Category Archives: materiale da rielaborare
un invito alla riflessione al popolo ebraico della diaspora
LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA DIASPORA
Redazione Missione Oggi
Roma, 23 ottobre 2024
Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.
Insieme al dolore per le vittime e all’esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quell’azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sull’intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.
L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.
A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.
Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.
Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere, ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.
Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale di Israele.
Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.
Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.
Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’Onu, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie, i moniti e le accuse, dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.
Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, un’interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.
Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento Nostra aetate del Concilio Vaticano II, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la Fratres omnes di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e dell’ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.
Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.
Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dall’inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la soluzione a due Stati, anche ove mai fosse stata possibile e auspicabile in passato, e la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.
Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.
Primi firmatari: Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione; Domenico Gallo, giurista; Elena De Monticelli, filosofa; Raffaele Nogaro, vescovo cattolico; Claudio Grassi, legislatore; Felice Scalia, gesuita; Luigi Ferrajoli, giurista; Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia; Stefania Tuzi, storica dell’architettura; Francesco Di Matteo, avvocato; Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista; Massimo Zucconi, architetto; Fulvio De Giorgi, ordinario di filosofia; Agata Cancelliere, insegnante; Giorgio Rivolta, docente di pedagogia; Santino Di Dio, impiegato; Raffaele Luise, giornalista; Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo; Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace; Nicola Colaianni, già magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari; Antonio Malorni, biochimico; Paolo Cento, legislatore; Mario Menin, direttore di Missione Oggi; ecc.
il commento al vangelo della domenica
In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere»
il commento al vangelo della domenica
Aiutaci a ritornare al semplice, al principio di tutto… Gesù lo fa, uscendo dagli schemi con una risposta che tra i comandamenti non c’è. Che bella la libertà, l’intelligenza anti conformista di Gesù, icona limpidissima della libertà e dell’immaginazione.
La risposta comincia con un verbo: tu amerai, al futuro, a indicare una storia in-finita, perché l’amore è il futuro del mondo, perché senza amore non c’è futuro per l’umanità.
Amerai con tutto il cuore; non da sottomesso, ma da innamorato.
Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e con il cuore d’ombra, amalo con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; come puoi, come riesci, magari col fiatone, quando splende il sole e quando si fa buio, e a occhi chiusi quando hai un po’ paura, anche con le lacrime. Santa Teresa d’Avila in una visione riceve questa confidenza dal Signore: “Per un tuo ‘ti amo’ rifarei da capo l’universo”.
In fondo, nulla di nuovo. Le stesse parole le ripetono i mistici di tutte le religioni, i cercatori di Dio di tutte le fedi, da millenni.
La novità evangelica è nell’aggiunta inattesa di un secondo comandamento, che è simile al primo… Il genio del cristianesimo dice: amerai l’uomo è simile all’amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, fame d’amore e bellezza, simili a Dio.
Cielo e terra non si oppongono, si abbracciano. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, occhi nel cielo e piedi per terra.
Ma chi è il mio prossimo? Gli domanderà un altro dottore. Ho trovato una risposta che mi ha allargato il cuore, quella di Gandhi, un non cristiano: “il mio prossimo è tutto ciò che vive con me, su questa terra”, le persone, ma anche l’acqua, il sole, il fuoco, le nuvole, le piante, gli animali.
Sorella madre terra e tutte le sue creature.
Il comandamento diventa: Ama la terra come ami te stesso, amala come l’ama Dio. Vivere è convivere, esistere è coesistere. Non già obbedire a comandamenti o celebrare liturgie, ma semplicemente, meravigliosamente, felicemente: amare.
«Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera» (M. Eckhart).
Che cosa genera? Amore, che è vita.
a proposito delle ‘apparizioni ‘ e dei ‘messaggi’ di Medjugorje
Lourdes, Fatima e Medjugorje: un cambio di paradigma teologico?
dalle Dichiarazioni su Lourdes e Fatima a quelle su Medjugorje: sembra sia cambiato l’approccio e si sia più attenti a quello che di buono (o di cattivo) c’è nelle prassi religiose. Non più veggenti da seguire ma esperienze religiose da supportare (e su cui vigilare). E non attesa di sangue sciolto ma attenzione al sangue versato
di Umberto Rosario Del Giudice
oltre quarant’anni per una ‘Nota’
Con la Nota[1] di oggi, 19 settembre 2024, la Chiesa si è pronunciata sugli accadimenti di Medjugorje.
