il commento al vangelo della domenica

IL GIOCO DELL’ACQUA INNAMORATA

il commento i E. Ronchi al angelo ella seconda domenica del tempo ordinario

Gv 2,1-11

 

C’è festa grande, a Cana: il cortile è pieno di gente in quella notte di fiaccole accese, di canti e di balli.

Ci sono Gesù e sua madre e con loro la variopinta compagnia dei giovani seguaci saliti dai villaggi del lago.

L’intero Israele risuona del grido di morenti, schiavi, lebbrosi, e Gesù non interviene, va ad una festa, quasi giocando con dell’acqua e con del vino. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe.   

Deve esserci qualcosa di molto importante se questa è la prima pennellata del quadro della salvezza. Il Vangelo chiama questo il “principe dei segni”: se capiamo Cana, capiamo gran parte del Vangelo.

Giovanni non parla di miracolo. Forse ha paura che la gente corra dietro ai maghi, e Gesù non lo è: i suoi sono segni, frecce che indicano una direzione, un senso ulteriore. Quel giorno Gesù scende nel pozzo profondo, là dove la vita inizia a battere il tempo seguendo il ritmo dell’amore.

A un certo punto della festa finisce il vino, simbolo biblico dell’amore. L’amore è sempre così poco, così a rischio, così raro.

Quante volte ci viene a mancare quel “non so che” di gioia, di passione, di sapore per far navigare questa fragile barca che è il nostro cuore. Mancano forse piccoli perdoni, piccole tensioni da chiarire, piccoli gesti di cura. Manca il buon vino.

Anche la relazione amorosa tra l’umanità e Dio si trascina stancamente, senza più gioia.

Cosa fare? Lo suggerisce Maria: Qualunque cosa vi dica, fatela! Sono le sue ultime parole, poi non parlerà più: Fate il suo Vangelo, tutto, e si riempiranno le anfore.

Di un vino migliore, come assicura il maestro di tavola: Tutti servono il vino buono all’inizio. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora.

A noi pare che questa sia la logica delle cose: l’entropia, la diminuzione, il decadimento progressivo, lo spegnersi del calore.

Il vangelo di Cana ci regala una visione controcorrente.

Non importa quali sono stati gli amori che hanno nutrito la tua esistenza, fecondi o sterili, stabili o lacerati, gloriosi o miseri, o forse entrambe queste cose al tempo stesso.

Quali che siano stati, un giorno Gesù se ne farà carico, anzi se ne è già fatto carico, se solo hai deposto le loro anfore di pietra davanti a Lui.

E li trasformerà in una realtà infinitamente migliore.

Con grande sorpresa mia che vedevo le cose finire e l’amore spegnersi; con grande sorpresa di tutti i commensali: Pensavamo di avere gustato il vino migliore all’inizio, pensavamo di averlo già finito, quello bevuto ieri pensavamo fosse il vino migliore.

E invece no, ancora una volta, per un’ultima volta Gesù ripeterà il miracolo di Cana, trasfigurando ogni nostro amore.

Avrà conservato il vino migliore per dopo, e per i secoli dei secoli. E questa è la speranza grande che accende ogni volta il segno di Cana, il principe dei segni!

una riforma della chiesa a partire dalla liturgia

la Chiesa va riformata con coraggio

di ENZO BIANCHI

Abbiamo seguito tutto il percorso sinodale e, quindi, anche la celebrazione a Roma in due tappe del Sinodo voluto da papa Francesco come innovativo, inizio di una vera riforma, che speriamo sia ripresa nei prossimi anni.

Perché sarà un Sinodo certamente dei vescovi della Chiesa di Dio, ma sarà anche un Sinodo che avrà come soggetto il popolo di Dio sotto la guida dei pastori. Papa Francesco ha avuto coraggio e ha mostrato il suo carisma profetico che lo pone davanti a un gregge che, in buona parte, fatica ancora a seguirlo. Questo spiega perché nell’itinerario sinodale si sono accese attese e speranze che poi il Papa stesso ha dichiarato legittime, ma ancora bisognose di riflessione, di ricerca. E, soprattutto, di maturazione nel popolo che è la Chiesa.

Occorrerà anche affrontare la novità dell’emergenza delle diverse culture presenti tra i cattolici; culture che, di fatto, determinano in modo diverso l’etica, soprattutto ispirata dalla parola di Dio e dalla grande tradizione. Sarà sufficiente la formula dell’ “armonia delle diversità”, o delle “diversità riconciliate” per confermare l’unità certamente plurale, ma unità della fede?

Dopo decenni — i decenni del post-Concilio! – in cui il magistero non osava parlare di riforma della Chiesa, e ricorreva all’espressione renovatio, “rinnovamento”, papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha fatto risuonare questa parola sulle sue labbra senza paura. E l’ha indicata come un’urgenza, convinto che la “riforma” sia una dinamica salutare della vita del cristiano e della vita della Chiesa per tentare di ritornare con fedeltà al Vangelo.

E noi siamo convinti che se la Chiesa non si muove con coraggio nel senso della riforma, sempre più si troverà in una aporìa (l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema), nella quale perderà ogni sapore come il sale della parabola evangelica raccontata da Gesù. Riforma non è rivoluzione continua, non è brama di novità a ogni costo, ma risposta ai segni che vengono dalla storia e che richiedono un modo nuovo di vivere la Chiesa, di predicare il Vangelo, di stare nel mondo.

C’è riforma quando viene affermato radicalmente il primato del Vangelo su tutto; quando si conserva il tesoro prezioso del Vangelo; quando si lasciano cadere le ricchezze non necessarie in nome della carità. Per questa convinzione, in queste pagine della rivista, vorremmo umilmente — accettando di essere incompleti e anche di commettere degli errori nel delineare le forme del futuro —, cercare di riflettere e indicare alcune possibilità di riforma, pronti ad accogliere anche le correzioni da parte dei pastori e da parte di cristiani profetici, dotati di chiaroveggenza evangelica più di noi.

E cominciamo, dunque, con la liturgia che secondo me appare la realtà più ingessata, quasi imbalsamata, sempre meno eloquente e significativa per i credenti di oggi. Purtroppo, la riforma del concilio Vaticano II ha scatenato una reazione fino a produrre un doloroso scisma, che perdura a distanza di sessant’anni. E la Chiesa, come tramortita e spaventata, si è sentita in difficoltà a continuare la riforma. È risuonata a un certo punto una formula beata: “riforma delle riforme”, ma avendo il segno di un ritorno al passato non ha certo giovato.

