la via della violenza comporta l’estinzione della civiltà umana

stipare violenza riporta alla clava

Ammassare violenza riporta alla clava come strumento di regolazione degli interessi confliggenti. Comporta l’estinzione della civiltà umana. L’apocalissi. Se è quello che si vuole, la via imboccata è quella giusta.

di Rosario Aitala
in “Avvenire” del 15 dicembre 2024

Scrive Carl von Clausewitz che «la guerra è un atto di forza all’impiego della quale non esistono
limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che
logicamente deve condurre all’estremo». Il generale prussiano scopre la formula dell’apocalisse
nella «tendenza all’estremo» della violenza bellica che la politica è incapace di contenere. Intuisce
la spaventosa irrazionalità delle guerre, scontri parossistici reciprocamente incrementali che
segnano il corso della storia. Colto d’improvviso dalla morte, non completa il suo trattato Sulla
guerra, pubblicato postumo dal 1832 al 1837. Di recente, Lucio Caracciolo ne ha riportato alla luce
il pensiero per descrivere i conflitti attuali, senza scopo né termine.
Rileggiamo la formula «i belligeranti si impongono legge mutualmente». Già nell’antichità e in
maniera incrementale, con un acme alla metà del Novecento, gli Stati si sono imposti legge
reciprocamente in altro senso. Non per rilanciare all’infinito la violenza ma per regolare e per
contenere il ricorso alla guerra e le modalità e mezzi con cui possono condursi le ostilità.
Nel 1859 Jean Henri Dunant, banchiere ginevrino, si trova nei pressi di Solferino dove si sono
scontrate le truppe austriaco- venete e franco-sarde, con ventitremila vittime. Scosso dalle
sofferenze dei feriti lasciati a perire sul campo di battaglia si dedica a cercare «spazi di civiltà nei
contesti disumanizzanti della guerra», parole del presidente Mattarella. Scrive “Un ricordo di
Solferino” e avvia il progetto del Comitato internazionale della Croce Rossa che nasce cinque anni
più tardi con la Convenzione di Ginevra sul miglioramento delle condizioni dei feriti in battaglia.
Sarà l’osservazione della mostruosità dei conflitti mondiali a spronare la formazione del diritto
internazionale dei conflitti armati o diritto umanitario.
«Anche nella guerra c’è una moralità da custodire». Così papa Francesco ha spiegato il senso del
diritto umanitario.
Il “diritto dell’Aia” regola la condotta delle ostilità e proibisce mezzi e metodi di combattimento
particolarmente atroci, come gas velenosi e armi batteriologiche, tossiche e chimiche e l’impiego
dei bambini-soldato. Il “diritto di Ginevra” garantisce protezione umanitaria ai civili non
combattenti e ai beni non militari. Ruota intorno a quattro principi. Umanità: non si infliggano
sofferenze superflue. Distinzione: non si usi violenza contro persone e beni protetti. Proporzionalità:
non si attacchi sapendo che si causeranno danni incidentali, cioè morti innocenti e distruzioni
ingiustificate, smodati rispetto alle esigenze militari. Precauzione: si adotti qualsiasi accorgimento
per risparmiare gli incolpevoli.
Si sollevano due obiezioni. Il diritto internazionale non è rispettato. Dunque non esiste, è un teatro
di cartapesta. È vero che gli Stati tendono a servirsi della legge internazionale à la carte. Non di
rado il diritto soccombe alla brutale iniquità del potere, si dimostra impotente davanti all’arroganza
della forza arbitraria. Ma il diritto e le corti internazionali sono imprescindibili, come il codice
penale e i tribunali in Italia davanti alla constatazione che nonostante tutto si continua a uccidere e a
rubare. Le norme internazionali hanno reso la guerra meno disumana. Hanno permesso condanne
morali, politiche, giudiziali per le atrocità in Jugoslavia, Ruanda, Darfur, Mali, Uganda, Repubblica
centrafricana, Myanmar.
Fanno sentire la propria voce nei conflitti attuali. Il diritto internazionale è insufficiente ma
necessario perché la forza brutale non sia legittimata e giustificata come unico strumento per
comporre le controversie.
L’altro rilievo: «Truman e Churchill erano criminali di guerra?» Era un altro tempo, regole e corti
non esistevano. Ma non si può dubitare che mancassero di logica militare i bombardamenti delle
città tedesche che sterminarono seicentomila civili innocenti. «Coloro che hanno scatenato questi
orrori sull’umanità, sentiranno sulle proprie case e le proprie persone i colpi dirompenti di un giusto
castigo», disse Churchill. Negli Stati Uniti i giapponesi erano considerati una «razza inferiore e
incivile» e rinchiusi in campi di concentramento. Il capo di Stato maggiore dell’aviazione Curtis
LeMay, responsabile dei bombardamenti indiscriminati dei civili giapponesi, entusiasta sostenitore
degli ordigni nucleari, riconobbe: «Se avessimo perso il conflitto, saremmo stati tutti processati
come criminali di guerra». Gli ha dato ragione anche il segretario alla Difesa, Robert McNamara:
«Lui, e direi io, ci comportavamo da criminali di guerra». Alla fine della guerra, due milioni di
bambine e donne tedesche, da otto a ottant’anni, furono violentate.
Ne morirono duecentomila per violenze, ferite, malattie, suicidio. La logica degli Alleati era la
vendetta. I popoli dovevano pagare per i crimini dei propri governanti.
Oggi sono cinquantasei i conflitti armati in corso. Centinaia di migliaia le vite spezzate. Milioni di
sfollati, di bambini dall’infanzia negata. L’odio fermenta e alimenta il ciclo della violenza e della
vendetta. Si combatte anche un’altra guerra non meno pericolosa. Contro il diritto, i diritti
fondamentali, i tribunali internazionali, le Nazioni Unite. Ai giudici internazionali sono
somministrati insulti, mandati di cattura, sanzioni finanziarie e minacce di morte. Ci si scandalizza
per le loro decisioni, ma non per le atrocità che accertano. Gli stolti guardano il dito e ignorano la
luna. Il desiderio di fare tabula rasa della civiltà del diritto accomuna in un’irrazionalità furiosa
democrazie e dittature, Occidente e anti-Occidente. I conflitti armati sono processi politici,
rammentano Marcello Flores e Giovanni Gozzini in “Perché la guerra”. La politica deve comporre
le controversie senza spargimento di sangue e ,quando le guerre scoppiano, limitarne la disumanità,
evitare che si trascinino senza scopo, fermare il male incrementale, costruire vie di pace. Se la
politica smette di essere misura e limite della guerra, questa resta solo violenza selvaggia, fine a sé
stessa, inconclusiva, folle. La forza economica e militare e, nel migliore dei casi, la politica
governano il mondo, non la legge. Non ci sfugge. Ma diritto e politica stanno e cadono insieme. La
sconfitta del diritto decreta la morte della politica.
Ammassare violenza riporta alla clava come strumento di regolazione degli interessi confliggenti.
Comporta l’estinzione della civiltà umana. L’apocalissi. Se è quello che si vuole, la via imboccata è
quella giusta




