i paesi che ci sembrano più poveri sono solo più impoveriti e sfruttati

 

“laudato si’ ”  in El Salvador

Tonio Dell’Olio

in Mosaico dei giorni

 

 

Non smetteremo mai di ricordarlo: i Paesi più poveri sono i più ricchi! Semplicemente sono sfruttati, depredati delle loro materie prime, ovvero delle loro immense ricchezze.

“Aiutarli a casa loro” non significa mettere in campo progetti umanitari di assistenza ma più semplicemente fare in modo che le multinazionali dell’agricoltura e dell’estrattivismo, abbandonino quei territori permettendo alle popolazioni locali di utilizzare le proprie risorse. Ma questo renderebbe più povero il Nord del mondo e non ci conviene.

Lo scorso anno la Oceana Gold (prima era la Pacific Rim Mining Corp.) aveva denunciato il governo del piccolissimo El Salvador perché negava i permessi di estrazione e per questo chiedeva un risarcimento di 250 milioni di dollari per i mancati guadagni. Per fortuna in ottobre lo Stato ha vinto la causa. Ma il problema rimane perché, secondo le Nazioni Unite, El Salvador ha il più alto grado di degrado ambientale nella regione dopo Haiti. Solo il 3% della foresta naturale rimane incontaminata, i terreni sono compromessi da pratiche agricole ed estrattive che eliminano la biodiversità, inquinano e riducono in miseria i campesinos che non hanno più nemmeno quel pezzetto di terra da coltivare per il proprio fabbisogno. Il 6 febbraio scorso i vescovi salvadoregni hanno chiesto all’Assemblea Legislativa di emanare una legge per vietare l’estrazione dei metalli da parte di compagnie minerarie transnazionali. È il risultato di una campagna della Caritas e dell’Università CentroAmericana (Gesuiti) che ha documentato i danni provocati all’ambiente e alla popolazione.

Si tratta di tradurre in pratica l’Enciclica Laudato si’.

Né più né meno.

papa Francesco scrive la prefazione al libro di una vittima di un prete pedofilo

 

 

“chiedo perdono per i preti pedofili un segno del diavolo saremo severissimi”

di papa Francesco

in “la Repubblica” del 13 febbraio 2017

due anni fa l’ex sacerdote svizzero Daniel Pittet, poi sposato e padre di sei figli, ha incontrato il Pontefice in Vaticano e gli ha raccontato la sua storia. Che adesso è pubblicata nel libro

“la perdono, padre”

(Edizioni Piemme)

ecco la prefazione, scritta dal Papa

Per chi è stato vittima di un pedofilo è difficile raccontare quello che ha subito, descrivere i traumi che ancora persistono a distanza di anni. Per questo motivo la testimonianza di Daniel Pittet è necessaria, preziosa e coraggiosa. Ho conosciuto Daniel in Vaticano nel 2015, in occasione dell’Anno della vita consacrata. Voleva diffondere su larga scala un libro intitolato “Amare è dare tutto”, che raccoglieva le testimonianze di religiosi e religiose, di preti e di consacrati. Non potevo immaginare che quest’uomo entusiasta e appassionato di Cristo fosse stato vittima di abusi da parte di un prete. Eppure questo è ciò che mi ha raccontato, e la sua sofferenza mi ha molto colpito. Ho visto ancora una volta i danni spaventosi causati dagli abusi sessuali e il lungo e doloroso cammino che attende le vittime. Sono felice che altri possano leggere oggi la sua testimonianza e scoprire a che punto il male può entrare nel cuore di un servitore della Chiesa. Come può un prete, al servizio di Cristo e della sua Chiesa, arrivare a causare tanto male? Come può aver consacrato la sua vita per condurre i bambini a Dio, e finire invece per divorarli in quello che ho chiamato «un sacrificio diabolico», che distrugge sia la vittima sia la vita della Chiesa? Alcune vittime sono arrivate fino al suicidio. Questi morti pesano sul mio cuore, sulla mia coscienza e su quella di tutta la Chiesa. Alle loro famiglie porgo i miei sentimenti di amore e di dolore e, umilmente, chiedo perdono. Si tratta di una mostruosità assoluta, di un orrendo peccato, radicalmente contrario a tutto ciò che Cristo ci insegna. Gesù usa parole molto severe contro tutti quelli che fanno del male ai bambini: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Matteo 18, 6). La nostra Chiesa, come ho ricordato nella lettera apostolica “Come una madre amorevole” del 4 giugno 2016, deve prendersi cura e proteggere con affetto particolare i più deboli e gli indifesi. Abbiamo dichiarato che è nostro dovere far prova di severità estrema con i sacerdoti che tradiscono la loro missione, e con la loro gerarchia, vescovi o cardinali, che li proteggesse, come già è successo in passato. Nella disgrazia, Daniel Pittet ha potuto incontrare anche un’altra faccia della Chiesa, e questo gli ha permesso di non perdere la speranza negli uomini e in Dio. Ci racconta anche della forza della preghiera che non ha mai abbandonato, e che lo ha confortato nelle ore più cupe. Ha scelto di incontrare il suo aguzzino quarantaquattro anni dopo, e di guardare negli occhi l’uomo che l’ha ferito nel profondo dell’animo. E gli ha teso la mano. Il bambino ferito è oggi un uomo in piedi, fragile ma in piedi. Sono molto colpito dalle sue parole: «Molte persone non riescono a capire che io non lo odii. L’ho perdonato e ho costruito la mia vita su quel perdono». Ringrazio Daniel perché le testimonianze come la sua abbattono il muro di silenzio che soffocava gli scandali e le sofferenze, fanno luce su una terribile zona d’ombra nella vita della Chiesa. Aprono la strada a una giusta riparazione e alla grazia della riconciliazione, e aiutano anche i pedofili a prendere coscienza delle terribili conseguenze delle loro azioni. Prego per Daniel e per tutti coloro che, come lui, sono stati feriti nella loro innocenza, perché Dio li risollevi e li guarisca, e dia a noi tutti il suo perdono e la sua misericordia.

