viviamo in un mondo scandalosamente ingiusto!

Oxfam fotografa un mondo ingiusto:

l’82% della ricchezza globale all’1% della popolazione

l’82% dell’incremento di ricchezza netta registratosi tra marzo 2016 e marzo 2017 è andato all’1% più ricco della popolazione globale

Oxfam: l'82% della ricchezza globale all'1% più ricco della popolazione

L’82% dell’incremento di ricchezza netta registratosi tra marzo 2016 e marzo 2017 è andato all’1% più ricco della popolazione globale, mentre a 3,7 miliardi di persone che costituiscono la metà più povera del mondo non è arrivato un solo centesimo. “Ricompensare il lavoro, non la ricchezza”, il nuovo rapporto di Oxfam diffuso oggi alla vigilia del meeting annuale del Forum economico mondiale di Davos, rivela come il sistema economico attuale consenta solo a una ristretta elite di accumulare enormi fortune, mentre centinaia di milioni di persone lottano per la sopravvivenza con salari da fame.

Un miliardario ogni 2 giorni

Da marzo 2016 a marzo 2017, il numero di miliardari è aumentato al ritmo impressionante di 1 ogni 2 giorni. Su scala globale, tra il 2006 e il 2015 la ricchezza a nove zeri è cresciuta del 13% all’anno, 6 volte più velocemente dell’incremento annuo salariale, di appena il 2%, che ha riguardato i comuni lavoratori.
Negli Stati Uniti si calcola che un Amministratore delegato possa percepire in poco più di 1 giorno una cifra pari al reddito medio che un lavoratore della compagnia da lui amministrata percepisce in 1 anno.
Con un terzo del volume dei dividendi versati nel 2016 agli azionisti dei 5 principali marchi mondiali dell’abbigliamento – 2,2 miliardi di dollari l’anno – sarebbe possibile garantire a 2,5 milioni di vietnamiti, impiegati nel settore dell’abbigliamento, un salario dignitoso.

Le cause della disuguaglianza

“Ricompensare il lavoro, non la ricchezza” analizza le cause per cui, nell’attuale sistema economico, il costante incremento dei profitti di azionisti e top manager corrisponde a un peggioramento altrettanto costante dei salari e delle condizioni dei lavoratori. Tra le ragioni principali: la forsennata corsa alla riduzione del costo del lavoro che porta all’erosione delle retribuzioni; la colpevole negligenza verso i diritti dei lavoratori e la drastica limitazione del loro potere di contrattazione nel mercato globale; processi di esternalizzazione lungo le filiere globali di produzione; la massimizzazione ‘ad ogni costo’ degli utili d’impresa a vantaggio di emolumenti e incentivi concessi ai top-manager; la forte influenza esercitata da portatori di interessi privati, capace di condizionare le politiche.
“Un nuovo miliardario ogni 2 giorni non è sintomo di un’economia fiorente, se a pagarne il prezzo sono le fasce più povere e vulnerabili dell’umanità. L’attuale sistema economico crea miseri e disuguali, offrendo lavori rischiosi, sotto-retribuiti e precari e abusando sistematicamente dei diritti di chi lavora. Basti pensare che oggi il 94% degli occupati nei processi produttivi delle maggiori 50 compagnie del mondo è costituito da persone ‘invisibili’ impiegate in lavori ad alta vulnerabilità senza adeguata protezione – ha detto Maurizia Iachino, presidente di Oxfam Italia -. Le persone che confezionano i nostri abiti, assemblano i nostri cellulari, coltivano il cibo che mangiamo vengono sfruttate per assicurare la produzione costante di un gran volume di merci a poco prezzo e aumentare i profitti delle corporation e degli investitori. Fino a quando per il sistema economico globale la remunerazione della ricchezza di pochi rimarrà un obiettivo predominante rispetto alla garanzia di un lavoro dignitoso per tutti, non sarà possibile arrestare la crescita di questa estrema e ingiusta disuguaglianza”.

Lavoratrici: misere e ancora più disuguali

Secondo il rapporto, negli ultimi gradini della piramide sociale si trovano spesso le lavoratrici: in tutto il mondo guadagnano meno degli uomini, operando frequentemente in ambiti sottopagati e privi di sicurezza per chi lavora. Anche in questo settore, la disparità tra top manager e lavoratori ha raggiunto livelli estremi: in 4 giorni, l’Amministratore delegato di uno dei 5 più grandi marchi della moda può guadagnare quello che una lavoratrice della filiera dell’abbigliamento in Bangladesh guadagna in un’intera vita. “In ogni parte del mondo abbiamo raccolto testimonianze di donne schiacciate dall’ingiustizia della disuguaglianza – ha aggiunto Iachino – In Vietnam le lavoratrici del settore dell’abbigliamento non vedono i loro figli per mesi, perché non possono tornare a casa per colpa delle lunghissime giornate lavorative e delle paghe da fame che percepiscono. Negli Stati Uniti abbiamo scoperto che alle lavoratrici dell’industria del pollame non era consentito di andare in bagno ed era imposto di indossare i pannolini. Sia in Canada sia in Repubblica Dominicana, molte donne di servizio nel settore alberghiero di lusso ci hanno raccontato di aver deciso di non denunciare le molestie sessuali di cui sono vittime per paura di perdere il lavoro”.

Disuguitalia 2018

La disuguaglianza desta seria preoccupazione anche in Italia. A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, il successivo 20% ne controllava il 18,8%, lasciando al 60% più povero appena il 14,8% della ricchezza nazionale. La quota di ricchezza dell’1% più ricco degli italiani superava di 240 volte quella detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione. Nel periodo 2006-2016 la quota di reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuita del 28%, mentre oltre il 40% dell’incremento di reddito complessivo registrato nello stesso periodo è fluito verso il 20% dei percettori di reddito più elevato. Nel 2016 l’Italia occupava la ventesima posizione su 28 paesi Ue per la disuguaglianza di reddito disponibile.

Le proposte di Oxfam

In tutto il mondo, la stragrande maggioranza delle persone è a favore di un’azione immediata per contrastare la disuguaglianza. Intervistando 70.000 persone in 10 paesi, Oxfam ha rilevato che circa 2/3 di loro ritengono che il divario tra ricchi e poveri debba essere affrontato con urgenza. Per questo Oxfam chiede ai governi di adottare una serie di misure atte a contrastare l’estrema disuguaglianza e costruire opportunità di lavoro ben retribuito e tutelato.
Tra le proposte: incentivare modelli imprenditoriali che adottino politiche di maggiore equità retributiva e sostengano livelli salariali dignitosi; introdurre un tetto agli stipendi dei top-manager, così che il divario retributivo non superi il rapporto 20:1 ed eliminare il gap di genere; proteggere i diritti dei lavoratori, specialmente delle categorie più vulnerabili: lavoratori domestici, migranti e del settore informale, in particolare garantendo loro il diritto di associazione sindacale; assicurare che i ricchi e le grandi corporation paghino la giusta quota di tasse, attraverso una maggiore progressività fiscale e misure solide di contrasto all’evasione ed elusione fiscale; aumentare la spesa pubblica per servizi come sanità, istruzione e sicurezza sociale a favore delle fasce più vulnerabili della popolazione, continua Oxfam.