la criminalizzazione delle ONG

L’orrore e la speranza: la bambina sopravvissuta al naufragio e ai muri
dell’Ue
di Marika Ikonomu
in “Domani” del 12 dicembre 2024

Sono proprio le ong le uniche realtà in grado di testimoniare questi naufragi. Politiche nazionali ed europee mirano però a ostacolare e criminalizzare il loro lavoro. Ne è un esempio, il recente decreto flussi approvato dal parlamento, che ha inasprito i fermi amministrativi e le sanzioni

Partita dalla Tunisia con il fratello, ha undici anni ed è viva dopo 3 giorni in mare. Mem.Med: «Non
vedere è scelta politica». Le ong criminalizzate sono le uniche testimoni
Aggrappata a due salvagenti improvvisati, creati con vecchie camere d’aria, e a un giubbotto di
salvataggio in mezzo al mare, in condizioni meteo avverse, è riuscita a salvarsi. L’unica superstite
di un naufragio in cui hanno perso la vita 44 persone è una bambina di undici anni, originaria della
Sierra Leone. «È stata una coincidenza incredibile aver sentito la sua voce nonostante il motore
fosse acceso. Stavamo cercando altri naufraghi, ma dopo una tempesta durata giorni, con il vento a
oltre 23 nodi e onde alte 2,5 metri, non c’era alcuna speranza», ha raccontato Matthias
Wiedenlübbert, il capitano del veliero che ha l’ha portata in salvo.
Erano le 3.20 del mattino, tra martedì e mercoledì, quando l’equipaggio della Trotamar III –
l’imbarcazione di CompassCollective, organizzazione tedesca della flotta civile impegnata in
missioni a sud di Lampedusa – si stava dirigendo verso un’altra barca in difficoltà e ha sentito delle
urla provenire dal mare. «La bambina ha lottato per non annegare», raccontano gli attivisti della
Trotamar, che si dicono «profondamente scioccati da questo fatto».
L’unica sopravvissuta al naufragio della barca, che si è rovesciata tre giorni prima, non aveva con sé
né acqua potabile né cibo ed «era ipotermica, ma reattiva e orientata», fa sapere l’equipaggio, che
l’ha portata in salvo a Lampedusa.
Lampedusa, Italia
La bambina ha raccontato di essere partita da Sfax, in Tunisia, con il fratello che è però disperso,
insieme alle altre 44 persone. «Siamo finiti tutti in mare, per la pioggia e il vento che hanno fatto
affondare la barca», ha spiegato ai medici e ai mediatori culturali incontrati sull’isola, «vicino a me
sono rimasti due ragazzi, poi dopo due giorni non li ho più visti, il mare li ha allontanati».
La Guardia costiera e la Guardia di finanza hanno avviato le operazioni di perlustrazione dell’area
in cerca delle persone, mentre la procura di Agrigento ha fatto sapere che aprirà un’indagine per
naufragio colposo. La superstite è invece stata portata nell’hotspot di Lampedusa, dopo essere stata
visitata nel poliambulatorio dell’isola, ed «è in buone condizioni di salute», ha detto all’Ansa il
responsabile della struttura, Francesco D’Arca. Arrivata all’hotspot, dove «verrà seguita da
un’equipe di psicologi», ha dormito per ore. A raccontarlo il sindaco di Lampedusa e Linosa,
Filippo Mannino, precisando che rimarrà sull’isola fino al trasferimento «verosimilmente venerdì»
in un’altra struttura sulla terraferma.
«Chi darà conto a questa bambina del perché quella barca partita da Sfax è stata lasciata naufragare?
Chi le risponderà se domani chiederà di suo fratello e cercherà di rintracciarlo?». Sono queste le
domande da porsi di fronte alle politiche che l’Europa stringe con i paesi terzi, dice Silvia Di Meo,
che le definisce «necropolitiche di frontiera».