“ho svelato a Francesco i miei quattro anni di inferno e lui ha pianto insieme a me”

intervista a Daniel Pittet

a cura di Caterina Pasolini
in “la Repubblica” del 13 febbraio 2017

«Avevo solo otto anni. Ero un bambino timido, fragile. Lui era il prete: simpatico, premuroso con me, un ragazzino senza famiglia, mamma depressa, padre che l’aveva accoltellata quando mi aspettava. Avrebbe dovuto proteggermi, invece ha percepito la mia debolezza, il vuoto e ne ha approfittato. Mi ha stuprato per quattro anni, ha abusato di me senza sensi di colpa né rimorsi. Ha fatto lo stesso impunemente con altri cento ragazzi»

Daniel Pittet, 57 anni di Friburgo, è un uomo che ha attraversato l’inferno e ne è uscito dopo anni di terapia trovando la forza di denunciare le violenze subite. Parla perché altri bambini non subiscano da chi dovrebbe proteggerli, perché la chiesa denunci chi abusa. Ha moglie e sei figli a cui ha raccontato tutto della sua infanzia ferita, di quel prete che per lui rappresentava potere e saggezza e si è rivelato un aguzzino. Di una chiesa che l’ha tradito, senza fargli perdere la fede. Era il 1968, aveva otto anni…

«Con una scusa mi ha portato in una stanza. Ha chiuso la porta. Non potevo scappare ero impietrito. Quando ha finito di usarmi mi ha detto: questo rimane tra noi. A chi avrei potuto dirlo, chi mi avrebbe creduto? A casa erano tutti religiosi, credevano nell’autorità della chiesa, non mi avrebbero mai dato retta. Ho passato anni a pensare che ero l’unico a subire quei pomeriggi da incubo, a cercare di dimenticare il suo corpo addosso al mio».

Nel libro lei usa parole e immagini crude, non risparmia nulla dello strazio subito tra foto che celano il segreto di un ragazzino vestito da chierichetto: capelli lunghi, gli occhi ingenui, il sorriso triste. Nessuno ha mai sospettato?

«Per anni mi sono domandato se gli adulti sapessero e facessero finta di non capire. Mi sembrava impossibile che mia madre non intuisse. Solo la mia maestra notando che andavo male a scuola, che ero sempre più solo, chiuso e timido mi ha mandato da un medico ma non so se era un cattivo dottore o si è spaventato, so solo che non ha fatto le domande giuste per aiutarmi a trovare il coraggio di parlare. Così il segreto è rimasto fino a quando la mia prozia ha capito e sono uscito dall’inferno. Avevo 12 anni».

Quando ha denunciato?

«Dopo anni di terapia ho trovato le parole per dirlo nel 1990, da allora continuo ad incontrare giovani che hanno subito gli stessi abusi. Li riconosco, vedo in loro la stessa fragilità, la fatica di vivere che mi porto dietro quotidianamente e mi spinge a fare per dare un senso alla mia esistenza. Perché chi viene abusato resta segnato per sempre, rischia il suicidio, la pazzia, spesso viene rifiutato dalla famiglia, visto che il 90 per cento degli abusi lì avviene, e dal gruppo sociale. Escluso, trattato come una paria perché ha detto la verità. Senza contare che, se non aiutato, rischia di ripetere su altri le violenze subite: l’80 per cento dei pedofili è stato un bambino stuprato».

Cosa ha fatto la chiesa?

«Ha mentito. Mi hanno detto che lo avrebbero allontanato, che non avrebbe più potuto fare del male. Dieci anni dopo ho scoperto che lo avevano mandato in Francia, dove ha continuato ad abusare ragazzini».

Chi copre i colpevoli?

«In Svizzera le cose sono cambiate ma in Francia e in Italia a quanto so ben poco. Per questo sono importanti le parole del Papa. Perché ci sono pedofili nelle parrocchie ma anche nelle alte gerarchie che fanno finta di nulla, spostano i sacerdoti pedofili in un’altra chiesa come se questo risolvesse il problema. Mantengono il segreto e nuovi bambini sono vittime».

Ha incontrato il suo aguzzino?

«L’anno scorso. Era vecchio, ho faticato a riconoscere l’orco della mia infanzia. Mi ha guardato, ho visto la sua paura. Ma non mi ha chiesto scusa, non mi è sembrato pentito di tutto il male che ha fatto».

Eppure lei lo ha perdonato

«In lui ho visto un malato e lui non c’entra con la mia fede che resta intatta, ma continuo a battermi perché la chiesa rompa il silenzio e denunci i pedofili».

Cosa le ha detto il Papa?

«Ci siamo incontrati due anni fa. Mi ha chiesto: dove trovi la forza, il tuo spirito missionario? Non era mai soddisfatto della risposta. Alla fine gli ho detto: Padre sono stato violentato da un sacerdote. Mi ha guardato in silenzio con le lacrime agli occhi e mi ha abbracciato. Ora queste le sue parole cosi forti e coraggiose di condanna alla pedofilia, al segreto che uccide».

 

 

 

imparare dai poveri – un esempio di gemellaggio di amicizia e di fede

la croce nel ghetto

di Paolo Affatato
in “La Stampa-Vatican Insider” del 11 febbraio 2017

una lacrima riga il volto di Regina, 40enne nigeriana. Per l’ennesima volta, nei giorni scorsi, la sua baracca è stata devastata da un incendio e ora non ha nemmeno più quel riparo di lamiera e cartoni che conteneva un giaciglio di fortuna, vestiti e scarpe rimediati dalla Caritas, qualche oggetto personale

Siamo nel Grande ghetto di Rignano Garganico, in provincia di Foggia, l’esteso insediamento di baracche abitate da immigrati che si trova in una desolata campagna dell’estesa pianura pugliese. Il campo accoglie oltre duemila stagionali che migrano nel Tavoliere per il lavoro agricolo, spesso restando vittima del racket dello sfruttamento, se non della vera e propria criminalità organizzata. Proprio in questa «periferia delle periferie», comunità multietnica e multireligiosa (vi sono cristiani e musulmani) creatasi spontaneamente, è nata un’esperienza di prossimità evangelica che coinvolge, in un gemellaggio di amicizia e di fede, la comunità dei battezzati di una chiesa parrocchiale del vicino capoluogo. La comunità parrocchiale di Gesù e Maria a Foggia, guidata dai frati francescani, è da sempre molto attiva in iniziative di solidarietà e nella vicinanza ai poveri. Frutto di questa sensibilità evangelica è il Centro di prima accoglienza “Sant’Elisabetta d’Ungheria”, struttura caritativa che da trent’anni è un punto di riferimento per l’intero territorio. Frati e laici francescani vivevano quella che Ignazio di Loyola definisce «santa inquietudine» nel sapere che, a pochi chilometri dalle loro case, vi fosse quell’esteso accampamento di immigrati, lavoratori stagionali, famiglie, giunto alla ribalta delle cronache nazionali come esempio di degrado della vita dei residenti o citato per raccontare la piaga del caporalato. Per questo, nell’Anno della misericordia, hanno iniziato a visitare il campo, spinti dall’emergenza dichiarata dopo la devastazione seguita ai periodici incendi di tende e baracche. Si è così stabilita una relazione di amicizia con la comunità locale e, grazie alla presenza di sacerdoti francescani, ben presto la fede e la preghiera sono divenuti un terreno comune che ha generato un circolo virtuoso di aiuto, solidarietà, reciprocità di relazioni umane. Quel movimento di «Chiesa in uscita», che risponde all’invito di Papa Francesco «non è stato e non vuol essere un andare a far del bene ai poveri», spiega a Vatican Insider Roberto Ginese, laico francescano e responsabile della Caritas parrocchiale.

