a proposito di “Dio Patria Famiglia” come valori assoluti, così A. Maggi

 

 

quei valori “sacri” smascherati da Gesù

In ogni società esistono valori sacri, principi sui quali si basano le fondamenta della collettività. Per valore sacro s’intende un ideale così im­portante da essere superiore al bene stesso dell’uomo, e per difenderlo si può arrivare a sacrificare la propria vita o a togliere quella di quanti vi si oppongono. I valori sacri, indiscutibili e non negoziabili, sui quali da sempre ci si è basati, sono Dio-Patria-Famiglia. Quel che accomuna questi tre valori è il potere: quello esercitato da Dio, attraverso l’istituzione religiosa sulle coscienze dei credenti, quello dello Stato, sulla vita delle persone e infine il potere indiscusso del capo famiglia sulla moglie e sui figli.

Poi è venuto Gesù, e ha smascherato questi valori sacri rivelandoli come ostili al disegno del Padre sull’umanità. Il Cristo, per il quale l’unico valore sacro è il bene dell’uomo, denuncerà che quel che era considerato apparentemente a favore del­l’uomo era in realtà il principale ostacolo alla realizzazione del progetto del Creatore: che ogni uomo diventi suo figlio raggiungendo la pienezza della condizione divina. Ed è proprio questo quel che allarma la società: che l’uomo raggiunga la condizione divina, diventi esso stesso Signore e, in quanto tale, pienamente libero. Infatti, ogni potere, da quello meno appariscente ma non meno mici­diale della famiglia, a quello civile e a quello sacrale vuole impedire la pienezza umana proposta da Gesù.

Per questo Gesù avvisa i suoi che faranno la stessa fine del loro maestro, condannato a morte come bestemmiatore in nome di Dio da parte dei rappresentanti della religione, ritenuto un pericoloso sovversivo da parte del potere civile e abbandonato dalla famiglia che lo riteneva un demente. I nemici o gli ostacoli alla realizzazione del progetto divino, Gesù li individua, infatti, proprio nella famiglia, dove il marito era l’indiscusso padrone della moglie e dei figli (“sarete traditi perfino dai genitori, Lc 21,16-17), nella nazione, dove chi deteneva il comando, spadroneggiava sui sudditi (“sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia…”, Mt 10,18) e nella  religione, dove il dominio veniva esercitato in nome di Dio e giungeva dove gli altri poteri si fermavano: la coscienza della persona (“vi consegneranno ai sinedri e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe…”, Mt 10,17); “viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”, Gv 16,3).

A questi falsi valori che impediscono la crescita e la maturazione dell’uomo Gesù opporrà i veri valori, quelli che, comunicando agli uomini energia divina, saranno fattore di crescita, consentendo a ogni uomo di realizzare in lui il progetto divino (Gv 1,12; Ef 1,4). Per questo, a Dio, nome comune di ogni religione, Gesù preferirà il Padre, nome specifico del messaggio cristiano, e all’obbedienza a Dio, Gesù contrapporrà l’assomiglianza al Padre:  se in nome di Dio si può togliere la vita, in nome del Padre si può solo donarla. Alla Patria, ambito delimitato da confini e barriere edificate sulle paure, sull’ignoranza e sugli egoismi, Gesù contrapporrà il Regno di Dio, spazio d’amore dove tutti sono accolti, amati e rispettati nella loro diversità. Gesù non è venuto ad innalzare muri contro gli altri popoli, ma ad abbatterli (Ef 2,14), perché l’amore del Signore si estende a tutte le nazioni. Mentre la patria sacralizza se stessa (il sacro suolo), ponendo come valore sacro quelli che in realtà sono i suoi interessi, nel Regno l’unico sacro è l’uomo. Gesù ha ampliato anche l’angusto orizzonte della fami­glia vincolata dagli obblighi familiari, e l’estende a ogni uomo, senza distinzione di popoli e razza. L’unità viene realizzata dall’accoglienza dello stesso Spirito e non dall’avere lo stesso sangue: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35).

La sequela a Gesù richiede la piena libertà dell’individuo, che deve rendersi indipendente da tutto quel che gli impedisce piena libertà di movimento, compresi quei rapporti familiari che proprio per la loro costrizione vengono chiamati “vincoli” o “legami”“Chi vuol bene al padre o la madre più di me non è degno di me; chi vuol bene al figlio o la figlia più di me non è degno di me” (Mt 10,37). Gesù non viene a distruggere la famiglia, ma a liberarla da quei ricatti affettivi che impediscono ai suoi componenti di crescere, accedendo a quella pienezza di vita alla quale ogni individuo viene da Dio chiamato.




la chiesa italiana con gli occhi aperti su fragilità povertà e debolezza

una chiesa che ha cura dei più fragili  e sofferenti

nel comunicato finale del Consiglio permanente della Cei, la crescita della corresponsabilità frutto del percorso sinodale e la difficile attualità italiana

Il cardinale Zuppi ha aperto il Congresso eucaristico a Materada Avvenire

Lo sguardo sui territori e sulle loro problematiche, in un momento storico difficile, ha accompagnato i lavori del Consiglio episcopale permanente che, sotto la guida del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei si è svolto dal 20 al 22 settembre a Matera. Qui dal pomeriggio di giovedì 22 a domenica 25 settembre è in programma il Congresso eucaristico nazionale sul tema: “Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa eucaristica e sinodale”. La riflessione del cardinale presidente sugli “inverni” che l’Italia si trova ad affrontare ha avviato un confronto franco e articolato sulle sfide attuali, che ha portato all’elaborazione dell’Appello alle donne e agli uomini del nostro Paese, dal titolo “Osare la speranza”. Alla vigilia delle elezioni, i vescovi hanno infatti sottolineato l’importanza del voto, un diritto e un dovere da esercitare con consapevolezza, per costruire il bene comune e una società più giusta, solidale e attenta agli ultimi.

Di qui l’invito a un impegno corale, rivolto agli elettori, ai giovani, a chi ha perso fiducia nelle Istituzioni e agli stessi rappresentanti che saranno eletti al Parlamento. Nella certezza che il Cammino sinodale possa rappresentare un’opportunità per far progredire processi di corresponsabilità, i vescovi si sono concentrati sul percorso che le Chiese in Italia hanno compiuto finora e che proseguirà nel secondo anno della “fase narrativa” con la proposta dei “cantieri sinodali”. Proprio in questa prospettiva si svilupperà anche il lavoro delle Commissioni episcopali, che dovrà puntare alla valorizzazione dell’apporto di esperti, del confronto con le realtà extra-ecclesiali e della sinergia con le altre Commissioni. Il Consiglio permanente ha poi rinnovato l’impegno nella tutela dei minori e delle persone vulnerabili, rilanciando le cinque linee di azione assunte dall’Assemblea generale nel maggio scorso attraverso la promozione di iniziative di sensibilizzazione nelle diocesi, tra cui la 2ª Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi (18 novembre) sul tema: “‘Il Signore risana i cuori affranti e fascia le loro ferite’ (Sal 147,3). Dal dolore alla consolazione”.

