ricordando Charles de Foucauld a 100 anni dalla sua uccisione

 

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti


giovedì 1 dicembre il centenario della morte

il vicepostulatore

fulcro del suo carisma è la quotidianità di Nazareth come testimonianza del Vangelo

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti

A cento anni dalla sua morte, avvenuta il 1° dicembre 1916 nel deserto algerino di Tamanrasset, il beato Charles de Foucauld ha ancora un messaggio attualissimo da comunicare: «Anzitutto, il fulcro del suo carisma, che è la vita quotidiana di Nazarethh come testimonianza del Vangelo nella semplicità, nell’impegno del lavoro, mantenendo sempre al centro l’umanità che ci lega gli uni agli altri, perché siamo tutti fratelli», ricorda padre Andrea Mandonico, 61 anni, della Società delle Missioni africane, istituto missionario nato nel 1856 a Lione.

Dal 2012 è vicepostulatore della causa di canonizzazione di frère Charles, a cui lo lega una profonda sintonia: «Mentre frequentavo il liceo in Seminario a Crema, un compagno mi passò un libretto su di lui. Rimasi colpito: la sua esperienza mi suggeriva come vivere la fede. Su di lui è incentrata la mia tesi di dottorato in teologia spirituale». Il secondo aspetto del beato che parla agli uomini e alle donne del terzo millennio «è la vicinanza al prossimo.

Amare Dio e il prossimo sono due aspetti inscindibili. Lui si è fatto vicino al popolo tuareg in Algeria, emarginato e povero, e suggerisce a noi oggi una vicinanza agli ultimi per vedere in loro la presenza di Gesù e in chiunque si affaccia alla nostra porta la presenza di Gesù. Fra l’altro, anche i musulmani vivono la regola dell’elemosina e dell’amore al povero». In terzo luogo, Charles de Foucauld «ci ha lasciato l’eredità del dialogo: è stato un uomo che ha dialogato con tutti, perché il dialogo smonta i pregiudizi reciproci e avvicina fino a trasformarsi in amicizia per vivere la fraternità.

Lui l’ha vissuto fino alle estreme conseguenze: venne ucciso in una razzia. Ma era convinto dell’urgenza di stringere rapporti di fraternità e vincere la paura che ci separa gli uni dagli altri». Il bisogno di dialogo e amicizia emerge costantemente anche nelle oltre 7mila lettere (pubblicate quasi tutte in francese, non in italiano) scritte dal Beato Charles, che voleva essere «fratello universale e vivere in amicizia con tutti: giudei cristiani e musulmani», rimarca padre Mandonico, che sta tenendo per il secondo anno consecutivo un seminario su de Foucauld al Centro studi dialogo interreligioso della Pontificia Università Gregoriana, sul tema “Cristianesimo e islam: una fraternità possibile?”.

A dare il via libera alla beatificazione, il 13 novembre 2005, la guarigione inspiegabile della signora Giovanna Pulici, originaria di Desio. «Aveva un tumore osseo in fase terminale, alla fine degli anni Settanta. Curata a Milano, fu mandata a casa dai medici perché non c’era più nulla da fare. Il marito, grande devoto di frère Charles, gli disse: “Pensaci tu”. La donna guarì improvvisamente, il giorno di Pasqua era in chiesa a ringraziare il Signore con sua famiglia». Molti anni dopo, nel 2000, il marito con le figlie era a Roma per l’Anno Santo: «Ha visto passare una piccola sorella di Gesù per strada e l’ha fermata chiedendole: “Quando vedremo fratel Carlo canonizzato?”. Lei rispose che ancora non era beato, perché per far andare avanti la causa occorreva la certificazione di un miracolo. E lui: “Il miracolo ce l’ho io”».

Lo stesso padre Andrea è stato impegnato nella raccolta della testimonianza, del dossier medico di Giovanna e della sua cartella clinica. E riferisce che proprio in occasione del centenario della morte di frère Charles «dalla Francia alcuni vescovi hanno inviato al Santo Padre lettere per chiedergli la canonizzazione anche senza un secondo miracolo, per la fama di santità». Oggi circa 20 associazioni e congregazioni fanno parte della famiglia spirituale del beato e si ispirano al suo carisma.

Laura Badaracchi su l’Avvenire

«io, Foucauld, un’anima alla ricerca di Dio»


 

il 1° dicembre di cent’anni fa il martirio in Algeria

ora il sacerdote-scrittore Pablo d’Ors immagina un suo «diario» in prima persona

«Io, Foucauld, un'anima alla ricerca di Dio»

Nella classica biografia del 1921 – ora disponibile nel catalogo delle Paoline – René Bazin lo evocava come «esploratore del Marocco, eremita nel Sahara». A «un ufficiale dissipato e festaiolo, della specie più volgare» si riferiva invece trent’anni dopo Paul Claudel in apertura del suo poetico ritratto del «visconte de Foucauld », ovvero fratel Carlo, come solitamente è chiamato in Italia il beato Charles de Foucauld. Definizioni ineccepibili, nessuna delle quali può essere isolata dalle altre, specie alla vigilia del primo centenario della morte – o, meglio, del martirio – di quest’uomo che si ritrovò a essere tutto, ma solo per scoprire di voler essere nulla. In occasione dell’anniversario arrivano in libreria riproposte suggestive (come un’altra biografia d’epoca, Charles de Foucauld. Esploratore mistico di Michel Carrouges, traduzione di Francesco Calvesi, Castelvecchi, pagine 228, euro 17,50) e utili antologie dagli scritti (le Pagine da Nararet curate da Natale Benazzi per Edizioni di Terrasanta, pagine 154, euro 14,00, oppure le meditazioni sui Vangeli proposte da San Paolo con il titolo Dio di misericordia, pagine 204, euro 12,00). E arriva, molto atteso, il romanzo che il sacerdote-scrittore spagnolo Pablo d’Ors ha dedicato a fratel Carlo, L’oblio di sé (traduzione di Simone Cattaneo, Vita e Pensiero, pagine 414, euro 20,00).

Charles de Foucauld, in effetti, era già stato protagonista di un altro libro di D’Ors, L’amico del deserto, pubblicato lo scorso anno da Quodlibet nella versione di Marino Magliani. Ma si trattava, in quel caso, di un protagonismo per absentiam, dato che l’intero racconto ruotava sì intorno al desiderio di nascondimento e contemplazione caratteristico di fratel Carlo, il cui nome affiorava però in modo intermittente, quasi a convincere il lettore della struttura eccentrica e pressoché iniziatica del libro. In apparenza L’oblio di sé assume un andamento più convenzionale. Quello che D’Ors ci presenta questa volta è addirittura il diario che fratel Carlo avrebbe redatto su richiesta del suo padre spirituale (e vero padre nella fede), l’abate Henri Huvelin. Proprio perché scritto dallo stesso Charles de Foucauld, il resoconto è privo del drammatico finale, che coincide con l’uccisione del religioso francese da parte dei predoni senussiti.