Di Meo è antropologa e fa parte della rete “Mem.Med – Memoria Mediterranea”, che si occupa di
ricerca e identificazione delle persone disperse nel Mar Mediterraneo e che ha raccolto la sua
attività in un recente rapporto “Violenze, resistenze e memorie. Tra le due rive del Mediterraneo”.
«Nel caso specifico, ci sembra ci sia un’effimera ed estemporanea reazione dell’opinione pubblica e
mediatica che si solleva solo nel caso di grandi numeri, come il naufragio di Cutro, o di bambini, o
ancora quando si vedono i corpi», prosegue Di Meo. È accaduto con il corpo del piccolo Anas.
I naufragi fantasma
Se la bambina superstite non fosse stata trovata e salvata da un’ong, questo caso si sarebbe aggiunto
alle decine di naufragi fantasma che spariscono nel Mediterraneo. Se non avesse raccontato di
essere partita con altre 44 persone, quei corpi sarebbero stati inglobati dal mare, senza memoria.
«Quando non c’è la materialità di un corpo, il lutto pubblico in qualche modo si ritrae», sottolinea
Di Meo, perché «quando la violenza non si può vedere, non viene raccontata». Per l’antropologa
però questo non vedere è una scelta politica e un’altra forma di violenza che ricade sulle persone
migranti.
Il rapporto della Fondazione Migrantes “Il diritto d’asilo” dedicato alle migrazioni forzate,
presentato mercoledì, riporta una stima (minima) – alla fine di agosto 2024 – dei rifugiati e migranti
morti o dispersi nel Mediterraneo di 1.342 unità, 1.053 le vittime nel Mediterraneo centrale. Dopo
un triennio in diminuzione, il rapporto tra morti e dispersi in mare e arrivi in Italia o Malta,
sottolinea il report, è in crescita per il secondo anno consecutivo. Una persona su 40 rischia di
perdere la vita sulla rotta.
Sono però stime al ribasso perché «non esiste un dato ufficiale delle persone scomparse», spiega
Yasmine Accardo, attivista di Mem.Med, realtà che aiuta le famiglie di origine a ritrovare i loro cari
che hanno attraversato il Mediterraneo centrale. Accade però che anche i familiari perdono le tracce
«e non hanno più i recapiti», soprattutto per chi passa dalla Libia. Per Accardo «la dispersione è
impressionante. Le persone che riusciamo a trovare noi sono una goccia».
Sono proprio le ong le uniche realtà in grado di testimoniare questi naufragi. Politiche nazionali ed
europee mirano però a ostacolare e criminalizzare il loro lavoro. Ne è un esempio, il recente decreto
flussi approvato dal parlamento, che ha inasprito i fermi amministrativi e le sanzioni: per Sea
Watch, l’ennesimo tentativo «di limitare e ostacolare la presenza delle navi umanitarie» e arrivare a
un definitivo abbandono del Mediterraneo.
L’ong Mediterranea, dopo la notizia del salvataggio della bambina, ha lanciato l’allarme di altri tre
possibili naufragi. Intanto però, su un altro fronte, la Commissione europea ha autorizzato i
respingimenti di migranti alla frontiera con la Bielorussia. Una decisione persa appena dopo la
pubblicazione del report di Human Rights Watch, che rileva gravi abusi da parte delle forze
dell’ordine polacche e deportazioni illegali.
L’invisibilizzazione dei naufraghi e dei dispersi è frutto anche della normalizzazione dei morti di
frontiera, conclude Di Meo: «Normalizzazione che dipende da un discorso politico che tende a
vedere come conseguenza naturale queste morti e che porta a far sì che questo massacro senza fine
non scuota più le coscienze, ed è questo il vero ostacolo poi al contrasto di queste politiche»