Distinte comunicazioni sono state offerte sui Tribunali ecclesiastici in materia di nullità matrimoniale, sull’avanzamento dei lavori per la stesura della Ratio nationalis per la formazione nei Seminari d’Italia. Il Consiglio permanente ha deliberato la costituzione di un Fondo di solidarietà a favore delle diocesi per contrastare l’aumento dei costi dell’energia e ha approvato la pubblicazione dei Messaggi per la 34ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei e per la 45ª Giornata per la vita. Ha provveduto infine ad alcune nomine.

Gli “inverni” dell’Italia
L’attenzione alle sfide che il Paese si trova ad affrontare, in un momento storico delicato e complesso a livello mondiale, ha caratterizzato la sessione autunnale del Consiglio episcopale permanente, che si è svolta dal 20 al 22 settembre a Matera, sotto la guida del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. I lavori si sono aperti con il ricordo delle vittime dell’alluvione che ha colpito le Marche, delle loro famiglie e di quanti soffrono a causa di questo evento drammatico. Il pensiero è andato poi a suor Maria De Coppi, missionaria comboniana di 83 anni, uccisa il 7 settembre scorso in Mozambico: «Nella sua umiltà – ha sottolineato il cardinale presidente – è una figlia grande delle nostre Chiese in Italia, che non ha rinunciato a servire l’umanità del mondo e il Vangelo nella vita di un popolo lontano. Piccola sorella universale! È segno della ricchezza dell’esistenza di una donna, di un’anziana e di una missionaria. Un’anziana può dare molto; una donna può dire molto; una missionaria è andata oltre, più avanti, di noi».

Il presidente della Cei ha quindi offerto una riflessione sui tanti “inverni” che si affacciano sull’Italia: quello “ambientale”, con “l’incertezza sulla disponibilità di gas ed energia, lo spettro del razionamento energetico, il ritorno ad una austerity di cui solo alcuni di noi hanno un lontano ricordo”; quello “sociale”, con “alti livelli di povertà assoluta che persistono nel tempo” e con “il rischio di esclusione sociale superiore alla media europea”; quello “dei divari territoriali”, come quello “ormai atavico tra Nord e Sud” e come quello “delle aree interne, sparse in tutto il Paese, il cui spopolamento e la cui progressiva emarginazione non accennano ad arrestarsi, frammentando il Paese e rendendo ancora più disuguali i cittadini e le opportunità di cui possono fruire”. Il cardinale Zuppi si è soffermato sul “pesante inverno della denatalità” e su quello “educativo” che concerne “non solo gli scarsi investimenti sull’edilizia scolastica, ma soprattutto la serpeggiante sfiducia nei confronti della ricerca e in generale della cultura, di quella competenza per interpretare i segni della storia e preparare quel nuovo umanesimo di cui non solo l’Italia ha bisogno”. Infine, ha citato “l’inverno delle comunità ecclesiali”, che “pur con belle eccezioni” sono “affaticate dalla pandemia e faticano a recuperare vitalità e vivacità”.
Secondo il cardinale presidente, è importante scorgere le fragilità, le sofferenze e le aspettative della gente che ha bisogno di essere abbracciata e sostenuta, nella prospettiva del Congresso eucaristico nazionale (Matera, 22-25 settembre) che ha per titolo: “Torniamo al gusto del pane. Per una Chiesa eucaristica e sinodale”. Del resto, ha osservato il cardinale Zuppi, «una Chiesa sinodale è una Chiesa che condivide il cammino degli uomini e delle donne di oggi e di questi si prende cura, sapendo fare proprie le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, soprattutto quelle dei poveri e di tutti coloro che soffrono». Nella certezza che «nei momenti dolorosi e difficili, emerge una decisiva volontà di bene, che supera l’egoismo e la paura»: proprio «tale volontà – ha affermato – va accompagnata, confermata e rafforzata. Ci dice che l’inverno non è definitivo». Alla dimensione ecclesiale si affianca anche quella politica in quanto le sfide e le questioni emerse zriguardano la polis, le città che ci ospitano». Di qui l’auspicio di un impegno concreto da parte di tutti per il bene comune, a partire dall’esercizio consapevole del diritto e dovere di voto.

Nelle parole del cardinale che hanno avviato il confronto assembleare, non è mancato infine un riferimento all’Ucraina e alla necessità di «non abituarci alla guerra»: «C’è il rischio – ha ammonito – di un’assuefazione alle notizie, che continuamente ci arrivano dai media e che ci inducono a considerarla ineluttabile. La guerra non porta alla pace. Abbiamo bisogno di tenere alto l’interesse e la speranza per la pace».

Osare la speranza
Le preoccupazioni espresse dal Cardinale sono risuonate negli interventi dei vescovi che hanno messo in luce l’urgenza di una partecipazione attiva alla vita democratica del Paese e di un impegno, a vari livelli e da parte dei diversi soggetti sociali, per uscire dalle crisi e avviare un rinnovamento profondo. Le istanze emerse sono confluite nell’Appello alle donne e agli uomini del Paese, dal titolo “Osare la speranza”, approvato e diffuso il 21 settembre. «Impegniamoci, tutti insieme, per non cedere al pessimismo e alla rabbia», è l’invito rivolto agli elettori, ai giovani, a chi ha perso fiducia nelle Istituzioni e a quanti saranno eletti al Parlamento. «Il Cammino sinodale che le Chiese in Italia stanno vivendo – si legge ancora nel testo – può costituire davvero un’opportunità per far progredire processi di corresponsabilità. È nei luoghi di vita che abbiamo appreso l’arte del dialogo e dell’ascolto, ingredienti indispensabili per ricostruire le condizioni della partecipazione e del confronto. Riscopriamo e riproponiamo i principi della dottrina sociale della Chiesa: dignità delle persone, bene comune, solidarietà e sussidiarietà. Amiamo il nostro Paese. La Chiesa ricorderà sempre questo a tutti e continuerà a indicare, con severità se occorre, il bene comune e non l’interesse personale, la difesa dei diritti inviolabili della persona e della comunità».

In ascolto del popolo di Dio
Il Consiglio permanente si è ampiamente confrontato sul Cammino sinodale delle Chiese in Italia all’inizio del secondo anno della fase “narrativa”, ancora di ascolto dell’intero popolo di Dio. È stata confermata la piena validità dei gruppi sinodali, come era emerso nelle relazioni diocesane redatte al termine del primo anno. Ci si è poi soffermati sulla proposta dei tre “cantieri sinodali” (della strada e del villaggio; dell’ospitalità e della casa; delle diaconie e della formazione spirituale) comuni a tutte le diocesi italiane, secondo il documento “I cantieri di Betania” e il successivo Vademecum metodologico “Continuiamo a camminare”. Il dibattito si è poi concentrato sull’organigramma che, come già stabilito nel Consiglio permanente del 24-26 gennaio 2022, prevede ora la costituzione di un Comitato nazionale del Cammino sinodale. Tale Comitato avrà il compito di studiare e promuovere iniziative volte ad animare e accompagnare il percorso, in stretta connessione con gli organi e gli organismi della Cei. Esprimendo grande riconoscenza verso il Gruppo di coordinamento che fino ad oggi ha coordinato il Cammino, i Vescovi hanno poi designato il presidente del Comitato stesso. La nomina degli altri membri, che avrà una rappresentatività ampia, verrà affidata a una sessione straordinaria del Consiglio permanente in programma il prossimo 16 novembre, alle Conferenze episcopali regionali, alle Istituzioni e agli organismi ecclesiali rappresentativi di presbiteri, consacrate/i e laici, con una presenza numerosa di componenti laici.