Era il 1° dicembre 1916, fratel Carlo aveva 58 anni e da ormai quindici conduceva un’esistenza da eremita nel Sahara algerino. La chiesa-fortino di Tamanrasset, obiettivo della razzia che gli costò la vita, era stata pensata e costruita come avamposto spirituale nel cuore del deserto. Prima di cadere, l’evangelizzatore dei tuareg aveva messo in salvo l’Eucaristia, che rappresentava il centro della sua spiritualità. È una storia nota, eppure non smette di impressionare, di apparire talmente straordinaria da sembrare inventata da un romanziere. Perché Charles de Foucauld nasce nobile il 15 settembre 1858, presto si ritrova orfano e benestante, passa per svogliato a scuola e per buontempone nell’esercito, dove pure dà prova di coraggio e perfeziona la tecnica del travestimento, che gli tornerà utile da lì a poco, quando – tra il 1883 e il 1884 – compirà il lungo viaggio nel Marocco interno al quale è legata la sua fama di esploratore. La conversione risale al 1886, inizialmente Charles viene ammesso nella Trappa di Nostra Signora delle Nevi, nel-l’Ardèche, ma la sua vocazione è troppo inquieta per conformarsi del tutto alla regola monastica.

Gli anni decisivi sono quelli trascorsi a Nazaret, appunto, tra il 1897 e il 1900. Fratel Carlo lavora come giardiniere nel convento delle Clarisse, inoltrandosi sempre di più nella ricerca spirituale e abbozzando i lineamenti di quella che diventerà in seguito la comunità dei Piccoli fratelli e delle Piccole sorelle del Sacro Cuore. Ordinato sacerdote, si stabilisce in Algeria nel 1901, prima presso l’oasi di Beni Abbes e da ultimo a Tamansarret, dedicandosi tra l’altro alla compilazione del primo, fondamentale dizionario berbero-francese. Una vita che sembra già un romanzo, dicevamo, ma che Pablo d’Ors riesce a ricostruire senza mai insistere sugli elementi più eclatanti, scegliendo di concentrarsi piuttosto sull’interiorità di fratel Carlo. Se la sua entrata in scena può infatti ricordare l’esagitazione del giovane Rimbaud, il titolo scelto per uno dei capitoli finali, La messa sul mondo, riprende alla lettera un’espressione cara al cristocentrismo cosmico di Pierre Teilhard de Chardin, a ribadire la continuità anzitutto spirituale di cui fratel Carlo è testimone. Allo stesso modo, nelle epigrafi che introducono ciascuna sezione del libro, D’Ors si mantiene fedele allo stile di fratellanza universale del suo Charles de Foucauld, che non fa mistero di aver riscoperto il Vangelo dopo aver conosciuto il Corano.

Nell’Oblio di sé appaiono dunque citazioni dai Racconti di un pellegrino russo e dal canzoniere sufi di Yunus Emre, dai maestri del buddhismo zen e dalle poesie del mistico contemporaneo Dag Hammarskjöld, dalle lettere di san Paolo e dal diario di Etty Hillesum. Non è una generica esibizione di sincretismo, ma la consapevolezza di quanto l’avventura di fratel Carlo sia, in realtà, l’avventura di qualunque anima alla ricerca di Dio. Di qualunque corpo, andrà aggiunto, dato che uno degli aspetti più convincenti del libro di D’Ors – autore fra l’altro della magnifica Biografia del silenzio edita da Vita e Pensiero nel 2014 – consiste proprio nell’insistenza sul legame inscindibile tra materiale e immateriale, tra visibile e invisibile. Si comincia a credere quando ci si mette in ginocchio, avverte il fratel Carlo dell’Oblio di sé, e si inizia a progredire nell’imitazione di Cristo quando si impara a praticare il digiuno. Non è un caso, del resto, che tra le pagine più belle ci siano proprio quelle nelle quali gli oggetti della quotidianità, illuminati dalla luce sovrannaturale dell’Eucaristia, rivelano al protagonista la silenziosa vastità della Rivelazione: «Le cose non pretendono nulla da noi: stanno, sono. E così è Dio, pensavo: Colui che sta, Colui che è, Colui che si offre in tutto e in tutti». Il Rimbaud di Vocali non è lontano, il Teilhard de Chardin del Cristo nella materia è già alle porte.

Alessandro Zaccuri su l’Avvenire

 Charles de Foucault

contemplazione, condivisione, universalità

di Antonella Fraccaro
in “Avvenire” del 30 novembre 2016
contemplazione, condivisione, universalità: tre condizioni di vita, tre espressioni di cura. È così che desideriamo raccontare l’esperienza al seguito di frère Charles
Nate circa 40 anni fa, nella diocesi di Treviso, in ascolto degli appelli del Concilio Vaticano II, abbiamo voluto rispondere ai bisogni del tempo, formate dalla Parola e dai documenti della Chiesa. Una delle prime scelte che hanno segnato la nostra vita di donne religiose è stata quella di lavorare all’esterno della fraternità, per condividere “con” la gente la fatica e la bellezza della vita ordinaria (cercare casa, lavoro, far quadrare i conti a fine mese). Dalla spiritualità di Charles de Foucauld abbiamo assunto tre aspetti: la preghiera e la contemplazione, l’accoglienza e la condivisione, l’evangelizzazione secondo lo spirito di Gesù a Nazareth, vissuti in comunione con la Chiesa locale. Nel 2007 il nostro istituto religioso è stato riconosciuto come il ventesimo gruppo della grande Famiglia spirituale Charles de Foucauld. Siamo attualmente presenti con 11 fraternità locali in alcune Chiese del nord Italia e in Francia. La prima espressione di cura ereditata in questi anni dall’esperienza di frère Charles è la contemplazione. La meditazione del Vangelo e l’adorazione eucaristica silenziosa ci aiutano a guardare con gli occhi di Dio i piccoli e grandi eventi che accadono ogni giorno. Così scriveva Charles: la fede «fa vedere tutto sotto un’altra luce: gli uomini come immagini di Dio, che bisogna amare e venerare come ritratti del Beneamato… e le altre creature come cose che devono tutte quante, senza eccezione, aiutarci a ritrovare il cielo». Viviamo le nostre giornate animate da questo spirito, nel confronto fraterno, per discernere la volontà di Dio nelle diverse situazioni della vita, perché le nostre scelte siano il più possibile a servizio dei poveri. Lo sguardo contemplativo diventa motivo di fede e di speranza anche per quanti incontriamo, nel posto di lavoro o nelle comunità cristiane in cui siamo inserite. Guardare l’altro come un’immagine di Dio ci permette di vedere in lui o in lei una persona amata e salvata da Dio, da amare anzitutto così com’è. La condivisione è la seconda espressione che ereditiamo dall’esperienza di frère Charles. Quante volte, negli scritti, egli ringrazia per essere stato accolto: dalla vita, anche se essa si è mostrata presto ostile con la perdita precoce di entrambi i genitori; dalla fede, grazie alla religiosità dei familiari e dei fratelli musulmani incontrati nel Sahara e in Marocco. È stato accolto più volte e in diverse situazioni da figure ecclesiali, da amici militari, dal popolo tuareg. A sua volta, Charles ha praticato assiduamente l’accoglienza: in Trappa, a Nazareth e nel deserto, dedicando tutto se stesso, fino al termine della sua vita. Giunto da poco a Beni Abbès scriveva: «Questa sera, per la festa del santo Nome di Gesù, ho una grande gioia: per la prima volta dei viaggiatori poveri ricevono l’ospitalità sotto l’umile tetto della Fraternità del Sacro Cuore. Gli indigeni cominciano a chiamarla Khaoua (la Fraternità) e a sapere che i poveri hanno qui un fratello; non solo i poveri, ma tutti gli uomini». Le nostre fraternità sono aperte all’accoglienza, quotidiana e temporanea, e anche quando sono di modeste dimensioni, uno spazio per accogliere persone, di ogni cultura e nazionalità si trova sempre. In alcune nostre fraternità in Italia, dallo scorso anno, in seguito al ripetuto appello di papa Francesco, abbiamo aperto l’accoglienza anche a donne migranti, richiedenti asilo. Sono giovani, provenienti da varie parti dell’Africa, soprattutto dalla Nigeria (Benin City). Sono piene di forza di vita, ma nello stesso tempo ferite nella loro esistenza e fecondità, perché cresciute in contesti poveri culturalmente, in condizioni di violenza, di abuso, di sfruttamento. Vivere con loro, condividere la stessa mensa, gli stessi spazi, ha allargato gli orizzonti della nostra accoglienza e ci ha aperto a
nuove forme di collaborazione e di gratuità, incoraggiandoci a sviluppare, insieme ad altre realtà civili ed ecclesiali, riflessioni e iniziative volte a offrire a queste donne prospettive di vita e di speranza. L’esperienza di una nostra fraternità, in un quartiere di Marsiglia, a prevalenza musulmano e multietnico, ci fa sperimentare che cosa significa essere “straniere tra stranieri”. Tocchiamo con mano la bellezza della reciproca ospitalità, dell’ascolto e dell’accoglienza della ricchezza dell’altro, nei gesti di bontà e di cura donati e ricevuti. Sono vie quotidiane, piccole e nascoste, segni di speranza e di pace tra persone di diversa cultura e religione. Fin dalla sua presenza nel Sahara, Charles de Foucauld si era proposto di «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei, idolatri» a considerarlo «come loro fratello, il fratello universale». Egli voleva essere «il fratello di tutti gli uomini senza eccezione né distinzione » e desiderava che quanti lo avvicinavano, credenti e non credenti, diventassero, a loro volta, fratelli di altri uomini e donne. L’universalità è la terza prospettiva di vita ereditata al seguito di frère Charles. Per noi, la “fraternità universale” ha trovato, nel corso degli anni, diverse forme di espressione. Frequentare ambiti lavorativi diversi, essere inserite in ambienti sociali, culturali e religiosi differenti (quartieri popolari, rurali e cittadini), vivere in comunione con le comunità cristiane di appartenenza, sono manifestazioni della creatività e originalità dell’esperienza spirituale foucauldiana. L’incontro con la vicenda di frère Charles, fratello universale al seguito di Gesù di Nazareth, sia per ciascuno concreta possibilità per vivere relazioni di cura e benevolenza verso quanti incontriamo: relazioni pienamente umane poiché autenticamente evangeliche. (A cura delle “Discepole del Vangelo”)



