è morto il fondatore della ‘teologia della liberazione’, Gustavo Gutierrez

in morte di Gustavo Gutierrez
di Tonio Dell’Olio

in “www.mosaicodipace.it” del 24 ottobre 2024

Non so dire se la vita di Gustavo Gutierrez sia stato un canto ma sicuramente è grido. In nome degli
impoveriti/empobrecidos e degli esclusi. È stata rivoluzione. Perché non può essere eresia la vita di
chi è schiacciato dall’ingiustizia. La teologia della liberazione, che lo celebra come padre, ha detto
semplicemente che il sogno di Dio rivelatosi in Gesù di Nazareth è di riconoscere la dignità di
ciascuno dei suoi figli che si riscoprono fratelli. Le parole “rassegnazione”, “sottomissione”,
“schiavitù” e “oppressione” non hanno condominio nel Vangelo di Cristo e la povertà è una parola
nobile da sposare mentre la miseria è una maledizione che non ammette giustificazioni. “Il grido del
mio popolo è giunto fino alle mie orecchie” dice Dio. Per questo la teologia della liberazione non è
un altro genitivo del pensiero su/di Dio ma piuttosto il tentativo di dare parola al sogno stesso di
Dio, al suo amore per tutte le creature. Se una teologia non è della liberazione che teologia è? Per la
prima volta i poveri si sono seduti in cattedra a spiegare la Bibbia. Senza parole se non quelle della
vita e dell’esodo. Questo è stato il parto di Gustavo Gutierrez che ha tracciato una strada che ora non
si ferma più perché scorre per mille rivoli con nomi e contesti diversi ma sempre come grido, canto
e cammino di liberazione.




la ‘teologia della liberazione’ perde anche il suo fondatore

in morte di Gustavo Gutierrez

di Stefano Biancu

Gustavo Gutiérrez

 

In morte di Gustavo Gutierrez

Nel giorno in cui mi raggiunge la notizia della sua morte, desidero ricordare Gustavo Gutierrez con devozione e affetto.

Ho avuto con lui tre lunghe conversazioni, durate ciascuna molte ore, nel 2015, in occasione di un mio soggiorno di sei mesi negli USA, presso la Notre Dame University dove Gustavo era professore.

Di quelle lunghe conversazioni conservo un ricordo bellissimo e vivo. Percepivo di trovarmi di fronte a un vero credente, a un uomo profondo, ironico (che mi parlava del senso dell’umorismo come di un luogo teologico). Un uomo generoso, che mi aveva dedicato intere ore, mentre i suoi colleghi concedevano abitualmente appuntamenti di non più di 8 minuti. Un uomo libero, senza rancore, nonostante avesse potuto diventare professore soltanto all’età di 75 anni, al termine di un processo canonico nei suoi confronti durato vent’anni e conclusi – come amava raccontare – con un « lei è cattolico».

Durante quegli incontri sentivo di trovarmi davanti a un uomo vero: non un personaggio, come talvolta accade quando si ha a che fare col clero e con gli accademici. Gustavo Gutierrez era stato studente di medicina, poi prete, assistente per decenni degli studenti e dei laureati cattolici del suo Paese, per poi farsi domenicano per devozione verso i suoi maestri di teologia, e in particolare Chenu. Era un uomo che aveva vissuto e questo lo si percepiva chiaramente.

Vorrei in questa occasione richiamare soltanto alcuni punti della teologia della liberazione, a partire dal libro Teología de la liberacíon (1971), di cui egli stesso mi ha voluto regalare una copia, e dalla prefazione all’edizione del 1988 del libro, dal titolo “Mirar lejos” (guardare lontano).
Teologia della liberazione è originariamente il titolo di una conferenza tenuta da Gutierrez a un incontro nazionale di laici, religiosi e preti nel ’68 a Lima e pubblicata nel 1969 a Montevideo, per iniziativa di Pax Romana.
La teologia della liberazione prende le mosse da un “hecho mayor”: l’irruzione dei poveri nella chiesa latinoamericana. Per la prima volta entravano sulla scena della storia coloro che ne erano da sempre stati assenti, iniziando così ad essere agenti del loro destino. Di qui la miopia di coloro che hanno interpretato la teologia della liberazione come una corrente teologica puramente intellettuale e non come un cammino di popolo. Fondamentali per lo sviluppo di questo cammino sarebbero state le conferenze dell’episcopato latinoamericano di Medellin (1968) e Puebla (1978), precedute da quella di Rio de Janeiro (1955) e a cui sarebbero seguite quelle di Santo Domingo (1992), Aparecida (2007).
L’opzione preferenziale per i poveri, centrale per la teologia della liberazione, è un principio dell’evangelizzazione stabilito a Puebla, laddove il termine « opzione » indica impegno e decisione e ha le sue origini in Giovanni XXIII, e in particolare nel RADIOMESSAGGIO A UN MESE DAL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II (11 settembre 1962): « In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri.»
Si tratta non di un ideale sociale, ma dell’opzione per il Dio del Regno che Gesù ci ha annunciato. Scriveva Gutierrez: « El motivo último del compromiso con los pobres y oprimidos no está en el análisis social que empleamos, en nuestra compasión humana o en la experiencia directa que podamos tener de la pobreza. Todas ellas son razones válidas que juegan sin duda un papel importante en nuestro compromiso, pero, en tanto que cristiano, éste se basa fundamentalmente en el Dios de nuestra fe. Es una opción teocéntrica y profética que hunde sus raíces en la gratuidad del amor de Dios, y es exigida por ella ».
Tra i frutti della teologia della liberazione Gutierrez annoverava il martirio di Oscar Romero: un martirio, mi ripeteva, che ha cambiato per sempre la teologia stessa del martirio. Non si è infatti semplicemente trattato di un martirio per la fede, ma per la carità e la giustizia.
Ci si sbaglierebbe tuttavia se si ritenesse il discorso della teologia della liberazione come un discorso da anime belle. Scriveva Gutierrez: « No se trata de de idealizar la pobreza sino, por el contrario, de asumirla como lo que es: como un mal; para protestar contra ella y esforzarse por abolirla”. “La pobreza cristiana, expresión de amor, es solidaria con los pobres y es protesta contra la pobreza ».
La natura della teologia della liberazione, amava ripetere Gutierrez, è di essere una lettera d’amore a Dio, alla chiesa e al popolo: « una carta de amor a Dios, a la Iglesia y al pueblo a los que pertenezco ».
Il messaggio profetico della teologia della liberazione è così il messaggio stesso del Vangelo: la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Della diffusione di questo messaggio, da oggi siamo tutti un po’ più responsabili.