A sostegno delle diocesi
In questo particolare frangente storico e sempre nella prospettiva sinodale, è stata approvata la creazione di un Fondo di solidarietà a sostegno delle diocesi per contrastare l’aumento dei costi dell’energia. La somma – 10 milioni di euro – sarà assegnata alle singole diocesi secondo il metodo di ripartizione dell’8×1000 e, dunque, attraverso una quota fissa per ciascuna diocesi e una variabile in base alla popolazione. Il contributo sarà finalizzato a mettere in atto una riduzione dei consumi e a realizzare progetti di efficientamento energetico.

Per un servizio più efficace
Durante i lavori, i vescovi hanno ripreso la riflessione volta a rendere più efficaci le strutture e gli organi della Conferenza episcopale, a partire da una revisione della disciplina attuale sulle Commissioni episcopali nella prospettiva tracciata dalla Costituzione apostolica “Praedicate Evangelium” e dal Cammino sinodale. I presuli hanno convenuto sull’importanza di ripensare il ruolo delle Commissioni e di avviare la predisposizione di tutti i passaggi utili per un rinnovamento che sia funzionale alle esigenze del nostro tempo. In prima battuta, si provvederà ad una programmazione del lavoro nell’ambito dei “cantieri di Betania”, ovvero di tutte quelle proposte di ascolto e iniziative per il secondo anno del Cammino sinodale, che valorizzi l’apporto di esperti, il confronto con i mondi esterni e la sinergia con altre Commissioni.

Un impegno che continua
Resta alta l’attenzione dei Vescovi sul tema della tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Nel corso dei lavori è stato offerto un aggiornamento sull’impegno delle Chiese in Italia, riassunto nelle cinque linee di azione assunte dall’Assemblea gGenerale nel maggio scorso, circa la formazione di tutto il popolo di Dio e la prevenzione per evitare che il peccato e reato gravissimo degli abusi

accada. Nello specifico, si era deciso di potenziare la rete dei referenti diocesani e dei relativi Servizi per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, di implementare la costituzione dei Centri di ascolto, di realizzare un primo Report nazionale sulle attività di prevenzione e formazione e sui casi di abuso segnalati o denunciati alla rete dei Servizi diocesani e interdiocesani negli ultimi due anni (2020-2021), di condurre un’indagine a partire dai dati, custoditi dalla Congregazione per la Dottrina della fede, che fanno riferimento a presunti o accertati delitti perpetrati da chierici in Italia nel periodo 2000-2021, e infine di collaborare con l’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile, istituito con legge 269/1998.
Per favorire la sensibilizzazione a livello locale, anche quest’anno sarà celebrata – il 18 novembre – la 2ª Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi con lo slogan: “‘Il Signore risana i cuori affranti e fascia le loro ferite’ (Sal 147,3). Dal dolore alla consolazione”. In vista di questo importante appuntamento, sono già in preparazione diverse iniziative, tra cui incontri rivolti agli operatori giuridici presso i Servizi regionali/diocesani/interdiocesani per la tutela dei minori, le Curie diocesane, gli Istituti religiosi e i Tribunali ecclesiastici; giornate di formazione dedicate ai superiori, ai rettori e ai formatori nei seminari e nelle case di formazione degli Istituti di vita consacrata maschili e femminili.
Inoltre, il Consiglio nazionale della scuola cattolica della Cei pubblicherà a breve il testo “Linee guida per la tutela dei minori nelle scuole cattoliche”, uno strumento a servizio dei docenti e del personale che opera nelle scuole cattoliche e nella formazione professionale d’ispirazione cristiana, oltre che delle famiglie e di tutto il mondo scolastico.




contro la presunzione di non aver nulla da imparare dagli altri

papa Francesco

“basta fondamentalismi, le religioni sono la risposta alla sete di pace”

 

quattro sfide:

la pandemia, la pace e il bisogno della stessa, l’accoglienza fraterna e, infine, la custodia della casa comune ossia l’attenzione all’ambiente

Papa Francesco in Kazakistan

papa Francesco in Kazakistan

Papa Francesco, nel suo discorso in apertura della sessione plenaria al settimo Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali, a Nur-Sultan in Kazakistan, ha toccato quattro temi diversi e importanti. 

“Fino a quando continueranno a imperversare disparità e ingiustizie, non potranno cessare virus peggiori del Covid: quelli dell’odio, della violenza, del terrorismo. Sì, perché è proprio l’indigenza a permettere il dilagare di epidemie e di altri grandi mali che prosperano sui terreni del disagio e delle disuguaglianze – ha aggiunto – Il maggior fattore di rischio dei nostri tempi permane la povertà”.

Parlando ai leader religiosi il Papa ha sottolineato che “è necessaria, per tutti e per ciascuno, una purificazione dal male. Purifichiamoci, dunque, dalla presunzione di sentirci giusti e di non avere nulla da imparare dagli altri, liberiamoci da quelle concezioni riduttive e rovinose che offendono il nome di Dio attraverso rigidità, estremismi e fondamentalismi, e lo profanano mediante l’odio, il fanatismo e il terrorismo, sfigurando anche l’immagine dell’uomo”.

“Non giustifichiamo mai la violenza”, ha aggiunto. “Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra. Impegniamoci dunque, ancora di più, a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni. Esse incarnano la speranza che la pace non sia il fragile risultato di affannosi negoziati, ma il frutto di un impegno educativo costante, che promuova i loro sogni disviluppo e di futuro”




lo slogan blasfemo: “Dio, Patria, Famiglia”

Enzo Bianchi :

“Dio, patria e famiglia”

ecco perché quello slogan è una bestemmia

in  La Repubblica 

Siamo in un’ora in cui difetta il pensare, il riflettere, e anche il linguaggio ne risente. Non solo si impoverisce ma si fa rozzo, barbaro e ricorre agli slogan. D’altronde lo sappiamo tutti: quando manca il pensiero si alzano i toni e si fanno risuonare parole per provocare emozioni, e questo vale ovunque, fino ai comizi di piazza.

Essendo vecchio non dimentico le scritte sbiadite sui muri rimaste dall’epoca fascista: “Credere, Obbedire, Combattere!”, “Autorità, Ordine, Giustizia!”, “Dio, Patria, Famiglia!”.

Mi pare significativo che siano tornate a risuonare oggi: “Dio, Patria, Famiglia” è uno slogan che mi turba. Perché queste tre parole messe una dopo l’altra, fatte bandiera e labaro tra gente che si pensa forte, per me risuonano non solo come sinistre, ma come una bestemmia. Parole di un tempo e di una cultura che non vorrei vivere.