Anche le imprese potrebbero già mettere in campo autonomamente azioni per promuovere un’economia dal volto più umano: una tra tutte l’assicurare un salario dignitoso a tutti i lavoratori, come azione prioritaria rispetto alla distribuzione dei dividendi agli azionisti o al pagamento di mega bonus ai top manager.
“Difficile trovare oggi un esponente del mondo politico o economico che non sia preoccupato per la disuguaglianza, ma ancora più difficile è trovarne uno che stia agendo concretamente per porvi rimedio – ha detto Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia -. Al contrario, osserviamo l’adozione di provvedimenti irresponsabili, come il taglio delle tasse ai più facoltosi o la rottamazione dei diritti in materia di lavoro. Misure che esasperano i livelli di disuguaglianza, proprio mentre, in tutto il mondo, i cittadini reclamano un salario dignitoso e pari diritti per lavoratori e lavoratrici, chiedendo che multinazionali e ricchi individui paghino la loro giusta quota di imposte e che venga posto un limite alla concentrazione di potere e ricchezza in così poche mani”.

le suore americane e le persone LGBT

le suore dalla parte delle persone LGBT

un “paradigma post-religionale” per un “secondo tempo assiale” – a 500 anni dalla ‘riforma protestante’

 

Il tempo di una rottura radicale

il tempo di una rottura radicale

 Se gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno rappresentato un'”epoca di cambiamenti”, ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni è stato un “cambiamento d’epoca”: è da tempo che siamo entrati nella nuova epoca, e ora stiamo già vivendo il “cambiamento continuo e accelerato” in cui questa nuova epoca consiste
 da: Adista Documenti n° 40 del 25/11/2017

 

Ricordo bene come, negli anni ’80, alcuni pastori protestanti miei amici mi confidassero il loro sconcerto di fronte ai cambiamenti registrati all’interno della Chiesa cattolica grazie al Concilio Vaticano II, perché avevano visto cadere critiche importanti da parte della Riforma Protestante verso la Chiesa cattolica (sui santi, sulle immagini, sulla “mariolatria”, sull’ignoranza rispetto alla Bibbia, ecc.). L’essenza di ciò che essi presentavano ai cattolici come “buona novella” della Riforma protestante era stata assimilata con entusiasmo dalla base della Chiesa cattolica, come stabilito direttamente dallo stesso Concilio Vaticano II. Non aveva più senso insistere su quella critica, mi dicevano. Ed effettivamente, riguardo a molto di ciò che prima ci divideva, ora eravamo d’accordo! Ma ci domandavamo: cos’è che poteva continuare a tenerci separati?

La risposta a cui arrivammo era che, in effetti, erano le nostre istituzioni ecclesiali a essere divise ed erano le nostre teologie tradizionali, le nostre celebrazioni, i nostri riti a continuare a percorrere strade separate, ma che, nella nostra condivisione quotidiana nel Centro Ecumenico Antonio Valdivieso di Managua, dove lavoravamo come una quasi-comunità ecumenica, tale separazione non esisteva: c’erano solo differenze in termini di teologia e di spiritualità che rispondevano alla ricchezza delle nostre distinte tradizioni, ma che non andavano considerate come una divisione o una separazione, bensì come una positiva diversità. La polemica tra Riforma e Controriforma era stata da noi superata.

Da allora, i nuovi dibattiti teologici si delineavano in termini positivi, come contributi che ciascuna delle nostre differenti tradizioni poteva offrire. Dal Concilio Vaticano II, così come dai movimenti riformisti paralleli vissuti nel seno delle Chiese protestanti, come Uppsala 68 o il movimento “Chiesa e Società” del Consiglio Mondiale delle Chiese, era derivato un cambiamento di paradigma grazie a cui erano cadute, come “per implosione”, considerazioni teologiche di rottura e di separazione che erano rimaste valide per più di 400 anni. Dovemmo reinventarci dinanzi alla nuova congiuntura e, di certo, in quegli anni ebbe inizio in tutta l’America Latina un nuovo ciclo di ecumenismo, un “nuovo ecumenismo liberatore”.

Ma dal Concilio Vaticano II sono passati più di 50 anni e, in questo lasso di tempo,  si è registrata – si sta registrando – quella che è forse la trasformazione religiosa di maggiori dimensioni degli ultimi millenni (sì, millenni, a partire dal famoso «tempo assiale» di cui parlò Karl Jaspers).

Se gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno rappresentato un'”epoca di cambiamenti”, ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni è stato un “cambiamento d’epoca”: è da tempo che siamo entrati nella nuova epoca, e ora stiamo già vivendo il “cambiamento continuo e accelerato” in cui questa nuova epoca consiste.

Cambiamenti d’epoca e tempo assiale

È facile parlare di “cambiamenti d’epoca”: tutto dipende dal livello a partire dal quale decidiamo che un cambiamento debba essere considerato “d’epoca”. Per esempio, ogni decennio può segnare un’epoca (gli anni ’40, gli anni ’50…). Ma nella storia conosciamo anche cambiamenti che hanno segnato un discrimine tra epoche durate migliaia di anni.

Abbiamo appena menzionato il «tempo assiale», reso celebre dagli studi di Karl Jaspers: un tempo che ha segnato un prima e un dopo, come una radicale linea divisoria nella storia dell’umanità. In effetti, in questo tempo la coscienza dell’umanità si è trasformata a un punto tale da permetterci l’accesso a un nuovo livello di coscienza spirituale. Di fatto, secondo Jaspers, ancora alla fine dello scorso millennio stavamo vivendo in questo stesso livello di coscienza.

La dimensione di cambiamento a cui l’espressione “tempo assiale” si riferisce non è data dallo sviluppo delle tecniche di lavorazione della pietra o dei metalli, ma dallo sviluppo della coscienza spirituale. È (…) a questa dimensione spirituale che si riferiscono i molti studiosi secondo cui attualmente ci troveremmo in un secondo tempo assiale.

300 anni fa è apparso nel mondo un movimento nuovo che abbiamo chiamato modernità, il quale, in maniera costante e crescente, sta trasformando la società umana, penetrando a poco a poco nella maggior parte delle società del pianeta, a partire dalle più sviluppate. Sta emergendo una trasformazione della coscienza umana, degli stessi atteggiamenti spirituali che la costituiscono, una trasformazione provocata soprattutto dall’ampliamento vertiginoso della conoscenza (una rivoluzione scientifica che estende la sua portata già da vari secoli) e dalla trasformazione radicale dell’epistemologia (dai miti alla scienza, dagli argomenti di autorità al metodo scientifico sperimentale), il tutto accompagnato da tecnologie potentissime. Tale trasformazione spirituale dell’essere umano ancora in corso risulta assai profonda, e sta provocando e diffondendo un fenomeno significativo: la crisi delle religioni. In intere regioni del pianeta la pratica religiosa e le stesse istituzioni religiose sono entrate in un grave processo involutivo; in alcuni luoghi si potrebbe dire che sono vicine al collasso.

A questo riguardo, diversi osservatori parlano dell’apparizione di un “paradigma post-religionale”.

Cosa resta di quel dibattito cattolico-protestante?

È in questa attuale situazione di trasformazione e di tempo assiale che vogliamo porre in maniera seria la domanda sul senso attuale del dibattito – che ora ha compiuto 500 anni – tra la Riforma e quella che possiamo definire Cattolicità. Malgrado Lutero sia stato una di quelle figure in anticipo sui tempi e in grado di cogliere precisamente lo spirito della modernità, il sospetto è che il pieno sviluppo raggiunto dalla modernità (includendo in essa ciò che siamo soliti definire come postmodernità) abbia posto le cose in un contesto nuovo in cui tutto ha acquistato un altro senso e un altro significato. È quella sensazione di perplessità che esprimiamo dicendo che, “quando già avevamo la risposte, ci hanno cambiato le domande”. Dal XVI secolo ad oggi si è registrato un cambiamento globale così profondo che i problemi di allora, a cui si è cercato di dare risposta, oggi non esistono più: nel nuovo contesto religioso attuale scompaiono, perché sono diventati inintelligibili; e molte delle proposte e controproposte presentate e contropresentate appartengono a un immaginario e a un mondo concettuale che sopravvivono esclusivamente tra gli specialisti e i rappresentanti delle Chiese che ne hanno fatto il loro modus vivendi. I dibattiti precedenti all’attuale “nuovo tempo assiale” sono rimasti fuori dal contesto storico e, con ciò, privati di significato, inutili, inintelligibili e in definitiva impraticabili.