«È piuttosto frutto del desiderio di essere a loro fianco come fratelli e di imparare da loro. I poveri sono nostri maestri, diceva san Vincenzo de Paoli e ripeteva spesso don Tonino Bello, vescovo e francescano secolare pugliese. C’è uno scambio alla pari di esperienze, valori e capacità di vivere la fede in situazioni tanto differenti», racconta.

Questo rapporto non è più episodico ma si è ora consolidato con un vero e proprio gemellaggio, siglato come degna conclusione dell’Anno giubilare: «Dopo i momenti di incontro, preghiera e solidarietà – recita la solenne dichiarazione congiunta firmata dai volontari e da Gerard, il rappresentante del ghetto – che ci hanno permesso di entrare in contatto con la piccola comunità cristiana presente nel territorio definito Gran ghetto di Rignano, la comunità parrocchiale di Gesù e Maria stringe un patto di amicizia e gemellaggio e si impegna a promuovere un reciproco scambio di esperienze, per favorire una cultura di accoglienza, rispetto e pace tra i popoli». Oltre a far conoscere meglio la realtà del ghetto alle altre comunità ecclesiali del territorio di Foggia, il patto intende contribuire ad allargare le basi della solidarietà, necessaria non solo per gli aiuti economici, ma anche e soprattutto per promuovere un sostegno umano e spirituale agli abitanti del ghetto. In particolare si cura e si accompagna la vita di fede dei battezzati che vivono nel ghetto, assicurando la celebrazione dei sacramenti, accanto a una serie di interventi che mirano a migliorare le condizioni di vita dei residenti.
La messa celebrata nel ghetto dopo l’incendio che ha devastato l’intero campo, in una surreale chiesa coperta solo da uno scheletro di travi assemblate alla meglio, è stata il momento-clou che dà la cifra di una presenza che si può riassumere solo con una parola: fratelli. Un altro segno visibile dello spirito di prossimità è stata la Croce di Lampedusa, costruita con i resti dei barconi e benedetta da Papa Francesco, giunta in visita all’interno del ghetto durante il Giubileo. «Quella croce vuole ricordare che Cristo viene ad abitare tra i poveri.

La croce è stata portata a spalla dai volontari, in una speciale via crucis, per tutto il ghetto, sotto gli occhi dei migranti per la maggior parte musulmani, che hanno l’hanno accolta con devozione», osserva Ginese. La visita è stata ben presto ricambiata: la sera della vigilia di Natale gli immigrati del ghetto hanno partecipato, in un clima di fraterna e generale commozione, alla solenne celebrazione eucaristica nella chiesa di Gesù e Maria. Il movimento «in uscita» ha generato uno speculare moto «in entrata» che caratterizza l’oggi e sarà coltivato in vista della Pasqua e in futuro.

il Giorno della Memoria, oggi è più necessario che mai

non un rito, una necessità

di Enzo Collotti
in “il manifesto” del 27 gennaio 2017

oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro

Anche quest’anno si rinnova quello che non deve diventare un rito ma deve rimanere l’occasione per tornare a sottolineare la necessità di non dimenticare. Contro i dubbi sollevati da più parti sull’opportunità di mantenere il Giorno della Memoria. Va infatti ripetuto con forza che questa scadenza, il Giorno della Memoria, oggi è più necessario che mai. Se da una parte la crescente distanza che ci separa dai fatti in cui si concretizzò lo sterminio degli ebrei contribuisce ad affievolirne la memoria, dall’altra la realtà nella quale viviamo sollecita la riflessione su una serie di circostanze che ricordano da vicino aspetti della cultura della quale si nutrì l’indifferenza dei tanti e che consentì la realizzazione quasi indolore dello sterminio. Nella crisi attuale dell’Europa il dilagare del populismo maschera a fatica il volto del razzismo che non è né vecchio né nuovo, è il razzismo di sempre, contro ogni minoranza e contro ogni eguaglianza tra i popoli. È chiaro che il passare delle generazioni produce cambiamenti nella memoria e nei modi di esprimerla e di rappresentarla, tanto più oggi che la testimonianza dei sopravvissuti incomincia a farsi sempre più rara per ovvie ragioni fisiologiche. Troppo spesso la tragedia delle migrazioni viene dissociata nell’attenzione e nella memoria dei più dalle derive degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso. Dappertutto in Europa l’irresponsabile diffusione della minaccia di una invasione da parte di chi fugge da guerra e miseria genera confusione e oblio. Situazioni paradossali e insieme esemplari come quella dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dimentica la catastrofe degli ebrei ungheresi e rifiuta l’accoglienza ai migranti con cinismo e crudeltà. Un comportamento che apparentemente dovrebbe isolare l’Ungheria dal resto d’Europa ma che in realtà rischia ormai di diffondersi al di là delle sue frontiere, in assenza tra l’altro di fratture interne che costringano Viktor Orbán a modificare o almeno a mitigare il rigore dei suoi rifiuti. Questo significa anche una frattura nella memoria collettiva dell’Europa che indebolisce la possibilità di una presa di coscienza non parcellizzata, solidale senza riserve. Il Giorno della Memoria dovrebbe servire a tenere viva la sensibilità di popoli e società verso problemi che ne hanno plasmato negativamente la storia ma che sono anche terribilmente attuali. Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro. Nessuno ha il coraggio di dirsi anti-semita o anti-musulmano, ma nei fatti il prevalere di una sorta di agnosticismo etico ci riporta al punto in cui tutto è incominciato, alla deresponsabilizzazione e all’indifferenza. È un problema politico e culturale di enorme portata che si inserisce nella crisi dell’Europa non meno che in quella della nostra democrazia.

Italia specchio del mondo – pochi straricchi molti strapoveri

ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri: l’Italia delle diseguaglianze sociali avanza a dispetto della fine della crisi economica e dell’aumento della produttività

la fotografia di un ‘gap’ sempre più accentuato è fornita dal nuovo rapporto della ong Oxfam “Un’Economia per il 99%” sulla distribuzione della ricchezza netta in Italia nel 2016, in occasione del World Economic Forum di Davos.

Squilibri distributivi

Una rielaborazione basata su dati, modello econometrico e metodologia di stima utilizzati da Credit Suisse che riporta drammatici squilibri distributivi ed eccessi nella concentrazione della ricchezza. Nel 2016 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 9.973 miliardi di dollari) vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere poco più del 69% della ricchezza nazionale, un altro 20% controllare il 17,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero dei appena il 13,3% di ricchezza nazionale.