Il tono risulta subito diverso rispetto a Discorsi, Dichiarazioni, Encicliche, Note (a firma dei pontefici o delle Congregazioni varie) che hanno riguardato i fatti che coinvolgevano la piccola Bernardette e i pastorelli di Fatima (si noti che non si fanno nomi di “veggenti” nella Nota odierna).
Ma ciò che appare non è solo una diversa valutazione.
A ben vedere anche i primi approcci (cauti) ai fatti di Lourdes o di Fatima furono quanto meno misurati cui seguirono dichiarazioni graduali. Tuttavia, i fatti, sebbene nella loro complessità, furono “riconosciuti” in breve. Ci vollero dodici anni per una prima dichiarazione per i fatti riferiti da Bernardette che permetteva l’afflusso di fedeli e la venerazione a Lourdes.
Fatima ebbe una rilevanza quasi immediata: a soli due anni dagli eventi dichiarati dai pastorelli il vescovo locale, col beneplacito della Santa Sede, dichiarava «degne di credenza, le visioni dei bambini pastori della Cova da Iria, avvenute nella parrocchia di Fátima, in questa diocesi, dal 13 maggio al 13 ottobre 1917».
Ma erano anche altri tempi e altri contesti. In Francia, al tempo dei fatti di Lourdes, l’imperatore Luigi Napoleone bloccava ogni accordo con la Chiesa oltre il concordato del 1801. In Portogallo i pastorelli furono incarcerati per due giorni per ordine dell’allora sindaco di Vila Nova.
Al di là del contesto storico, potremo dire che le dichiarazioni della Santa Sede sui fatti di Lourdes e Fatima furono tempestive e riguardavano “fatti ritenuti straordinari”.
Per i fatti di Medjugorje ci sono voluti oltre quarant’anni per la pubblicazione di una Nota che ha valorizzato più l’esperienza religiosa che i dati dei messaggi (presunti).
ìl cambio del paradigma al di là dei pronunciamenti
Sulle motivazioni che hanno portato a un non “riconoscimento” dei fatti “presunti soprannaturali” di Medjugorje bisognerà riflettere in altra sede.
Ciò che qui però interessa non è solo il “dato della non-ufficialità” ovvero del “non-riconoscimento”, ma il cambio sostanziale di approccio e rispetto delle esperienze e del loro uso.
Da una parte, Lourdes e Fatima si mostravano alla Chiesa come “apparizioni mariane” utile alla fede vissuta nell’epoca tra XIX e XX secolo per diversi aspetti (l’ateismo, lo scontro tra Stati, le minacce belliche, le Guerre…); dall’altra Medjugorje, sebbene i fatti risalgano ai tempi dei comunismi ideologici precedenti alla sanguinosa guerra di scissione –indipendenza– dei paesi baltici, rimane un “luogo di culto” come tanti, in cui è possibile una “esperienza di fede”.
Vale la pena riprendere quanto è stato scritto nella Presentazione in occasione della pubblicazione del “segreto di Fatima”.
La Congregazione per la Dottrina della Fede, a firma dell’allora Tarcisio Bertone segretario, nel 2000 dichiarava:
«Apparizioni e segni soprannaturali punteggiano la storia, entrano nel vivo delle vicende umane e accompagnano il cammino del mondo, sorprendendo credenti e non credenti. Queste manifestazioni, che non possono contraddire il contenuto della fede, devono convergere verso l’oggetto centrale dell’annuncio di Cristo: l’amore del Padre che suscita negli uomini la conversione e dona la grazia per abbandonarsi a Lui con devozione filiale. Tale è anche il messaggio di Fatima che, con l’accorato appello alla conversione e alla penitenza, sospinge in realtà al cuore del Vangelo»[2].
L’approccio della Nota odierna non tiene conto tanto del dato dottrinale, sebbene vi sia un’analisi dei “messaggi”, ma evidenzia il “fenomeno Medjugorje” in quanto centro di esperienza religiosa, di penitenza, di unione in Cristo. È stata rilevata una «la spiritualità medjugoriana nella vita quotidiana» (Nota, 5b).