il commento al vangelo della domenica

E TANTO BASTA
il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di Avvento di Avvento
Sof 3, 14-18 – Fil 4, 4-7 – Lc 3, 10-18
​Solo ogni tre anni, purtroppo, ritornano le parole straordinarie del piccolo e sconosciuto profeta Sofonia: Dio è felice. Felice per te.
Ogni volta la stessa emozione: esulterà di gioia per te! Esultare è il verbo della danza. Il profeta intuisce la danza dei cieli, come quella di Davide davanti all’Arca, come Miram col tamburello al mar Rosso; come Giovanni nel grembo di Elisabetta, come Maria nel Magnificat. Tutt’intorno a te, la danza di Dio. Che crea.
Ma subito dopo, il vangelo ci mette i piedi ben piantati per terra e ci riporta diritto dentro il quotidiano, con Giovanni, il ruvido profeta, prosciugato dal sole.
Va da lui tanta gente: da Gerusalemme ci volevano giorni di cammino. Cosa cercano? Le loro domande sono precise, serie: che cosa dobbiamo fare? A quale gancio concreto appendere la vita?
E le risposte sono chiare e serene; indicano piccole scelte possibili a tutti.
La prima: chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare ne dia a chi ne è privo.
L’economia dell’accumulo sostituita dall’economia del dono, lo shopping convertito in condivisione. “La conversione passa per le tasche” (Papa Francesco).
Ed entrano in scena i più amati da Luca, i poveri, quelli “che non hanno”.
Il vero problema del mondo non sono i poveri, ma i ricchi. Da loro viene il disordine: c’è abbastanza pane per tutti sulla terra, e manca per l’avidità di pochi.
A tutti il profeta ripete: hai un capitale, sono i poveri! Hai un tesoro, non sono BOT o Fondi, ma “quelli che non hanno”. Investi in relazioni, sono il tuo patrimonio.
La seconda: Non esigete nulla più di quanto vi è stato fissato.
Allora, applicherò semplicemente l’onestà. Non quella degli altri, ma la mia, l’unica in mio potere.
E a chi ha ruoli di autorità: non maltrattate e non estorcete niente a nessuno. Non approfittate della posizione per umiliare; non abusate della vostra forza per maltrattare o per far piangere.
Giovanni, mangiatore di insetti, di una ascesi quasi feroce, non chiede niente di straordinario agli altri, non dice “lascia tutto e seguimi nel deserto”, ma indica cose fattibili, a chiunque:
non tenere tutto per te; non stringere le mani ad artiglio su ciò che hai;
non rubare, non passare nel mondo da predatore e abusatore.
La conclusione è potente: Viene uno più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Lui “voce come rombo che grida nel deserto” fa un passo di lato, indica un Gesù più forte, e non perché si impone, ma perché parla al cuore. Sussurra, e tu lo segui.
E’ il più forte perché è l’unico che “battezza nel fuoco”, uno che ha acceso milioni di vite e le ha rese felici. Questo fa di lui il più forte. E il più amato.
In questi pochi giorni che mancano al Natale, alziamo lo sguardo!
A testa alta, per vedete il sorriso e la danza di Dio.
Per saperci amati, da quel fuoco, e tanto ci basta.



campi di concentramento in Albania

il lupo è arrivato – e  noi che facciamo?

di Marco Ronconi
in “Jesus” del dicembre 2024

 

«Il problema dei campi di concentramento in Albania non è che sono uno spreco di denaro, ma che sono campi di concentramento»

È vero che a forza di gridare «al lupo, al lupo», alla fine ci si stanca e si finisce per abbassare la guardia. Temo tuttavia che oramai sia inutile, perché il lupo è arrivato. L’ho pensato assistendo a un battito al bar sulla vicenda dei migranti fatti «ospitare» dall’Italia in strutture appositamente costruite in Albania. Entrambi gli interlocutori erano contrari, ma la motivazione su cui si sono più soffermati è stata lo spreco di soldi pubblici che, alla fine, per migliorare la sicurezza della nostra nazione ossia per imprigionare un migliaio di persone in attesa di giudizio – quindi di per sé innocenti fino a prova contraria – al di fuori dei confini (e quindi anche delle tutele giuridiche fondamentali), si spenderà oltre mezzo miliardo di euro in 5 anni.
Il primo ha fatto un paragone con la capienza di un carcere come Rebibbia, a Roma: con quella cifra forse si sarebbero potuti costruire altri istituti detentivi in grado di contenere un numero ben maggiore di persone. L’altro ha fatto un rapido conto del costo per ogni migrante detenuto chiedendosi cosa si sarebbe potuto produrre in alternativa, ma a quel punto avevo già finito di  ascoltare. Sia nel film La vita è bella di Benigni che nello spettacolo Ausmerzen di Marco  Paolini si racconta che al tempo del fascismo e del nazismo, per spiegare la matematica ai
bambini, si chiedeva loro di calcolare quante famiglie tedesche o italiane sarebbero state
aiutate se si fosse dirottato su di loro il denaro speso per curare gli etilisti o per occuparsi dei
malati di mente. Ricordo i brividi quando vidi quelle due scene e li ho riconosciuti identici
quando ho ascoltato poche settimane fa quella discussione.
I campi di concentramento, di lavoro e di sterminio non nacquero improvvisamente sotto i
governi nazifascisti. Furono preparati con pazienza, facendo fare all’opinione pubblica un
passo alla volta, iniettandogli dosi progressive di veleno. Quando alla fine apparvero, nessuno
più ne discuteva la legittimità, semmai il meccanismo di funzionamento. Per Adolf Eichman,
ancora decenni dopo la loro fine, la questione non era quanti vi morivano e le condizioni in cui vi erano costretti, ma l’uso più efficiente possibile delle risorse. Da più di dieci anni non solo tolleriamo, come Stato Italiano, ma addirittura sovvenzioniamo campi di tortura in Libia,
trafficanti di esseri umani mascherati da poliziotti in giro per il Mediterraneo, governi più o
meno autoritari che imprigionano e abusano di persone che vorrebbero fuggire da situazioni
altrettanto tremende. Lo facciamo tacidando la coscienza sotto una dose crescente di parole e
ragionamenti venefici. All’inizio queste pratiche erano incredibili e infatti per un certo tempo
le si è semplicemente negate, poi si è distrutta l’autorevolezza di chi ne denunciava l’esistenza,
ci si è inventato un sacco di nomi falsi per nascondere il male che si perpetrava (in Libia si
chiamano «Centri per l’accoglienza», ad esempio), ad esempio) e infine ci si è convinti della
loro ineluttabilità difendendola con una violenza senza pudore. Oggi si discute della loro
efficienza. Come però ha scritto Stefano Feltri riprendendo la portavoce di Sea Watch, Giorgia
Linardi: «Il problema dei campi di concentramento in Albania non è che sono uno spreco di
denaro, ma che sono campi di concentramento»