Regna, dunque, la paura di cambiare qualcosa nel rituale. E — va anche detto — se uno osa farlo, l’autorità interviene in modo pesante… No, la liturgia deve oggi essere “celebrata altrimenti”! Certo, il celebrante deve essere un presbitero serio, preparato liturgicamente, che non innova tanto per innovare, che non si presenta come un attore teatrale, ma che, con discernimento e nella fedeltà al testo prescritto, innova parole e segni là dove sono necessari. L’impressione che molti hanno è che oggi la liturgia interessi poco alle autorità della Chiesa: queste sono preoccupate che si segua e si osservi pedissequamente il rituale prescritto! Viene qui da domandarsi se l’assemblea non desideri una celebrazione davvero più adatta alla sua realtà.

Si ha l’impressione che all’estero siano molti i tentativi di rinnovamento della celebrazione della messa, soprattutto in Belgio e in Francia (penso a La Messe qui prend son temps, presso la chiesa di Saint Ignace, a Parigi, e alle celebrazioni di Gabriel Ringlet in Belgio), mentre in Italia si ha il timore e credo anche la pigrizia mista a una scarsa fiducia nei cambiamenti. La “messa altrimenti” non è un’altra messa, ma è la messa di sempre, nella quale trovano posto alcuni cambiamenti di parole, linguaggi e segni che dicono però sempre la stessa realtà: l’eucaristia, la cena del Signore! E allora oso per una riforma indicare alcuni punti, a cominciare da quelli che, secondo me, sono più necessari.

Innanzitutto, perché non mutare le collette “sulle offerte”, che hanno un linguaggio tipicamente medioevale e abitualmente si rivolgono a Dio in un atteggiamento e con parole che non sono quelle dei figli ma dei servi dei poteri mondani? E così per molte collette del “dopo la comunione”, il linguaggio eucologico del Messale è troppo segnato da venerabili e antiche origini, poco comprensibile per i partecipanti all’eucaristia.

Anche i prefazi possono essere formulati in modo meno dogmatico e più esistenziale. Non è un caso che nei sussidi per la Messa siano presenti prefazi che sono ricchi di messaggio e nel contempo collocano le preghiere eucaristiche nel contesto in cui l’assemblea vive.

Ma si abbia anche il coraggio di mutare alcune espressioni delle anafore, o preghiere eucaristiche: queste non sono intoccabili, non sono parola di Dio, sono state donate alla Chiesa in tempi e culture differenti. Diverse sono le espressioni che insistono in modo ossessivo sul sacrificio (nel Messale italiano addirittura: «… in sacrificio per noi» appare nelle parole dell’Istituzione, non presenti nel testo originale latino!). E veramente faticose sono le espressioni nelle quali si chiede a Dio: «Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione» (cf Preghiera eucaristica III). Inoltre, non ci si rivolge a Dio come alla Maestà, dopo averlo invocato come Padre!

Ma sarebbe anche venuto il tempo di rendere la celebrazione eucaristica non più un faccia a faccia, come avviene adesso, tra presbitero presidente dell’assemblea e i fedeli partecipanti. Che senso ha che il presbitero, a differenza dei partecipanti alla messa, non sia rivolto anche lui verso l’altare, verso l’abside, come tutti? Questo faccia a faccia stanca e fa del presbitero un protagonista, non colui che guida l’assemblea.

Questi, quando entra per tutti i riti iniziali — atto penitenziale, inno del giorno, collette… — dovrebbe stare o in testa o in fondo all’assemblea, e comunque come l’assemblea rivolto verso l’abside (altare, croce), e soltanto dopo salire al seggio per ascoltare le letture. Sale all’altare e sta rivolto verso l’assemblea dall’offertorio alla comunione ma poi scende, e già la preghiera “dopo la comunione” la recita rivolto anche lui verso l’abside.

A ragione i tradizionalisti dicono versus Dominicum, “verso il Signore”. Questa struttura è stata prassi liturgica della comunità di Bose fin dal 1971, ottenendo l’accettazione della gente che vede tutti i membri del popolo di Dio che quando pregano sono rivolti verso il Signore.

Occorre un vero laboratorio che ricerchi, studi e produca testi. E che dia inizio a una riforma liturgica, senza paura. Altrimenti, presto non ci saranno più molti frequentatori della messa: anche i più vecchi, tridentini di formazione come me, ne sentono il bisogno!

l’attualità del Cantico delle Creature di s. Francesco che compie ottocento anni

Il Cantico delle Creature ha 800 anni, testo moderno che risponde alla domanda: chi è l’Uomo?

Ha 800 anni ma il peso di tutti questi secoli non si avverte. Il Cantico delle Creature, primo poema in lingua volgare i cui versi sono composti sul modello dei salmi biblici di Davide, resta inossidabile, di una attualità inusitata, perché dotato di una dimensione profonda, quasi vertiginosa, capace di dare un senso alla più grande e importante domanda esistente: chi è davvero l’Uomo?

San Francesco quando compone il Cantico (detto anche Cantico di Frate Sole) sente che è alla fine. Inizia ad elaborarlo nell’ultimo biennio della sua vita (1225-1226), sente ormai che le sue forze stanno venendo meno, si trova in una condizione fisica e personale di totale sofferenza. È stigmatizzato, quasi cieco, vive al buio quasi da eremita a San Damiano in una celletta fatta di stuoie, piena di topi che lo tormentavano di giorno e di notte e, secondo le cronache, lo disturbavano anche durante la preghiera. In questo stato lui immagina il potentissimo legame tra tutte le cose viventi, la natura, il cosmo. La rete delle reti. “Laudato sì, mi Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l’hai formate clarite preziose e belle”.

Francesco, il “Piccolino”, come si faceva chiamare dai suoi compagni, non è di certo come ce lo ha trasmesso Franco Zeffirelli nel bellissimo Fratello Sole Sorella Luna, con l’aitante Graham Faulkner che corre vigoroso nei campi di papaveri, proiettando di questo santo medievale un’icona romantica e un po’ patinata. In realtà Francesco è un uomo assai sofferto, tenacemente attaccato al convincimento di dover lasciare ai suoi fratelli una visione mistica e profetica capace di trasmettere ai suoi contemporanei il collegamento tra il Creatore e le creature, anche le più piccine.