Come cristiano sono convinto che la parola “Dio” è un termine eminente ma insufficiente, dietro il quale si celano emozioni che sono proiezioni umane. La maggior parte delle immagini che ci forgiamo di Dio sono perverse. Come cristiano sono convinto che solo Gesù ha raccontato e mostrato chi è Dio.

Il Dio di Gesù non ama essere proclamato, né invocato contro qualcuno, ma ama che lo si pensi il “Dio con noi”. Non ha bisogno che lo difendiamo né che lo imponiamo nella società in cui viviamo. Gli si reca offesa se lo si strumentalizza come un elemento identitario, se lo si trascina nell’agone politico.

Quanto alla Patria, per fortuna la mia generazione non ha più servito l’ideologia nazionalista, un idolo in nome del quale, nelle guerre, si sacrificavano tante vite umane. Amiamo la nostra terra, ma anche quelle degli altri, convinti che “ogni terra per il cristiano è straniera e ogni terra straniera per il cristiano è patria”, come si legge in A Diogneto, il testo di un cristiano del II secolo, quando i cristiani potevano vivere come minoranze in dialogo e in pace nella marea pagana dell’impero romano. No, per noi oggi non è più bello morire per la patria.

Quanto alla “Famiglia”, quella che poteva essere invocata non esiste più, è andata in frantumi con il paternalismo, la sottomissione delle donne, l’impossibilità per i giovani di prendere la parola. Nasciamo in una famiglia e da essa siamo accolti, e questa è una grazia grande. Ma quando dobbiamo costruire una vita cerchiamo l’amore al di fuori della famiglia.

Significa che anche la famiglia è insufficiente: non dobbiamo farne un mito o un idolo. È necessario vigilare contro il familismo che forgia una ideologia non a servizio dell’amore umano, ma dei controllori dell’ordine morale.

Ci scandalizziamo se questi slogan sono gridati oggi in Russia dal potere religioso e da quello politico, ma poi permettiamo che siano proposte come programma nella nostra stanca e vecchia, ma sempre valida, democrazia. L’idolo è sempre un falso antropologico, fonte di alienazione. “Dio, Patria, Famiglia!”: tre parole che se gridate sono una bestemmia e dovrebbero rappresentare per tutti lo spettro di una prigione.




non possiamo volere tutto …

un limite al desiderio

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 8 agosto 2022

nell’educazione dei giovani sarebbe opportuno non offrire “tutto”, ma insegnare a ordinare il desiderio e a scegliere, tenendo conto del bene comune, nella consapevolezza che bisogna porsi un limite perché facciamo parte di un’unica umanità

Ultimamente mi ha sorpreso uno spot pubblicitario che in modo martellante mostra una scena: in un supermercato una bambina in estasi sta davanti a uno scaffale di prodotti dolciari… poi un attimo di silenzio in attesa della voce della mamma che chiede: «E quale vorresti?». E la bambina, in un grido gioioso: «Tutti!». Ho subito percepito l’insensatezza di un messaggio del genere. C’è un desiderio e alla domanda che chiede di scegliere, la risposta è: «Tutti!». Tutto e subito. Lo dice l’istinto, lo fa suo il desiderio e lo esprime. L’istinto è una forza dominante, è un sentimento personale, intimo, che scaturisce dalle profondità animali della persona, e che dunque va assunto, disciplinato, educato. Altrimenti lo si enfatizza, diventa brama di “tutto e subito”, e non conosce limite: l’istinto
diventa così cupidigia, brama, voracità di possesso e amore del denaro. Chi non riesce a dominarlo viene trascinato a possedere, consumare, fare suo ciò che desidera e non ha, e per averlo ricorre anche alla violenza. L’ebrezza del “tutto” fa sognare l’impossibile, esclude ogni possibilità di condivisione, non riconosce la presenza dell’altro con lo stesso desidero verso il medesimo oggetto.
Chi vuole tutto vuole realizzare il suo desiderio senza tener conto degli altri, del prossimo, del limite di ogni azione umana. L’oggetto o la persona desiderati con cupidigia emergono come forze dominanti fino a produrre, in chi desidera, l’alienazione. Comprendiamo allora l’assillante invettiva dei profeti di Israele contro la cupidigia o il desiderio del tutto, perché per loro nella cupidigia sta il non riconoscimento dell’altro e del proprio limite, sta la radice dell’ingiustizia e di ogni violenza.
Tra le dieci parole donate da Dio a Israele sul Sinai, “non desiderare” (chamad, desiderio che si fa azione) ricorre due volte: nei rapporti con le cose materiali e con le persone.
La patologia del desiderio che vuole tutto non riguarda solo la vita personale, ma anche quella nella società. Il premio Nobel per l’economia Stiglitz ha pubblicato un libro sulla crisi economica intitolato, nell’edizione francese, Le triomphe de la cupidité. Certo, la dimensione lucrativa del lavoro umano non può essere eliminata, ma l’eccesso del guadagno e dell’interesse, il non mettere né darsi limiti ha portato a una crisi che ha prodotto sofferenza per popoli interi. La voracità che si è scatenata viene legittimata e la cultura della cupidigia ha fatto scaturire una cultura individualista, incapace di pensare un orizzonte comune. Nell’educazione dei giovani sarebbe opportuno non offrire “tutto”, ma insegnare a ordinare il desiderio e a scegliere, tenendo conto del bene comune, nella consapevolezza che bisogna porsi un limite perché facciamo parte di un’unica umanità. Volere tutto è il contrassegno di una convivenza in cui l’altro è negato e ne va eliminata la presenza. Non possiamo volere «Tutto!», ma possiamo volere solo accettando di rinunciare al tutto 




l’arroganza della ‘tribù bianca’

padre Zanotelli e l’Africa devastata e umiliata dalla «tribù» bianca


di Paolo Lambruschi
il comboniano scrive la storia non ufficiale di secoli di sfruttamento e ingiustizie ponendosi dalla parte delle vittime per aiutarci a capire a cosa stiamo andando incontro se non cambiamo rotta

Padre Alex Zanotell

«Questa mia generazione sarà fra quelle più maledette della storia umana, perché nessun’altra ha mai ha così gravemente violentato e sfruttato il pianeta. Chiedo perdono a voi giovani perché vi consegniamo un mondo gravemente malato e toccherà alla vostra generazione ripensare radicalmente questo nostro sistema»

Padre Alex Zanotelli è stato molti anni in missione in Africa. Dopo 12 anni di permanenza a Korogocho, uno degli slum più duri di Nairobi, la sera prima della partenza, durante una partecipata veglia di preghiera interreligiosa, ricevette in dono una nuova missione: tornare a casa a convertire noi, ovvero la tribù bianca. Nasce qui la Lettera alla tribù bianca (Feltrinelli, pagine 124, euro 12,00) un volume agile e intenso che condensa le battaglie e le motivazioni spirituali e culturali del comboniano trentino, classe 1938, sempre dalla parte degli oppressi e degli ultimi.

Del resto per lui la collocazione naturale del missionario è nelle periferie. Come è andata lo sappiamo dalla sua biografia, l’incarico di partire per una missione solo in apparenza ‘capovolta’, ricevuto dal popolo di una delle periferie estreme della terra, dai suoi baraccati, dai raccoglitori di rifiuti della discarica, dalle ragazze malate di Aids, dai ragazzini e dalle ragazzine di strada, dalle gang e dalle giovanissime che andavano a Nairobi lo ha preso sul serio.