il commento al vangelo della domenica

NOSTRA SORELLA DELL’ARCOBALENO

solennità dell’Immacolata Concezione

Lc 1,26-38

Anche il nostro “sì” può cambiare il mondo; tutti noi possiamo segnare nascite sul libro della vita, e tracciare arcobaleni sul calendario della storia.

Maria è la prima della lunga carovana dell’umanità. E noi che immacolati non siamo, camminiamo dietro a lei, nostra prima sorella.

Porrò inimicizia tra il serpente e la donna. Che potenza! Ostilità tra la donna che ama la vita e il serpente che ama il suo contrario.

Adamo ed Eva la vita l’hanno appena fallita, e Dio, contro ogni evidenza, li chiama solennemente nemici del male.

Stupendo: io sarò ferito e sporcato dal male, ma non sarò mai amico suo!

E sento ancora: Tu le insidierai il calcagno, ma lei ti schiaccerà la testa. Il serpente, il male ti raggiunge da dietro, è un passato che talvolta ritorna e fa molto male, ma è in basso, non arriva al cuore dell’uomo, non è davanti a te, non è il tuo orizzonte.

Adamo ed Eva escono dal paradiso portando con sé un germe di vittoria: schiaccerai la testa del serpente. Puoi vincere.

In noi c’è un pezzettino di Dio luminoso, c’è in noi una stella sufficientemente lontana perché i nostri errori non possano mai offuscarla (Ch. Bobin).

L’angelo Gabriele se ne vola via da Zaccaria, sbattendo le ali sulla sua incredulità, e atterra in un paesino assolato e sconosciuto, in una casa qualunque, fra pentole e telai.

È il vangelo delle prime volte: è la prima volta che Dio si rivolge ad una donna. Che la creatura ha l’ultima parola nel dialogo con il cielo. È la prima volta di una parola mai udita: sei piena di grazia! Il tuo nome è: amata-per-sempre.

L’angelo aggiunge: Dio è con te. Parola che avrebbe dovuto mettere in guardia la ragazza, perché con quelle parole nella Bibbia Dio convoca ad una avventura ardua come una sfida.

Maria, avrai un figlio, tuo e di Dio. Gli darai nome Gesù.

Da ragazza matura e intelligente, Maria obbietta e argomenta, vuole capire: dimmi come avverrà! E l’angelo: viene l’infinito nel tuo sangue, la luce che ha generato gli universi si aggrappa al tuo seno. Cosa importa il come!

E tuttavia Gabriele resta lì, a spiegare:

evoca lo Spirito come era sulle acque dell’origine,

come era la sua nube che scendeva nel deserto,

e la invita a pensare in grande, più in grande che può.

Fidati, sarà Dio a trovare il come.

E se noi siamo qui oggi, se possiamo dirci cristiani è per la fede, la libertà e il coraggio di questa ragazzina che ha detto: sono qui,

Tu sei il Dio dell’alleanza, e io sarò l’alleata del Dio delle alleanze.

Dove tu andrai anch’io andrò, il tuo sogno sarà il mio sogno.

Forse a Maria torna in mente il legame forte tra Ruth e Noemi, o forse è la voce dell’umanità, che invece di dare sempre la colpa a qualcuno, prova a dire: sì, io credo al futuro perché tu sei con me.

Tu hai inventato l’arcobaleno come segno d’alleanza con le creature, e io sarò un piccolo arcobaleno, di pace e di abbracci.