Quasi tutto in mano a pochi

Risultato il 10% top di tutti i ricchi italiani oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione. Non solo: la ricchezza dell’1% dei Paperoni italiani (in possesso oggi del 25% di ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte la ricchezza del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quella detenuta dal 20% più povero della popolazione italiana. La classifica di Forbes dei primi sette miliardari nazionali (in tutto 151 nella famosa lista) equivaleva alla ricchezza netta detenuta dal 30% più povero della popolazione.

Il surplus in mano ai soliti

Oxfam ha anche ricostruito e analizzato la distribuzione del surplus di reddito pro capite registrato nel periodo 1988-2011 su scala globale. Quasi il 46% dell’incremento del reddito disponibile pro-capite globale è stato appannaggio del 10% più ricco della popolazione mondiale a fronte di appena il 10% ricevuto dalla metà più povera della popolazione del pianeta. I dati italiani rivelano per il periodo in esame un incremento complessivo del reddito nazionale pari a 220 miliardi di dollari (a parità del valore di acquisto nell’anno di riferimento 2005).

Come per la ricchezza, anche per il reddito disponibile pro-capite nazionale quasi la metà dell’incremento (45%) è fluito verso il top-20% della popolazione, di cui il 29% al top-10%. In particolare, il 10% più ricco della popolazione ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani. La sperequazione desta ancor più allarme se ci si sofferma sulla quota di incremento del reddito ricevuta nell’arco degli oltre vent’anni in esame dal 10% più povero dei nostri connazionali: un risicato 1% corrispondente ad appena 4 dollari pro-capite all’anno. Lo studio Oxfam sottolinea anche che l’aumento della produttività del lavoro non ha affatto determinato un miglioramento per la fascia più povera della popolazione. Dal 1999 al 2013 (ultimo anno in cui il dato è disponibile) la crescita dei redditi da lavoro salariato (su scala globale e in termini reali) è risultato infatti in netto ritardo sull’aumento della produttività del lavoro.

Più produttività non dà più salario

Un dato che evidenzia come la crescita della produttività e un aumento di output globale non si traducono necessariamente in un incremento proporzionale delle retribuzioni dei lavoratori. Una conferma arriva anche dai dati Eurostat secondo cui i livelli retributivi non solo non ricompensano adeguatamente gli sforzi dei lavoratori, ma risultano sempre più spesso insufficienti a supplire alle necessità dei singoli e delle famiglie. Non ne è esente il continente europeo, pur essendo tra le regioni con i redditi più alti al mondo.

L’Italia, in particolare, con un tasso di occupati a rischio di povertà pari nel 2015 a 11,5% dell’intera forza lavoro nazionale in età compresa fra i 15 e i 64 anni, è sotto di ben due punti percentuali alla media europea (9,5%) stimata nel 2015.

il vangelo della domenica commentatato da p. Maggi

ECCO L’AGNELLO DI DIO, COLUI CHE TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO

commento al vangelo della seconda domenica del tempo ordinario (15 gennaio 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Nel libro dell’Esodo, la notte della liberazione dalla schiavitù egiziana per iniziare il lungo percorso, il cammino verso la terra della libertà, Mosè chiede, ad ogni famiglia, di mangiare un agnello. La carme dell’agnello avrebbe dato la forza per iniziare questo percorso di libertà, e il sangue, asperso sugli stipiti delle tende, delle porte, li avrebbe salvati dall’ angelo della morte. L’evangelista Giovanni presenta Gesù come questo agnello, l’agnello pasquale, la cui carne darà la capacità all’uomo di liberarsi dalle tenebre, per elevarsi verso la libertà, e il cui sangue assimilato lo libererà non tanto dalla morte fisica, ma dalla morte per sempre. Leggiamo come l’evangelista Giovanni ci presenta tutto questo, al capitolo primo, versetti 29-34. “Il giorno dopo”, l’ evangelista continua la sua datazione, questo il secondo giorno, perché vuole arrivare, nell’episodio delle nozze di Cana, al settimo giorno, la pienezza della creazione, con il cambio dell’alleanza, “il giorno dopo, vedendo Gesù”, è la prima volta che Gesù appare soltanto con il nome, prima nel prologo era Gesù messia, “venire verso di lui, disse: «ecco”, letteralmente guardate, quindi richiama l’attenzione dei presenti, “ecco l’agnello di Dio”, ecco l’evangelista presenta Gesù come l’agnello di Dio, colui che deve portare a compimento questa liberazione. L’agnello di Dio per Giovanni Battista è “colui che toglie il peccato del mondo”. Anzitutto l’evangelista non dice che quest’ agnello espia il peccato del mondo, e non si tratta dei peccati del mondo al plurale, che potrebbe dare la sensazione dei peccati degli uomini, ma è un peccato del mondo, un peccato che precede la venuta di Gesù. Cos’è questo peccato ? Questo peccato è il rifiuto della vita che Dio comunica, un rifiuto dovuto, a causa di false ideologie, anche religiose, che impediscono alla luce dell’amore di Dio, di arrivare verso l’uomo. Ecco il compito di quest’ agnello, e poi l’evangelista ci dirà anche come lo farà, è quello di estirpare, eliminare questo peccato, che, come una cappa di tenebre, opprime il mondo. “Egli è colui del quale ho detto: “dopo di me viene un uomo”, questo agnello, che deve liberare il mondo da questo peccato, ora viene presentato come un uomo. L’evangelista non presenta un’immagine di potenza, avrebbe potuto presentare il messia come il leone di Giuda, no come l’agnello, l’immagine della mitezza, e ora non lo presenta come una persona rivestita di cariche  religiose o altro, ma un uomo. Nell’umanità di Gesù si manifesta la pienezza della divinità. “Che è davanti a me, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele»”.  A quale Israele ? Tra i profeti ce n’era uno, Sofonia, che aveva riportato questa parola del Signore, questa promessa: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero, un resto di Israele che confiderà nel nome del Signore”.
C’è stata una parte di Israele che è sempre stata fedele all’ alleanza, ed è a questa che il Signore si rivolge. “Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere”, l’articolo determinativo richiama alla totalità, alla pienezza. Lo Spirito cos’è ? Lo Spirito è energia vitale. Nel momento del battesimo, come risposta all’impegno di Gesù di manifestare visibilmente l’amore del Padre per l’umanità, il Padre gli comunica tutto quello che Lui è, tutta la sua pienezza d’amore, lo Spirito. Questo “Spirito discendere come una colomba dal cielo”, l’immagine della colomba ha un duplice significato: il richiamo al libro del Genesi, dove al momento della creazione lo Spirito aleggiava sulle acque, sul caos, quindi Gesù viene presentato come il compimento di questa creazione, ma soprattutto al proverbiale amore della colomba per il suo nido. Gesù viene presentato come il nido dello Spirito, la dimora permanente dello Spirito. Infatti dice: “come una colomba dal cielo e rimanere su di lui”. È importante questo aspetto e l’evangelista poi ci ritornerà: non basta che lo Spirito discenda su una persona. Per poter essere poi comunicato, trasmesso agli altri, bisogna che questo Spirito rimanga su questa persona, e su Gesù ci rimane. Quindi Gesù è la dimora permanente dello Spirito, cioè la manifestazione visibile di Dio, la presenza di Dio sulla terra. “Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito”, l’evangelista ci ripete quindi questa discesa, soprattutto questo rimanere dello Spirito, di nuovo con l’articolo determinativo, la totalità, la pienezza di Dio, “è lui che battezza nello Spirito Santo”. L’evangelista mette un parallelismo tra colui che toglie il peccato del mondo, come toglie questo peccato del mondo, lo dice: è colui che battezza nello Spirito Santo. Già nel prologo, l’evangelista aveva detto che la luce non combatte contro le tenebre, la luce splende nelle tenebre, e le tenebre si dileguano. E così questo peccato, che grava sull’umanità, non va combattuto, ma va eliminato, va estirpato. Come? Dice l’ evangelista “è lui che battezza nello Spirito Santo”. L’attività di Gesù sarà immergere, battezzare, impregnare, e battezzare nell’acqua significa essere immersi in un liquido esterno. Battezzare nello Spirito Santo significa una penetrazione nell’intimo dello Spirito, la forza d’amore di Dio. Qui questa volta questo Spirito viene definito Santo, non soltanto per la sua qualità eccelsa, divina, ma per la sua attività di santificare, di separare. Chi accoglie Gesù e il suo messaggio, riceve da Gesù il suo Spirito, la sua stessa capacità d’amare, che progressivamente lo allontana dalla sfera del male, quindi questa penetrazione dello Spirito di Dio nell’uomo. “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Quello che prima era stato presentato come l’agnello di Dio, e poi come uomo, ora viene presentato come il figlio di Dio. Dal momento che in Gesù discende lo Spirito di Dio, in Gesù c’è la pienezza della condizione divina, che non sarà un privilegio che lui riterrà esclusivo, ma sarà una possibilità che comunicherà a tutti quanti lo vogliono seguire.