Applicandolo più concretamente al nostro caso, cosa rimane ancora di attualmente intelligibile, per un teologo o una teologa che abbiano come interlocutore l’uomo o la donna comuni, nel dibattito cattolico-protestante sulla sola Gratia, sulla sola Scriptura, sulla sola Fides o sul solus Christus o i dibattiti intorno alla Redenzione, alla Teologia della Croce o alle conseguenze del peccato originale in un mondo culturale in cui per buona parte delle cosiddette società sviluppate (società dell’informazione o della conoscenza, o come si voglia chiamarle) tutti questi concetti non godono più non solo di plausibilità, ma anche di intelligibilità?

Che accoglienza possono suscitare nell’attuale società emancipata le dimensioni profonde dell’esperienza religiosa di Lutero che hanno dato origine alla Riforma, quando oggi ci appaiono chiaramente riconducibili a un insieme di timori, pregiudizi acritici, concetti superati e credenze mitiche medievali premoderne che ci suscita più una comprensione compassionevole che interesse e ammirazione? Che senso può avere il dibattito “teologico” cattolico-protestante nell’attuale mondo culturale laico, quando in questo non è ormai più plausibile il concetto stesso di “teologia” come “scienza sacra che studia e medita i dati della Rivelazione divina”? Che senso hanno i vecchi dibattiti tra “confessioni cristiane” quando è ora qualcosa di più essenziale, la stessa opzione religionale, a dover essere dibattuta?

La nostra tesi – o, più modestamente, “ipotesi”, che stiamo umilmente ponendo alla considerazione del mondo teologico ecumenico – è che, a questo stadio dell’evoluzione umana (e del pianeta insieme a noi), sono rimasti senza una base e senza senso – per chi sia capace di coglierlo, logicamente – quei dibattiti intra-confessionali che ancora restano racchiusi entro le coordinate ormai superate dallo stato attuale non solo delle conoscenze umane, ma anche e soprattutto della coscienza spirituale umana che si addentra in questo “secondo tempo assiale”. A 500 anni dalla Riforma di Lutero, non ha più senso portare avanti un dibattito teologico che è saltato in aria e fatto a pezzi con la trasformazione radicale che la spiritualità umana ha sperimentato –  e continua a farlo – in questo nuovo tempo assiale. Almeno per chi abbia colto che il pallone è passato in un altro campo di gioco e che quella partita è terminata.

Entrare o meno nel nuovo paradigma

In questo senso, sono cosciente che tale posizione possa risultare strana e persino incomprensibile a chi parta dal presupposto che “in realtà non è successo nulla” e che le grandi questioni restano sul tappeto perché sono eterne, e che possiamo andare avanti con lo stesso tipo di risposte a partire dai presupposti di sempre (…).

Tutti noi che oggi ci collochiamo nella radicalità del cambiamento del nuovo tempo assiale, lo abbiamo scoperto da così poco tempo che ci risulta noto e comprensibile un modo di pensare che ignora la rottura che l’assialità implica.

Per chi guarda all’attuale realtà mondiale nei termini di una trasformazione profonda, con regioni intere – come dicevamo – che in appena qualche decennio hanno concretamente abbandonato la religione cristiana, il futuro del cristianesimo come religione è legato a un’unica soluzione: “Non più Riforma – né tantomeno Controriforma –, ma un’altra cosa: mutazione”. Nella mia umile opinione, l’unica soluzione è la “mutazione genetica” religiosa e spirituale che questo nuovo tempo assiale esige dall’umanità in questo passaggio storico-evolutivo.

Non accettare questa sfida – o, forse, semplicemente non coglierla – avrà come conseguenza l’estinzione di quelle realtà incapaci di adeguarsi alla nuova situazione. Gli osservatori stanno dicendo che le religioni, come nuova forma di configurazione della dimensione spirituale permanente dell’essere umano, sono apparse recentemente, con l’epoca neolitica. E che, con la grande trasformazione legata a questo nuovo tempo assiale, tale configurazione neolitica della spiritualità umana (le religioni appunto) sta volgendo al tramonto, nella misura in cui sta giungendo a termine lo stesso neolitico, superato dall’apparizione e dalla diffusione delle “società della conoscenza”. Alcune religioni – dicono gli analisti – possono ancora godere di un tempo residuale, in alcuni luoghi della terra, ma il loro kairós sembra che sia decisamente passato o che sia sul punto di farlo.

Cogliere questa dimensione profonda del tempo assiale in corso illumina la comprensione dell’attuale momento dell’evoluzione religioso-spirituale dell’umanità: non si tratta, ora, di “tirare calci al vento”, o di camminare in direzione contraria alla storia e alla bio-evoluzione, ma di lasciarsi portare, di cogliere la migliore direzione del vento e di affidarsi a questo, lasciando che germogli il nuovo e che muoia ciò che ha già compiuto la sua missione.

Richiamando un’altra immagine meno bio-evolutiva e più prosaica, dopo lo scontro con l’iceberg, il Titanic è già condannato e si inabisserà; possono volerci “due ore e mezza” o forse vari secoli, ma è ferito a morte e senza capacità di recupero, anche se noi possiamo negare la realtà e restare sulla poppa con l’orchestra insieme a coloro che non si sentono capaci di rompere con un passato che sprofonda e di intraprendere una nuova avventura, la quale si rivela precisamente come l’unica possibilità di continuare a vivere.

Soffermandoci sul tema dei presupposti profondi

So che questa tesi, nella sua gravità, non è facile da accettare per chi non si sia già confrontato qualche volta con questo tipo di ragionamento. È quasi impossibile accettare tale visione già a una prima lettura. Per questo si impone la necessità di spiegare meglio, soffermandosi sul tema dei presupposti profondi.

Per quanto sembri il contrario, le religioni sono in una continua evoluzione e trasformazione. Il susseguirsi di riforme le porta ad adeguarsi ai cambiamenti culturali legati all’evoluzione dei loro tempi. Cos’è una riforma religiosa? È una proposta di ricollocamento degli elementi che costituiscono una concreta fede religiosa, per darle una “nuova forma” (riforma) più praticabile. Quando la riforma è radicale, quando non si limita a ridefinire gli elementi della superficie, ma cambia i presupposti di fondo, i presupposti identitari, si sta producendo una “rottura”. (…).

Ebbene, come abbiamo detto, i cambiamenti sperimentati dalla nostra specie umana in questo nuovo tempo assiale che stiamo vivendo sono così profondi che molti dei presupposti fondamentali millenari originari delle religioni non trovano più posto nel quadro culturale della nuova società. (…).

Tutti gli elementi fondamentali più antichi della religione giudaico-cristiana, per esempio, datano la loro origine nella seconda metà del secondo millennio prima della nostra era, ma ciò che denominiamo come base “antropo-teo-cosmica” (la concezione delle relazioni tra Dio, la natura e l’umanità) era stata già stabilita nei tre millenni precedenti, in seguito, a quanto pare, alle violente invasioni dei popoli euroasiatici: kurgan, ari, dori… e anche dei semiti nel sud, un fenomeno oggi relativamente ben documentato da punto di vista archeologico. (…).