il nostro mare-cimitero: 5000 morti in meno di un anno

migranti

negli ultimi 10 mesi quasi 5 mila vittime

oltre 3.500 hanno perso  la vita nel Mediterraneo

  e nel 2015 sono state 65 milioni le persone costrette a lasciare il proprio paese

  

migranti

nei primi 10 mesi del 2016 sono stati 4.899 i migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa; di questi 3.654 hanno la perso vita nel Mediterraneo.
È uno dei dati più significativi emersi dal terzo rapporto sulla protezione internazione in Italia 2016, secondo il quale nel 2015 sono state 65 milioni le persone costrette a lasciare in maniera ‘forzata’ il proprio Paese, una massa enorme di disperati, composta dal 21,3 milioni di rifugiati, 40,8 milioni di sfollati interni e 3,2 milioni di richiedenti asilo

IN FUGA 34 MILA AL GIORNO

Lo studio, messo a punto da Anci, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e dal Servizio centrale dello Sprar, in collaborazione con l’Unhcr, ha calcolato un ammontare di circa 34 mila persone al giorno che nel 2015 sono state costrette a fuggire dalle proprie case per l’acuirsi di conflitti e di situazioni di crisi, vale a dire una media di 24 al minuto

IN ITALIA 160 MILA ARRIVI

In un rapporto composto essenzialmente da cifre, non poteva mancare il numero degli arrivi nel nostro Paese: secondo quanto certificato dai ricercatori nei primi 10 mesi del 2016 questi hanno sfiorato le 160 mila unità (159.432), dato che fa segnare un incremento del 13% rispetto al 2015. Lo studio ha contato poi, nello scorso anno, 1 milione e 393.350 domande di protezione internazionale nell’Ue, ambito che vede la Germania primeggiare con 476.620 istanze presentate (il 36% del totale), seguita da Ungheria, Svezia, Austria e Italia.
Questi ultimi cinque Paesi raccolgono tutti insieme il 74,8% delle domande presentate nel Vecchio Continente. Ma non tutti nel frattempo hanno trovato ospitalità nell’Ue: lo scorso anno il 98% dei rifugiati ha optato per altri Paesi, su tutti la Turchia, con 2,5 milioni di persone, seguita dal Pakistan (1,6 milioni) e dal Libano (1,1 milioni). Ancora nel 2015 i principali Paesi di origine dei migranti sono stati la Siria (4,9 milioni), l’Afghanistan (2,7 milioni), e la Somalia (1,1).




i quattro cardinali che vogliono una chiesa immobile non la ‘chiesa in uscita’ di papa Francesco

quattro cardinali chiedono spiegazioni su “Amoris laetitia”

4-cardinali

di Andrea Tornielli
in “La Stampa-Vatican Insider” 

Quattro porporati chiedono al Papa di chiarire alcuni dubbi riguardanti l’interpretazione dell’esortazione post-sinodale «Amoris laetitia» sul matrimonio e la famiglia

sono i cardinali Walter Brandmüller, già presidente del Pontificio comitato di scienze storiche;

Raymond L. Burke, patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta,

e gli arcivescovi emeriti Carlo Caffarra (Bologna)

e Joachim Meisner (Colonia)

La lettera, consegnata nelle mani del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede il 19 settembre è stata pubblicata lunedì 14 novembre dal sito dell’Espresso curato da Sandro Magister e dal quotidiano online La Nuova Bussola quotidiana.

card-brand

raymond-l-burke I porporati hanno deciso di rendere pubblico il documento consegnato all’ex Sant’Uffizio perché fino a questo momento non hanno ricevuto risposta. «Abbiamo constatato un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione – scrivono i quattro porporati – in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa. Abbiamo notato che anche all’interno del collegio episcopale si danno interpretazioni contrastanti del capitolo ottavo di “Amoris laetitia”. La grande Tradizione della Chiesa ci insegna che la via d’uscita da situazioni come questa è il ricorso al Santo Padre, chiedendo alla Sede Apostolica di risolvere quei dubbi che sono la causa di smarrimento e confusione».

carlo-caffarra«Il Santo Padre – si legge ancora nella lettera – ha deciso di non rispondere. Abbiamo interpretato questa sua sovrana decisione come un invito a continuare la riflessione e la discussione, pacata e rispettosa. E pertanto informiamo della nostra iniziativa l’intero popolo di Dio, offrendo tutta la documentazione. Vogliamo sperare che nessuno interpreti il fatto secondo lo schema “progressisticonservatori”: sarebbe totalmente fuori strada. Siamo profondamente preoccupati del vero bene delle anime, suprema legge della Chiesa, e non di far progredire nella Chiesa una qualche forma di politica.

joachim-meisner Vogliamo sperare che nessuno ci giudichi, ingiustamente, avversari del Santo Padre e gente priva di misericordia. Ciò che abbiamo fatto e stiamo facendo nasce dalla profonda affezione collegiale che ci unisce al Papa, e dall’appassionata preoccupazione per il bene dei fedeli». Il documento ha la forma dei «dubia» (dubbi) che vengono solitamente presentati alla Congregazione per la dottrina della fede secondo una forma che permette di rispondere con un «sì» o con un «no».