ERESIA

E non è proprio un dettaglio, visto che in quel periodo il mondo cristiano è pesantemente segnato dall’eresia catara che spopola e sta portando avanti l’idea estremista di una natura maligna, dove tutto è in preda al demonio.

Francesco oltre a lasciare la Regola francescana e il suo testamento affida ai suoi seguaci anche questa poesia immortale, il Cantico, impegnandoli moralmente a cantarlo in ogni dove e a diffonderlo urbi et orbi.

CONTRAPPOSIZIONE

«Laudato sì mio Signore per sor’Acqua, la quale è multo utile, et humile e preziosa e casta. Laudato sì mio Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la notte: et ello è bello e iocundo e robusto e forte». L’italiano dei versi è ovviamente nascente. L’autore ricorre volutamente al volgare proprio per essere in contrapposizione con il latino che resta la lingua utilizzata dai dotti e delle élite. Lui, invece, vuole seguire un filo conduttore immediato e semplice, privo di intermediari, come se avesse voluto rimarcare l’urgenza di diramare con più efficacia il messaggio della fratellanza con il Tutto. Il Cantico esprime ammirazione per la bellezza, incoraggia i rapporti pacifici, incalza il perdono ma pure l’accettazione della sofferenza che resta un terreno pieno di mistero.

LA MORTE

L’ideologia francescana delinea chiaramente il superamento della contrapposizione medioevale tra il mondo terreno inteso come regno del male e la realtà ultraterrena. Francesco riconosceva il segno dell’amore divino in tutti gli aspetti della natura (il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la terra), e anche nelle realtà piu umili e persino dolorose (per esempio la morte).

In quel periodo l’amore per la natura non era di certo quello che coltiviamo oggi a seguito della crisi climatica, poiché veniva vista come una realtà matrigna e ostile: bastava davvero poco per distruggere il lavoro dei campi e gettare nella miseria intere comunità. Francesco però riesce ad introdurre una diversa prospettiva.

«Altissimu, onnipotente, bon Signore» i tre titoli che aprono il poema anticipano il mistero di Dio creatore che Francesco contempla e predica. Di recente padre Guidalberto Bormolini e il poeta David Rondoni hanno scritto a quattro mani un libro intitolato Vivere il Cantico delle Creature in cui sottolineano che spiritualità cosmica e la spiritualità cristiana non sono assolutamente in contraddizione e che Francesco non fa altro che riprendere il filo tracciato dai Padri della Chiesa, i quali consideravano l’unità del mondo come un tema essenziale.

AMORE

Persino il tema della morte («Laudato sì mio Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare») appare come un accompagnamento alla fine naturale poiché inserita dentro a un Tutto e verso un’altra dimensione.

«È però anche un canto d’amore, perché amore è immortalità, o meglio è sostanza divina. Ben a ragione il Cantico delle Creature si conclude chiamando la morte sorella, perché non ci è nemica. La morte non è all’opposto della vita, ma è la porta della vita stessa» ha sottolineato padre Bormolini. Certamente ad 800 anni di distanza il messaggio del Cantico resta inalterato e moderno dicendo che l’intero cosmo è dentro di noi, e che se sperimentiamo la nostra spiritualità abbiamo accesso ad esperienze che ci collegano al divino, insegnandoci ad elevarci per protenderci verso la visione cristiana di salvezza. Dopo il centenario del primo presepe a Greccio e delle Sacre Stimmate a La Verna le famiglie francescane, unitamente alla diocesi e alla città di Assisi hanno avviato le celebrazioni del centenario del Cantico, il primo appuntamento si aprirà l’11 gennaio e per tutto l’anno sono in programma altri eventi commemorativi.

Assisi, via all’ottavo centenario del Cantico delle Creature

11 GEN – Si è svolta ad Assisi la solenne apertura dell’ottavo centenario della composizione del Cantico delle Creature di San Francesco, svoltasi tra il Santuario San Damiano e il Santuario della Spogliazione, per poi concludersi sulla tomba del Santo nella Basilica di San Francesco.   All’evento hanno partecipato tutti i rappresentanti della Conferenza della Famiglia francescana e monsignor Domenico Sorrentino, vescovo delle diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e di Foligno, oltre ai rappresentanti dell’amministrazione comunale che ha sostenuto l’iniziativa.

Fra Mauro Botti, guardiano del Santuario di San Damiano, ha fatto gli onori di casa.

“Il messaggio di Francesco ha superato i confini della Famiglia francescana – ha dichiarato fra Massimo Fusarelli, ministro generale dell’Ordine dei frati minori – e dopo 800 anni continua a ispirare molti uomini e donne di buona volontà, sia che lo leggano come poesia, come lode cristiana o come preghiera ecumenica o interreligiosa”.

Fra Francesco Piloni, ministro provinciale di Umbria e Sardegna, ha dato l’avvio ufficiale al centenario, nella sala del Cantico, adiacente al giardino nei pressi del quale era la celluzza di stuoie, che ospitò il Santo di Assisi: “Nonostante la cecità che segnava gli ultimi anni della sua vita – ha sottolineato – il Cantico ha lo sguardo di fede profonda di chi riconosce la bellezza del creato come riflesso della perfezione divina”.

Dopo la proclamazione del Cantico, a turno i ministri generali ne hanno commentato i passi.

Nel Santuario della Spogliazione fra Simone Calvarese, ministro provinciale dei Frati minori cappuccini del centro Italia ha presieduto la seconda parte della celebrazione. Qui si è voluto ricordare che Francesco, nella sua danza di lode, fa entrare l’uomo in altri due momenti dell’esistenza: il perdono e la morte.

Il vescovo Sorrentino ha concluso la celebrazione ricordando come le due ultime strofe del Cantico siano state concepite in Episcopio. “Il mio desiderio – ha detto – è che, per tutta la comunità ecclesiale e di rimbalzo per quella universale, questo inno, anche da questo Santuario, possa diventare il Cantico della pace nel mondo e tutti lo possano accogliere e cantare ogni giorno”. Nella chiesa Inferiore della Basilica è stata esposta la copia più antica del Cantico, custodita nella Biblioteca del Sacro convento. 

il commento al vangelo della domenica

E IL CIELO FIORI’

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica del Battesimo dii Gesù

Lc 3,15-16.21-22

Il popolo era in attesa, sognava il messia liberatore, e si ritrova un uomo ai margini del deserto, prosciugato dal sole e dai digiuni, solo voce nel vento.