Interessante il risvolto spirituale che si cela dietro il suo attivismo. Confessa che nelle sue battaglie lo ha sostenuto la «spiritualità degli impoveriti». Zanotelli confessa di aver riletto negli anni la Bibbia con altri occhi fino a scoprire la fede nel Dio «che sente la sofferenza inflitta agli oppressi e scende a liberarli». Ieri tramite Mosè, oggi, secondo i dettami della black theology sudafricana e nordamericana, attraverso Nelson Mandela, Desmond Tutu e Martin Luther King.

In questi ultimi 20 anni passati in Italia Zanotelli ha scelto di vivere negli spazi ristretti di una torre campanaria del Rione Sanità a Napoli. Qui ha riscritto in questa “lettera” la storia non ufficiale di secoli di sfruttamento e ingiustizie ai danni dell’Africa ponendosi dalla parte delle vittime per aiutarci a capire a cosa stiamo andando incontro se non cambiamo rotta. Secoli di suprematismo, razzismo e disprezzo sono già racchiusi nel termine “tribù”: perché 80 milioni di hausa nigeriani sono definiti tribù dai bianchi e 8 milioni di svizzeri hanno la dignità di popolo?

Con le solide basi storiche tipiche dei comboniani (ha diretto la rivista Nigizia) spiega le attuali disuguaglianze che affliggono il pianeta. La corsa all’Africa del colonialismo inglese, francese, spagnolo e portoghese che con la schiavitù e la razzia delle risorse hanno posto le basi dello sviluppo capitalista imponendo costi umani altissimi e impoverendo terre ricchissime. Non sono da dimenticare neppure i colonialismi “minori”‘ per durata come quello tedesco che nel 1904 commise il primo genocidio del ’900, quello degli Herero in Namibia e Botswana. O come i massacri e gli orrori imputabili al re del Belgio Leopoldo II in Congo, sua proprietà personale, né la durissima repressione in Libia ed Etiopia con i masscri con il gas e le violenze sui civili degli italiani, prima e durante il fascismo.

Non fa sconti alla Chiesa Zanotelli, non li ha mai fatti anche se oggi è in forte sintonia con la predicazione di papa Francesco che chiede all’umanità una rivoluzione culturale ed etica. E l’arcivescovo di Napoli Mimmo Battaglia, gli ha scritto pochi giorni fa una intensa missiva che gli ha consegnato e letto personalmente durante la presentazione del volume a Napoli: «È per fedeltà a Dio e a tutti i suoi figli, specie i più impoveriti, – scrive don Mimmo – che è cambiato il tuo sguardo e chiedi a noi di fare altrettanto, di rileggere persino le Sacre Scritture, ma pure la storia e la geografia con altri occhi, non con quelli dei dominatori e dei potenti ma degli ultimi e degli sfruttati».

Battaglia sottolinea che «quei 12 anni a Korogocho ti tengono ancora in vita, “in piedi” direbbe Tonino Bello, come artigiano di pace e giustizia». E da artigiano e profeta scomodo, come lo chiamava l’indimenticabile leader aclista Giovanni Bianchi, Alex conta sui giovani di ogni età per reinventare insieme il mondo sconvolto da guerre note e dimenticate (la terza guerra mondiale a pezzi), dai mutamenti climatici e da povertà e disuguaglianze economiche e sociali sempre più scandalose. Perché come diceva il vescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu così amato da Zanotelli: «Dio verrà perché ha un sogno e questo si realizzerà attraverso di noi».




i cambiamenti che attende la nostra chiesa

una chiesa per il futuro: questioni e segnali

di Francesco Cosentino

vangelo chiesa

Sono gli eventi quotidiani di un tempo che cambia continuamente a riportare a galla, di tanto in tanto, l’evidente crisi della fede che segna il vissuto delle nostre società occidentali, insieme al diffuso sentimento di indifferenza religiosa e di distanza dall’istituzione ecclesiale che si respira ormai in mezzo a noi.

Come brace sotto la cenere, però, emerge anche la forza del Vangelo, anche se lo fa con lo stile che gli è proprio: sotto traccia, con la mitezza di un fiume carsico che scorre lento, nella forma del lievito e del seme. E si tratta di spunti, di stimoli e di riflessioni che vengono a inquietare il perbenismo della nostra religiosità innocua, per darci la sveglia.

Viene da chiedersi se l’agenda della vita ecclesiale – in Italia e altrove – sia ancora in tempo ad accogliere questo anelito di rinnovamento e di riforma che sale dal cuore della vita della Chiesa e che papa Francesco stimola e traghetta con determinazione. Ma intanto siamo qui, e vale la pena soffermarci su alcune questioni e su alcuni segnali.

Fine della cristianità

Ce ne sono molte di questioni ma, per offrire una visione sintetica, possono essere raggruppate in due tesi di fondo: la fine della cristianità e la scarsa recezione del Concilio Vaticano II.

La cristianità è finita. In ordine tempo, uno degli ultimi ad affermarlo è il filosofo Massimo Borghesi, che analizza con grande lucidità la diffidenza nei confronti del pontificato di Francesco, quella della destra neoconservatrice ma anche quella di settori più progressisti.

Di certo, l’antico mondo culturale nel quale la religione abitava a pieno titolo, plasmando la coscienza personale e collettiva e influenzando le istituzioni e le forme del vivere sociale, è definitivamente tramontato. Se Nietzsche ne fu precursore con l’annuncio de «la morte di Dio» ne La Gaia Scienza, non sono mancati anche in ambito teologico riflessioni di notevole spessore sul tema.

La novità degli ultimi tempi è rappresentata però dalla figura e dal magistero di papa Francesco che, già con Evangelii gaudium, ispira e invita a un cambio di paradigma: da un cristianesimo della resistenza a un cristianesimo dell’immaginazione. Infatti, chi presuppone un mondo, una società e un tessuto familiare e sociale ancora cristiani, di fatto resiste: pensa che, in fondo, la Chiesa e la sua pastorale abbiano bisogno solo di qualche ritocco estetico e di qualche aggiustamento formale, senza mettere in discussione le strutture e le forme del credere ecclesiale.

Papa Francesco ha un altro paradigma: una Chiesa e una pastorale audaci per una «nuova immaginazione del possibile». Lo ha indicato dall’inizio, parlando di conversione pastorale in chiave missionaria ma, a quanto pare, ampi settori della vita ecclesiale non si preoccupano di accogliere Evangelii gaudium e di farne un’ermeneutica per il rinnovamento pastorale.

Un Concilio non ancora recepito

Il Concilio Vaticano II non è stato ancora recepito. Può darsi che una tale affermazioni appaia generica e superficiale, oppure viziata da una visione polarizzata e ideologica. Al netto di questo, però, il problema rimane. Serena Noceti ne ha scritto su Concilium, affermando che Evangelii gaudium ci provoca a misurarci con la nuova visione ecclesiologica emersa nel Concilio Vaticano II: il superamento dell’eurocentrismo e la «decentralizzazione» istituzionale necessaria all’evangelizzazione e alla missione.