Questo il testo dei quesiti, riguardanti il capitolo VIII dell’esortazione dedicato all’accompagnamento delle famiglie ferite e al discernimento:

1. Si chiede se, a seguito di quanto affermato in “Amoris laetitia” nn. 300-305, sia divenuto ora possibile concedere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza e quindi ammettere alla Santa Eucaristia una persona che, essendo legata da vincolo matrimoniale valido, convive “more uxorio” con un’altra, senza che siano adempiute le condizioni previste da “Familiaris consortio” n. 84 e poi ribadite da “Reconciliatio et paenitentia” n. 34 e da “Sacramentum caritatis” n. 29. L’espressione “in certi casi” della nota 351 (n. 305) dell’esortazione “Amoris laetitia” può essere applicata a divorziati in nuova unione, che continuano a vivere “more uxorio”?

2. Continua ad essere valido, dopo l’esortazione postsinodale “Amoris laetitia” (cfr. n. 304), l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II “Veritatis splendor” n. 79, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi?

3. Dopo “Amoris laetitia” n. 301 è ancora possibile affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio (cfr. Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale (cfr. Pontificio consiglio per i testi legislativi, Dichiarazione del 24 giugno 2000)?

4. Dopo le affermazioni di “Amoris laetitia” n. 302 sulle “circostanze attenuanti la responsabilità morale”, si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II “Veritatis splendor” n. 81, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, secondo cui: “le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta”?

5. Dopo “Amoris laetitia” n. 303 si deve ritenere ancora valido l’insegnamento dell’enciclica di San Giovanni Paolo II “Veritatis splendor” n. 56, fondato sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della Chiesa, che esclude un’interpretazione creativa del ruolo della coscienza e afferma che la coscienza non è mai autorizzata a legittimare eccezioni alle norme morali assolute che proibiscono azioni intrinsecamente cattive per il loro oggetto?

qui sotto un breve commento di Andrea Grillo che giustamente evidenzia i forti limiti della ‘lettera’ e dei suoi estensori che usano un linguaggio che non ha più alcun riferimento con la realtà, utilizzano Scrittura e tradizione per immunizzarsi nei confronti del reale, chiedono di stare fermi e immobili, non di essere una chiesa in uscita:

Muller

5 Dubbi, 4 Cardinali, 3 certezze

di Andrea Grillo

in Come se non

del 14 novembre 2016

(http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non)

Dopo quelle scritte durante il Sinodo, più o meno clandestinamente, un’altra lettera, sempre con le solite firme, ora selezionate. Ma questa volta non vengono espressi timori o desideri. No, questo è un elenco di “dubbi”. La cosa interessante è che il dubbio non è tanto su “Amoris Laetitia”, ma sul disegno del papa in quanto tale. Ma l’effetto, inatteso, è che i 4 cardinali, formulando i loro 5 dubbi, fanno sorgere nel popolo di Dio 3 grandi certezze. Dai loro 5 dubbi nascono le nostre 3 certezze. La dinamica ecclesiale riserva anche queste sorprese. Se esperti uomini di Chiesa, dopo 7 mesi dalla presentazione del testo di AL, continuano a “non capire” – o a non volere capire – che cosa è mutato e si abbarbicano ostinatamente alle loro “evidenze sospette”, tutto ciò determina, nel corpo ecclesiale, una nuova coscienza, talmente radicale, da diventare certezza. La loro diffidenza verso AL ci consente una nuova confidenza col Vangelo. Anche questo, in certo modo, è ministero ecclesiale.

Certitudo prima

Nella Chiesa cattolica, a causa di una vicenda storica complessa, ma della quale avrebbero dovuto accorgersi da tempo anche questi Signori Cardinali, può accadere che si parli un linguaggio che non ha più alcun riferimento alla realtà. Si può parlare di soggetti sposati davanti alla legge come se vivessero “more uxorio” e di “atti intrinsecamente negativi” come se fosse fuori dalla storia. Alla radice di questo disagio sta una mancanza di riconoscimento della realtà e una radicale pretesa di autosufficienza. A nulla vale la esperienza: si è imparato a nascondersi dietro la corazza di una “scienza triste”, identificata con il Vangelo, e ci si atteggia a “difensori del bene delle anime”. Ma si è perso il legame tanto con le anime quanto con il bene.

Certitudo altera

Viene il tempo in cui occorre scegliere tra iniziare processi di conversione o occupare spazi di potere. Ad ogni costo i 4 firmatari ritengono che per un pastore e per un uomo di Chiesa non vi sia alternativa. Può soltanto occupare spazi di potere e gettare bombe lacrimogene per impedire la vista del reale. E si usa ogni mezzo. Soprattutto si pretende che la Scrittura e la Tradizione siano al servizio delle operazioni di “immunizzazione dal reale” perseguite negli ultimi 40 anni. Il popolo di Dio e il magistero ecclesiale guarda a questi tentativi come si guarda, con la giusta comprensione, ai bambini che, privati del loro giocattolo preferito, pestano i piedi e chiedono giustizia.

Certitudo tertia

Da ormai 7 mesi è iniziata la strada di una recezione ricca e complessa di Amoris Laetitia. I pastori che hanno a cuore il bene dei loro fedeli conoscono la strada, si sono messi in cammino: qualcuno davanti al popolo, per incitare alla marcia; qualcuno in mezzo al popolo, per tenere bene la andatura comune; qualcuno nelle retrovie, a custodire quelli col passo più lento. I pastori sanno dove stare. I cardinali che salgono al primo piano, si mettono alla finestra e cercano in qualche modo di far rientrare la Chiesa in uscita, temono gli ospedali da campo, rifuggono i campi profughi. Salgono alla finestra e si dicono “dove andremo a finire?”. E l’unica risposta è “Bisogna finire di andare”. Stare. Fermi. Sordi. Immuni. Lontani. Indifferenti. Con un sentimento di infinita differenza dal mondo estraneo. Ma anzitutto da Francesco, papa strano. Che spuzza di vita. E che osa non subordinare il Vangelo alla legge.




botte al marito perché ha la moglie zingara e per di più va in televisione – intervista ai due coniugi

“tua moglie è la zingara che va in televisione”

e scatta l’aggressione

timpano lesionato per Paolo Cagna Ninchi, marito di Dijana Pavlovic, nota attivista rom. Violenza venerdì sera nella zona di viale Ungheria a Milano

di Marianna Vazzana

Dijana Pavlovic ospite a una trasmissione televisiva
Dijana Pavlovic ospite a una trasmissione televisiva

 Aggredito sotto casa da uno sconosciuto che l’ha insultato perché “tua moglie è la zingara che va in televisione”. Lo rende noto l’associazione Upre Roma (impegnata in progetti contro la discriminazione e per l’inclusione della comunità rom). Vittima del pestaggio, il suo presidente Paolo Cagna Ninchi, marito di Dijana Pavlovic, rappresentante della Consulta rom e sinti milanese “da tempo minacciata sia sui social network che nel quartiere in cui abita”, si precisa nella nota. L’episodio violento sarebbe avvenuto venerdì sera nella zona di viale Ungheria.

