la trasforma, la benedice, la purifica. Il tempo della misericordia è l’anticipo. La misericordia è la capacità che ha Dio di anticiparti. Incontrare uno come Gesù fa credere nell’uomo; un uomo così libero crea libertà; il suo amore senza condizioni crea amanti senza condizioni; incontrare un Dio che non fa prediche ma si fa amico, fa rinascere.

(Letture: Sapienza 11,22-12,2; Salmo 144; 2 Tessalonicesi 1,11-2,2; Luca 19,1-10)

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