L’ebraismo e tutte le religioni del Levante, della terra di Canaan e della Mesopotamia, sorte in questi tre millenni, condividono lo stesso presupposto antropoteocosmico, bevono dallo stesso fiume spirituale (…). La Bibbia stessa, sorta piuttosto tardi, è cresciuta all’interno di questo stesso humus antropoteocosmico preesistente; è figlia di questo tempo religioso-culturale, del suo immaginario e del suo paradigma religioso, il quale è restato in piedi fino ad oggi. Gli sviluppi e le trasformazioni religiose che hanno avuto luogo nella storia in questi millenni hanno riguardato solo livelli più superficiali: nessuno di essi ha messo in discussione l’essenziale, il nucleo antropoteocosmico.

Al contrario, è questo nucleo così profondo il principale fattore della trasformazione in corso nell’attuale tempo assiale: il post-teismo, l’oikocentrismo, la critica alla desacralizzazione della natura, al dualismo cielo/terra, alla maschilità profonda di Dio, alla sua transcendenza… (…). Nei secoli precedenti nessuno ha messo in discussione ciò che sembrava ovvio, ossia i millenari presupposti antropoteocosmici. Attualmente, anche le persone comuni si sentono a disagio dinanzi a quelle “evidenze millenarie” che oggi hanno smesso di essere ovvie non solo per i filosofi, ma anche per il sentire comune, per lo “spirito del tempo”.

In questo contesto culturale e in questa situazione attuale, l’adeguamento delle religioni alla nuova epoca culturale e spirituale che si apre le obbliga ad assumere un cambiamento dei presupposti profondi che non si configura più come “riforma”, perché implica una rottura più grande rispetto a un paradigma in vigore per più di 5mila anni (e non 500). Per addentrarsi in questa nuova epoca inaugurata dall’attuale tempo assiale, le riforme, per quanto possano essere importanti, non bastano più.

Ciò che si richiede non sono “proposte nuove a partire dai presupposti di sempre”, bensì “proposte nuove, sì, ma a partire da presupposti anch’essi nuovi”.

Quanto stiamo qui esponendo è una questione molto seria, perché si tratta di un cambiamento di paradigma, che abbiamo denominato post-religionale. La tesi è quella a cui si è già fatto riferimento: le religioni, questo modo di configurare la spiritualità umana che è sorto con il neolitico e con la rivoluzione agricola e urbana, hanno reso un grande servizio all’Umanità – non esente da grandi contraddizioni e sofferenze –, ma forse hanno ormai esaurito il loro ruolo. La trasformazione culturale attuale è così profonda che la struttura basilare antropologica delle religioni (non della religiosità umana, bensì proprio delle religioni, della dimensione “religionale”) e gli stessi presupposti antropoteocosmici della spiritualità tradizionale non risultano più intelligibili nel quadro della nuova sensibilità spirituale a cui l’umanità sta accedendo.

Elementi essenziali della forma storica della “religione” e presupposti antropoteocosmici della spiritualità stessa non hanno più corso legale in grandi settori dell’umanità che hanno sperimentato tale trasformazione culturale-spirituale. A causa di un nuovo tempo assiale, l’umanità sta accedendo a un nuovo stadio bio-evolutivo, in cui la dimensione più profonda della sua coscienza non si esprime più in forma “religionale”. Da qui l’abbandono di massa che si è registrato e continua a registrarsi in questi settori dell’umanità.

La Riforma in un nuovo tempo assiale

Benché vi siano molti elementi di incertezza legati all’attesa di nuove scoperte che ci permettano di comprendere meglio il passato spirituale-evolutivo di cui siamo il frutto, se tutto ciò che abbiamo appena detto è globalmente valido, dobbiamo concludere che ci troviamo in un tempo e in un contesto totalmente differenti da quelli che hanno fornito il quadro al dibattito di 500 anni sulla Riforma. Nuove questioni sono emerse e vecchie preoccupazioni sono svanite, ancora prima di trovare una soluzione. “Quando ormai ci sembrava di conoscere le risposte, ci hanno cambiato le domande”. Non sarebbe realistico continuare a dibattere o a dialogare sulla Riforma negli stessi termini teologici e spirituali e con le stesse categorie di mezzo millennio fa, come se nulla fosse successo, come se effettivamente continuassimo a vivere in quel vecchio mondo che ormai non esiste più.

Bisogna domandarsi se si diano oggi le necessarie condizioni di senso per poter continuare quel dibattito di 500 anni fa su Dio, l’anima, la Grazia, il peccato, la Redenzione, la Croce… o se le questioni attualmente importanti siano altre (…).

Bisogna domandarsi se abbia senso continuare a portare avanti una polemica interna al cristianesimo, in un momento e in una società che stanno dando massicciamente le spalle al cristianesimo occidentale storico. Più concretamente:

Come ridefinire il senso del dibattito sulla Sola Scriptura, in una società della conoscenza che non accetta le credenze mitiche, né l’argomento dell’autorità della tradizione, né la divisione tra questo mondo e l’altro, né rivelazioni provenienti da un secondo piano, da un cielo che teniamo separato dalla natura da circa cinque millenni? Forse è meglio superare una volta per tutte ogni dualismo e tornare a unire ciò che è stato indebitamente diviso millenni fa, rinunciare a ogni “secondo piano” e vedere se nel nuovo contesto si possa continuare a parlare di rivelazione e in quale senso.

Come ridefinire la polemica sulla Sola Fides in una società avanzata che non crede più che Dio sia un Signore là sopra, là fuori, che si nasconde e che impone di credere in lui, in una società che pensa che non si tratti più di credere, di sottomettersi e di offrire il sacrificio ragionevole della fede?

Che senso può avere oggi la polemica sul Solus Christus in una società che pensa alle religioni al di là dell’esclusivismo e in Chiese in cui sempre più credenti superano l’inclusivismo cristocentrico, ritenendo sempre più ovvia l’uguaglianza fondamentale di tutti i cammini religiosi?

Che significa il dibattito sulla salvezza attraverso fede dovuta alla Sola Gratia, quando ciò che è in discussione non è più l’alternativa di una salvezza attraverso le opere, ma la natura stessa della salvezza?

Che cos’è la salvezza? Salvezza da che? I presupposti in base a cui si muovevano domande e risposte di questo dibattito cristiano in questi 500 anni sono crollati, trascinando con sé le domande e le risposte, nello tsunami dell’attuale tempo assiale.

È assai probabile che buona parte del discorso celebrativo dei 500 anni della Riforma offra il suo contributo sulla base degli stessi presupposti di sempre, millenari, ignorando il fatto che ci si trovi in un nuovo tempo assiale e che non si tratti più di riforme ma di una rottura globale. Finché rimaniamo all’interno del vecchio paradigma, il dibattito potrà continuare in aeternum. Il semplice ingresso, sincero, nel nuovo paradigma farà sì che sfumino le vecchie domande e i dibattiti a esse legati, e che si possano porre realmente le domande cariche di futuro.