Il presidente Upre – si legge nella nota – ha riportato una lesione al timpano dell’orecchio sinistro che ha reso necessario un intervento chirurgico. “Si tratta di un crimine d’odio come tanti altri, che i rom e i non rom che “li difendono” (che nella classifica della mentalità razzista sono peggio dei rom stessi) subiscono. Una famiglia normale con un bimbo di 7 anni che abita in una periferia di Milano è costretta  da tempo a vivere nella paura di scendere sotto casa per portare fuori il cane o fare la spesa al supermercato per il solo fatto che è classificata come famiglia zingara”. L’associazione denuncia “questo crimine a palese sfondo razziale attuato in un clima d’odio e insofferenza che sfoga il proprio malessere sulla fragilità altrui”. Chiede a Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale) di intervenire con decisione nel condannare i crimini d’odio e all’amministrazione di Milano, “a passare ai fatti. La zona di viale Ungheria è abbandonata a se stessa. C’è bisogno non di costosi progetti di riqualificazione urbana, intesi come interventi immobiliari, ma di meno costosi, più rapidi ed efficaci interventi sulla vivibilità”.
Solidarietà da Milano in Comune, che “condanna con fermezza questa aggressione, ritenendola frutto anche del clima di incitamento all’odio razziale a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane”, e da Sinistra X Milano, la quale “richiama i valori di accoglienza, solidarietà e inclusione di tantissimi cittadini e cittadine milanesi riconfermati anche dalla grande festa di popolo che l’1 novembre ha accolto l’arrivo dei primi profughi alla Montello”.

 

Intervista a Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi

a cura di Antonio Chiocchi

(dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

La persecuzione dei rom ha una storia antica: nasce con la loro venuta in Europa nel Quattrocento. Con Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi, fondatori dell’associazione UPRE ROMA, seguiamo questa storia dagli inizi fino agli approdi della contemporaneità. Viaggiamo con loro tra le costanti e le varianti di questa persecuzione: mai smentita, sempre confermata e sempre modificatasi. Volendo usare una espressione sintetica, ma efficace, possiamo dire che i rom e i sinti sono i condannati dal potere, per il loro essere ed esistere. L’inaccettabilità dei rom e dei sinti da parte dei sistemi di potere che hanno governato il mondo corrisponde all’accettazione incondizionata da parte dei rom e dei sinti dei linguaggi della libertà del mondo e della libertà come mondo. Come ci ricordano Dijana e Paolo, la patria dei rom e dei sinti è più grande di tutte le piccole patrie: è la terra di cui non si può essere nemici e che tutti ci riconosce.

Agli occhi del potere, il problema di fondo sollevato dai rom e dai sinti nasce da qui. Costituiscono l’inaccettabile e l’intollerabile, perché non si appropriano della terra, ma la solcano; non la usano, ma la attraversano; non la occupano, ma la abitano. Più i rom e i sinti ci ricordano queste verità primordiali, più le società oppressive che li perseguitano devono toglier loro la parola. Contro di loro la voce dell’oppressione risuona proprio per renderli muti e invisibili. Il loro abitare il mondo non solo è deriso e offeso, ma è soprattutto interdetto. Anche per questo l’architettura e l’estetica dei campi in cui sono segregati sono così misere, estraneanti e vuote di senso dell’umanità.

Il razzismo sotto traccia, di cui parlano Dijana Pavlovic e Paolo Cagna Ninchi, dà impulso, vita e sostanze alle pratiche di esclusione contro cui da sempre i rom e i sinti hanno dovuto combattere. Ed è vero: proprio questa secolare oppressione che non è stata capace di distruggerli dimostra tutto il loro coraggio e la loro determinazione. Da condannati dal potere, si trasformano in indomabile resistenza all’odio, alla violenza e alla discriminazione.

 

Redazione Diritti Globali:

Contro i rom e i sinti si è sedimentato e diffuso nel tempo un’inestinguibile avversione che, non di rado, è sfociata nell’odio, nella persecuzione e nella violazione di tutti i più elementari diritti umani. V’è in ciò qualcosa di antico e continuamente risorgente? Cosa, invece, di specifico è stato partorito nella contemporaneità delle società neoliberali e, più ancora, nella crisi globale che sta impoverendo il mondo?

Dijana Pavlovich e Paolo Cagna Ninchi:

Nelle prime cronache del 1400 giunte sino a noi si parla di questi gruppi stravaganti per abbigliamento e usi che si fermavano ai bordi delle città e che, ben presto, divennero oggetto di attenzione delle autorità per la loro estraneità. Quindi il pregiudizio è antico e di conseguenza la discriminazione e poi la persecuzione sono antichi e hanno conservato intatti i loro segni che si sono impressi in modo indelebile su questo popolo, fino alle estreme conseguenze dello sterminio su base razziale del nazifascismo. Gli effetti della crisi globale che sta impoverendo il mondo, più che sul piano delle condizioni materiali di un popolo che ha fatto della capacità di sopravvivere in qualunque condizione un proprio modo di essere, agiscono sul rapporto con la popolazione maggioritaria che, anche senza l’aiuto degli imprenditori della paura e dello sfruttamento politico, ne fa il capro espiatorio preferito, insieme con gli immigrati, del proprio malessere non solo economico, ma diremmo anche di perdita di senso nella società neoliberale.

 

RDG:

Volendo fare il punto, secondo quanto suggeritovi dalla vostra esperienza, quali sono le problematiche più preoccupanti della situazione dei rom e dei sinti in Italia e in Europa? L’Unione Europea, con i suoi continui appelli al rispetto dei loro diritti, quanto è conseguente nella salvaguardia dell’integrità culturale dei rom e dei sinti? I suoi programmi di integrazione e inclusione accolgono e rispettano effettivamente la loro diversità costitutiva?

DP e PCN:

Osservando la situazione dal punto di vista di quello che fanno le istituzioni nazionali ed europee si possono cogliere segnali di consapevolezza che le politiche sinora attuate per rom e sinti non hanno prodotto i risultati sperati, nonostante i rilevanti investimenti disponibili. Sono importanti le direttive anche recenti per favorire processi di inclusione sociale e di contrasto alla discriminazione, ma vale la pena di sottolineare un punto di criticità che pare finalmente affrontato anche se non risolto. Per dirla con uno slogan: passare dall’assistenza all’autonomia. Da questo punto di vista anche i recenti programmi del Consiglio d’Europa e della Commissione Europea partono dall’investire sulle comunità e sulla loro capacità di organizzare progetti per sé. La possibilità che questo si realizzi, poi, è tutta legata alle condizioni dei singoli Paesi e rimanda quindi al rapporto tra istituzioni le comunità locali.