la apparente ‘modernità’ della teologia di Sorrentino

 

la teologia (pre-conciliare)  di Pio XIII

 

  Il papa inventato da Paolo Sorrentino merita ulteriori riflessioni e approfondimenti teologici. C’è da chiedersi se questa figura fantastica e struggente, equivoca e coinvolgente, sia davvero una figura moderna. Perché è piuttosto una modernità tridentina, che in maniera spesso subliminale bussa alla porta del cristianesimo odierno, invocando un ritorno indietro verso una fede e una chiesa preconciliare e tradizionalista piuttosto che tradizionale. Ma cosa sarebbe la Chiesa cattolica senza il Vaticano II, o meglio, è possibile oggi un cattolicesimo ispirato esclusivamente alla modernità tridentina?

Quando viene eletto un papa nella persona di un cardinale quasi del tutto sconosciuto, soprattutto alla curia romana, bisogna aspettarsi delle sorprese, nelle quali, agli occhi della fede, agisce lo Spirito, salvo poi che a sorprenderci possa essere anche un pontefice noto, come papa Benedetto, col suo gesto inatteso e per alcuni inspiegabile della rinuncia. È questo anche il caso di Pio XIII, al secolo Lenny Belardo, protagonista della serie tv diretta da Paolo Sorrentino. Molti aspetti di questa fiction fanno riflettere e meriterebbero approfondimenti, qui ci soffermeremo in particolare sulla sua “teologia”, così come si esprime nei discorsi che gli sono stati messi in bocca dall’autore della sceneggiatura, dai quali assumeremo alcuni spunti per l’oggi della fede e della chiesa cattolica.

Prima dei discorsi “ufficiali” che il giovane papa pronunzierà, viene messo in scena un discorso onirico (I episodio) ispirato al Dio che non si dimentica di nessuno e al fatto che l’armonia con Lui passa attraverso l’armonia con la vita e l’esperienza del gioco, per concludersi sulla felicità, con una serie di passaggi decisamente e volutamente provocatori, non di rado irritanti, che lasciano la folla perplessa e sgomenta. Ed eccoci al primo drammatico discorso (II episodio) tenuto da una loggia in penombra di un pontefice che sceglie il nascondimento e rifugge l’esposizione mediatica. Il tema è la denuncia del fatto che ci siamo dimenticati di Dio. La sua assenza è frutto di questa dimenticanza. Del resto siamo nel tempo della povertà e il mondo è diventato così povero da non avvertire la mancanza di Dio come mancanza (M. Heidegger).

Il Dio dimenticato è un Dio che esige tutto e si potrà vedere il papa solo se ci si ricorderà di Dio, non c’è posto per la chiesa e il suo pontefice supremo in un mondo che ha dimenticato Dio. E bisogna essere più vicini a Dio che agli uomini, perché “tutti noi siamo soli davanti a Dio”. Non è il papa che deve provare l’esistenza di Dio, ma chi si è dimenticato di Lui a dover dimostrare la sua non esistenza. È un Dio col quale Belardo ingaggia una lotta senza pari. Del resto lo stesso Benedetto XVI, nel suo discorso ad Erfurt (stiamo ricordando i 500 anni dalla riforma) aveva detto che la teologia è “lotta con Dio”: “Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio”.

Dovremo attendere il V episodio per ascoltare il discorso ai cardinali del nuovo, giovane papa, che ha atteso il rientro della tiara dagli Stati Uniti, cui, a suo dire “incautamente” l’aveva ceduta, mettendola all’asta, Paolo VI. Il mistero di Dio si infittisce e la chiesa dovrà chiudere le sue porte, perché ritorni ad essere il luogo del mistero. Dobbiamo essere “proibiti, inaccessibili e misteriosi” e smettere di guardare al mondo che non ha nulla da dirci, perché solo la chiesa possiede la verità (citazione di Ignazio d’Antiochia). È una profonda e per nulla banale critica alla “chiesa in uscita” e alla visione del Vaticano II: evangelizzazione, ecumenismo, tolleranza non dovranno più appartenere alla chiesa, da cui è bandita la parola “compromesso”.