Anche il nostro “sì” può cambiare il mondo; tutti noi possiamo segnare nascite sul libro della vita, e tracciare arcobaleni sul calendario della storia.




il commento al vangelo della domenica

CAPODANNO DEI CRISTIANI
il commento di E. Ronchi al vangelo della prima domenica di avvento
Lc 21,25-28,34-36
L’Avvento che ritorna è come un cambio di stagione.
Primo giorno, l’inizio. Il capodanno dei cristiani. Si ricomincia a camminare verso quell’attimo che ha cambiato tutta la storia, quando con il Natale Dio si tuffa nel fiume dell’umanità.
Toglietemi tutto, ma non l’incarnazione! E la gioia di ripercorrere un’altra volta tutta la vita di Gesù, con il respiro sempre nuovo che nell’anno liturgico inizia qui, con la prima domenica d’Avvento.
Ci saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle. Il vangelo di Luca oggi racconta il puro segreto del mondo, nascosto nel suo silenzio più profondo.
Ci prende per mano, ci porta fuori dalla porta di casa a guardare in alto, a percepire il cosmo pulsante che soffre e si contorce come una partoriente, ma per produrre vita.
Ad ogni descrizione drammatica segue infatti la speranza, dove tutto cambia: ma voi risollevatevi e alzate il capo, la liberazione è vicina.
Alzate gli occhi!
Non guardare solo alle cose immediate,
non inciampare nelle macerie che ingombrano la strada,
se non alzi la testa non scorgerai arcobaleni né squarci d’azzurro.
Uomini e donne in piedi, a testa alta, occhi nel futuro!
Così vede i discepoli il vangelo. Gente dalla vita verticale e dallo sguardo profondo, dritti davanti al Signore.
Dio viene. Giorno per giorno, continuamente, adesso. Viene per farci il regalo più bello che possiamo fare a noi stessi: un cuore attento e leggero.
State attenti a voi stessi, che il cuore non diventi pesante,
affannato, dissipato, ubriaco di lacrime.
Proviamo tutti il morso dello sconforto per quanto accade nel mondo.
Ma io non resto a terra,
non permetterò allo scoramento di sedersi con me
e di mangiare nel mio piatto. Nessuna depressione finché conservo la testarda fedeltà all’idea che tutta la storia è, nonostante ogni smentita, un processo di salvezza.
Avvento: quattro settimane per ritrovare il vivere con attenzione e leggera sobrietà guardando lontano, guardando oltre lo stordimento assordante per scendere nell’intimo, a cercare un cuore leggero che scorga i piccoli dettagli della vita.
Basta così poco. Quando smetteremo di offendere la vita piccola e cominceremo a stupirci per ogni minima cosa, per ogni essere vivente?
Ci serve doppia attenzione per vegliare sul nuovo che nasce, sui primi passi della pace anche tra di noi. E sul grammo di luce che si posa sul muro della notte di queste guerre infinite.
Nessuna esistenza è senza un grammo di luce, e l’attesa di un bambino ne è l’emblema supremo.
La vita è dentro l’infinito e l’infinito è dentro questa vita dove Dio viene, bello come il sogno più bello, meraviglia dell’eterno verso il quale stiamo andando.
Con l’Avvento l’eterno entra maestosamente sui nostri giorni e su noi, certi che il nostro grado di eternità si misura sull’intensità dei nostri sogni.



il commento al vangelo della domenica

il processo contro ogni potere che opprime  –  Gesù di fronte a Pilato

il commento al vangelo della trentaquattresima domenica del tempo ordinario  (trovato in rete, molto bello ma non so di chi sia la  paternità)

 

Al di là della realtà di cronaca,
nei termini della metafora,
sono presenti nella scena,
come ieri, anche oggi
altri due personaggi importanti:
la folla e l’istituzione religiosa.
Chi non vuole la violenza,
è il vero malfattore
agli occhi dei potenti:
nuoce molto e rovina il loro gioco.
I poteri, politico e religioso,
pretendono di fare le veci di dio in terra.
La loro complicità
diventa violenza.
Per essere vincenti
si abusa dell’altro.
In questo scenario
si fa strada la voracità del potere,
del denaro, del ritorno della propria immagine…
I due complici devono combattere,
per affermare la propria presunta verità,
nei fiumi di sangue,
perché tale regno
senza le armi non regge.
Chi rappresenta l’uomo libero?
Non di certo il Pilato…
Tutte le volte in cui mi trovo
nella vita a essere vigliacco,
incoerente,
manipolatore della realtà,
astuto,
ossessionato dalla mia immagine;
ogni volta che voglio solo vincere,
io do la morte.
Io sono il Pilato.
Oggi, proprio chi si assume
le proprie responsabilità,
chi non inganna
e si sporca le mani,
è considerato sconfitto.
Costui non fugge,
non si sottrae,
si compromette.
Cosa direbbe di lui quel Pilato?