Stefano Biancu




la visione limitata di papa Francesco sulla donna

Francesco e le donne: parole infelici

di Andrea Grillo

lovanio

Poiché ormai da molto tempo si è aperto uno spazio di discussione sul ruolo della donna nella Chiesa, di recente soprattutto a partire dalla decisione di papa Francesco di istituire una prima commissione di studio sulla storia del diaconato femminile, nel discorso agli studenti tenuto sabato 28 settembre a Lovanio  sono emersi in modo chiaro alcuni limiti profondi della visione cattolica di Francesco sulla donna, lettura che si pensa di poter proporre come “dottrina”, quando è costituita solo da pregiudizi culturali verniciati da una patina di Vangelo.

Un esame più accurato di alcuni passi del discorso di ieri permette di identificare bene la radice teorica, diremmo dottrinale, di queste parole infelici. Prima cito il testo pronunciato e poi faccio seguire alcuni miei chiarimenti.

Ecologia umana ed essenzialismo

Pensare all’ecologia umana ci porta a toccare una tematica che sta a cuore a voi e prima ancora a me e ai miei Predecessori: il ruolo della donna nella Chiesa. Mi piace quello che tu hai detto. Pesano qui violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici. Perciò bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa. La Chiesa è donna, non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa, è la sposa. La Chiesa è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale. La donna, nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre. Queste sono le relazioni, che esprimono il nostro essere a immagine di Dio, uomo e donna, insieme, non separatamente! Infatti le donne e gli uomini sono persone, non individui; sono chiamati fin dal “principio” ad amare ed essere amati. Una vocazione che è missione. E da qui viene il loro ruolo nella società e nella Chiesa (cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem, 1).

Una “ecologia umana” non si lascia definire soltanto sul piano di “funzioni naturali”. Qui vi è una sorta di cattura del femminile nel naturale. La donna appare, inevitabilmente, come corrispondenza: figlia, sorella, madre, sposa. Si deve notare, come da almeno 200 anni si contesta con autorevolezza, che la definizione della donna accade in un rimando all’uomo. Ha senso solo se ha accanto un uomo.

Da figlia, a sposa, a madre. Proprio questo modo di pensare la cultura tardo-moderna ha saputo rielaborare con finezza, senza negare la differenza, ma non proiettandola anzitutto sul piano della autorità. La donna, come l’uomo, è definita da queste relazioni, ma anche da mille altre dimensioni, che fanno parte anch’esse della sua essenza: la donna, come l’uomo, ha una essenza aperta, storica, libera, non predefinita.

Qui sta la fragilità di questa prima proposizione. D’altra parte, il “genere femminile” della parola Chiesa, su cui insiste Francesco, non serve molto a capire la identità femminile. Ignazio di Loyola diceva che la Chiesa gerarchica, se avesse affermato che una cosa era nera, lui l’avrebbe creduto nera anche se la vedeva bianca.

Questa famosa affermazione era comprovata da un ragionamento che dovrebbe sorprendere un “figlio di Ignazio” come il papa. Egli diceva che la Chiesa gerarchica era “sposa di Cristo” e come tale non poteva sbagliare. Essendo la Chiesa gerarchica composta solo da uomini (tanto più ai tempi di Ignazio), era evidente che il genere femminile della Chiesa poteva bene adattarsi al genere maschile dei vescovi. Non si vede perché non dovrebbe adattarsi, anche meglio, al genere femminile di futuri ministri ecclesiali.

L’oblio dei “segno dei tempi”

Ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie. E la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne. La dignità è un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere. A partire da questa dignità, comune e condivisa, la cultura cristiana elabora sempre nuovamente, nei diversi contesti, la missione e la vita dell’uomo e della donna e il loro reciproco essere per l’altro, nella comunione. Non l’uno contro l’altro, questo sarebbe femminismo o maschilismo, e non in opposte rivendicazioni, ma l’uomo per la donna e la donna per l’uomo, insieme.