Per delineare questa spiritualità, la Nota riprende il “titolo” della “Regina della Pace” e rimanda a quella “pace che sgorga dalla carità” e a Cristo, “Re della Pace” (ci si sarebbe aspettato qui un rimando alla “pace” come “salvezza”. Ma sebbene non sia esplicitato, il dato appare sottinteso).
La spiritualità medjugoriana poi è declinata attraverso alcune categorie espresse secondo alcune locuzioni: “soltanto Dio”, “incontrare Dio che è sempre presente nella vita di ogni giorno”. E si sottolinea al tempo stesso il cristocentrismo e il rimando all’azione dello Spirito Santo che chiama alla conversione e al ricorso alla preghiera e alla centralità della “Messa”, apice della preghiera dei fedeli raccolti in comunione fraterna. Una spiritualità che richiede e rimanda alla dimensione ecclesiale e alla “gioia e gratitudine”, alla “testimonianza dei fedeli”, all’attenzione alla “vita eterna”.
A partire da queste evidenze della vita “quotidiana” cristiana promossa dalla spiritualità medjugoriana la Nota evidenzia i rischi: «Alcuni pochi messaggi si allontanano da questi contenuti così positivi ed edificanti e sembra persino che arrivino a contraddirli. È conveniente stare attenti perché questi pochi elementi confusi non mettano in ombra la bellezza dell’insieme» (Nota 27).
Da qui la Nota evidenzia ambiguità tra cui “rimproveri e minacce”, “messaggi alla parrocchia”, “autoesaltazione della Madonna” (in alcuni messaggi direbbe “il mio piano”, “il mio progetto”…, cfr. Nota 37).
dall’attenzione dottrinale alla valorizzazione attenta dell’esperienza religiosa
La valutazione della Nota non riconosce il carattere soprannaturale dei fenomeni di Medjugorje ma riconosce l’esperienza religiosa lì proposta utile per l’esperienza cristiana. La Nota assume l’onere di valutare la congruità di alcuni messaggi e dichiara soprattutto che la percezione dei sedicenti veggenti può interferire (se c’è) con l’esperienza del Dio di Gesù.
Esaminando poi i “messaggi” (tutti ritenuti presunti, come la Nota specifica fin dalla sua premessa, cfr. Nota 2) altro non fa che rimandare ai metodi e alla prassi delle sane tradizioni cristiane e, in continuità con quelle, non ostacola l’esperienza medjugorjana.
Cosa resta?
Il fenomeno Medjugorje non ha avuto un “riconoscimento ufficiale”; è chiaro anche che sono state date due indicazioni preziose che appaiono come un “cambio di paradigma teologico valutativo” dei “fatti soprannaturali”, della “pietà popolare”:
- la “percezione” dei singoli gioca sempre un ruolo determinante anche nella “percezione di Dio”;
- la “esperienza religiosa” può condurre a buoni frutti al di là di una “dottrina ambigua” presente in alcuni gruppi. La Nota chiede ai vari vescovi di vigilare sulle esperienze religiose dei singoli e dei gruppi; al tempo stesso, richiamando le norme, chiede di «apprezzare il valore pastorale e a promuovere pure la diffusione di questa proposta spirituale».
La Nota non è solo mossa a pronunciarsi sulla ambiguità del fenomeno ma è preoccupata che si possa utilizzare «inadeguatamente questo fenomeno spirituale».
Credo che sia questo un elemento essenziale di tutta la dichiarazione del Dicastero: attenzione al dato in sé (valutazione dottrinale) ma con la promozione dell’esperienza religiosa (tutela dell’esperienza spirituale).
Una preoccupazione che si potrebbe estendere ad ogni realtà ecclesiale: percezione e utilizzo non adeguato sono gli elementi essenziali su cui, non solo a Medjugorje, bisogna vigilare.
“Falsa percezione” e “utilizzo non adeguato” si possono nascondere anche nelle assemblee domenicali, nelle prassi penitenziali, nelle parole omiletiche, nelle lezioni di teologia, nelle catechesi, durante le trasmissioni televisive o radiofoniche…
Le esperienze vanno guidate, non imposte e non bloccate. Anche per questo credo che sia giusto riprendere le parole di mons. Battaglia che oggi ha tenuto l’omelia in occasione della solennità di San Gennaro (patrono della diocesi di Napoli) e in riferimento al fenomeno della “liquefazione del sangue”. Credo che sia un bello esempio di come guidare la percezione e l’utilizzo adeguato delle devozioni che accompagnano le esperienze religiose.