Ciò impone non solo dei ritocchi, ma una riforma strutturale: e – afferma la Noceti – non basta cambiare le idee o le norme, ma «deve essere ridisegnata la forma relazionale e promosso un cambiamento nell’istituzionalizzazione delle relazioni ecclesiali». Non si può sottovalutare, cioè, il livello delle strutture sociali e relazionali della Chiesa, con annesse le forme di governo e la gestione del «potere».

E su questo, è inutile girarci intorno: abbiamo il coraggio profetico di Francesco, tante buone intenzioni, ma due grandi zavorre, il clericalismo e il maschilismo. Una normativa «a imbuto» che, anche nelle questioni di vita ecclesiale e perfino in quelle di competenza laicale, pone al vertice della piramide solo chi ha il sacramento dell’ordine, con grave danno che ricade anche sui preti stessi.

E ciò produce a catena, anche quando ciò non è direttamente imputabile all’intenzione dei singoli (e proprio per questo invoca una riforma strutturale), due questioni che continuano a penalizzare di non molto la vita della Chiesa e l’immagine che offre di se stessa alla società odierna: l’esclusione dei laici e quella delle donne.

Presenza ecclesiale

Alcuni segnali non mancano e sono piccole luci nella notte dell’universo ecclesiale attuale, utili per immaginare senza paura la Chiesa del futuro.

Un primo spunto ci è offerto dalla lettera dell’arcivescovo di Torino, mons. Roberto Repole (cf. qui su Settimana News), che lascia ben intravedere uno stile e una forma di Chiesa diocesana su cui ci si vuole incamminare. L’obiettivo di fondo contiene già un elemento decisivo: ripensare la presenza ecclesiale sul territorio.

Repole afferma che occorre «prendere sempre più profondamente coscienza che la nostra società non è più “normalmente cristiana”. Eppure, noi siamo ancora strutturati – a partire dalle nostre parrocchie – nell’implicito che tutti siano cristiani».

Ne deriva un serio ostacolo all’evangelizzazione e alla missione della Chiesa che l’arcivescovo descrive con straordinaria chiarezza: nella convinzione di trovarci nel mondo «cristiano» di prima, a diversi livelli investiamo risorse in attività pastorali tradizionali che ci sembra non portino frutto, «laddove si tratterebbe di osare qualche percorso nuovo», investendo altrove.

Da qui le domande, che in realtà dovrebbero impegnare tutta la Chiesa italiana, specialmente in tempo di Sinodo:

«Dobbiamo continuare a mantenere semplicemente tutte le infinite strutture di cui beneficiamo (locali, case, chiese, oratori…) anche se invece che servire a vivere una vita cristiana ed ecclesiale autentica ed essere degli strumenti per l’evangelizzazione costituiscono un peso insopportabile…? Possiamo continuare a mantenere tutte le parrocchie, immaginando che vi si svolga tutto quello che vi si svolgeva nel passato, chiedendo ad un prete che invece di essere parroco di una comunità lo sia di diverse, senza però cambiare nulla? Come si può immaginare, facendo così, che i preti possano vivere una vita serena, possano trovare il tempo per coltivare la preghiera e la lettura e offrire un servizio qualificato, possano trovare la giusta serenità per incontrare le persone…?».

La sfida è lanciata: c’è urgenza di «ipotizzare modi nuovi di essere Chiesa nel territorio, di avanzare proposte per “cammini sperimentali”». Ciò è possibile solo nella corresponsabilità ecclesiale. Fino a che restiamo nell’imbuto di cui sopra – con il prete e i preti al vertice di tutto, solitari condottieri di una carovana di esecutori passivi – si potrà sperimentare ben poco.

Ministero inclusivo

Illuminante, in tal senso, un altro contributo di questi giorni, scritto da Assunta Steccanella. Pensando alla Chiesa di oggi e di domani, alcune divagazioni attorno alle nuove nomine e ai trasferimenti dei preti: di ciascun «don» si dice che è stato nominato qualcosa ma anche qualcos’altro. E in questo «anche» si dice tutto: «spazi da abitare, sempre più persone da curare, sempre più cose da fare, concentrate nelle mani di un numero sempre minore di soggetti, più precisamente preti».

E – finalmente una lettura che sia anche compassionevole e non solo giudicante – «la moltiplicazione dei loro incarichi, che non rallenta, li espone, quando bene, all’impossibilità di essere pastori come vorrebbero, costretti come sono a correre di qua e di là, trascurando molte cose o agendo in modo affrettato; quando va molto bene, li sottopone a un serio rischio di bornout».

Questa pastorale non ha futuro, a meno che non si dia a questo «anche» un significato diverso: «Don S. mantiene l’incarico di direttore… anche i tre ministri istituiti – la lettrice N., l’accolito P., il catechista R. – saranno corresponsabili per la vita della parrocchia». E l’autrice continua con altri esempi, immaginando altre nomine diocesane e parrocchiali in cui un prete viene nominato, ma «insieme a»: un «anche» che diventa finalmente inclusivo di ministri istituiti, catechisti, famiglie suore, laiche e laici.

Viene quasi da chiedersi, col cardinal Martini: come mai la Chiesa non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?




papa Francesco non è ‘putiniano’

le scandalose parole del papa

di Domenico Quirico
in “La Stampa” del 15 giugno 2022

chi critica il Papa vorrebbe una chiesa che si accoda, che invia aiuti umanitari e prediche. Francesco pronuncia parole di una tale immensità… Frusta la Russia e la sua guerra «imperiale e crudele» e cita i mercenari con cui la conduce, ceceni e siriani. Ma poi impavido sfida anche la nostra verità di Occidente, il nostro sentirci sempre automaticamente dalla parte della ragione