Anche noi siamo in attesa, ma il nostro è un tempo in cui i sogni ci sono stati rubati. Giovanni invece li aveva riaccesi, e la gente sciamava da Gerusalemme al Giordano. Anche oggi non sono i profeti che mancano, ciò che manca è l’ascolto.

Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente, per dire: no, non sono io. “Viene dopo di me colui che è più forte di me”. Di quale forza? Lui è il più forte perché usa parole di vita, perché ha un fuoco che parla al cuore e così lo seduce, come profetizzava Osea.  

Il vangelo di oggi ci incalza: Io sono solo acqua, ma deve arrivare molto di più, un fuoco nel quale saremo immersi. Giovanni che sogna aie bruciate, vento che spazza la pula, incontra un Dio che non conosceva: Gesù, che non è solo buono. È esclusivamente buono, che in fila con gli altri scende al fiume.

Luca non racconta il battesimo, ma più precisamente ciò che accade dopo. “Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì!” Conseguenza meravigliosa, effetto della preghiera: tu preghi e Dio apre il cielo.

La risposta alla preghiera non sono le grazie che noi chiediamo, ma lo sfondamento del cielo chiuso, una feritoia liquida d’azzurro. E fiorisce un azzurro che ristora, un azzurro che non mente: contempli la tua vita dalle stelle, la interpreti dall’alto. 

Infatti dal cielo scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento.

FIGLIO, forse la più bella e la più forte tra le parole umane, che illumina un legame per sempre, la radice, la cura, la gioia, la tenerezza generativa, l’amore che non cede e non si volta indietro.

‘Amato’ è la seconda parola. Prima che tu risponda, che tu dica sì o no, il tuo nome per Dio è “amato”. Senza clausole e senza condizioni. Che io sia amato non dipende da me, per fortuna, dipende da Lui, dal suo amore asimmetrico e incondizionato.

‘Mio compiacimento’ è la terza parola. Qui possiamo sbirciare dentro il cuore di Dio: c’è in lui un brivido di piacere. Un Dio che dice è bello che tu ci sia! Tu rendi il mondo più bello, per il solo fatto di esistere. Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo padre.

E allora smettiamola di sentirci sempre sotto esame. Non siamo sotto osservazione, ma sotto abbraccio. Non siamo sotto indagine, ma sotto un volo di parole bellissime, sotto un abbraccio infinito.

una strage di bambini a Gaza

 

a Gaza è in corso una strage di bambini, un precedente pericoloso per
tutta l’umanità