Questo secondo passaggio costituisce un rafforzamento teorico del precedente e mostra alcuni problemi piuttosto macroscopici. Da un lato esordisce affidando al “femminile” una essenza indipendente dal consenso e dalle ideologie. Una legge originaria assicura la dignità anche della donna, al di qua e al di là di ogni legge umana.

Ma dove sta qui la ideologia? Non è forse proprio questo modo astorico di pensare il femminile ad aver nutrito, lungo i secoli, una sostanziale discriminazione ed esclusione della donna da ogni sfera di esercizio pubblico della autorità? Perché mai sarebbe ideologico scoprire che la donna può fare sport, può esercitare il diritto di voto, può concorrere a concorsi pubblici, può accedere come violinista, o oboista, alle più grandi orchestre del mondo e anche alla autorità ecclesiale?

Il riconoscimento della autonomia della donna, della sua emancipazione, non è contro la legge naturale, ma è il risultato di una nuova lettura del soggetto, del mondo e dell’ambiente. Siamo esseri storici, sia come uomini, sia come donne: il vangelo non elabora la propria cultura a partire dal pregiudizio essenzialista che blocca la donna in privato, ma contribuisce, con tutte le altre culture, alla scoperta di una dignità in cui comunità e individuo stanno in relazione.

La pretesa del maschile di essere il “punto comune” per giudicare su maschi e femmine, distorce la storia: una legittima autonomia del femminile (come del maschile) è il principio di definizione dell’umano. Perciò “la donna in generale” è un concetto vuoto, utile solo per bloccarne la identità. Come ha detto bene Rahner, che era gesuita, “la donna in generale non esiste”.

Riduzione privata del femminile

Ricordiamo che la donna si trova al cuore dell’evento salvifico. È dal “sì” di Maria che Dio in persona viene nel mondo. Donna è accoglienza feconda, cura, dedizione vitale. Per questo è più importante la donna dell’uomo, ma è brutto quando la donna vuol fare l’uomo: no, è donna, e questo è “pesante”, è importante. Apriamo gli occhi sui tanti esempi quotidiani di amore, dall’amicizia al lavoro, dallo studio alla responsabilità sociale ed ecclesiale, dalla sponsalità alla maternità, alla verginità per il Regno di Dio e per il servizio. Non dimentichiamo, lo ripeto: la Chiesa è donna, non è maschio, è donna.

Anche la terza parte del discorso che consideriamo appare segnata pesantemente da pregiudizi culturali, che la tradizione teologica ha assunto acriticamente e che vengono ripetuti come se fossero parte del “depositum fidei”.

Maria non è “principio mariano”. Maria non è “una donna per tutte”. Maria è esclusa dalla pubblica autorità, esattamente come tutte le altre donne, prima e dopo di lei. La sua esemplarità e santità non parla del sesso, ma della fede. Una parte di quello che proiettiamo su Maria, come se fosse santo, è solo il pregiudizio di un mondo maschile, che vuole tenere la donna chiusa nella sfera privata. Così abbiamo riflettuto per secoli.

Abbiamo anche riconosciuto una autorità alle donne in materia sacramentale, purché fosse delimitata dalla camera da letto, dalla sala da parto, dalla casa. Fuori le donne non potevano né agire sacramentalmente, né fare catechesi. L’essenzialismo che domina molti discorsi ecclesiali proietta sulle donne questo modello limitato a tal punto, da arrivare, come fa Francesco, a pensare che la donna che si sente chiamata all’esercizio di autorità in pubblico “vuole fare l’uomo”.

Questa è forse la frase più infelice di tutte. Perché confonde un modello culturale tradizionale e borghese con la verità del vangelo. La donna non è solo “accoglienza feconda, cura, dedizione vitale”: se non usciamo da questo modello naturalistico ed essenzialistico, e lo confondiamo con la rivelazione, non parliamo più del vangelo, ma solo dei nostri pregiudizi. Soprattutto agli studenti questo dovrebbe essere risparmiato, da parte di tutti i cristiani, e a maggior ragione dai papi.




una preghiera nella disperazione

lettera-preghiera

 il parroco libanese: “che colpa abbiamo per meritarci tanto odio?”


padre Toufic Bou Mehri, che nel suo convento di Tiro ospita famiglie in fuga dalla devastazione e dalla morte, in questa toccante invocazione si rivolge direttamente alla “carissima bomba”

Una famiglia in fuga

una famiglia in fuga

La sua è una testimonianza di solidarietà e accoglienza. Nel convento di Tiro, città libanese di cui è parroco, padre Toufic Bou Mehri, ospita le famiglie in fuga dall’orrore e dalla devastazione. Però non si rassegna alla logica dell’odio e della violenza ma anzi crede ancora nella forza della preghiera. Come dimostra questa invocazione, in cui si rivolge direttamente alle armi, ai macabri strumenti della morte e della distruzione. Il testo della preghiera è stato raccolto da Nello Scavo.  