John Shelby Spong, vescovo episcopale emerito di Newark, negli Stati Uniti, è uno degli autori cristiani riformati che più coscienza hanno della necessità di profonde rotture teologiche e spirituali, e che per questo ha esortato a una “Nuova Riforma”, le cui tesi ha “affisso” simbolicamente in internet, come le nuove porte della cattedrale di Wittemberg. Scrittore prolifico, ha insistito ripetutamente sul fatto che la sfida culturale-religiosa del nostro tempo è tale da esigere dal cristianesimo una Riforma molto più profonda di quella di Lutero, una Riforma che «farà sembrare piccola quella del XVI secolo, simile a un gioco di bambini». Non è più il tempo per riforme antiche; è l’urgenza di una Nuova Riforma a imporsi, quella di una differente, radicale, autentica “mutazione genetica spirituale” all’altezza della grande transformazione bio-evolutiva che il pianeta e il cosmo stanno vivendo in noi.

(…). Dopo 500 anni, resteremo seduti al tavolo dell’antica discussione, cercando risposte a domande scomparse dall’orizzonte di buona parte della società e sostituite da altre domande, attuali, in attesa di essere affrontate? Non basteranno 500 anni di divisione? Non sarebbe meglio unirci nel nuovo dibattito, quello del futuro?

* Foto di Sailko, tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

le beatitudini di oggi

Beatitudini sociali

 

  • Beati quelli che non usano le persone per garantire il profitto.
  • Beati quelli che rifiutano la competizione e il consumismo.
  • Beati quelli che non devono difendere ricchezze.
  • Beati quelli che stringono la mano ad un malato.
  • Beati quelli che accolgono un figlio c.d. disabile.
  • Beati quelli che assistono i genitori anziani e malati.
  • Beati quelli che nel silenzio si accorgono della consolazione di Dio.
  • Beati quelli che non credono negli idoli.
  • Beati quelli che si fermano e chiedono se serve aiuto.
  • Beati quelli che si mettono dalla parte degli ultimi.
  • Beati quelli che credono nell’amore.

 
Vangelo di Matteo 5,1-12a

“In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

  • Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
  • «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
  • Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
  • Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
  • Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
  • Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
  • Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
  • Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
  • Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli»” 

pubblicato da altranarrazione

un’offesa a papa Giovanni farlo patrono dell’esercito e della guerra

Giovanni XXIII

mons. Ricchiuti (Pax Christi)

“il papa della pace non può diventare patrono dell’esercito

“papa Giovanni XXIII è nel cuore di tutte le persone come il Papa Buono, il papa della pace, e non degli eserciti”

Così mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, contesta oggi la notizia della nomina di San Giovanni XXIII a patrono dell’esercito italiano, che secondo l’Ansa sarà ufficializzata domani, 12 settembre, in una celebrazione riservata nel Palazzo Esercito di via XX Settembre. L’ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, consegnerà la Bolla della Congregazione per il Culto divino al capo di Stato Maggiore dell’Esercito, gen. Danilo Errico. “Come presidente della sezione italiana di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, mi sembra irrispettoso coinvolgere come patrono delle Forze Armate colui che, da Papa, denunciò ogni guerra con l’Enciclica ‘Pacem in terris’ e diede avvio al Concilio che, nella Costituzione ‘Gaudium et spes’, condanna ogni guerra totale, come di fatto sono tutte le guerre di oggi”, afferma mons. Ricchiuti. Per il presidente e tutto il movimento Pax Christi questa notizia è ritenuta “assurda” anche perché “l’Esercito di oggi, formato da militari professionisti e non più di leva, è molto diverso da quello della Prima guerra mondiale” ed è cambiato anche il modello di Difesa, “con costi altissimi (23 miliardi di euro per il 2017) e teso a difendere gli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi”. “Pensare a Giovanni XXIII come patrono dell’Esercito – sottolinea – lo ritengo anticonciliare anche alla luce della forte ed inequivocabile affermazione contenuta nella Pacem in Terris, ‘con i mezzi di distruzione oggi in uso e con le possibilità di incontro e di dialogo, ritenere che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace è fuori dalla ragione – alienum a ratione’. È ‘roba da matti’, per usare un’affermazione di don Tonino Bello, anch’egli presidente di Pax Christi fino al 1993”. Mons. Ricchiuti è certo che “questo sentire non sia solo di Pax Christi, ma di tante donne e uomini di buona volontà, a cui chiediamo di unirsi con ogni mezzo a questa dichiarazione per esprimere il proprio rammarico per una decisione che non rappresenta il ‘sensus fidei’ di tanti credenti che hanno conosciuto Giovanni XXIII o che ne apprezzano la memoria di quella ventata profetica che ha indicato alla Chiesa nuovi sentieri di giustizia e di pace”.

migranti economici contro migranti rifugiati?

si possono opporre migranti economici e rifugiati?

intervista a Jean-François Dubost*

“La questione delle migrazioni è complessa e non è compatibile con l’approccio binario che distingue migranti economici e rifugiati. Soprattutto se tale approccio mira ad opporre gli uni agli altri, mentre tutti hanno diritti e devono essere protetti”

C’è un solo caso in cui è facile fare una distinzione tra migranti economici e rifugiati, è la situazione di guerra. È evidente che persone siriane, eritree o originarie del Sudan hanno bisogno di essere protette nel quadro del diritto d’asilo e di beneficiare così dello statuto di rifugiato. Invece, è completamente falso dire, come si è sentito in questi ultimi anni, che tutti coloro che non vengono da paesi in guerra sono migranti economici. La distinzione non è così semplice. Anche in uno Stato a priori sicuro, se la persona migrante ha subito persecuzioni a titolo personale, ha diritto allo statuto di rifugiato. Facciamo l’esempio di una persona che viene dal Senegal e che vi è perseguitata per la sua omosessualità. Certo, il Senegal non è un paese in guerra. Ma questo migrante ha diritto ad essere riconosciuto rifugiato in Francia. Il pericolo maggiore sarebbe quindi quello di fare una scelta in base alla nazionalità, non sarebbe pertinente. Del resto, è difficile distinguere un solo motivo di migrazione quando, nella realtà, le motivazioni sono spesso molteplici. Oggi molte persone lasciano i loro paesi per il doppio motivo del mancato rispetto dei loro diritti e per problemi economici. Alcuni possono anche esser partiti solo per motivi economici, ma è possibile che al loro arrivo in Francia la situazione nel loro paese sia cambiata e impedisca il loro ritorno. È quindi difficile stabilire delle categorie valide una volta per tutte e identiche per un numero elevato di persone. Infine, occorre sottolineare che certe situazioni sono molto complesse. È il caso di persone i cui diritti economici e sociali sono stati lesi, che hanno subito ad esempio la mancanza di accesso alle cure, all’alimentazione o all’acqua corrente. Di primo acchito, si potrebbe ritenere che la loro situazione non rientri nel quadro dello statuto di rifugiato e che rientri in quella che i politici chiamano “migrazione economica”. Ma alcune persone sono di fatto trascurate dai poteri centrali dei loro paesi a causa della loro origine o delle loro opinioni politiche. Se i fatti sono chiariti, queste persone potrebbero quindi essere protette e considerate come rifugiati. Può essere il caso dei Rom venuti dal Kosovo, colpiti da una politica discriminante nel loro Stato. La questione delle migrazioni è quindi complessa e non è compatibile con l’approccio binario che distingue migranti economici e rifugiati. Soprattutto se tale approccio mira ad opporre gli uni agli altri, mentre tutti hanno diritti riconosciuti e devono essere protetti.