di Guido Rampoldi
in “Domani” del 8 gennaio 2025

La denuncia all’Onu della dottoressa statunitense Tanya Haj-Hassan, medico di terapia intensiva
pediatrica, per alcuni mesi volontaria nell’ospedale di Gaza: «Cosa resta da dire per convincere il
mondo a reagire?»
Secondo fonti militari israeliani citate dal Jerusalem Post, a Gaza un numero rilevante di miliziani
palestinesi sono minorenni privi di un reale addestramento: Hamas sta diventando un esercito di
ragazzini. Grazie ai nuovi ingressi avrebbe in parte ovviato alle perdite subite e oggi, sommata
all’organizzazione gemellata, la Jihad, conterebbe 12mila effettivi (20-23mila secondo le fonti
interpellate dalla tv israeliana Channel 12). Piccoli gruppi continuano a operare anche nel nord di
Gaza, benché quel territorio sia stato spopolato dall’Idf con operazioni che israeliani autorevoli – un
ex premier, un ex capo di stato maggiore, il quotidiano Haretz – descrivano esplicitamente come
«pulizia etnica» (termine, insieme ad “apartheid israeliano”, tuttora tabù per il timoroso
opinionismo italiano).
Se stiamo al proposito dichiarato dal governo Netanyahu – distruggere Hamas – la guerra è fallita.
La brutalità dell’intervento ha prodotto per reazione stuoli di guerrieri in erba decisi a vendicare i
lutti e le sofferenze di cui sono state vittime e testimoni. Per intuirlo sono perfino superflui i report
sugli “acts of genocide” commessi dall’Idf (l’ultimo, prodotto da Amnesty, è stato ripreso con
evidenza da New York Times e Washington Post; scarsa o nulla l’eco sulla stampa italiana).
La strage dei bambini
È sufficiente la testimonianza resa alle Nazioni Unite dalla statunitense Tanya Haj-Hassan, medico
di terapia intensiva pediatrica, per alcuni mesi volontaria nell’ospedale di Gaza. Il suo racconto vale
un centinaio di editoriali sul tema.
«Come uno dei pochi osservatori internazionali a cui è stato permesso di entrare a Gaza, posso
dirvi: passate solo 5 minuti in un ospedale e diventerà dolorosamente chiaro che i palestinesi
vengono massacrati intenzionalmente, affamati e spogliati di tutto il necessario per vivere (…) Intere
famiglie sono state cancellate. I nostri colleghi del settore sanitario e del settore umanitario vengono
uccisi in numero da record. Abbiamo curato innumerevoli bambini che hanno perso intere famiglie,
un fenomeno così frequente a Gaza che è stato dato loro un nome specifico: “Bambino ferito senza
famiglia sopravvissuta”. Abbiamo tenuto le mani dei bambini mentre esalavano il loro ultimo
respiro, ed eravamo l’unica persona, a loro sconosciuta, che potesse tentare di confortarli».
Ospedali nel mirino
Significativa è anche la premessa che Tanya Haj-Hassan ha anteposto alla sua deposizione: «Prima
di condividere ciò di cui sono stata testimone, voglio citare il mio collega dottor Mohammed
Ghanim, un giovane medico del pronto soccorso che è stato ucciso un mese fa da un drone
israeliano (…): “Ho evitato di diffondere storie tragiche per due motivi. La prima: so che non serve
a niente. La seconda: non riesco a trovare le parole per descrivere quel che accade”. Provo la stessa
sensazione. Cosa resta da dire per convincere il mondo a reagire? (…) Non ci sono parole che
trasmettano adeguatamente quanto perversa sia questa aggressione. Ricordo Mohammed, 5 anni,
con una ferita alla testa, probabilmente un colpo d’arma da fuoco, che è morto al pronto soccorso
perché non c’erano letti in terapia intensiva. (…) O il tredicenne Amer che aveva subito un grave
trauma al collo dopo che la sua casa è stata bombardata e continuava a chiamare sua sorella. Non
l’aveva riconosciuta nella ragazza che era nel letto accanto a lui, le ustioni l’avevano resa
irriconoscibile. Dopo la sua morte Amer restò l’unico membro sopravvissuto della sua famiglia.
Ricordo la sua voce dolce che mi sussurrava all’orecchio: “Vorrei morire con loro. Tutti quelli che
amo sono in paradiso. Non voglio più essere qui”. (…) Tutto ciò che è necessario per sostenere la
vita umana è sotto attacco a Gaza, e lo è da molto tempo: acqua, cibo, riparo, istruzione, assistenza
sanitaria, energia, fognature e servizi igienico-sanitari. Tutte le università di Gaza sono state
distrutte, comprese le uniche due scuole di medicina in cui insegnavo (…).
Immaginate questi bambini, le madri, i padri che cercano disperatamente cure mediche e speranza
in uno dei pochi ospedali rimasti a Gaza. Poi si spegne l’elettricità. L’ingresso dell’ospedale viene
colpito da un missile. L’ospedale ha ricevuto (dagli israeliani) l’ordine di evacuazione. È
apocalittico. Quello stesso ospedale – dove ho assistito a ciascuna di queste orribili tragedie – è
stato preso di mira più volte negli ultimi 14 mesi, così come praticamente ogni altro ospedale di
Gaza. Gli ospedali e gli operatori sanitari sono stati sistematicamente presi di mira dall’esercito
israeliano fin dal primo giorno. Uccisi, imprigionati, torturati. Ho incontrato personalmente
operatori sanitari che hanno descritto torture fisiche, psicologiche e sessuali inflitte dall’esercito e
dalle guardie carcerarie israeliane. Una delle mie infermiere, Saeed, è stata rapita e detenuta per 53
giorni. Ha descritto le forme più orribili di tortura. (…).
Il dottor Ghanim, che ho citato prima, ha scritto in aprile, 6 mesi prima di essere ucciso:
“(…)Eravamo 13 medici al pronto soccorso, tutti siamo stati torturati a diversi livelli e 6 sono stati
feriti o imprigionati. Sto parlando solo del dipartimento di cui ero responsabile e non sto parlando
dei medici di altri dipartimenti che sono stati assassinati dopo essere stati arrestati o dei medici la
cui sorte è ancora sconosciuta”. Oltre mille operatori sanitari sono stati uccisi a Gaza. Altre
centinaia sono stati detenuti in Israele. Almeno quattro sono stati uccisi durante la prigionia (…)
Molti sono stati uccisi mentre cercavano di salvare i feriti in quelli che sono tristemente noti come
gli attacchi israeliani doppi e tripli – un posto viene colpito, poi colpito di nuovo una seconda e una
terza volta quando i soccorritori sono arrivati per soccorrere le vittime. (…)».
Gaza, un precedente per l’umanità
Per minimizzare questa testimonianza ci vengono offerti vari espedienti. Innanzitutto si dirà che la
dottoressa Tanya Haj-Hassan, avendo un cognome arabo, dev’essere certamente un’antisemita,
accusa però svuotata dall’uso grossolano e meccanico che ne fanno anche in Italia vari esponenti
della multiforme destra ebraica: se tutti sono in odore di antisemitismo (perfino il papa, per aver
espresso l’auspicio che la giustizia internazionale indaghi quel che Israele combina a Gaza) non lo è
nessuno, può concludere la giudeofobia autentica. Un metodo meno ottuso consiste nel buttarla
sulla visione prospettica.
Si dirà: se l’Asse del Male minaccia la nostra civiltà (giudaico-cristiana, s’intende) che altro sono se
non un dettaglio i tormenti inflitti alla popolazione di Gaza? E poi quel conflitto non è diverso da
qualunque altro conflitto, dunque perché commuoversi per i bambini di Gaza? È la guerra, signora
mia, cosa si aspettava? Rifletta, quale esercito non ha commesso crimini di guerra?
In realtà qui si parla soprattutto di crimini contro l’umanità, infamie piuttosto rare in questo secolo,
tali da autorizzare la spaventosa profezia che ci consegna Tanya Haj-Hassan: «Il precedente che è
stato stabilito a Gaza si diffonderà ovunque in tutto il mondo. Segna la fine dello stato di diritto.
Come ha detto un mio collega, un volontario: “Quando ero a Gaza, mi sembrava di assistere al
preludio della fine dell’umanità”. Se la solidarietà con i tuoi simili non è una ragione sufficiente per
agire, pensa a come questo si ripercuoterà su di te. La domanda con cui vi lascio è: cosa stiamo
rischiando noi tutti?».

la condizione pericolosa in cui versa il mondo – davvero una guerra mondiale a pezzi

il mondo è in fiamme

Intervista a Enzo Bianchi a cura di Alex Corlazzoli
in “il Fatto Quotidiano” del 4 gennaio 2025

ENZO BIANCHI

Ha trascorso il Natale con i suoi fratelli, le sue sorelle e con alcuni ospiti cucinando per
tutti specialità piemontesi come il bunet, un dolce a base di uova, zucchero, latte, cacao, amaretti
secchi e liquore. Si è dedicato a riflettere, a pensare, a studiare raccolto nella sua cella alla nuova
fraternità di Casa della Madia, ad Albiano d’Ivrea, a pochi chilometri dalla comunità di Bose che
ha fondato nel dicembre del 1965 per poi essere costretto ad allontanarsi nel 2020 a causa di
un decreto papale mai compreso fino in fondo da molti.
Quando Enzo Bianchi parla – nonostante gli 82 anni da compiere il 3 marzo – ha lo sguardo di un
bambino e declina i verbi al futuro come se avesse davanti una vita intera. La sua è un’attenzione
costante all’attualità, alla politica, alle crisi internazionali, alle guerre. Con l’arrivo del nuovo
anno ilfattoquotidiano.it lo ha incontrato per fare con lui un quadro della situazione politico-sociale
e per parlare dell’Anno santo cui ha dedicato la sua ultima fatica editoriale: Lessico del
Giubileo (edizioni Edb).

Padre Bianchi, il Giubileo che ha preso il via in questi giorni con l’apertura della Porta Santa
non rischia di apparire oggi come un evento anacronistico, fuori dai tempi per chi è lontano
dalla Chiesa o persino una manifestazione romanocentrica?