Lui sa la verità:
“Questa persona è innocente”.
Gesù ha voluto
creare un regno areligioso,
la sua volontà è stata crocifissa insieme a lui.
Non rimanere in silenzio,
dimmi la tua verità…
Loro vogliono impedirmi di scegliere
e di decidere da che parte stare.
Non scegliere equivale a stare dalla parte del potere.
Ma l’unico potere che ho è di scegliere.
Scelgo o la morte o la vita.
Mi metto dalla parte dello sconfitto,
mi prendo la responsabilità
delle mie azioni.
La folla che oggi sta con il potere
urla e mi fa sentire impotente.
Ci può essere una rivoluzione
e dipende da me e da te,
dalla mia e dalla tua capacità di amare:
amare di disarmato amore …
Ti auguro di essere una donna libera,
di assumerti il gravoso compito
di non sottrarti mai alle tue responsabilità.
Sarai libera quando le frasi
“perché tutti fanno così”
e “sempre si è fatto così”,
perderanno ogni logica;
quando non avrai paura
di essere fuori dal coro,
di vivere contro corrente.
Non ti preoccupare,
sorella cara,
se le tue mani sono legate,
se indossi la corona della vergogna,
se tanti urlano contro di te
“crocifiggila”.
Tu sei nella verità,
hai scelto di stare
dalla parte della vita
e sei stata coerente
con il tuo cuore.
Quindi tu sei libera e innocente.
E finché siamo in tanti
a vivere così c’è una speranza.
Ti vengo incontro
e so che libertà e innocenza
non perdono mai.




il commento al vangelo della domenica

LA SCUOLA VERDE
il commento di E. Ronchi al vangelo della XXXIII domenica del tempo ordinario
Marco 13,24-32
Scene apocalittiche, nel vangelo come nella storia nostra.
In quei giorni il sole si oscurerà, la luna si spegnerà, le stelle cadranno dal cielo.
Un mondo che va alla deriva? Guarda più a fondo, con occhi di profeta: in realtà è un mondo che rinasce.
Dalla pianta di fico imparate: quando il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Gesù ci porta alla scuola delle piante, perché le leggi dello spirito e le leggi della realtà, in fondo, coincidono.
Il fico è la pianta più citata nelle scritture. Più del grano, più della vite. Era l’albero piantato davanti casa, la cui ombra e i cui frutti rimandavano alla serenità del vivere, alla dolcezza della Parola, alla presenza di qualcuno che, dentro casa, manda avanti e cura la vita.
Imparate dalla sapienza degli alberi: l’intenerirsi del ramo, la linfa che riprende a gonfiare i suoi piccoli canali, è una sorpresa che non dipende da te. Uno stupore ogni volta nuovo.
Così anche voi sappiate che egli è vicino, è alle porte. Dio è qui; e dice vita, dice primavera.
Da una gemma di fico, piccola realtà incamminata verso la sua pienezza, imparate il futuro del mondo: il mondo non è finito, concluso così com’è; il creato è una realtà germinante.
Da una gemma imparate Dio: tra i suoi cento nomi c’è anche ‘germoglio’ (inôn, sl 72,17): “il suo nome è perennità, in faccia al sole. Inôn è il suo nome”. Non la perennità fissa della pietra, bensì quella dell’alba, del rinascere. Una perennità di germogli.
Mi mette pace, allegria, speranza, buon umore, immaginare e pensare Dio come germinazione a primavera; non un ramo secco, un legnetto da ardere nel fuoco, ma un tralcio verde.
E sopra si aprono gemme come occhi, come stelle verdi.
Passeranno i cieli e la terra ma le mie parole non passeranno. Passano il sole e la luna, si sbriciola la terra, ma le mie parole sono un sole che non tramonta, perché scolpite nel cuore dell’uomo.
Gesù ci convoca tutti a dare fiducia al futuro, a credere che il cammino della storia è, nonostante tutte le smentite, un cammino di salvezza.
Il Vangelo parla di stelle che cadono, il Profeta Daniele parla di stelle che salgono a ripopolare il cielo: “Uomini giusti e donne sante salgono nella casa delle luci, dove risplenderanno come stelle”.
Cercali, guardali, ringraziali i giusti e i limpidi che vivono attorno a te, i profeti di oggi, che si sono impregnati di luce, per te.
Germogli benedetti, imbevuti di cielo, intrisi di Dio, oasi di speranza. Sono tanti, e “ognuno è un proprio momento di Dio” (Turoldo), ognuno sillaba del Verbo, ognuno consonante di quella “speranza che è il presente del nostro futuro” (Tommaso d’Aquino).
Il mondo non finirà nel fuoco, ma nella suprema bellezza.



un invito alla riflessione al popolo ebraico della diaspora

LETTERA AI NOSTRI CONTEMPORANEI DEL POPOLO EBRAICO DELLA DIASPORA

Redazione Missione Oggi

Roma, 23 ottobre 2024

Carissimi Ebrei della Diaspora,

vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.

Insieme al dolore per le vittime e all’esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quell’azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sull’intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.

L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.

A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.

Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.

Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere, ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.

Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale di Israele.

Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.

Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.

Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’Onu, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie, i moniti e le accuse, dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.

Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, un’interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.

La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.

Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento Nostra aetate del Concilio Vaticano II, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la Fratres omnes di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e dell’ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.

Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.

Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dall’inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la soluzione a due Stati, anche ove mai fosse stata possibile e auspicabile in passato, e la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.

Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.