* giurista, responsabile del programma Protezione delle popolazioni a Amnesty International France

fare il clochard non è reato

la Cassazione difende i clochard

bivaccare in strada non è reato per un senza casa

avrebbe dovuto pagare mille euro di multa

l’avvocato: “L’uomo versava in stato di necessità e con l’esigenza di un alloggio”

Assolto in Cassazione il clochard multato per aver bivaccato in strada

assolto in Cassazione il clochard multato per aver bivaccato in strada

da Globalist

Capita che il volto umano, nella circostanza, sia invece quello della Cassazione che ha ribaltato la sentenza con la motivazione che “non è reato e non può essere condannato chi vive per strada, su di un marciapiede con i cani in una baracca precaria di cartoni e pedane in legno”.

Nel ricorso in Cassazione, il difensore aveva ribadito che l’uomo, senza fissa dimora, “versava in stato di necessità e con l’esigenza di un alloggio”.
La vicenda risale a dicembre 2010. Il clochard, un quarantenne italiano, era stato condannato dal tribunale di Palermo a pagare mille euro per non aver rispettato l’ordinanza del primo cittadino a non predisporre accampamenti di fortuna. L’obiettivo era quello di non consentire l’alterazione del decoro urbano ed essere d’intralcio alla pubblica viabilità.

Secondo la prima sezione penale, l’ordinanza del sindaco è “una disposizione di tenore regolamentare data in via preventiva ad una generalità di soggetti, in assenza di riferimento a situazioni imprevedibili o impreviste”, e “non è sufficiente l’indicazione di mere finalità di pubblico interesse”. La Corte ha quindi annullato la condanna perché “il fatto non sussiste”.

In un’altra sentenza, la Cassazione aveva annullato la condanna della Corte di Appello di Genova a un giovane straniero senza fissa dimora responsabile di un furto di wurstel e formaggio del valore di 4 euro.

“Il fatto – ha spiegato la Corte Suprema – non costituisce reato”

a Ratisbona un cinquantennio di inferno contro i bambini – occorre un radicale mea culpa

il coro di Ratisbona

un inferno di violenze per 547 bambini e adolescenti

di Luca Kocci
in “il manifesto” del 19 luglio 2017

Almeno 547 bambini e adolescenti del coro di voci bianche del duomo di Ratisbona, in Baviera, fra il 1945 e il 1992 – negli anni in cui a dirigere il coro ci fu anche il fratello del papa emerito Joseph Ratzinger, Georg – avrebbero subito violenze di ogni tipo dai preti e dai propri educatori, molti di loro anche abusi sessuali. La denuncia è arrivata dall’avvocato tedesco Ulrich Weber, che dal 2015 sta indagando sullo scandalo che ha investito la diocesi di Ratisbona, un vero e proprio crimine ai danni di minori di cui si parlava già da molti anni, ma non con l’evidenza e soprattutto le dimensioni che sono state rivelate ieri, durante una conferenza stampa in cui l’avvocato ha presentato i risultati della sua inchiesta. Nel gennaio 2016 Weber aveva parlato “solo” di 231 casi di percosse, privazioni del cibo, abusi e violenze sessuali. Ora il numero è più che raddoppiato: 547 bambini subirono maltrattamenti fisici e psicologici, 67 di loro anche violenze sessuali, da parte di 49 fra preti ed educatori che sarebbero stati identificati ma che difficilmente andranno a processo per via della prescrizione (finora solo due religiosi sono comparsi in un tribunale penale tedesco: un ex insegnante di religione vicedirettore del liceo, allontanato nel 1958, e un ex direttore del convitto, entrambi morti nel 1984). E i numeri potrebbero crescere ancora, fino a far assumere al “caso Ratisbona” una rilevanza pari a quella di altri scandali internazionali di pedofilia ecclesiastica, dagli Stati Uniti all’Irlanda. «Le vittime hanno descritto i loro anni di scuola come una prigione, come l’inferno e come un campo di concentramento. Molti si ricordano di quegli anni come il periodo peggiore della loro vita, caratterizzato da paura e violenza», usata come «metodo» per ottenere «massimi risultati» e «assoluta disciplina», ha spiegato l’avvocato Weber nel rapporto presentato alla stampa. Un vero e proprio «sistema della paura», fatto di violenze, sottomissione psicologica, incapacità di reagire, omertà e silenzi, che ha avvolto per anni l’ambiente dei Regensburger domspatzen, i «passeri del duomo di Ratisbona», come venivano chiamati i bambini e i ragazzi del coro delle voci bianche. Il rapporto non condanna direttamente come autore delle violenze ma nemmeno assolve mons. Georg Ratzinger, fratello del papa emerito Benedetto XVI, direttore del coro fra il 1964 e il 1994, che avrebbe «fatto finta di non vedere» e che sarebbe colpevole «di non essere intervenuto, nonostante fosse a conoscenza» di ciò che accadeva. Da parte sua, Georg Ratzinger, chiamato in causa già diversi anni fa, si è sempre difeso: «Se fossi stato a conoscenza dell’eccesso di violenza utilizzato, avrei fatto qualcosa», dichiarò in passato in un’intervista ad un giornale bavarese, ammettendo quindi che una dose “equilibrata” di violenza veniva praticata.

Non ne esce bene nemmeno il cardinal Gerhard Müller, vescovo di Ratisbona dal 2002 al 2012 prima di essere chiamato da papa Ratzinger in Vaticano a dirigere la Congregazione per la Dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio), incarico che qualche settimana fa, allo scadere del quinquennio, papa Francesco non gli ha rinnovato (anche per divergenze teologiche: Müller rappresenta una linea conservatrice rispetto alle aperture pastorali di Bergoglio). Pur non essendo coinvolto né direttamente né indirettamente – tutte le violenze sarebbero avvenute prima che Müller assumesse la guida della diocesi –, il rapporto dell’avvocato Weber critica il modo con cui ha gestito la vicenda, dopo le prime denunce: in particolare non avrebbe cercato alcun dialogo con le vittime né si sarebbe impegnato a chiarire cosa fosse realmente accaduto nel coro delle voci bianche della cattedrale della sua diocesi. Diocesi che poi, andato via Müller, ha parzialmente cominciato ad ammettere i fatti dei decenni precedenti, assicurando un indennizzo massimo di 20mila euro per ciascuna vittima. La prossima settimana, in Australia, si aprirà un nuovo processo per casi di pedofilia ecclesiastica: davanti ai magistrati andrà il cardinale George Pell, attuale capo – sebbene “in aspettativa” – della segreteria per l’Economia, il ministero dell’economia del Vaticano.

 