Indubbiamente il Giubileo presenta dei problemi. Il più grande è quello ecumenico perché essendo
l’anno in cui si ricorda il concilio di Nicea, dunque una professione di fede di tutta la Chiesa, il
Giubileo torna a dividerci con i cristiani della riforma perché ancora una volta si parla di
indulgenze, una questione per la quale sembrava ci fosse stato un accordo tra Chiesa e riformati.
Non parliamo degli ortodossi che si sentono estranei all’anno giubilare, non partecipano.
Il giubileo solo cattolico è nato nel 1300 dopo la separazione tra Oriente e Occidente perché il
volto di Dio era quello di un giudice severo mentre la gente invocava un Dio misericordioso.
Fu San Francesco il primo, con la perdonanza, a instaurare qualcosa di questo genere.
Successivamente Papa Celestino V con la perdonanza dell’Aquila proclamò di nuovo un anno di
perdono per tutti. Una volta compreso che il Giubileo aveva un grande successo tra la gente, il
pontefice Bonifacio VIII lo organizzò perché portava soldi a Roma, non certo per
un rinnovamento della Chiesa. E da allora è così.

E oggi che valore ha o può avere l’Anno Santo?

Il Giubileo che viviamo non sembra avere alcuna connessione con quello biblico mai proclamato
dagli Ebrei: i debiti non vengono rimessi, la condivisione dei beni non c’è, la libertà ai
prigionieri non è concessa. Che Giubileo è? Solo spirituale? A forza di spiritualità annulliamo il
Vangelo. Credo che sarà un gran carrozzone di pellegrinaggi a Roma ma non si risolverà nulla.
Qualche giorno fa per gli 88 anni di Papa Francesco ha scritto su “X”: “E’ un vegliardo più
che un vecchio che veglia sulla Chiesa guidando un gregge che fa fatica a seguirlo. Ma lui non
lo abbandona e continua da profeta a camminare davanti cercando le pecore che fuori dal
gregge rischiano di perdersi”.

Chi è che non va dietro a questo pontefice?

La maggior parte non lo segue. Una parte non è contenta di quello che lui vede come cammino
della Chiesa, soprattutto là dove parla dei poveri, degli scarti, dei peccatori: gli uomini religiosi
non lo comprendono. Non lo capiscono nemmeno quelli che lo scimmiottano, tanti preti di strada
sono diventati star.

Il 2025 inizierà con l’insediamento del presidente eletto Donald Trump alla Casa Bianca. È
preoccupato?

No, sono convinto che il presidente degli Stati Uniti non abbia alcuna soggettività di potere. Decide
sotto dettatura dei grandi poteri dell’America: i fabbricatori di armi, i leader del settore energetico.
Che ci fosse Biden o che vi sia Trump saranno comunque gli altri a decidere se finire una guerra,
se “trasportare” democrazia come spesso hanno proclamato occupando in realtà zone del mondo.
Mi preoccupa la situazione internazionale, questo scontro da terza guerra mondiale: il pianeta sta
andando in fiamme.
Poi c’è il Medio Oriente: la situazione a Gaza, in Siria, in Libano, in Egitto, in Iran dove
hanno sequestrato la giornalista Cecilia Sala.
Gli Stati Uniti pur di avere un piede in quella terra causano tutto questo tramite Israele. La guerra
messa in atto è fatta a nome degli Stati Uniti che vogliono avere un piede in questa zona dove c’è
una parte cospicua del petrolio.

Veniamo all’Italia. In questi giorni è stata approvata la manovra di bilancio. E’ un governo
che dimentica i più poveri o che va davvero incontro alle esigenze della gente?

La realtà è una politica che deve assolutamente compiacere la Chiesa con le sue richieste a favore
della natalità e della famiglia ma manca l’occhio della giustizia e dell’uguaglianza.
Oltre a essere un monaco lei è un uomo “da palco”, capace di parlare a centinaia di persone.

Si parla spesso della capacità di parlare agli italiani della premier Giorgia Meloni. Che ne
pensa?

E’ vero, comunica bene all’italiano medio e volgare che ha bisogno di qualcosa di gridato e di
forte, nemmeno pensato. Pur di non pensare, gli slogan e le dichiarazioni in pompa magna
colpiscono.
Se le dico il nome di Roberto Vannacci la fa arrabbiare, indignare o sorridere?
Mi fa pietà. Mi sembra che sia uno di quei residui che purtroppo ci sono ovunque di una volgarità
fascista che permane anche da noi.

Così anche Matteo Salvini?

No, è uno che manca proprio dei connotati di cultura che invece dovrebbe avere un ministro di
questo Paese.

Ma a sinistra non c’è nulla o lei vede qualcosa che possa dare speranza?

C’è poco. Continuano ad arrabattarsi gli uni contro gli altri senza mai avere una visione che non sia
troppo personalistica e soggettiva. La sinistra è malata di un protagonismo narcisistico…

E se Enzo Bianchi dovesse votare domani quindi che farebbe?

Non andrei al seggio.
Tre auguri a chi leggerà questa intervista: un viaggio da fare nel nuovo anno; un libro da
leggere, un film da non perdere nel 2025.
Auguro ai più di andare a Istanbul, capirebbero molte cose del Medio Oriente e cosa si sta
fabbricando in questo impero ottomano che vuole sorgere come una stella. Il libro che consiglio è Il
discepolo che Gesù amava di Giulio Busi. Infine spererei che la gente vedesse se non l’ha ancora
fatto Dio ha bisogno degli uomini, diretto da Jean Delannoy, tratto dal romanzo
di Henri Queffélec

il comento al vangelo della domenica

E LA TENEREZZA ERA DIO

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della  II domenica dopo Natale

Giovanni comincia il Vangelo con un canto che ci chiama a volare alto, un volo d’aquila che proietta Gesù verso i confini del tempo.

In principio, bereshit, prima parola della Bibbia. Ma poi il volo d’aquila plana fra le tende dell’accampamento umano: E venne ad abitare, letteralmente “piantò la sua tenda” in mezzo a noi.

Poi Giovanni apre di nuovo le ali e vola verso l’origine, con parole assolute:

Tutto è stato fatto per mezzo di lui. Non solo gli umani, ma il filo d’erba e la pietra e il canarino giallo, tutto viene dalle sue mani. «Nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno e di vita la pietra si riveste» (G. Vannucci).

La creazione è un atto d’amore sussurrato. Creatore e creatura si sono abbracciati e, almeno in quel bambino, uomo e Dio sono una cosa sola. Almeno a Betlemme.

Questo ci assicura che un’onda amorosa viene a battere sulle rive della nostra esistenza, che c’è una vita più grande e più amante di noi, alla quale attingere.