«Carissima bomba, ti prego, lasciaci in pace. Carissimo razzo, non esplodere. Non obbedite alla mano dell’odio. Vi esorto perché le altre orecchie si sono tappate, e i cuori dei responsabili si sono induriti, e la brutalità nel trattare tra le persone si è diffusa, quindi, ascoltatemi voi vi supplico Vi chiamano bombe intelligenti, siate più intelligenti di quelli che vi stanno usando. Non è rimasto chi ammazzare. Famiglie sterminate. Sila, bambina di sei ani, non le è rimasto nessuno: né il babbo, né la mamma, né la sorellina di un anno e mezzo, né il nonno, né la nonna, né lo zio con la sua famiglia. L’hanno lasciata in questo mondo così crudele. Così abbiamo terminato la giornata ieri. Un razzo ha distrutto nove case nel povero quartiere di Tiro, a 50 metri dal convento. Le pietre sono cadute nel cortile dove si trovano gli sfollati. Terrore, grida, pianti, paura si sono mescolati con il sangue dei feriti. Così abbiamo accolto chi è rimasto della famiglia massacrata. Basta, basta! Ma a chi grido? Al Signore? Lui non c’entra con l’odio, Lui ha creato l’amore, ma l’uomo l’ha rifiutato per il suo simile. Quale sia il nostro peccato, che meriti una punizione così grave? Forse l’unico nostro peccato è questa terra benedetta dal Signore e profanata dall’uomo. La nostra colpa è essere nati in questo Paese che soffre da oltre 50 anni, pagando il prezzo per gli altri. Cosa rispondo agli sfollati che mi chiedono della buona colazione promessa da Abbas? La mia bocca è rimasta paralizzata e le mie parole vuote. Una lacrima è venuta in mio soccorso per dir loro che Abbas, dal cuore grande e generoso, è partito…».




le beatitudini per un mondi nuovo

LE BEATITUDINI PER NOI …
la versione di E. Ronchi
Beati i poveri in spirito, sono loro i re di domani
Beati quelli che scelgono di stare con i piccoli e gli ultimi della fila
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia
Beati quelli che hanno fame e sete di dignità e di diritti per tutti
Beati quelli che scelgono sempre l’umano contro il disumano
Beati quelli che salvano vite, dalla morte, da ogni forma di morte
Beati quelli che costruiscono ponti e non muri
Beati quelli che: avevo fame e mi avete dato da mangiare
ero straniero e mi avete accolto
ero senza terra e mi avete dato un paese buono
Beati quelli che hanno il cuore dolce, perché saranno i signori di domani
Beati quelli che sanno ancora piangere,
che provano dolore per il dolore di un bimbo, una donna, un figlio della terra…
Beati quelli che sanno provare stupore e rabbia di fronte agli orrori del mondo
Beati quelli che si prendono cura di una esistenza con la loro esistenza
Beati quelli che sentono il morso del più: più passione, più umanità, più diritti
Beati i coraggiosi: quelli che “meglio trasgressivi che complici”
Beati quelli che non sono muti e inerti
Beati gli oppositori, che si oppongono alla legge
quando la legge si oppone all’umanità
Beati quelli che sono in minoranza, controcorrente,
che non si accodano al pensiero dei più
Beati quelli che la vita non la vedono in funzione del loro io,
ma il loro io in funzione della vita.
Loro hanno in dono la vita indistruttibile
Ermes Ronchi



il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante

papa Francesco:

«Nei migranti assetati e provati incontriamo il Signore»


di Mimmo Muolo 

 il testo per la Giornata del Mondiale del Migrante e del Rifugiato del prossimo 29 settembre

«Anche la Chiesa è migrante verso il Regno. Preghiamo per chi deve lasciare la sua terra»

Il Papa con un gruppo di migranti, durante un'udienza generale

il papa con un gruppo di migranti, durante un’udienza generale 

Vedere nei migranti Cristo stesso e farsi buoni samaritani nei loro confronti. È questo l’invito che il Papa ripete nel Messaggio per la 110a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 29 settembre 2024, sul tema: “Dio cammina con il suo popolo”. «L’incontro con il migrante, come con ogni fratello e sorella che è nel bisogno – scrive infatti Francesco -, «è anche incontro con Cristo. Ce l’ha detto Lui stesso. È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito».

Il Pontefice ricorda anche che ogni cristiano può essere considerato un migrante, perché in viaggio verso la Patria celeste. E facendo riferimento al Sinodo di ottobre prossimo ricorda. «L’accento posto sulla sua dimensione sinodale permette alla Chiesa di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo “migrante” verso il Regno dei cieli. Viene spontaneo il riferimento alla narrazione biblica dell’Esodo, che presenta il popolo d’Israele in cammino verso la terra promessa: un lungo viaggio dalla schiavitù alla libertà che prefigura quello della Chiesa verso l’incontro finale con il Signore«. Il parallelo tra l’Esodo e i viaggi odierni dei migranti è infatti uno dei punti forti del Messaggio. «Le due immagini – quella dell’esodo biblico e quella dei migranti – presentano diverse analogie – spiega Francesco -. Come il popolo d’Israele al tempo di Mosè, i migranti spesso fuggono da situazioni di oppressione e sopruso, di insicurezza e discriminazione, di mancanza di prospettive di sviluppo. Come gli ebrei nel deserto, i migranti trovano molti ostacoli nel loro cammino: sono provati dalla sete e dalla fame; sono sfiniti dalle fatiche e dalle malattie; sono tentati dalla disperazione». 