 

RDG:

Passiamo a un esempio concreto. In attuazione della Comunicazione della Commissione Europea n. 173/2011, in Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha elaborato la strategia nazionale 2012-2020 di inclusione dei rom, dei sinti e dei camminanti. Che giudizio date di quella strategia in sé? Qual è il suo stato attuale di realizzazione? Quali i suoi nodi irrisolti?

DP e PCN:

La strategia nazionale coglie questo mutamento di prospettiva: la sua stessa elaborazione è stata frutto di confronto con le comunità rom e sinte, sino al punto che nodi cruciali come l’abitare sono stati declinati non più in base ai paradigmi della società maggioritaria, ma in base alle diverse culture ed esigenze delle comunità. Ma il punto fondamentale della strategia è l’impegno per le amministrazioni a far partecipare rom e sinti alle decisioni che li riguardano. E questo ovviamente è il punto critico di una strategia che deve essere realizzata a livello locale e quindi si scontra con la “politica”, tant’è che i tavoli regionali di applicazione previsti sono stati a oggi realizzati solo in quattro regioni e questo definisce la difficoltà della sua applicazione.

 

RDG:

Esiste un localismo anti-rom che è una coerente filiazione del globalismo anti-rom. Ma tra localismo e globalismo vi sono pure delle contraddizioni, a volte positive. Come agevolare una trasformazione delle politiche locali a favore dei rom? Come fare in modo che le politiche globali sostengano attivamente la libertà e i diritti dei i rom?

DP e PCN:

La dimensione locale è molto importante, basti vedere la diversa condizione di rom e sinti in Sud Italia rispetto al Nord Italia. Su queste differenze non agiscono solo la politica e il generale atteggiamento discriminatorio, ma anche tradizioni e culture che, per esempio nel caso del nostro Meridione, hanno punti di contatto che rendono più facile l’incontro e la tolleranza. Viceversa, per generalizzare, l’egoismo leghista coglie un’evoluzione culturale di una società malata che ha trovato la sua espressione più drammatica nella tragedia familiare di Pietro Maso che uccide i genitori per soldi. Per questo è decisiva la capacità anche da parte delle comunità rom e sinte di trovare punti di relazione a livello locale, sia usando gli strumenti istituzionali disponibili, sia sviluppando una propria capacità di relazione.

 

RDG:

Sicuramente, contro i rom si è scatenato da sempre un atteggiamento di razzismo puro. Ma la loro marginalità sociale e la loro povertà, in questi anni di crisi globale, si sono molto accentuate. Prendiamo due dimensioni geopolitiche dello stesso problema: l’Ungheria neoliberale del dopo-URSS e tre importanti metropoli italiane come Roma, Milano e Napoli. Ci sembra che, dal pregiudizio razziale e culturale, si sia passati a pratiche di espulsione e confinamento a raggio sempre più ampio. Il vocabolario dei diritti è stato definitivamente espulso dal vissuto dei rom e dei sinti? Le istituzioni democratiche si sono trasformate in istituzioni attivamente segregative?

DP e PCN:

Come sempre, anche per rom e sinti non si può generalizzare ed è giusto osservare la situazione da più punti di vista. La crescita a livello globale delle diseguaglianze, del distacco tra ricchi e poveri, dello sfruttamento politico della crisi con la crescita dei movimenti ultranazionalisti e fascisti in Paesi come l’Ungheria, ha portato a veri e propri pogrom in molti villaggi rom. Eppure, in Ungheria le comunità sono numericamente forti, organizzate e persino riconosciute dalla Stato. Nelle grandi città italiane rimane la concezione dell’emarginazione anche fisica delle comunità rom e sinte e la cosa da segnalare è che tutte e tre le città, Roma, Napoli e Milano, sono governate da giunte di centro sinistra, segno che al di là della convenienza politica – a sinistra meno si parla di rom meglio è – esiste un razzismo sotto traccia che è parte di una cultura che pervade tutta la società. Le scelte, comunque presentate, sono sempre scelte culturalmente segregative sia quelle istituzionali, sia quelle dell’assistenza caritatevole. Questo ha portato le comunità rom e sinte a introiettare il senso di un’ineluttabile esclusione e a una profonda sfiducia nei confronti delle une e delle altre.

 

RDG:

Sovente, rom e sinti sono stati definiti “cittadini senza patria”. Non ritenete che questa definizione sia una negazione politica, culturale e sociale della loro esistenza? Un’espressione di etnocentrismo differenziale e razzista? E ancora: avere la lingua per patria non significa, forse, avere il mondo come patria? Nasce da qui il pacifismo assoluto dei rom, unico popolo a non aver mai condotto una guerra?

DP e PCN:

«Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà», questo verso di una canzone anarchica è da sempre l’essenza del popolo rom e insieme la sua condanna all’emarginazione nel mondo delle troppe patrie e delle troppe bandiere, ma è, nello stesso tempo, l’affermazione della sua esistenza politica, culturale, sociale. Il popolo delle cento tribù e dei cento dialetti e delle cento religioni è unito da questa profonda, istintiva certezza di essere ovunque a casa sua e questo gli impedisce di riconoscere i confini, di avere pretese territoriali e di fare la guerra per una patria perché la sua patria è più grande di tutte le patrie.

RDG:

I diritti dei rom e dei sinti all’abitazione, al lavoro, all’istruzione e alla salute sono quelli più violati, in Europa come in Italia. Non credete che queste violazioni siano forme avanzate e radicali di negazione del diritto all’esistenza? La crisi globale nega questi diritti perfino a fasce crescenti di cittadini autoctoni. Ai rom e ai sinti è applicata una strategia ancora più dura: l’elusione completa del riconoscimento giuridico. Sta nascendo contro i rom e i sinti un diritto-contro, esteso a livello globale e capillarizzato nei territori locali? Un diritto-contro che trasforma le cittadinanze imperfette in cittadinanze da cancellare?

DP e PCN:

È difficile rispondere a questa domanda con un sì o con un no. Si potrebbe dire che per rom e sinti non c’è niente di nuovo sotto il sole, a differenza delle altre minoranze che pur vittime di emarginazione sociale e culturale non subiscono le stesse forme di esclusione. Basti pensare che i rom italiani, che risiedono in Italia dal 1400, nelle statistiche scolastiche si trovano assimilati agli stranieri e che per loro solo in questi ultimi anni si pensa che possano abitare in case e non unicamente nei cosiddetti “campi nomadi”. Come sempre, la situazione è articolata e vista dall’Europa la contraddizione di fondo è tra le politiche generali proposte per l’inclusione e la realtà locale in peggioramento, di fronte all’asprezza della crisi che induce anche culture politiche come quella francese a espellere i rom dal Paese. L’unica cosa positiva è la capacità del popolo rom di sopravvivere, una capacità costruita nei secoli. Il problema da affrontare oggi è invece quello di vivere, di essere cioè una cittadinanza da riconoscere.




superare una teologia mummificata e lontana dalla vita – se lo dicono anche i vescovi italiani …

monsignor Galantino:

la teologia deve

“uscire,

annunciare,

abitare,

educare e

trasfigurare”