violenze nel coro Ratisbona
una lettera del 1967 di un piccolo alunno della scuola preparatoria del coro
“vi prego, venite a prendermi…”
la lettera della vittima 153 del Coro dei bambini di Ratisbona
il documento drammatico è tra i tanti contenuti nel rapporto Weber Tweet 19 luglio 2017
“Cari cari genitori, vi voglio tanto tanto bene. Vi prego, vi prego vorrei così così così volentieri tornare a casa. Vi prego, vi prego non mi mandate nessun pacchettino, io vorrei così così così tanto tornare a casa”.
Inizia così una lettera della vittima 153 del coro di bambini del Duomo di Ratisbona, scritta nel 1967 da alunno della scuola preparatoria del coro. Nel rapporto presentato da Ulrich Weber, l’avvocato incaricato di gettare luce sugli abusi nella Cattedrale di Ratisbona, questo documento è classificato tra le “lettere di nostalgia”.
“Venite a prendermi appena leggete questa lettera e non dimenticatevi la valigia. Io devo sempre sempre piangere. E pagate tutto subito, è meglio così. Ho tantissima nostalgia. Aspetto nella mia stanza. Saluti, il vostro caro…”.
E’ solo una delle tante testimonianze raccolte nel corposo rapporto di 440 pagine che documenta gli abusi fisici e sessuali subiti da almeno 547 bambini del prestigioso coro tra il 1945 e i primi anni Novanta. I “passeri” del Duomo di Ratisbona (“Regensburger Domspatzen”) tra il 1964 e il 1993 furono diretti da Georg Ratzinger, fratello del Papa emerito, che già nel 2010, all’epoca dalla ondata di rivelazioni e accuse sulle violenze subite da bambini da parte di prelati cattolici, si era scusato con le vittime. 
 OCCORRE UN’AUTOCRITICA SPIETATA
adesso Francesco ha un dovere: ribaltare la chiesa delle bugie
di Marco Marzano
Sono agghiaccianti le notizie che ci arrivano da Ratisbona. Insomma quella scuola di Ratisbona assomigliava decisamente a un lager: molti che ebbero la disgrazia di passarvi dicono di avervi trascorso gli anni “peggiori della loro vita”. Come in ogni lager, gli aguzzini erano numerosi e organizzati: secondo i dati del rapporto, ben cinquanta di loro sono già stati identificati, ma è probabile che siano molti di più. Di quel campo di concentramento, Georg Ratzinger, il fratello del papa emerito, è stato per 30 anni, autorevole direttore. Secondo chi ha redatto il rapporto, egli sapeva, copriva e proteggeva gli autori delle violenze.
La prima reazione a questa notizia consiste nel pensare che l’orribile situazione possa essere stata, almeno in parte, all’origine delle clamorose dimissioni di Ratzinger: come è noto, il rapporto tra il papa emerito e il fratello è sempre stato fortissimo e psicologicamente sbilanciato a favore del maggiore dei due, cioè dell’ex direttore del coro-lager. Cosa sarebbe successo se il pontefice tedesco fosse stato ancora regnante al momento della pubblicazione del rapporto? Quanto discredito sarebbe caduto sul Vaticano a seguito delle gesta del fratello del capo? Non lo sapremo mai perché, forse per sua fortuna, Ratzinger non è più papa. Ma non credo sia questo l’elemento su cui concentrarsi.
Perché ce n’è uno più importante: la Chiesa Cattolica si è trovata e si troverà in futuro decine di volte ad essere messa sul banco degli imputati per le azioni esecrabili di alcuni suoi membri. È venuto il momento per la grande istituzione di assumersi direttamente la responsabilità di tutto questo, di ammettere che quei crimini non sono solo il risultato del comportamento di alcune personalità malvage o perverse, ma anche in grande misura la conseguenza di un modello formativo, di un addestramento specializzato, di un’immagine del prete e del suo ruolo che l’istituzione ha costruito in secoli lontani (nei quali la pedofilia e le botte ai ragazzini non erano nemmeno reati) e che si rifiuta ostinatamente di cambiare, anche di fronte ad evidenze come quella di Ratisbona. Penso sia necessario quindi che la Chiesa non solo compia un profondo atto di contrizione e una richiesta di perdono, ma anche che avvii un gigantesco e pubblico processo di autocoscienza, di autocritica: qualcosa di simile a quello che hanno fatto i tedeschi dopo la fine del nazismo. Sarebbe un gesto liberatorio e straordinario, che porterebbe davvero la Chiesa nella modernità, riscattandosi da una delle sue pagine più buie. Ci pensi Francesco. Sarebbe un modo per entrare davvero nella storia.

così cominciò il primo preteoperaio a Viareggio

il salto del muro

don Sirio Politi, preteoperaio a Viareggio

Armando Sestani 

luglio 1961: in una luccicante estate versiliese in pieno boom economico, un prete fuori dagli schemi decide di compiere un clamoroso gesto di solidarietà verso i lavoratori in sciopero di uno stabilimento della Darsena viareggina

Il vecchio muro della F.E.R.V.E.T. di Viareggio, che nel luglio 1961 don Sirio Politi, contravvenendo agli espliciti divieti aziendali in merito, osò scavalcare per andare a celebrare messa con gli operai in sciopero. Ai giorni nostri, il complesso ospita un cantiere navale.

Il vecchio muro della F.E.R.V.E.T. di Viareggio, che nel luglio 1961 don Sirio Politi osò scavalcare per andare a celebrare messa con gli operai in sciopero.

“Hanno affittato anche le barche”. Con questa constatazione inizia un articolo dello scrittore viareggino Silvio Micheli, pubblicato sulle pagine del quotidiano comunista l’Unità all’indomani del ferragosto del 1961. Viareggio è in quegli anni una delle mete preferite del neonato turismo di massa, frutto di una crescita economica che proprio in quell’anno raggiunge il suo apice, con un aumento del PIL dell’8,3%. Sono gli anni del cosiddetto “miracolo italiano”, quando la lira conquista nel 1960 il riconoscimento di moneta più salda fra quelle del mondo occidentale. Milioni di italiani possono permettersi l’acquisto del televisore e del frigorifero: tuttavia, diventa l’automobile il sogno di molti. La FIAT, che nel 1955 mette in produzione la 600, presenta due anni dopo la 500, al costo di 490.000 lire, pari a tredici stipendi di un operaio: nonostante il prezzo sia elevato, inizia proprio in quegli anni la motorizzazione di massa degli italiani. L’utilitaria, spesso acquistata dopo la firma di numerose cambiali, permette di raggiungere, soprattutto in estate, le località balneari. “Tutta Viareggio” scrive Micheli “ha dovuto far posto ai ferragostini, una volta completati alberghi e pensioni. Ma i ferragostini continuavano ad arrivare rigati di sudore dalle città e dalle campagne cotte dal sole”.

un’immagine del Lungomare viareggino in pieno boom economico: sullo sfondo, i cantieri della Darsena

 

Ma se esiste una Viareggio che fa del turismo, di élite e di massa, la sua risorsa principale e cerca di sistemare i villeggianti come può, c’è un’altra Viareggio che vive una situazione ben diversa. Da quando inizia la costruzione del porto-canale nel 1819, la città versiliese si sviluppa nei decenni successivi prendendo due direzioni: da una parte, la città turistica e commerciale con i suoi alberghi e i ritrovi per gli artisti, dall’altra, la Darsena con i cantieri navali, regno dei maestri d’ascia e calafati prima e della carpenteria metallica poi. A dividere queste due realtà, il porto-canale.

Tuttavia, nella Darsena viareggina non si costruiscono solo navi di ogni genere. In quella parte della città è situata anche una delle fabbriche più importanti: la F.E.R.V.E.T., acronimo che significa Fabbricazione E Riparazione Vagoni E Tramway, con sede principale a Bergamo e succursali in altre città. Le cronache e le testimonianze dell’epoca ci raccontano di un lavoro particolarmente duro, svolto in un ambiente malsano e con attrezzi inadeguati per il tipo di produzione richiesto. Per questo motivo gli operai, all’epoca circa 270, sono tra i più combattivi e politicizzati della città. Quando nel 1955 la FIOM subisce una pesante sconfitta nelle elezioni della commissione interna alla FIAT, passando dal 65% al 36%, nello stesso anno alla F.E.R.V.E.T. la FIOM aumenta i consensi, raggiungendo il 73% dei voti operai. Per tutti gli anni ’50 la conflittualità operaia si manifesta con scioperi e occupazioni dello stabilimento, come in quella estate del 1961. Dalla metà del mese di luglio, gli operai occupano lo stabilimento, contro la smobilitazione paventata dall’azienda, trascinando i lavoratori viareggini in più scioperi di solidarietà. Tuttavia, quella lotta passerà alla storia cittadina per un gesto di solidarietà e di disobbedienza di un prete, anzi di un preteoperaio.