Primi firmatari: Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione; Domenico Gallo, giurista; Elena De Monticelli, filosofa; Raffaele Nogaro, vescovo cattolico; Claudio Grassi, legislatore; Felice Scalia, gesuita; Luigi Ferrajoli, giurista; Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia; Stefania Tuzi, storica dell’architettura; Francesco Di Matteo, avvocato; Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista; Massimo Zucconi, architetto; Fulvio De Giorgi, ordinario di filosofia; Agata Cancelliere, insegnante; Giorgio Rivolta, docente di pedagogia; Santino Di Dio, impiegato; Raffaele Luise, giornalista; Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo; Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace; Nicola Colaianni, già magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari; Antonio Malorni, biochimico; Paolo Cento, legislatore; Mario Menin, direttore di Missione Oggi; ecc.




il commento al vangelo della domenica

si può dare di più
il commento di Giovanni Berti al vangelo della  XXXII domenica del tempo ordinario, anno B
Marco 12,38-44
In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere»
Quando si prepara la celebrazione della Messa, una delle cose importanti è la scelta dei canti dell’assemblea. Questi non sono un riempitivo e basta, ma parte integrante della preghiera e si devono scegliere in base al Vangelo, in base al momento della messa e anche in base ad una eventuale festa o ricorrenza del giorno. Per il momento dell’offertorio di questa domenica, dopo aver letto il racconto della vedova che getta nel tesoro due spiccioli, e che per Gesù è un esempio, mi verrebbe da suggerire la canzone di Tozzi, Ruggeri e Morandi che ha vinto Sanremo nel 1987: “Si può dare di più, perché è dentro di noi. Si può dare di più senza essere eroi. Come fare non so, non lo sai neanche tu. Ma di certo si può dare di più…”.
Si può dare di più… e non mi riferisco alla quantità del denaro da gettare nel cestino che gira tra i banchi, ma alla propria vita.
Gesù è dentro il Tempio di Gerusalemme, la massima espressione fisica della tradizione religiosa di Israele. Il Tempio conteneva l’arca dell’Alleanza con le Tavole della Legge, cioè il segno del dono che Dio aveva dato al popolo. Nel Tempio si raccoglievano anche il denaro e i beni che dovevano poi essere distribuiti ai poveri, perché Dio liberatore e misericordioso, invitava il popolo a fare la stessa cosa con i poveri.
Ma purtroppo non era più così, e Gesù denuncia questo storpiamento della religione. I capi religiosi e coloro che dovevano essere di esempio invece di preoccuparsi di donare, prendevano e pretendevano. Erano preoccupati di apparire buoni, generosi e religiosi, ma non si preoccupavano di esserlo per davvero. Gesù denuncia uno stile di vita dove “si può prendere di più”, dove appare come un vero eroe da imitare chi è capace di accumulare beni e potere.
Ma lo sguardo attento di Gesù si posa su una figura “invisibile”, solo a chi guarda con superficialità. Gesù mette in luce un gesto piccolo ma carico di Dio, e nel quale Gesù stesso riconosce tutta la sua vita. Gesù vede questa povera vedova, anche se già essere “vedova” a quel tempo significava dire “povertà”, dato che era una donna senza protezione e in balia di chi la poteva sfruttare rimanendo impunito.
Quella vedova compie un gesto razionalmente assurdo, ma evangelicamente perfetto: dona due spiccioli che corrispondono a tutto quello che ha per vivere. Questa donna dona per i poveri tutta sé stessa. È un povero che salva il povero, è una persona povera di mezzi ma ricca di umanità, e che vede nel donare la vera libertà e la strada della ricchezza umana. Per Gesù questa donna, di cui non sappiamo il nome, è l’immagine perfetta della sua missione: da Dio si è fatto essere umano per donare tutto sé stesso per amore.
Questo sguardo di Gesù, capace di vedere un piccolo gesto di amore in mezzo a tanto egoismo e apparenza, mi ispira e mi invita a raffinare il mio sguardo e la mia capacità di vedere il bene.
Lo sguardo attento di Gesù, che da un lato denuncia e dall’altro indica una strada di vera umanità, è lo stesso che sono chiamato ad avere anch’io, verso me stesso, verso la comunità cristiana e il mondo.
Cosa in me è solo apparenza, ricerca di consenso e finta bontà? Cosa invece sono capace di fare per gli altri, quali piccoli gesti di generosità riconosco in me e che mi cambiano la vita, mi rendono più ricco in umanità e mi fanno sembrare davvero più simile a Gesù? Concretamente oggi, in questo momento, in questa mia situazione di vita, quali sono i due spiccioli di generosità che posso subito dare?
Anche come Chiesa siamo chiamati a dare, anche se diventiamo più poveri di numero, di consenso e di beni. Anche se tante chiese, conventi, oratori, strutture ecclesiali chiudono, non possiamo mai diventare così poveri da non poter donare e fare gesti rivoluzionari come quello della povera vedova.
Forse la canzone di Sanremo “Si può dare di più” non la possiamo cantare a Messa, anche perché sono tanti altri i canti belli e adatti, ma potrebbe davvero diventare il motivetto interiore che ci diciamo personalmente e come comunità di fronte alle povertà di tanti fratelli e sorelle, difronte alle povertà del mondo e contro egoismi e guerre: “si può dare di più… perché è dentro di noi…”
Possiamo dare di più perché ce lo abbiamo scritto dentro con il Battesimo!