Don Mimmo ha dichiarato:
«Vi prego: non dobbiamo preoccupiamoci se il sangue di questa reliquia si scioglie o no. Ma dobbiamo preoccuparci se a scorrere tra le nostre strade e nel nostro mondo è il sangue dei diseredati, degli emarginati, degli ultimi, degli innocenti» (Cfr min. 44,55: URL: https://www.youtube.com/watch?v=fE35gcv2I4c&feature=youtu.be ).
Non i “segni soprannaturali” ma “l’esperienza della e nella fede”.
Ai pastori dunque il dovere di vigilare.
Al magistero teologico, se corretto, il dovere di promuovere questa vigilanza.
[1] Dicastero per la Dottrina della Fede, “La Regina della Pace”. Nota circa l’esperienza spirituale legata a Medjugorje. URL: “La Regina della Pace”. Nota circa l’esperienza spirituale legata a Medjugorje (19 settembre 2024) (vatican.va)
[2] URL: https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000626_message-fatima_it.html
il commento al vangelo della domenica
il commento al vangelo della domenica
necessario recuperare spazi di silenzio anche in tempo di vacanze
l’uomo è diventato un’appendice al rumore”
Max Picard
Siamo nel tempo delle vacanze, il tempo che vorremmo dedicare al riposo, ma facilmente dimentichiamo che per riposare occorre soprattutto il silenzio. Nella nostra società, come scrive Max Picard, “l’uomo è diventato un’appendice al rumore”, non conosce quel silenzio di cui ha assolutamente bisogno per ritrovare la propria umanità. Più che mai si deve riscoprire l’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”: impresa certo non semplice se già Eraclito diceva dei propri simili che erano “incapaci di ascoltare e quindi di parlare”. Da allora ci illudiamo di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma in realtà la nostra parola ha perso autorità e forse proprio per la mancanza del silenzio da cui deve essere generata.
Abbiamo bisogno di una pedagogia all’ascolto autentico e alla comprensione di ciò che sentiamo e quindi è innanzitutto necessario ascoltare il silenzio. È significativo che nella tradizione spirituale dell’occidente sia attestato che l’arte oratoria ha per madre il silenzio e per padre la solitudine. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, l’accoglienza non solo delle parole pronunciate ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio che esprime l’autorevolezza di chi prende la parola, è abilitato ad essere il linguaggio dell’amore, accompagna la parola conferendole una grande capacità di penetrazione.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nella nostra giornata: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a invettive o slogan ripetuti inutilmente. Ormai è diventato insopportabile assistere a quello che in teoria dovrebbe essere un “dialogo” o un “confronto” televisivo: prevale l’abitudine di alzare la voce per sopraffare, addirittura per coprire la parola dell’interlocutore. E così il necessario ed elementare ritmo che comprende silenzi alternati alla parola viene stravolto, occupato da parole urlate. E, per chi assiste, il programma che dovrebbe offrire occasioni per pensare, conoscere opinioni e visioni diverse della realtà, diventa un’intollerabile esibizione urlata.
Sì, il silenzio è più che mai necessario e nel tempo delle vacanze può essere più facile che si presentino occasioni per viverlo: in passeggiate nei boschi, sui sentieri delle montagne, o in riva al mare, al mattino o al tramonto. La natura silenziosa ci accompagna a praticare un silenzio che sa ascoltare le voci di ogni creatura e in quei momenti è anche possibile percepire il “non detto” che, come “parola degli altri”, ci risuona nel cuore come un’eco delle nostre relazioni.
So bene che il silenzio, come la solitudine, a chi non lo pratica può fare inizialmente paura e ispirare angoscia, ma occorre dare tempo anche al silenzio di diventare una realtà che possediamo e della quale disponiamo per la nostra umanizzazione.
È certamente cosa triste – e non ne comprendo il motivo – che venga ignorato dalla maggior parte delle persone che oggi ci sono ancora “uomini e donne del silenzio” nelle certose, nelle trappe e negli eremi, esseri umani che vivono in continuità l’esperienza umanissima di ascoltare il silenzio. Incontrando costoro forse capiremmo di più che il silenzio è linguaggio, non è mutismo, ed è relazione, comunione che non conosce barriere.