Cristo non è venuto a portarci una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, pulsante di desiderio. Sono venuto perché abbiate la vita, in pienezza (Gv 10,10).

Gesù non ha compiuto un solo miracolo per punire o intimidire qualcuno. I suoi sono sempre segni che guariscono, accrescono, sfamano, fanno fiorire la vita in tutte le sue forme; il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo. E in noi, il suo volto.

“Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo”, nessuno escluso. “La luce splende nelle tenebre, ma esse non l’hanno vinta”. Ripetiamolo a noi e agli altri, in questo mondo duro: le tenebre non vincono. Mai.

“Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto”. Dio non si merita, si accoglie. Facendogli spazio in te, come una donna fa spazio al figlio piccolo che le cresce in grembo.

Dopo il suo, è ora tempo del mio Natale: Cristo nasce perché io nasca, nuovo e diverso. Sta a noi camminare e cercare dietro una stella, come i Magi. E anche ringraziare chi ci ha aiutato a viaggiare verso Dio, chi è stato per noi una stella: forse un libro, un prete, un amico, una mamma.

“E la vita era la luce”. Cerchi luce? Ama la vita, abbine cura, falla fiorire. Amala, con i suoi turbini e le sue tempeste ma anche con il suo sole e i suoi fiori appena nati, in tutte le Betlemme del mondo.

Amala! È la tenda del Verbo, il santuario che sta in mezzo a noi.

il commento al vangelo della domenica

INDISSOLUBILE MA NON INFRANGIBILE
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica dopo Natale della Santa Famiglia
Lc 2, 41-52
Festa difficile, questa.
Perché oggi la famiglia sta male, perfino la sua definizione è in crisi: tradizionale, allargata, monoparentale, plurale, di fatto, biologica, affidataria.
L’ Amoris Laetitia di Francesco mi viene incontro, e mi sorprende perchè incomincia non cercando il fondamento del matrimonio cristiano, ma con un semplice racconto: ​
Fin dall’inizio la Bibbia è popolata di storie d’amore complicato, con la famiglia di Adamo ed Eva e il suo carico di violenza, ma anche con la vita che, caparbia, continua.
Un legame ideale c’è, ma le nostre storie non lo sono; infatti
il matrimonio è indissolubile, ma non infrangibile! Alcune volte fallisce, si spezza e a terra rimangono solo briciole taglienti.
Il Vangelo oggi ci ricorda le fatiche dell’amore. Racconta la storia di un adolescente difficile, di due genitori che non capiscono che cosa ha in testa. Ma ecco tre spiragli:
Il primo: tuo padre e io ti cercavamo, insieme. Questa parola è sempre più rara nelle nostre case, dove spesso neppure a tavola si sta insieme.
Secondo: parlarsi. Di fronte ai genitori che domandano c’è un figlio che ascolta e risponde in modo duro, ma parla. Impegno primario: far viaggiare la parola, comunicare.
Se ci sono cose difficili da dire, a non parlarne lo diventano ancora di più.
Gesù sta al dialogo perché i suoi genitori ci sono e si vogliono bene, e sono queste due sole cose a importare ai figli.
Sempre.
Terzo: sconfinare oltre gli affetti di casa.
Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?
I figli non sono nostri, appartengono alla loro vocazione, alla loro idea di futuro che nemmeno in sogno potremo visitare (Gibran).
Un figlio non deve strutturare la sua vita in funzione del cortile di casa. È come fermare la ruota della creazione. Gesù lo dice chiaro. L’ho imparato da voi: tu mamma che ascolti il mormorio degli angeli, tu padre che parti e poi torni, fidandoti di un sogno.
Una quarta lezione: Ma essi non compresero…
I genitori non hanno i figli che avevano immaginato, ma neppure i figli hanno i genitori che hanno sempre sognato.
Scesero insieme a Nazaret. Si riparte, nonostante tutto.
Sono santi, sono profeti, sono il top del paese, eppure, come noi, non si capiscono tra loro.
Si può crescere in bontà e in saggezza anche legati ai perché inquieti di mio figlio.
Si può crescere in virtù e grazia anche sottomessi al dolore di non capire e di non essere capiti.
Non siamo sempre comprensibili per l’altro, ma sempre abbracciabili!
Ecco perché al tempio Dio preferisce la casa. E’ lì che abbiamo imparato il vero nome dell’amore, primo e vero catechismo.

il commento al vangelo della domenica

 «benedetta fra le donne»

la tua libertà è decisione-adesione totale a Dio, al bene. Maria, essendo la piena di grazia, è la pienezza della libertà

 di Oreste Benzi

 

il commento al vangelo della IV domenica d’Avvento – Anno C:  grazie al commento di don Oreste Benzi

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». 

 Luca (Lc 1, 39-45)

«Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». Maria è beata perché è liberamente e consapevolmente nel progetto di Dio, infatti aveva detto all’angelo: «Ecco, sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola».
Tu dici: «Io voglio essere me stesso; sono libero». Ma che cos’è questo «te stesso»? Nel profondo del tuo essere tu desideri essere verità, ma del tutto, tu vuoi essere amore del tutto. Potrei continuare a lungo, ma posso riassumere tutti i tuoi desideri in uno: vorresti essere tutto bene senza alcun male e vorresti vedere Dio. Hai la capacità di fare l’opposto di ciò che desideri, ma senti che non è la tua vita. Il tuo vero io è l’altro, il positivo. Allora quando fai il male sei volutamente schiavo! Non c’è scampo. La tua libertà è decisione-adesione totale a Dio, al bene. Maria, essendo la piena di grazia, è la pienezza della libertà.
Lavora interiormente per convertirti al tuo vero essere te stesso, che è quello che Dio ha pensato per te. L’obbedienza è la garanzia della tua libertà e ti toglie dalla solitudine.

la via della violenza comporta l’estinzione della civiltà umana

stipare violenza riporta alla clava

Ammassare violenza riporta alla clava come strumento di regolazione degli interessi confliggenti. Comporta l’estinzione della civiltà umana. L’apocalissi. Se è quello che si vuole, la via imboccata è quella giusta.