Ma il Papa ricorda anche che «Dio precede e accompagna il cammino del suo popolo e di tutti i suoi figli di ogni tempo e luogo. La presenza di Dio in mezzo al popolo è una certezza della storia della salvezza». Dio dunque cammina con i migranti. E molti di loro «fanno esperienza del Dio compagno di viaggio, guida e ancora di salvezza. A Lui si affidano prima di partire e a Lui ricorrono nelle situazioni di bisogno. In Lui cercano consolazione nei momenti di sconforto. Grazie a Lui, ci sono buoni samaritani lungo la via. A Lui, nella preghiera, confidano le loro speranze. Quante bibbie, vangeli, libri di preghiere e rosari – nota ancora il Papa accompagnano i migranti nei loro viaggi attraverso i deserti, i fiumi e i mari e i confini di ogni continente».

Ma non solo Dio è compagno di viaggio. Egli si identifica con loro. «Dio non solo cammina con il suo popolo, ma anche nel suo popolo, nel senso che si identifica con gli uomini e le donne in cammino attraverso la storia – in particolare con gli ultimi, i poveri, gli emarginati –, come prolungando il mistero dell’Incarnazione». In questo senso «ogni incontro, lungo il cammino – prosegue il Messaggio -, rappresenta un’occasione per incontrare il Signore; ed è un’occasione carica di salvezza, perché nella sorella o nel fratello bisognoso del nostro aiuto è presente Gesù. In questo senso, i poveri ci salvano, perché ci permettono di incontrare il volto del Signore». Di qui l’invito del Pontefice a unirsi «in preghiera per tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la loro terra in cerca di condizioni di vita degne. Sentiamoci in cammino insieme a loro, facciamo “sinodo” insieme, e affidiamoli tutti, come pure la prossima Assemblea sinodale, all’intercessione della Beata Vergine Maria, segno di sicura speranza e di consolazione nel cammino del Popolo fedele di Dio».

Il testo si conclude poi con una preghiera scritta dal Papa che qui riportiamo integralmente:

Dio, Padre onnipotente,
noi siamo la tua Chiesa pellegrina
in cammino verso il Regno dei Cieli.
Abitiamo ognuno nella sua patria,
ma come fossimo stranieri.
Ogni regione straniera è la nostra patria,
eppure ogni patria per noi è terra straniera.
Viviamo sulla terra,
ma abbiamo la nostra cittadinanza in cielo.
Non permettere che diventiamo padroni
di quella porzione del mondo
che ci hai donato come dimora temporanea.
Aiutaci a non smettere mai di camminare,
assieme ai nostri fratelli e sorelle migranti,
verso la dimora eterna che tu ci hai preparato.
Apri i nostri occhi e il nostro cuore
affinché ogni incontro con chi è nel bisogno,
diventi un incontro con Gesù, tuo Figlio e nostro Signore.
Amen.




il commento al vangelo della domenica

PURO SILENZIO

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica del Corpus Domini

 

Mc 14,12-16.22-26

​Oggi, Corpus Domini, non è la festa dei tabernacoli aperti o degli ostensori dorati da venerare.
Che cosa celebriamo?
Cristo che si dona? Neppure questo è sufficiente. La festa di oggi è ancora un passo avanti.
Io che faccio la comunione?
Non basta.
E’ Lui che viene a fare comunione con noi. E’ Lui in cammino.
Lui che percorre i cieli, Lui felice di vedermi, Lui che non chiede agli apostoli e a me di venerare quel Pane, ma dice molto di più: ‘io voglio stare nelle tue mani come dono, e nella tua bocca come pane, sangue, cellula, pensiero di te.
Tua vita’. Vuole perdersi dentro noi come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

La prima parola è: prendete. Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; “corpo e sangue”. Ignote quelle mezze parole ambigue che permettono ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio.
Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti.

Prendete. Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: per essere trasformati. Quello che sconvolge, è ciò che accade nel discepolo più ancora di ciò che accade nel pane.
Allora mangiare e bere Cristo è molto più che fare la comunione, è “farci comunione”. Che Leone Magno sintetizza così: prendere il corpo e il sangue di Cristo tende a trasformarci in ciò che riceviamo.
Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola.

A che serve un Dio come pane chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso?
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue “ha” la vita eterna. Adesso! Non “avrà”, come una specie di futuro tfr.
La vita eterna è già qui, libera e autentica, e fa cose che meritano di non morire, con Gesù che dice: prendete il mio corpo, tutta la mia umanità, il mio modo di piangere e ridere, di sedermi alla tavola di Zaccheo, di Levi, e a casa tua.

Ma noi di cosa nutriamo anima e pensieri? Di generosità, bellezza, profondità?
O ci saziamo di intolleranze, miopie dello spirito, paure di tutto?
Se accogliamo pensieri degradati, ci faranno come loro; se accogliamo pensieri di vangelo, ci faranno creature di bellezza.

Alla Messa ecco per noi un piccolo pane bianco che non ha sapore, che è puro e profondissimo silenzio.
Dono lieve come un’ala.
Ma accade qualcosa che i padri orientali chiamano deificazione (theosis), parola che fa tremare. Un pezzo di Dio in me perché io diventi un pezzetto di Dio nel mondo.