E adesso? Adesso che il Papa dà scandalo? Le sue parole, con il travaglio dei giorni e dei mesi che passano senza pace, sulle colpe, le omissioni, i silenzi sulla guerra scottano e infiammano. E urtano.
Che cosa faranno gli intellettuali immaginari, i politici, quelli che sanno tutto fin dal primo giorno e che pensano che la soluzione alla guerra scatenata dall’aggressione criminale di Putin sia solo la guerra? Metteranno in fila, a loro volta, le parole e diranno: incredibile, il Papa è diventato putiniano! ma cosa conta in fondo quello che dice? È il suo mestiere quello di essere fuori dalla Storia, di pronunciare innocue e paradossali parabole…
I maestri del sospetto, i cacciatori di quinte colonne ed infiltrati, per cui ogni distinguo e ragionamento (che è «il ridurre la complessità alla distinzione tra buoni e cattivi senza ragionare su radici e interessi che sono molto complessi…» come ha detto Francesco parlando ai direttori delle riviste culturali della Compagnia di Gesù) è automaticamente tradimento, diserzione, delitto, non lo attaccheranno frontalmente. Forse faranno come quando Francesco fece riferimento «all’abbaiare della Nato alle porte della Russia…» e lo striminzirono nel silenzio. Francesco procede imperterrito per la strada dei suoi ritmi: vita morte guerrieri vittime deportati e profughi. Dolore si chiama il mistero verso cui ci chiede di camminare. Dall’inizio della guerra la sola cosa che ha un significato per lui è il dolore di una terra coperta di sangue. E per questo rende omaggio agli ucraini «un popolo coraggioso che sta lottando per sopravvivere e che ha una storia di lotta». Se tutti gli uomini avessero operato per il bene e solo per il bene non ci sarebbe la guerra, neppure questa guerra. Ma questa verità al Papa impone la domanda: se questo male sono gli atti degli uomini o il non fare degli uomini di chi sono le colpe, tutte le colpe? Pronuncia parole di una tale immensità che, a ripensarle una ad una, paiono osatissime. Frusta la Russia e la sua guerra «imperiale e crudele» e cita i mercenari con cui la conduce, ceceni e siriani. Ma poi impavido sfida anche la nostra verità di Occidente, il nostro sentirci sempre automaticamente dalla parte della ragione.
Un errore che ci è costato guerre perdute, vittime tradite e abbandonate al loro destino, isolamento  all’Iraq all’Afghanistan. Il 24 di febbraio è l’inizio di tutto e Putin ha imposto con la violenza questo inizio su cui dobbiamo come democrazie, obbligatoriamente, fare la nostra scelta: aiutare l’Ucraina e fermare l’autocrate. Il Papa lo conferma, non ci chiede certo di restare vuoti e inerti. Ma aggiunge: ci può bastare? Non rischiamo di «vedere solo una parte e non l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra che in qualche modo è stata provocata o non impedita»? Non è una domanda teologica o apocalittica, è una domanda politica. E forse è proprio questo lo scandalo.
Chi critica il Papa vorrebbe una chiesa che non dà scandalo, che si accoda, che fa la crocerossina della Storia, che invia aiuti umanitari e distribuisce prediche. Le si ingiunge di essere giudiziosamente savia e non più di portare la distruzione e il sovvertimento di una verità folle, di ripetere stancamente che tutto quelle che si può fare è attendere che la grande quaresima del dispotismo, per miracolo, alla fine arrivi. La tollerante rassegnazione che rende la vita più sopportabile è il porto dove approdano, purtroppo, tutti i fallimenti anche quelli della fede. Il Papa deve imporci semmai lo Scandalo di mettere insieme nella processione russi e ucraini, di non mettere segni sulle bandiere della Nato, di incontrare chissà! gli aggrediti di Kiev e Kirill, «il chierichetto di Putin».
Le scandalose parole del Papa sono una riflessione sulla natura della guerra, di questa guerra. La si può fare per odio, per desiderio di preda, per rovesciare un avversario che diventa pericoloso, per pazzia e sadismo, per amore del potere, per mestiere. Si può fare la guerra per obbedienza, perché sei stato aggredito e non hai altra possibilità o per un progetto di unificazione e di gloria o per il desiderio di vendicare una ingiustizia. O come dice il Papa per «l’interesse di testare e vendere armi… e alla fine è proprio questo a essere in gioco». Tutte queste ragioni, prima o dopo, vi sono mescolate, si confondono e talora si corrompono reciprocamente Il Papa ci impone di ricordare che la guerra giusta non esiste, è un mito insipido che non dobbiamo condividere con le bugie dei prepotenti. E che alla fine, rende tutto, anche il dolore, insignificante.




cristianesimo, cristianità, post cristianesimo

quale cristianesimo dopo la cristianità?


diArmando Savignano 
in Europa, dove la religione è “in agonia” va riscoperto l’impegno e la lotta, senza cedere alla tentazione dello scontro. Un tema già al centro del pensiero sulla fede in Unamuno, Mounier e Zambrano

Una chiesa abbandonata in Europa

Gli accorati appelli di Papa Francesco sul tramonto della civiltà europea ormai scristianizzata suonano come l’ennesimo campanello di allarme contro l’individualismo ed il nichilismo occidentali. Viviamo una profonda inquietudine e una crisi non solo di credenze ,ma anche di fede, per cui molti si interrogano sul futuro del cristianesimo. Come ha dichiarato il cardinale Matteo Zuppi:

«La Chiesa rischia di essere irrilevante anche se le statistiche sui credenti non sono tutto. Alcune scelte di papa Francesco sono importanti per i cattolici, e per tutti. La cristianità è finita, ripartiamo dall’essere evangelici, dal parlare con tutti, dal riprendere le relazioni con tutti. Essere una minoranza creativa che parla di futuro. Non difendiamo i bastioni, abbiamo tanto da lavorare per superare le difficoltà della Chiesa».

Nel libro Il gregge smarrito (Rubbettino 2021) si fa una diagnosi dei problemi della Chiesa al tempo della pandemia con lo sguardo rivolto al futuro e a possibili soluzioni per uscire dalla crisi confrontandosi con le sfide della post-modernità. A tal fine ci si richiama al costante appello del Papa: «Nell’ovile abbiamo soltanto una pecora e voi dovete andare fuori a trovare le altre novantanove ». Certamente non mancano le azioni sociali della cattolicità, «ma senza che esista una sintesi ed una rappresentazione comune: il risultato è una Chiesa che parla senza contare e che agisce senza parlare». Occorre rifuggire – è la proposta del libro dal fondamentalismo, ma non occorre neppure barricarsi sui valori non negoziabili, poiché «si viene marginalizzati» e si rinuncia così al «dialogo costruttivo con il resto della società».

È ineludibile praticare la via del dialogo, poiché «la vita della Chiesa è nella relazione»; perciò «mettere un piede fuori dal suo recinto l’aiuterà a non cadere e permetterà alla società di riconoscerla ». Insomma, dovrà resistere alle tentazioni politiche per assumere «un ruolo profetico nella società».

Già nel libro di Andrea Riccardi La Chiesa brucia. Crisi e futuro del cristianesimo (Laterza, 2021) si sostiene che il cristianesimo è vivo solo se lotta, ovvero vive agonicamente, come aveva già sostenuto Miguel De Unamuno. Nonostante si abbia la percezione di un declino quasi inarrestabile osserva Riccardi – agonia, nel senso più profondo, è lotta, non rassegnazione. La lotta di oggi è essere a contatto con l’indifferenza, il discredito al massimo grado, il ridimensionamento nei fatti e nelle esistenze. Per i cristiani è facile non lottare: si è tollerati come nicchia. Del resto non si tratta di una lotta contro qualcuno o qualcosa, che scomunica, scredita, aggredisce. Tante volte la Chiesa è tentata dagli scontri frontali. È un modo di far sentire che si è vivi. Non si tratta di conquistare, perché la sua esistenza è fondata sulla gratuità. Queste importanti riflessioni e dibattiti erano già emersi in altre epoche storico- sociali, alle quali forse non è inutile riferirci sia pure sommariamente per trarre lumi per il presente e soprattutto per il futuro dei cristiani nel mondo.