di Rosario Aitala
in “Avvenire” del 15 dicembre 2024

Scrive Carl von Clausewitz che «la guerra è un atto di forza all’impiego della quale non esistono
limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che
logicamente deve condurre all’estremo». Il generale prussiano scopre la formula dell’apocalisse
nella «tendenza all’estremo» della violenza bellica che la politica è incapace di contenere. Intuisce
la spaventosa irrazionalità delle guerre, scontri parossistici reciprocamente incrementali che
segnano il corso della storia. Colto d’improvviso dalla morte, non completa il suo trattato Sulla
guerra, pubblicato postumo dal 1832 al 1837. Di recente, Lucio Caracciolo ne ha riportato alla luce
il pensiero per descrivere i conflitti attuali, senza scopo né termine.
Rileggiamo la formula «i belligeranti si impongono legge mutualmente». Già nell’antichità e in
maniera incrementale, con un acme alla metà del Novecento, gli Stati si sono imposti legge
reciprocamente in altro senso. Non per rilanciare all’infinito la violenza ma per regolare e per
contenere il ricorso alla guerra e le modalità e mezzi con cui possono condursi le ostilità.
Nel 1859 Jean Henri Dunant, banchiere ginevrino, si trova nei pressi di Solferino dove si sono
scontrate le truppe austriaco- venete e franco-sarde, con ventitremila vittime. Scosso dalle
sofferenze dei feriti lasciati a perire sul campo di battaglia si dedica a cercare «spazi di civiltà nei
contesti disumanizzanti della guerra», parole del presidente Mattarella. Scrive “Un ricordo di
Solferino” e avvia il progetto del Comitato internazionale della Croce Rossa che nasce cinque anni
più tardi con la Convenzione di Ginevra sul miglioramento delle condizioni dei feriti in battaglia.
Sarà l’osservazione della mostruosità dei conflitti mondiali a spronare la formazione del diritto
internazionale dei conflitti armati o diritto umanitario.
«Anche nella guerra c’è una moralità da custodire». Così papa Francesco ha spiegato il senso del
diritto umanitario.
Il “diritto dell’Aia” regola la condotta delle ostilità e proibisce mezzi e metodi di combattimento
particolarmente atroci, come gas velenosi e armi batteriologiche, tossiche e chimiche e l’impiego
dei bambini-soldato. Il “diritto di Ginevra” garantisce protezione umanitaria ai civili non
combattenti e ai beni non militari. Ruota intorno a quattro principi. Umanità: non si infliggano
sofferenze superflue. Distinzione: non si usi violenza contro persone e beni protetti. Proporzionalità:
non si attacchi sapendo che si causeranno danni incidentali, cioè morti innocenti e distruzioni
ingiustificate, smodati rispetto alle esigenze militari. Precauzione: si adotti qualsiasi accorgimento
per risparmiare gli incolpevoli.
Si sollevano due obiezioni. Il diritto internazionale non è rispettato. Dunque non esiste, è un teatro
di cartapesta. È vero che gli Stati tendono a servirsi della legge internazionale à la carte. Non di
rado il diritto soccombe alla brutale iniquità del potere, si dimostra impotente davanti all’arroganza
della forza arbitraria. Ma il diritto e le corti internazionali sono imprescindibili, come il codice
penale e i tribunali in Italia davanti alla constatazione che nonostante tutto si continua a uccidere e a
rubare. Le norme internazionali hanno reso la guerra meno disumana. Hanno permesso condanne
morali, politiche, giudiziali per le atrocità in Jugoslavia, Ruanda, Darfur, Mali, Uganda, Repubblica
centrafricana, Myanmar.
Fanno sentire la propria voce nei conflitti attuali. Il diritto internazionale è insufficiente ma
necessario perché la forza brutale non sia legittimata e giustificata come unico strumento per
comporre le controversie.
L’altro rilievo: «Truman e Churchill erano criminali di guerra?» Era un altro tempo, regole e corti
non esistevano. Ma non si può dubitare che mancassero di logica militare i bombardamenti delle
città tedesche che sterminarono seicentomila civili innocenti. «Coloro che hanno scatenato questi
orrori sull’umanità, sentiranno sulle proprie case e le proprie persone i colpi dirompenti di un giusto
castigo», disse Churchill. Negli Stati Uniti i giapponesi erano considerati una «razza inferiore e
incivile» e rinchiusi in campi di concentramento. Il capo di Stato maggiore dell’aviazione Curtis
LeMay, responsabile dei bombardamenti indiscriminati dei civili giapponesi, entusiasta sostenitore
degli ordigni nucleari, riconobbe: «Se avessimo perso il conflitto, saremmo stati tutti processati
come criminali di guerra». Gli ha dato ragione anche il segretario alla Difesa, Robert McNamara:
«Lui, e direi io, ci comportavamo da criminali di guerra». Alla fine della guerra, due milioni di
bambine e donne tedesche, da otto a ottant’anni, furono violentate.
Ne morirono duecentomila per violenze, ferite, malattie, suicidio. La logica degli Alleati era la
vendetta. I popoli dovevano pagare per i crimini dei propri governanti.
Oggi sono cinquantasei i conflitti armati in corso. Centinaia di migliaia le vite spezzate. Milioni di
sfollati, di bambini dall’infanzia negata. L’odio fermenta e alimenta il ciclo della violenza e della
vendetta. Si combatte anche un’altra guerra non meno pericolosa. Contro il diritto, i diritti
fondamentali, i tribunali internazionali, le Nazioni Unite. Ai giudici internazionali sono
somministrati insulti, mandati di cattura, sanzioni finanziarie e minacce di morte. Ci si scandalizza
per le loro decisioni, ma non per le atrocità che accertano. Gli stolti guardano il dito e ignorano la
luna. Il desiderio di fare tabula rasa della civiltà del diritto accomuna in un’irrazionalità furiosa
democrazie e dittature, Occidente e anti-Occidente. I conflitti armati sono processi politici,
rammentano Marcello Flores e Giovanni Gozzini in “Perché la guerra”. La politica deve comporre
le controversie senza spargimento di sangue e ,quando le guerre scoppiano, limitarne la disumanità,
evitare che si trascinino senza scopo, fermare il male incrementale, costruire vie di pace. Se la
politica smette di essere misura e limite della guerra, questa resta solo violenza selvaggia, fine a sé
stessa, inconclusiva, folle. La forza economica e militare e, nel migliore dei casi, la politica
governano il mondo, non la legge. Non ci sfugge. Ma diritto e politica stanno e cadono insieme. La
sconfitta del diritto decreta la morte della politica.
Ammassare violenza riporta alla clava come strumento di regolazione degli interessi confliggenti.
Comporta l’estinzione della civiltà umana. L’apocalissi. Se è quello che si vuole, la via imboccata è
quella giusta

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