Finita la religione dei riti e degli obblighi, ecco la religione del corpo a corpo con Dio, la religione del tu per tu con Lui, che prima che io dica: “ho fame”, mi dice: “Prendete e mangiate”.

Mi ha cercato, mi ha atteso e si dona, e io posso solo accoglierlo e ringraziare.




i frati che vivono nelle carrozze dismesse dei treni

 i «frati dei vagoni» vivono la radicalità francescana a Napoli


di Rosanna Borzillo, Napoli

La presenza feconda dei Frati minori rinnovati, che vivono nelle carrozze dismesse dei treni. Carità e apostolato: che nascono dalle ore a tu per tu con Dio

I Frati minori rinnovati di Napoli assieme alle Suore delle Poverelle, a Scampia

i frati minori rinnovati di Napoli assieme alle Suore delle Poverelle, a Scampia 

Bussando al campanello di via Marfella 12 (stradina a ridosso di Capodimonte, a Napoli) ti risponde sempre una voce rassicurante che ti saluta con «il Signore ti dia pace». Al di là del cancello del convento dei Frati minori rinnovati davvero la pace c’è, per chiunque lo varchi, per un incontro con la comunità dei francescani conosciuti nel territorio come i “frati dei vagoni”. Al di là del cancello, infatti, la comunità che ha scelto la radicalità di san Francesco d’Assisi (è a Napoli dal 1976) vive in vagoni dismessi e di sola provvidenza. «Siamo e ci facciamo strumento di provvidenza», spiega fra Massimiliano, il guardiano della comunità. Trentasei anni, vocazione maturata a Carini, in Sicilia, a 19 anni, in “casa scout”, aggiunge: «Non amo le etichette ma, di fatto, abitare nei vagoni diventa profetico: la fraternità diventa testimonianza in un mondo in cui è sempre più difficile portare avanti relazioni e meta che può essere d’aiuto alle famiglie che vengono qui». Tante, in verità, il sabato mattina, in cerca di aiuto materiale e tantissime che nei vagoni trovano un «reticolo di relazioni, ma anche – aggiunge fra Massimiliano – uno spazio. La nostra missione è che i vagoni diventino un luogo teologico, un luogo di Dio dove gli altri possano, attraverso il sacramento della riconciliazione o semplicemente l’incontro con la fraternità, trovare ascolto».

Oltre a Napoli, quattro case in Colombia (Bogotà, El Retiro, Guática, La Cruz), una in Tanzania (Pomerini) e due in Sicilia (a Palermo e Corleone) dove la comunità è nata come scelta di radicalità dopo il Concilio Vaticano II. «Dopo i primi passi a Palermo, una delle tappe più importanti fu Corleone – ricorda il guardiano – perché negli anni 70 il vescovo di Monreale chiese ai frati di impegnarsi in un luogo martoriato dalle faide delle famiglie mafiose e là diventare strumento di dialogo e di pace».

Per fra Stefano è la malattia che diventa salvezza. «Ho 38 anni e vengo da una famiglia semplice – racconta –. Ero imbianchino, ma stavo buttando la mia vita nella spazzatura. Lavoravo in Germania, là mi ammalai e fui costretto a tornare in Italia per curarmi e qui ho incontrato la fede, ma soprattutto mi è stata fatta una promessa: avere una famiglia più grande di quanto io potessi immaginare». Oggi fra Stefano segue molte famiglie a Scampia. La promessa si è avverata. «Con loro organizziamo dei momenti di condivisione alle Vele: portiamo la spesa e cerchiamo di pregare, ascoltare e alleviare tante solitudini».

Uno dei vagoni dismessi del convento dei Frati minori rinnovati, a Napoli

uno dei vagoni dismessi del convento dei frati minori rinnovati, a Napoli 

Attualmente la comunità di Napoli è impegnata anche in due percorsi di evangelizzazione sul territorio: le “10 parole” e i “7 segni” e il percorso di “Fede e psicologia in dialogo” attraverso una lettura biblico-teologica e psicologica dei vizi capitali. Fra Massimiliano è anche accompagnatore spirituale della comunità propedeutica del Seminario di Napoli: sua la testimonianza alla recente veglia vocazionale diocesana con l’arcivescovo Mimmo Battaglia.

Quest’estate, come progetto, la Croazia: un campo a Zagabria, a servizio di bambini disabili e, in particolare, in un ospedale con bambini con malattie rare. «Saremo in tenda per dieci giorni e animeremo tre realtà: un ospedale, un campo rom, un quartiere croato con fragilità». E il futuro? «La creazione di una fraternità secolare di laici che vivono con noi momenti di preghiera e per il prossimo anno un cammino sulla mediazione dei conflitti – spiega fra Massimiliano – vorremmo occuparci di giustizia e ingiustizia nel luogo in cui noi viviamo». Ma perché, oggi, un giovane dovrebbe scegliere di vivere di provvidenza, povertà e servizio? «Per non accontentarsi di sopravvivere ma di vivere veramente».




con Gesù cambia il concetto di ‘sacro’

a proposito del sacro

di Enzo Bianchi

in “www.ilblogdienzobianchi.it” del 21 marzo 2024

cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è!