Nativo di Capezzano Pianore (Camaiore, Lu), don Sirio Politi (1920-1988), assieme al fiorentino don Bruno Borghi (1922-2006), fu il primo preteoperaio italiano.

Dall’estate del 1956 don Sirio Politi, nato nel 1920 e fino all’anno prima parroco di Bargecchia, una piccola frazione collinare del comune di Massarosa, si è stabilito nella Darsena, in un piccolo edificio trasformato in una chiesina che si affaccia sul Canale Burlamacca, e lavora come scaricatore di porto. Fino al 1959 ha lavorato in un cantiere navale, poi si è dovuto licenziare: le autorità ecclesiastiche romane hanno infatti posto fine all’esperienza dei pretioperai, nata in Francia nei primi anni ’40. Insieme a don Bruno Borghi di Firenze, Politi è il primo preteoperaio italiano.

Don Sirio chiede più volte alla direzione di poter effettuare la messa all’interno della fabbrica occupata, ma il permesso viene ripetutamente negato. Finché una domenica, dopo l’ennesimo rifiuto, prende una valigia e la riempie con gli arredi sacri. Porta con sé anche una scala, per permettergli di scavalcare il muro di cinta della fabbrica, e, con l’aiuto degli operai, riesce ad entrare. “Ho scavalcato questo abisso di divisione”, scriverà don Sirio, “e mi sono sentito come in terra libera, fra uomini liberi”. Gli operai gli fanno visitare la fabbrica: “Una attrezzatura primitiva, un macchinario antiquato di quarant’anni fa, un’organizzazione di lavoro assurda e un disordine inconcepibile”. Intanto viene preparato l’altare “con attrezzi di lavoro e lamiere”. Ricordando quella esperienza, scrive don Sirio: “Può darsi che molti non siano credenti. Forse alcuni hanno voluto questa Messa per interesse di pubblicità: ma a me non importava nulla dei motivi e delle intenzioni – e nel caso ero felice che almeno quella Messa servisse a dei poveri, a degli operai… l’importante era che Dio fosse lì tra i poveri, che Gesù Cristo consumasse lì, fra gli operai, il Suo Sacrificio di Redenzione… a dare senso, significato, valore infinito ed eterno a questa povera vicenda umana, a queste situazioni di ingiustizia, a questa sofferenza per i diritti fondamentali alla vita”.

Darsena viareggina: la “Chiesina del Porto” (o “Chiesina dei Pescatori”) subito dopo la ristrutturazione del 1962, voluta e realizzata dallo stesso don Politi, che, poeta, uomo di lotta e di pace, era pure un abile artigiano.

La F.E.R.V.E.T. continuerà ancora per un trentennio l’attività, fino ad una ennesima occupazione e alla definitiva chiusura nel 1991. Don Sirio Politi proseguirà nel suo cammino, svolgendo l’attività di fabbro e continuando nelle battaglie nonviolente a difesa degli obiettori di coscienza, per la pace e contro l’opzione nucleare, attraverso una feconda attività editoriale. 

 

la riflessione di L. Boff in occasione dei suoi 70 anni

NASCERE ANCORA A SETTANT’ANNI

Leonardo Boff 

da: Adista Contesti n° 2 del 03/01/2009

 

 

In questo mese di dicembre compio 70 anni. Secondo i parametri brasiliani, divento ufficialmente vecchio. Questo non significa che io sia prossimo alla morte, perché questa può sopravvenire nel primo istante di vita. Però è un’altra tappa della vita, l’ultima.

Possiede una dimensione biologica, perché si esaurisce inesorabilmente il capitale vitale, ci indeboliamo, perdiamo il vigore dei sensi e ci allontaniamo lentamente da tutto. Di fatto, siamo anche un po’ più dimenticati e, forse, diventiamo impazienti e sensibili ai gesti di bontà, che ci muovono facilmente alle lacrime.

Ma c’è un’altra cosa, più interessante. La vecchiaia è l’ultima tappa della crescita umana. Nasciamo interi, ma non completi. Dobbiamo completare la nostra nascita costruendo l’esistenza, aprendo cammini, superando difficoltà e modellando il nostro destino. Siamo sempre in genesi. Cominciamo a nascere e continuiamo a nascere in prestazioni lungo la vita fino a finire di nascere. Allora entriamo nel silenzio. E moriamo.

La vecchiaia è l’ultima opportunità che ci offre la vita per finire di crescere, di maturare, e per finire di nascere. In questo contesto è illuminante la parola di san Paolo: “Nella misura in cui l’uomo esteriore decade, ringiovanisce l’uomo interiore” (2Cor 4,16). La vecchiaia è un’esigenza della persona interiore. Cos’è la persona interiore? È il nostro io profondo, il nostro modo singolare di essere e di agire, il nostro marchio registrato, la nostra identità più radicale.

Questa identità dobbiamo guardarla in faccia direttamente. È personalissima e si nasconde dietro le molte maschere che la vita ci impone, perché la vita è un teatro nel quale ricopriamo vari ruoli. Io, per esempio, sono stato francescano, prete, ora laico, teologo, filosofo, professore, conferenziere, scrittore, editore, redattore di alcune riviste, sotto inchiesta delle autorità dottrinarie vaticane, costretto al “silenzio ossequioso”, ed altri ruoli ancora. Ma c’è un momento in cui tutto questo si relativizza e diventa paglia secca. Allora abbandoniamo la scena, ci togliamo le maschere e ci chiediamo: in fin dei conti, io chi sono? Quali sogni mi motivano? Quali angeli mi abitano? Quali demoni mi tormentano? Qual è il mio posto nel disegno del Mistero? Nella misura in cui proviamo, con timore e tremore, a rispondere a queste domande, viene alla luce l’uomo interiore. La risposta non è mai conclusiva; si perde fin dentro l’Ineffabile.

Questa è la sfida che ci pone la tappa della vecchiaia. Allora rendiamoci conto che avremmo bisogno di molti anni di vecchiaia per trovare la parola essenziale che ci definisce. Sorpresi, scopriamo che non viviamo semplicemente perché non moriamo, ma che viviamo per pensare, meditare, aprire nuovi orizzonti e creare sensi di vita. Specialmente per cercare di fare una sintesi finale, integrando le ombre, rialimentando i sogni che ci hanno sostenuto tutta una vita, riconciliandoci con i fallimenti e acquistando saggezza. È illusorio pensare che questa venga con la vecchiaia. La saggezza viene dallo spirito con il quale viviamo la vecchiaia come tappa finale della crescita e del nostro vero Natale.

Infine, è importante preparare il grande Incontro. La vita non è strutturata per finire con la morte, ma per trasfigurarsi attraverso la morte. Moriamo per vivere di più e meglio, per immergerci nell’eternità e incontrarci con la Realtà Ultima, fatta di amore e misericordia. Lì sapremo veramente chi siamo e qual è il nostro vero nome.

Condivido con il saggio dell’Antico Testamento lo stesso sentimento: “Contemplo i giorni passati e ho gli occhi rivolti all’eternità”.

Porto avanti due sogni, sogni di un giovane anziano: il primo è scrivere un libro solo per Dio, se è possibile con il mio proprio sangue; il secondo è impossibile, ma bene espresso da Herzer, bambina di strada e poeta: “Io vorrei solo rinascere di nuovo per insegnarmi a vivere”. Ma siccome questo è irrealizzabile, non mi rimane che apprendere alla scuola di Dio. Parafrasando Camões, concludo: “Vivrei di più se non fosse, per un sì grande ideale, tanto corta la vita”.

 

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