Galantino

“Uscire dall’autoreferenzialità; annunciare la credibilità della fede che la informa; abitare spazi civili e sociali dai quali spesso si trova marginalizzata; educare a uno sguardo attento e critico sul ‘Dio per l’uomo’, sull’uomo stesso e sul mondo; trasfigurare la speculazione e il pensiero stesso per farne voce di una bellezza quasi sacramentale: quella della Parola che risuona, incessantemente, nelle parole umane”. Concludendo il suo intervento all’incontro di apertura del ciclo annuale di conferenze della Pontificia Università Gregoriana, monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha preso in prestito le cinque “vie” del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze per declinare il ruolo della teologia nella cultura contemporanea. “La teologia – la sua tesi di fondo – ha pieno diritto di parola in quella delicata operazione che è la legittimazione di un umanesimo in cui vi sia spazio per ricomporre i molti tratti di un’umanità dispersa nell’unico mosaico del volto di Cristo”. “Non si tratta di un’operazione ideologica o mossa da tendenze proselitistiche, né è in discussione la rispettabilità di opinioni e fedi diverse”, ha puntualizzato il vescovo: “Ad essere implicata è piuttosto la plausibilità di un pensiero cristiano sul fatto umano”




barricate italiane di fronte alla disperazione

barricate a Gorino

mons. Perego (Migrantes)

“un episodio preoccupante che mostra come l’aria di chiusura sta arrivando anche da noi”Perego

 

“Dodici donne e otto bambini, donne sole e con i propri figli hanno trovato all’arrivo al comune di Gorino nel ferrarese – meno di 4mila abitanti, 1,6% di immigrati – la strada sbarrata e, soprattutto, le porte chiuse dell’ostello dove dovevano essere ospitati. È un episodio preoccupante, che avviene in una terra dove la solidarietà era sempre stata un elemento fondamentale anche perché dimostra una cattiva informazione sulle storie e le tragedie di chi sbarca; preoccupante infine perché dimostra l’incapacità delle istituzioni di preparare una comunità all’accoglienza, continuando ad improvvisare gli arrivi”. goro

A dirlo oggi il direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego, commentando la protesta degli abitanti di Gorino, scesi in strada per impedire l’accesso in paese a 12 donne e 8 bambini, che il prefetto di Ferrara aveva destinato all’ostello del paese. goro2

“L’episodio – ha aggiunto monsignor Perego – è un segnale che dimostra come l’aria di chiusura e di ‘muri’ che si respira in altri Paesi europei sta arrivando anche nelle nostre città e nei nostri paesi, al punto tale che una Valle, con una delle oasi naturali del Po a protezione di flora e fauna, oggi arriva a non essere in grado di fare un gesto di ospitalità per proteggere donne e bambini in fuga da guerre, disastri ambientali e violenze. La nostra democrazia come la nostra sicurezza non si può difendere rifiutando il diritto all’ospitalità. In quelle famiglie in cammino ritroviamo in modi diversi la storia di fuga della famiglia di Nazareth”.



o si cambia o si muore dice L. Boff

 

la chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore

intervista a Leonardo Boffboff

Claudia Fanti 

 

Una vita intera al servizio della causa della liberazione: quella dei poveri e quella del “grande povero” che è il nostro pianeta devastato e ferito. È il loro duplice -– e congiunto – grido, infatti, a occupare il centro della riflessione di Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione e massimo esponente del nuovo paradigma ecoteologico, di quel percorso, cioè, che si sviluppa nell’ascolto del nuovo racconto sacro trasmesso dalla scienza, con la sua rivelazione della natura profondamente olistica e relazionale del cosmo (un cammino di ricerca di cui i libri Grido della Terra, grido dei poveri e Il Tao della Liberazione rappresentano indiscutibilmente le espressioni più alte, ma che è possibile seguire anche in molti suoi interventi settimanali, disponibili ogni venerdì nel portale Servicios Koinonia: http://www.servicioskoinonia.org/boff/).

Una riflessione, quella di Boff, che, nell’attento ascolto della profezia contenuta nella stessa voce dell’universo, prende enormemente sul serio le tante minacce di distruzione lanciate contro Gaia, il pianeta vivente che è la nostra casa comune, ma nello stesso tempo è attraversata da un potente soffio di speranza: la speranza che l’evoluzione sia plasmata in modo tale da convergere verso livelli di complessità e di autocoscienza sempre maggiori e che dunque il caos attuale sia generatore di nuove possibilità, l’annuncio di un livello più elevato nella storia dell’essere umano e del pianeta, di quell’unica entità indivisibile Terra-umanità che gli astronauti per primi hanno colto, con emozione e reverenza, guardando il nostro pianeta azzurro e bianco dallo spazio esterno. Cosicché lo scenario attuale, pur così drammatico, non sarebbe una tragedia, ma una crisi, una crisi che mette alla prova, purifica e spinge al cambiamento, annunciando un nuovo inizio per l’avventura umana.

Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Leonardo Boff, in visita in Italia per un ciclo di incontri, a partire dalle prospettive della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, su cui il teologo brasiliano, tra i più duramente perseguitati dal Vaticano, ha scommesso fin dalla sua nomina (v. Adista Documenti, n. 18/13), considerandolo l’espressione di un nuovo progetto di mondo e di un nuovo progetto di Chiesa. Di seguito l’intervista.

Una buona novella per i nuovi tempi

Intervista a Leonardo BoffBoff L.

 

Qual è la tua lettura dell’attuale fase della Chiesa?

Penso che papa Francesco rappresenti un progetto di mondo e un progetto di Chiesa. Rappresenta un progetto di mondo che è antitetico rispetto alla parola d’ordine imperiale “un solo mondo, un solo impero”, a cui l’enciclica Laudato si’ risponde con la sua proposta di “un solo mondo e un solo progetto collettivo”, esprimendo la possibilità di dialogo, di incontro tra i popoli, di rinuncia all’uso della violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti (perché non basta essere a favore della pace, bisogna essere anche contro la guerra). E rappresenta un progetto di Chiesa che è riconducibile a Francesco d’Assisi, caratterizzato dalla rivoluzione della tenerezza, dalla misericordia, dalla vicinanza agli esseri umani. Un progetto le cui opzioni di base non sono date, fondamentalmente, dalla dottrina, ma dall’incontro personale, sia con Cristo che con le persone. Si tratta di una visione di Chiesa assolutamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali concepivano la Chiesa come una fortezza assediata dai nemici, contro i quali era necessario difendersi: è la visione di una Chiesa come casa aperta, ospedale da campo, impegnata ad accogliere tutti, indipendentemente dalle loro connotazioni morali, con misericordia e con comprensione, riscattando con ciò la tradizione di Gesù che è anteriore ai vangeli e che è fatta di amore incondizionato. Penso che questo rappresenti una novità nella Chiesa, una rottura. Roma non ama questa parola. Ma è una realtà: papa Francesco ha de-paganizzato la figura del papa, considerato finora un faraone (è significativo che abbia rinunciato alla mozzetta, il simbolo del potere assoluto dell’imperatore). E ha affermato di voler guidare la Chiesa nell’amore e non nel potere. Con il potere, l’amore svanisce. Quando c’è l’amore, c’è vicinanza, comprensione, misericordia. Questa, per me, è la grande rottura operata da questo papa.

E intorno al papa cosa si sta muovendo?