Il sacro, il sacro tanto invocato oggi nella chiesa! Ma il sacro a cui si fa riferimento è ancora quello dell’Antico Testamento e delle religioni, è il sacro che sta nello spazio del tempio, del culto, dei sacrifici. Gesù invece ci ha rivelato che il sacro sta al cuore della vita degli uomini, sta nelle relazioni con gli altri. Il sacro non è più ciò che appartiene a un luogo sacro come il tempio, che è inviolabile, intangibile e suscita timore. Per Gesù il sacro, il luogo della presenza di Dio, non è più né il tempio né il sacrificio, né l’olocausto, né il sabato, ma è lo spazio delle nostre relazioni, là dove un volto incrocia un volto, una mano è tesa alla mano, una guancia si offre alla guancia. È l’incontro tra i corpi che sono anche anima e spirito. Per questo Gesù mostra con le sue parole e con i suoi gesti che ormai è lui la dimora di Dio e che attraverso le relazioni umane questo corpo di Cristo può accrescersi nella storia perché ogni cristiano diventa corpo di Cristo, diventa dimora di Dio, tempio dello Spirito santo. Cercare e fissare il sacro in un oggetto, in uno spazio, è fare un passo verso l’idolatria. È cercare Dio dove non c’è! È cercare la sua immagine dove lui non l’ha deposta perché l’ha fissata soltanto negli umani, nell’uomo e nella donna creati a sua immagine e a sua somiglianza. Certi spazi, come lo spazio della chiesa, certi oggetti richiedono rispetto, devono essere riconosciuti con un vero discernimento, ma non sono “sacro”.




la micidiale opposizione a papa Francesco

io sto con papa Francesco

di SERGIO DI BENEDETTO

Di fronte all’aumentare di violenti attacchi contro il papa, è importante ricordare cosa Francesco ha fatto in pochi anni per la Chiesa e avere leali sentimenti di gratitudine. Sono aumentati, negli ultimi mesi, gli attacchi contro Papa Francesco. Sempre più violenti, sempre più ideologici e, allo stesso tempo, sempre più sottilmente pervasivi. Ciò che mostra, inoltre, una recrudescenza, è l’ampiezza delle ‘bocche di fuoco’ e degli ambiti da cui giungono tali attacchi: se prima erano frange rumorose ma minoritarie, scomposte, estremiste, molto schierate politicamente ma povere culturalmente, ora vanno via via crescendo i veleni provenienti da voci e settori apparentemente ‘moderati’, che, tuttavia, nella sostanza delle argomentazioni, mostrano una saldatura tra ‘indietrismo’ ecclesiale, tradizionalismo spaventato, acceso conservatorismo politico-sociale, strumentalizzazione evangelica. Si assiste, per certi versi, a una sorta di ‘apocalisse’ del dibattito, che disvela intenzioni di menti e cuori, che palesa ambizioni e frustrazioni, che conduce a impiegare in malo modo gli organi di comunicazione. Come sempre, nessuna trasmissione di notizia è fondamentalmente neutra; insistere su alcuni aspetti tacendone altri è gioco noto nell’arena della comunicazione (l’incattivita matrice populista, sempre pronta ad additare il nemico, in questi anni ha dato prova del suo mortifero ma efficace potere, come dimostra troppa televisione). 