Tra i saggi che compongono Feu la Chrétienté, di particolare interesse risulta quello su Agonie du Christianisme, apparso originariamente su “Esprit” (1946), dove Emmanuel Mounier in dialogo con il celebre libro di Miguel de Unamuno, Agonia del cristianesimo, affronta la delicata questione delle sorti della cristianità senza peraltro rinnegare la fedeltà alla Chiesa. Quello di Unamuno – riconosce Mounier – è uno scritto paradossale quanto provocatorio. Pochi conoscono abbastanza l’etimologia greca da comprendere che l’autore spagnolo «evoca un combattimento e non una fine, o abbastanza il dogma da ricordarsi che il Cristo e la sua Chiesa sono in agonia fino alla fine dei tempi».

Mounier si scaglia contro quanti guardano con perplessità al processo di laicizzazione del cristianesimo, non comprendendo appieno i risvolti profondi. Occorre invece guardare al mondo laico con lo sguardo attento ai valori di cui è portatore. In ordine alla delicata questione del rapporto tra cristianesimo, cultura e valori laici, Mounier mostrava l’esigenza di assumere un atteggiamento critico nei confronti di tali valori per purificarli e poi incarnarli, rilevando nel contempo la carenza di impegno da parte dei cristiani nel ricercare elementi comuni con i valori propugnati dalla modernità. Di qui la denuncia di una grave conseguenza: «Il mondo attuale non incontra più il cristianesimo». Irreprensibili sul piano dottrinale, i cristiani, proprio attraverso i loro comportamenti piccolo borghesi, operano il tradimento del Vangelo rimanendo praticamente chiusi agli stessi ideali della modernità su cui si basa il pensiero laico. «Si può rigettare, condannare, estirpare un errore o un’eresia. Non si rigetta un dramma, e la cristianità, nella sua pace di superficie, è di fronte oggi al più temibile dei drammi nei quali sia mai stata impegnata. Il cristianesimo non è minacciato di eresia: non si appassiona più per questo. È minacciato da una sorta di apostasia silenziosa costituita dall’indifferenza intorno ad essa e dalla propria distrazione. Questi segni non ingannano: la morte si avvicina. Non la morte del cristianesimo, ma la morte della cristianità occidentale, feudale e borghese. Una cristianità nuova nascerà domani, o dopodomani, da nuovi strati sociali e da nuovi innesti extraeuropei. Purché noi non lo soffochiamo con il cadavere dell’altra».

Allorchè scrisse Agonie du Christianisme Mounier era ancora convinto che altre forme di cultura innervassero e rinnovassero l’esperienza storica della cristianità europea. Tre anni dopo non sembra più riporre soverchie speranze in tale possibilità come emerge da Feu la Chrétienté, dove mostra che un certo rapporto tra fede e storia così come è venuto configurandosi nell’Occidente europeo è ormai definitivamente alle nostre spalle ed è pertanto improponibile.

È interessante rilevare che nei frammenti che compongono il libro su La agonía de Europa (1945) Maria Zambrano – richiamandosi alla dialettica hegeliana, senza peraltro condividerne la filosofia della storia, e anche lei all’opera di Unamuno, di cui fa proprio lo spirito di lotta per la civiltà europea – è alla ricerca una soluzione in chiave spirituale per superare lo scacco prodotto dalla morte di Dio e dal nichilismo.

Di qui l’interrogativo se «ciò che l’Europa ha realizzato come sua religione sia stato il cristianesimo. Invero basta sentirsi anche minimamente cristiano per presentire e intravedere che no, che ciò che l’Europa ha realizzato non è stato il cristianesimo, ma, al più, la sua versione, la versione europea del cristianesimo. Ne è possibile un’altra, che sia ancora europea e, soprattutto, che sia cristianesimo? ». L’enigma europeo risiede nella violenza che ha originato il totalitarismo; infatti «la tragedia dell’Europa è la tragedia della violenza, che alla fine ha installato ». La risurrezione dell’Europa si attuerà solo richiamandosi al Dio misericordioso cristiano, insomma ritornando alla radici cristiane dell’Europa.




la croce di Cristo e le vittime di tutta la storia umana

dalla parte delle vittime

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 11 aprile 2022

Per i cristiani d’Occidente è già iniziata la settimana della Passione di Gesù Cristo, mentre per gli ortodossi le celebrazioni inizieranno alla fine di questi giorni che vogliono essere per tutte le Chiese memoria triste e dolorosa della morte del Signore. Per tutti queste sono settimane di guerra feroce e assassina, prevedibile ed evitabile, ma che continuavamo a rimuovere dai nostri pensieri e nelle relazioni tra popoli europei.
Questa è una guerra che continuerà ancora. E ogni giorno assistiamo alla “passione” di uomini e donne, vecchi e bambini vittime dei bombardamenti e di violenze, torture, eccidi. Ormai conosciamo i racconti di passione e morte che sembrano non avere limite. Gli uomini che si combattono e muoiono appartengono a una stessa storia, sono tutti cristiani che hanno come prima vocazione la fraternità. Eppure siamo giunti a ciò che pareva impossibile, ciò per cui le Chiese avevano chiesto perdono a Dio, promettendo di non ricorrere “mai più” al suo nome per associarlo a uno schieramento in guerra. Invece il “Dio con noi” è risuonato da un esercito contro l’altro, e accanto agli eserciti le Chiese, una stessa Chiesa da una parte e dall’altra che ha benedetto le armi e i soldati e maledetto gli avversari. Un odio che è diventato odio tra la gente, i due popoli, e ha dominato la preghiera. E mentre in una chiesa si brucia incenso, si implora la vittoria, nell’altra si
compiono gli stessi riti e ciascuno invoca la vittoria sul nemico. Una guerra diventata non solo “giusta”, come la definisce la dottrina classica in Occidente, ma santa e benedetta da Dio. Siamo riusciti a evitare uno scontro di civiltà con l’Islam, ma oggi siamo arrivati a combattere una guerra che è uno scontro di civiltà tra l’Occidente delle democrazie e l’Oriente delle autocrazie. In questo inferno il credente si sente smarrito e si chiede: ma Dio dove sta? Dov’è?
Non è una domanda nuova, ma oggi non riguarda solo il fatto che Dio non interviene ed è muto, ma risuona come straziante interrogativo sui cristiani: com’è possibile che si ammazzino in una guerra così spietata invocando Dio gli uni contro gli altri? Che Dio è mai questo? Che forza vincolante ha il Vangelo sui cristiani? Nessuna forza, occorre rispondere con cuore lacerato. Com’è possibile un tale tradimento del Vangelo? Non ci sono spiegazioni, occorre solo fare silenzio e andare alla Passione di Gesù che nella Settimana santa viene letta e meditata. Gesù, un uomo giusto, che ha operato il bene e non il male ma che è stato giudicato un bestemmiatore dai rappresentanti di Dio in terra, è arrestato, torturato, condannato senza un processo, è oggetto di violenza e disprezzo, ed è ucciso appeso a un legno. Ed era il Figlio di Dio, era Dio. Ecco Dio dove sta. Ieri come oggi, dove ci sono vittime innocenti occorre cercare Dio e individuare da che parte sta. È paradossale ma è così. A Pasqua i cristiani dovrebbero riconoscere che l’immagine del loro Dio è un agnello afono ucciso dalla fondazione del mondo fino ad oggi.