Nonostante l’innegabile suggestione che può suscitare, la spietata posizione, peraltro estemporanea ed anacronistica, del giovane papa finisce col rinnegare un punto di non ritorno, che il credente oggi non può ritenere alla stregua di una parentesi o di una deriva. Il look, accuratamente scelto per questa occasione e il bacio della pantofola, sembrerebbero elementi di folklore, ma rivelano un’immagine di chiesa, ispirata al senso del mistero ed estremamente esigente, perché il nuovo papa non vuole amici o simpatizzanti, ma solo innamorati. Allorché si sono riempite le piazze di folle plaudenti, i cuori sono rimasti vuoti di Dio. L’immagine della porta piccola e stretta, nonché chiusa, rappresenta simbolicamente l’ecclesiologia di Pio XIII. E il perdono non potrà mai più essere concesso ad libitum.

Le contraddizioni e i mali della chiesa sono, in forma spietata, presenti in tutta la serie, dall’omosessualità del clero alla pedofilia, dalla sovresposizione mediatica al carrierismo, dalla mondanità ai compromessi. Mali da cui non è esente la missione e l’esercizio della carità, come viene rappresentata nel viaggio in Africa e nel discorso lì pronunciato (episodio VIII). Dio è amore, ma il giovane papa non parlerà di Dio, perché chiede a gran voce la pace. Una pace bella e sconcertante, da lui stesso sperimentata in una gita sul fiume in Colorado coi suoi genitori all’età di otto anni. Datemi la pace e vi darò Dio: è questo il suo messaggio all’Africa dilaniata da conflitti e percossa da dittatori che indossano la maschera della carità. Giungiamo così all’epilogo veneziano, con l’ultimo discorso, pronunciato da piazza san Marco (X episodio).

Siamo così al filo rosso di tutta la serie: l’assenza di Dio è il riflesso dell’assenza del padre. Ma a Venezia, ispirandosi alla beata Juana e ribadendo che Dio (una “linea aperta”) non si mostra, non parla, non si fa vedere, non ci conforta, conclude col sorriso di Dio e chiede a tutti di sorridere. Ai bambini amava ripetere: “Pensate a tutte le cose che vi piacciono: quello è Dio”. Il cerchio in un certo senso si chiude perché ritorna il messaggio del discorso onirico iniziale, epurato da tutte le provocazioni morali in esso contenute. Da tutta la vicenda espressa nella serie, emerge con chiarezza l’ispirazione agostiniana adottata da Pio XIII: “se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l’idea giusta”.

La contrapposizione delle due città, la dialettica assenza/presenza di Dio, l’amore assoluto della “terza navigazione”, espresso nelle mirabili pagine dei commenti agostiniani alle lettere di Giovanni, sono fonti certamente non secondarie di questa teologia. Potremmo concludere sottolineando la paradossalità costitutiva di questa visione, che ad esempio emerge allorché Lenny Belardo si paragona a Dio, dicendo che la sua natura è la contraddizione e rintracciandone l’immagine nelle proprie contraddizioni. Mi sono chiesto se davvero questa figura fantastica e struggente, equivoca e coinvolgente sia antiquata, lasciandomi interrogare sul fascino che ha esercitato sui giovani studenti di teologia. Mi sono risposto che si tratta di una figura moderna, della modernità tridentina, che in maniera spesso subliminale bussa alla porta del cristianesimo odierno, invocando un ritorno indietro verso una fede e una chiesa preconciliare e tradizionalista piuttosto che tradizionale.

Ma l’elemento più inquietante della teologia di Pio XIII è che quello che emerge dai suoi discorsi potrebbe rivelarsi un Dio senza Cristo, o meglio una teologia senza cristologia. Meglio ancora siamo di fronte a una cristologia sommersa, in cui si rovescia la prospettiva oggi comune nelle teologie contemporanee: non è Cristo che rivela il volto di Dio, ma la questione cruciale di Dio che dischiude il volto di un Gesù, che rimane sempre velato, come il corpo del Cristo di Giuseppe Sanmartino, presente nella cappella Sansevero di Napoli. Il crocifisso dell’immagine rovesciata con cui si risveglia e l’unico cenno al radicalismo della croce presente nell’ultimo passaggio del discorso ai cardinali, ci situano di fronte a una prospettiva teologica unilaterale e forse perdente, ma anche suggestiva e impressionante, con la domanda di fondo: cosa sarebbe la chiesa cattolica senza il Vaticano II, o meglio, è possibile oggi un cattolicesimo ispirato esclusivamente alla modernità tridentina? L’impossibilità è l’orizzonte di una fiction, che meriterebbe ulteriori approfondimenti e riflessioni.

un piccolo, minuscolo pensiero per il natale …

 quand’è natale?

Il natale
è dentro di me
quando vivo
nella mia vita
“prima gli altri
poi me”.
Il natale
lo vedo
quando mi accorgo
che i miei occhi vedono
quello che altri
non vedono.
Lo sfinimento di un affamato
la disperazione di un triste
l’ingiustizia
che cerco di sanare.
Ma per vedere
il natale
bisogna morire
ogni giorno
a se stessi
non sentirsi mai
a posto
chiedere sempre
la vista.
Allora
qualcosa ‘nasce’ in me,
allora
la mia coscienza
si riposa.
Allora il natale
è il tuo stupore,
è la pace che senti.
Non capisci
da dove viene
ma ti ha avvolto
senza rumore.

 

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

 

SEI TU COLUI CHE DEVE VENIRE O DOBBIAMO ASPETTARE UN ALTRO?  

commento al vangelo della terza domenica di avvento (11 dicembre 2013) di p. Alberto Maggi:

Mt 11,2-11

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

L’evangelista Matteo scrive per una comunità di Giudei, e presenta la figura di Gesù sulla falsa riga della vita e delle opere di Mosè. Mosè liberò il suo popolo, facendo scagliare da Dio le dieci piaghe, le famose dieci piaghe d’Egitto, contro chi si opponeva alla liberazione degli Ebrei dalla schiavitù. Ebbene, l’evangelista presenta Gesù che compie non dieci piaghe, dieci azioni di castigo contro i suoi oppositori o i suoi nemici, ma dieci opere con le quali comunica vita, e comunica vita anche ai suoi rivali, ai suoi nemici. Tutto questo sconcerta, perché l’attività di Gesù non è quella attesa, quella che era stata annunciata da Giovanni il Battista – lo ricordiamo il Messia giustiziere che ha la scure in mano, ogni albero che non porta frutto lo taglia e lo getta nel fuoco, questo Messia che sarebbe venuto a dividere il popolo tra puri ed impuri, buoni e cattivi. Ed infatti, ad andare in crisi è proprio Giovanni. Leggiamo il vangelo di Matteo, capitolo 11, versetti 2-11. “…Giovanni, che era in carcere…”: l’evangelista dà per scontata la notizia che sia conosciuto che Giovanni è in carcere, anche se in realtà poi ce lo dirà soltanto al capitolo 14. Perché è in carcere ? Secondo Matteo, è perché Giovanni il Battista aveva accusato Erode di essersi preso come sposa la moglie di suo fratello, ma c’è uno storico del tempo, Giuseppe Flavio, che nelle “Antichità giudaiche”, ci dà una lettura politica dell’incarcerazione e poi dell’assassinio di Giovanni Battista. Scrive Giuseppe Flavio che Erode era preoccupato del successo, della gente che seguiva il Battista e dice: ”Erode perciò decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui, prima che la sua attività portasse ad una sollevazione”. Quindi per Giuseppe Flavio c’è un motivo politico. Giovanni è in carcere, diremmo nel supercarcere di una fortezza, costruita da Erode il Grande, nella riva orientale del Mar Morto, Macheronte. “…avendo sentito parlare delle opere del Cristo…”: ecco sono tutte opere con le quali Gesù, il Messia, comunica vita anche ai peccatori, anche ai nemici. “… per mezzo dei suoi discepoli …”: è strano che compaiano i discepoli di Giovanni Battista, si vede che non hanno accolto Gesù come colui da seguire. “… mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»”: la richiesta di Giovanni il Battista ha tutto il sapore di una scomunica, perché questo Gesù non è quello che, il
Messia che Giovanni il Battista aveva annunziato, questo Messia giustiziere, questo Messia che veniva a portare avanti il castigo di Dio. Allora Giovanni Battista, in profonda crisi, gli manda questa scomunica: sei tu quello che doveva venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? Gesù non risponde alla polemica con argomenti teologici, biblici, ma con le opere. “Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete “, cioè ciò di cui voi fate esperienza. E qui Gesù elenca sei opere, sei azioni, il numero sei ricorda i giorni della creazione, quindi Gesù, in prolungamento con il Dio della creazione, continua a comunicare vita, e sono tutte azioni con le quali si comunica, si restituisce, o si rallegra la vita delle persone: “… I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati”, i lebbrosi erano considerati non dei malati, ma dei maledetti, castigati, ”… i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo”, cioè la buona notizia. E qual è la buona notizia che i poveri si attendono ? La fine della povertà. Questo elenco Gesù lo prende dalle azioni del Messia, così come erano state annunziate dal profeta Isaia, in due capitoli del suo libro, nel capitolo 35 e nel capitolo 61, ma, in tutte e due i brani, Isaia aveva annunziato anche la vendetta di Dio contro i pagani, contro i peccatori. Gesù la omette: l’azione di Dio, attraverso Gesù, è un’offerta d’amore a tutti, non c’è forma di vendetta o di castigo. Ecco perché Gesù proclama beato, quindi c’è una nuova beatitudine in questo vangelo, “… colui che non trova in me motivo di scandalo !»”. Qual è lo scandalo ? È lo scandalo della misericordia.  È strano questo. Mentre il castigo, il castigo di Dio indubbiamente intimorisce, ma non scandalizza le persone, la misericordia scandalizzava e continua ancora a scandalizzare le persone, specialmente le persone religiose, quelle che pensano che Dio li ama per i loro meriti, per i loro sforzi, non sopportano quest’immagine di un Dio misericordia, Dio misericordia significa che il suo amore non conosce gli ostacoli messi dagli uomini, il suo amore vuole arrivare a tutti. Gesù l’aveva annunziato: suo Padre non è il Dio della religione, in ogni religione Dio premia i buoni e castiga i malvagi. Gesù aveva detto: no, l’azione del Padre è come quella del sole che splende sui cattivi e sui buoni, e ugualmente la pioggia. L’azione del Padre di Gesù è quella di una comunicazione d’amore, indipendentemente dal comportamento e dalla risposta delle persone. Questo è quello che scandalizza: che anche chi non lo merita, anche gli indegni, anche gli impuri, i peccatori, possono essere oggetto dell’amore di Dio, senza una previa penitenza, senza una previa purificazione, questo è lo scandalo della misericordia. Ebbene Gesù proclama beati quelli che non si scandalizzano. “Mentre quelli se ne andavano”, se ne vanno senza alcuna reazione, il che significa da una parte incomprensione, dall’altra disaccordo con quello che Gesù ha detto, ”Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento ?”. Era proverbiale l’attività della canna, era anche in una favola conosciuta di Esòpo. La canna cos’è ? è quella che si piega al vento, è l’ immagine della persona opportunista, quella che è sempre disposta a piegare la schiena, pur di rimanere al suo posto. Il vento soffia da una parte, soffia dall’altra, la canna  si piega sempre, quindi l’immagine dell’opportunista. “Allora, che cosa siete andati a vedere ? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi del re !”, nei palazzi dei re ci sono i cortigiani . Chi sono i cortigiani ? Sono quelli ossequienti al potente di turno, sempre pronti a cambiare bandiera, a cambiare casacca, a cambiare credo, pur di rimanere sempre a galla. “Ebbene,” afferma Gesù, ”che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì,” risponde Gesù “io vi dico, anzi, più che un profeta”. Perché di Giovanni Battista Gesù afferma che è più di un profeta ? Perché Giovanni Battista è colui che è stato inviato da Dio a preparare la strada per Gesù. Allora Gesù ci fa comprendere che, per essere inviati da Dio, collaboratori di Dio, non si può essere né opportunisti, né cortigiani, ma bisogna andare sempre dritti per la propria strada. “Egli è colui del quale sta scritto:”, e qui l’evangelista mette insieme due espressioni dell’antico testamento dal libro dell’Esodo e dal profeta Malachia, “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. L’ evangelista presenta la figura di Giovanni Battista come è stata quella di Mosè, che ha portato il suo popolo verso la Terra Promessa, ma lui non c’è entrato. È stato Gesù che poi porterà questo popolo alla liberazione. Ed infine l’elogio di Gesù: “In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli”, il regno dei cieli, lo ricordiamo, in Matteo è la sua comunità, una società alternativa, una comunità dove ci si entra con l’accettazione e l’accoglienza della prima beatitudine, quella della povertà – beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli –  “è più grande di lui»”. Giovanni il Battista non ha potuto entrare in questa comunità appunto perché è stato incarcerato, e non ha potuto soprattutto rinascere di nuovo, rinascere dallo Spirito, dal passare da figlio di donna a figlio di Dio.

festa della Immacolata Concezione

 

ECCO, CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

commento al angelo della solennità della Immacolata Concezione di p. Alberto MAGGI:

Lc 1,26-38

[In quel tempo,] l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Il vangelo di Luca si apre con l’annunzio di due nascite: quella di Giovanni Battista e quella di Gesù. Sono nascite che indicano il compimento delle promesse di Dio anche in casi impossibili.
Nel primo caso i genitori sono anziani e la madre è sterile, e nel secondo è una vergine che ancora non ha avuto rapporti con il proprio marito. Sentiamo come Luca, l’evangelista, ci descrive tutto questo.
“Al sesto mese” – nel sesto mese, come nel sesto giorno, Dio completa la sua creazione – “l’angelo Gabriele” – Gabri-El significa “la forza di Dio” – “fu mandato da Dio”, e qui questa volta la missione dell’angelo è tutta in salita, è difficile.
Se prima è andato a Gerusalemme, nel santuario, nel momento più importante della vita di un sacerdote, appartenente a una delle classi più prestigiose del sacerdozio e ha trovato soltanto incredulità, il sacerdote non ha ascoltato la parola, e per questo è rimasto senza parole da comunicare al popolo.
Ebbene, ora invece la situazione si presenta difficile, va in una città della Galilea; questa regione era talmente disprezzata che il termine Galilea viene dal disprezzo con il quale il profeta Isaia chiama questo luogo il distretto, da qui “Ghelil” in ebraico la nostra Galilea, il distretto dei pagani.
“…in un città chiamata Nazaret” – Nazareth è un piccolo paese mai citato nella Bibbia – “ad una vergine promessa sposa”.
Nella lingua italiana non abbiamo l’equivalente termine (™mnhsteumšnhn) per indicare il rito matrimoniale ebraico.
Il matrimonio ebraico si svolgeva in due tappe:
1. la prima, che chiamiamo sposalizio, quando la ragazza aveva 12 anni e il maschio 18 serviva a valutare la forza, la capacità della ragazza di fare figli e quindi stabilirne la dote.
2. Poi, dopo questa cerimonia dopo la quale erano marito e moglie, ognuno tornava a casa sua e un anno dopo la ragazza veniva portata nella casa del marito e lì incominciava la convivenza.
Quindi la prima parte del matrimonio si chiama lo sposalizio, la seconda le nozze, quindi è una vergine già sposata a “un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe, la vergine si chiamava Maria”.
“Entrando da lei disse: «Rallegrati»” – quindi quest’angelo di Dio la invita alla pienezza della gioia – “«piena di grazia»”.
“Piena di grazia” (kecaritwmšnh) non è una costatazione che l’angelo fa delle virtù di Maria, ma dice che è stata riempita della grazia di Dio, e la saluta come venivano salutati i grandi personaggi che hanno compiuto azioni importanti per la storia del popolo, come per esempio Gedeone, “«il Signore è con te»”.
Maria viene turbata da quest’annuncio, anche perché in quell’epoca si pensava che Dio non avrebbe mai rivolto la parola ad una donna. La donna era considerata la più lontana da Dio, e l’angelo le dice: “«Non temere Maria perché hai trovato grazia presso Dio»”.
“Grazia” non è una constatazione di virtù di Maria, ma l’amore che Dio ha riversato su questa donna. “«Ecco concepirai un figlio»” – e inizia la prima delle trasgressioni che caratterizzano il vangelo di Luca – “«Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù»”.
Contro ogni tradizione, non spettava alla donna dare il nome al figlio, era il padre che normalmente dava al figlio il proprio nome, così si perpetuava. Qui inizia giù la rottura con la tradizione.
Il primo indizio delle tante rotture della tradizione che poi Gesù porterà a compimento. “«Sarà grande, verrà chiamato Figlio dell’Altissimo»”, Giuseppe è escluso da tutto questo.
Perché Giuseppe viene escluso?
Perché il padre non trasmetteva soltanto la vita fisica, biologica, ma trasmetteva anche la tradizione, trasmetteva anche la spiritualità, ecco in Gesù c’è una nuova creazione, Lui sarà il Figlio di Dio, seguirà il Padre, e annuncia l’angelo a Maria, che in Gesù avranno luogo pieno il compimento delle promesse che Dio aveva fatto al suo popolo, di un regno senza fine.
Maria? Maria accetta, vuole sapere soltanto le modalità, dice: come avverrà questo perché non conosco uomo. Perché non era ancora passata nella seconda fase del matrimonio. Nella prima fase non era permesso avere rapporti con il marito.
“«Rispose l’angelo: lo Spirito Santo»”, la presenza di Maria in questo vangelo si apre e si chiude all’insegna dello Spirito, Maria è la donna dello Spirito. Su di lei all’annunciazione scende lo Spirito Santo, e poi l’ultima volta la troveremo nella parte del vangelo di Luca chiamata gli Atti degli Apostoli, al momento della Pentecoste, quindi Maria è la donna dello Spirito.
Lo Spirito Santo significa che in Gesù si manifesta la vera e nuova definitiva creazione. “«Scenderà su di te la potenza dell’Altissimo, ti coprirà con la sua ombra perciò colui che nascerà sarà Santo»” – cioè consacrato – “«sarà chiamato Figlio di Dio»”, sta dicendo che sarà il Messia.
E come garanzia, come prova di quanto l’angelo sta assicurando a Maria le dice che Elisabetta, sua parente, la moglie di Zaccaria, “«nella sua vecchiaia»”, quindi l’evangelista sottolinea la difficoltà di questa realizzazione, ma Dio è fedele alle sua promesse nonostante ogni difficoltà. Solo che il compimento delle promesse esige collaborazione da parte dell’uomo, con l’ascolto della sua parola, con il fidarsi, e Zaccaria non si è fidato, e soprattutto con l’agire.
“«Ecco, Elisabetta ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei che era detta sterile»”. Vecchiaia e sterilità non sono problemi per l’azione del Signore, per realizzare i suoi progetti. Perché nulla è impossibile a Dio. La forza creatrice di Dio non ha limiti, però esige la collaborazione dell’uomo che come abbiamo detto deve ascoltare la sua parola, fidarsi di questa parola, e poi agire di conseguenza.
“«Allora Maria disse: ecco la serva»”, Maria non dice che è una serva del Signore, dice che è la serva, nei testi biblici Israele viene chiamato il servo del Signore, quindi Maria si viene ad identificare, rappresentare quelli che sempre si sono fidati del Signore, l’Israele del Signore.
E qui c’è l’altra trasgressione con la quale si chiude questo brano, “avvenga di me secondo la tua parola”.
Come si permette Maria di accettare questa proposta senza aver consultato e ottenuto il permesso da parte del padre o del marito?
Era inconcepibile in una cultura del genere che una donna prendesse una qualsiasi decisione senza il permesso. L’autorizzazione da parte del maschio di casa, ecco Maria continua questa trasgressione. Sarà lei a dare il nome al figlio, e sarà lei che decide senza chiedere nulla al marito né al padre.
Quindi il vangelo di Luca si apre con questa novità di aprirsi al nuovo di cui Maria, la donna dello Spirito ne è l’esempio eclatante.

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