Per non rimanere nel vago: il giornale ‘moderato’ che fa passare per vittima il cardinal Burke, che da anni fomenta con vigore una esplicita fronda antipapale, fino a organizzare convegni contro il Sinodo e scrivendo la prefazione a un libretto contro il Papa mandato ai parroci (tutti particolari omessi), dimenticando quanto tutto ciò attenti all’unità della chiesa e alla funzione del cardinalato. Oppure la notizia del ‘cattivo’ Bergoglio che punisce il vescovo statunitense Strickland, tacendo sulle sue lettere pastorali antipapali, sulle sue manifestazioni apertamente politiche, su una diocesi dilaniata, sul suo sostegno antiscientifico. Il ‘carnefice’ diviene così ‘vittima’, l’incendiario diviene ‘pompiere’: giochi verbali di inconsistente onestà intellettuale che, però, seminano discordia e odio, soprattutto in persone poco misurate e poco attrezzate culturalmente, oggetto prediletto di campagne mediatiche o social che azzannano la pace e spargono finti segni nefasti di nebbie, complotti, distruzioni. Rimangono macerie, morali, intellettuali e spirituali, su cui ballano i fomentatori di discordia.Ma ciò che stupisce riguarda anche alcuni teologi, storici del cristianesimo, giornalisti, che apparivano equilibrati nella critica o nell’apprezzamento, e che ora non perdono un istante nel sottolineare le mancanze del Papa in quell’ambito o un suo errore o una sua incertezza, passando sotto silenzio il bene che c’è e deformando la percezione della realtà. C’è da dire che il Papa stesso ha chiesto parresia e la ridda di voci e attacchi sono parte del cammino che egli ha voluto far intraprendere alla Chiesa; anche la leggenda del ‘Bergoglio dal pugno di ferro’ è appunto priva di consistente appoggio reale, oltre i tratti del carattere di Francesco, per chi abbia un poco di conoscenza delle questioni ecclesiali almeno moderne: nessun Papa ha avuto tanti detrattori come Bergoglio (nemmeno Paolo VI), e nessuno ha tollerato tanto. Non si dimentichi che fino a non pochi anni fa venivano tolte le cattedre a teologi e ricercatori per molto meno. Un’opinione fuori posto, un’idea ‘poco ortodossa’ producevano correzioni e decreti.La fedeltà è solo di facciata, mentre l’infedeltà pericolosa è diffusa, con l’ausilio di siti compiacenti, di pettegolezzi velenosi e truffaldini.Ecco, l’impressione è che il Papa, che forse ha un poco deluso una certa ala progressista e al tempo stesso risulta intollerabile per un cristianesimo ultratradizionalista (delusioni anche legittime, come già scrissi), e che certamente ha commesso qualche errore (chi non ne fa?), sia ormai divenuto una sorta di ‘capro espiatorio’ per ogni cosa che non funziona come vorrebbe chi di volta in volta prende la parola e allestisce il giudizio, magari seguendo la moda che fa passare da una (sbagliata) papolatria al giudizio distruttivo senza remore.Inoltre, mi pare che ci siano due considerazioni da fare, che ritengo utili per inquadrare meglio il tutto. La prima è ovvia: il Papa è anziano, ha problemi di salute e, come in ogni organismo di potere, si muovono le posizioni per il futuro. Tra chi spera che ‘passata la festa, gabbato lo santo’ e chi teme il ritorno di una certa impostazione dirigista, sempre mal tollerando il Vaticano II e la sua eredità, i riposizionamenti sono naturali ed espliciti. Ma qui ci sono una mancanza di finezza, un opportunismo e una volgarità da far cadere le braccia. La seconda: si assiste all’oblio del recente passato. Forse non ci si ricorda più cosa era la Chiesa romana fino a una dozzina anni fa, soprattutto in parte della sua gerarchia, impastata di potere e ipocrisie e scandali insabbiati, di incoerenze taciute e condanne espresse, di punizioni e costosi compromessi, di doppiopesismi concettuali e corruzioni varie, tanto da portare alla dimissioni di un pontefice… e cosa è ora la Chiesa, al di là poi dei talenti e dei limiti dei singoli papi. Papa Francesco ha grandi meriti: ha riaffermato la centralità della misericordia, ha indetto un giubileo sul tema, ha rilanciato l’ecumenismo, ha spronato la chiesa affinchè uscisse da recinti di paura o posture politicamente militanti ed ecclesialmente divisive, ha ridato carne e umanità a molte tematiche teologico-ecclesiali – a partire dalla famiglia, dall’omosessualità, dall’accesso ai sacramenti – su cui pendeva una cappa di piombo e di falso giudizio; ha ridato spazio alla sinodalità e alla comunione ecclesiale come forme privilegiate della vita cristiana; ha posto nuovamente al centro i poveri; ha ricordato che il Vangelo e Gesù Cristo non sono né una morale né un’ideologia (si pensi alla magnifica Evangelii Gaudium); ha posto nuova luce sul tema del creato, che è un’emergenza planetaria; ha ribadito che i lontani hanno qualcosa da dire alla Chiesa; si è sforzato di concedere il primato alla pastoralità, con avversione di molti pastori; ha illuminato nuovamente la fraternità; ha deciso per un ruolo maggiore delle donne nella Chiesa; ha riordinato movimenti, gruppi e prelature personali; ha posso in essere sistemazioni liturgiche, contro gli arbitri personali e i gusti del singolo, provando a evitare che la liturgia sia mezzo per rigettare il Concilio.Contro l’idea di una dottrina castello ‘perfetto’ di norme e regole, che tutto incasella, ma lascia fuori la vita delle persone (e l’incarnazione di Cristo), ha restituito il primato della coscienza. Agisce per la pace, in un mondo in fiamme, oltre gli equilibrismi antichi e moderni. Certo, molto di ciò che dice il Papa tocca il portafogli e i moralismi rassicuranti su cui poggiano poteri e ideologie, e questo spiega la violenza delle reazioni, secondo le quali, in sostanza, sarebbe meglio un cristianesimo moraleggiante e innocuo che un cristianesimo vivo, che tocchi le ferite dell’umanità. Contro una fede rassicurante e quieta, Francesco ha dato spazio a inquietudini e dubbi, alla ricerca del volto di Dio; ha rianimato la profezia come modus evangelico.Contro le buone parole che, però, nei fatti nascondono il potere nelle sue varie forme, tenta di riallineare parole e opere. Ha sopportato non tanto le critiche positive (legittime, anche opportune), ma le accuse false, le violenze verbali, i tranelli che dividono (diabolicamente, direbbe l’etimologia), reggendo a campagne mediatiche livorose, considerando che egli è il primo Papa nell’era dei social anonimi che ha dovuto anche gestire una convivenza non facile con un predecessore ritirato, ma non sempre fedele alla scelta del silenzio di comunione. Per questo, e per altro ancora, mentre l’età avanza e la salute inciampa, voglio dire che, per quello che vale, io sono con Papa Francesco e gli sono grato per il cammino che ha fatto compiere alla chiesa, con tutte le fatiche, gli errori e le incertezze che ci sono stati. Ma il bene compiuto è di gran lunga maggiore; «dai frutti li riconoscerete». A partire dalla propria vita di fede.Papa Francesco, ad multos annos!