Papa Francesco si trova dinanzi a due tipi di opposizione. Il primo è quello della vecchia cristianità di cultura europea, con tutti i simboli del potere sacro. Il papa si è spogliato dei simboli del potere, se ne è andato ad abitare a S. Marta, si mette in fila per mangiare (così, come ha detto scherzando a un’amica comune, Clelia Luro, è più difficile avvelenarlo!). Il secondo tipo è dato dall’opposizione laica di chi, specialmente negli Stati Uniti, non vuole saperne niente di dialogo o di ecologia, sposando la prospettiva della dominazione occidentale, quella dell’attuale globalizzazione, che in realtà è l’occidentalizzazione del mondo secondo lo stile di vita nordamericano, una sorta di hamburgerizzazione di tutte le culture.

Il papa inaugura un altro modello di cristiano. Io credo che la sua visione sia centrata sulla consapevolezza che Gesù non è venuto per creare una nuova religione, ma è venuto per insegnare a vivere. A vivere nell’amore e nella misericordia. Il nucleo del messaggio di Gesù, la sua intenzione originaria, è l’unione del “Padre nostro” e del “pane nostro”. Il Padre nostro, Abbà, è un volo verso l’alto, l’insopprimibile fame di trascendenza, e il pane nostro esprime la fame reale di milioni di persone, quella che occorre saziare perché abbia senso parlare di Padre nostro e di Regno di Dio. È a questo messaggio che si oppongono quanti vogliono un cristianesimo dottrinario, dogmatico, sistematizzato, tutto disciplina e ordine e potere.

La rottura di cui parli si esprime soprattutto su un piano simbolico. Sul terreno della dottrina, però, non si vedono né si prevedono molte novità…

Io penso che anche su questo terreno il papa abbia operato una rottura. Prima, ad esempio, i temi legati alla morale familiare erano tabù: nessuno poteva parlarne, né i vescovi, né i teologi. E uno dei criteri per le nomine episcopali era dato proprio dall’assenza di una qualsiasi critica relativa al celibato o alla dottrina morale. La novità è che Francesco ha aperto il dibattito su questi temi: non era mai successo che un papa consultasse le basi. Inoltre, sta dando molto valore alla collegialità. Nella sua enciclica, per esempio, egli cita diversi episcopati, anche privi di una grande tradizione teologica, come quelli del Paraguay o della Patagonia. Ed è un fatto estremamente singolare e rivoluzionario che egli abbia invitato a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo – riunendosi poi nuovamente con loro a Santa Cruz, in Bolivia – per analizzare le cause delle attuali sofferenze: non ha chiamato sociologi, politologi, scienziati, ma quanti sentono il dolore sulla propria pelle. E ha evidenziato due aspetti essenziali: la centralità della terra, del lavoro e della casa e il fatto che non bisogna aspettare che i cambiamenti vengano dall’alto, perché, ha spiegato il papa, la salvezza viene dal basso: sono i poveri organizzati i veri profeti del cambiamento. Tutto ciò era inimmaginabile a Roma prima di papa Francesco.

Non c’è il rischio che tutto questo finisca con il prossimo pontificato?

Il rischio esiste. Ma la mia tesi è che, dal momento che in Europa vive solo il 25% dei cattolici e che la parte restante si trova nel Terzo Mondo, questo papa inaugurerà una genealogia di papi del Sud del mondo, dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, provenienti, cioè, da altri ambienti culturali ed ecclesiali, più liberi dal peso delle tradizioni e più legati alle esperienze popolari di lotta per i diritti umani, per la terra, per la dignità. Io penso che si sia chiuso il ciclo della Chiesa europea e occidentale e che sia cominciato quello di una Chiesa planetaria. E ora la Chiesa è chiamata a de-occidentalizzarsi, a de-patriarcalizzarsi, a decentrarsi. Poiché il mondo è uno solo, io sostengo che i ministeri dovrebbero essere collocati in diverse regioni del pianeta: quello per i diritti umani in America Latina, quello per l’inculturazione in Africa, quello per il dialogo interreligioso in Asia. E che qui debba restare solo un piccolo gruppo incaricato dell’amministrazione generale, lasciando che tutto si svolga attraverso skype, per teleconferenza. Perché la Chiesa deve adeguarsi alla nuova fase dell’umanità. Questa esigenza di decentramento è uno dei due punti che ho evidenziato in una lettera che ho scritto al papa. L’altro punto è la richiesta di convocazione di un’assemblea delle religioni con l’obiettivo di comprendere quale debba essere il contributo delle diverse tradizioni spirituali per la salvezza della vita sul pianeta e della civiltà umana. Ma, per prima cosa, occorre realizzare una riforma interna della Chiesa.

Su questo terreno, tuttavia, non si registrano molti passi avanti…

Penso che il papa non abbia voluto adottare un approccio frontale. A questo proposito, credo che sia stato un errore scegliere per il Sinodo un tema controverso come quello della morale familiare. Perché è un tema che divide. Sono cause universali come l’ecologia, la pace, la lotta alla fame e alla devastazione della biodiversità che possono unire la Chiesa. Questo tema, invece, sembra fatto apposta per mettere il papa alle corde. Quello che Francesco sta facendo è conservare la dottrina tradizionale, ma aprendo il dibattito e lanciando segnali rispetto alla possibilità che questa dottrina cambi. E io, nella lettera che gli ho scritto, gli chiedo di usare a favore dei diritti e della giustizia quella «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» che gli riconosce il Codice di Diritto Canonico.

Ma come può conciliarsi questo con una dimensione di collegialità?

L’obiettivo è il cambiamento della Chiesa. Non bastano le riforme, ci vuole una vera rivoluzione. La collegialità è un ottimo strumento per governare la Chiesa, ma non per cambiarla. La funzione del papa è quella di essere il grande protagonista del cambiamento: dispone degli strumenti necessari, se vuole può usarli. E sarà forse obbligato a farlo, per far capire ai cardinali ribelli che lo stanno sfidando che la Chiesa sarà diversa, perché è chiamata a fare i conti con la nuova fase della Terra e dell’umanità. Il tempo delle nazioni è giunto al termine. Inizia il tempo dell’umanità “planetizzata”, della casa comune. E per questo tempo la Chiesa non è preparata. Perché è eccessivamente occidentale, eccessivamente clericale, eccessivamente dottrinaria, eccessivamente centrata su un paradigma ellenistico. Quello che serve è il modello di una Chiesa veramente globalizzata, un’immensa rete di comunità che si incarnano in molte culture e assumono molti volti e in cui il ruolo del papa è quello del pellegrino che anima le Chiese alla fede e alla speranza, strumento di comunione e non di governo, il quale dovrà essere invece affidato alle Conferenze episcopali nazionali e continentali.

Cosa è possibile attendersi dal Sinodo sulla famiglia?

Penso che il Sinodo sarà un fallimento e aumenterà la polarizzazione tra le diverse posizioni. Probabilmente il papa lascerà aperta la discussione, perché, se la chiudesse, dividerebbe la Chiesa. Penso che sia necessario includere le persone che sono più toccate da questi temi, cioè i laici, uomini e donne. Perché il Sinodo è fatto appena da una frazione clericale e celibataria della Chiesa: finché non saranno coinvolte le persone direttamente interessate, non potrà esserci convergenza. E una delle riforme che il papa ha annunciato, ma che fino ad ora non ha realizzato, è proprio l’inclusione delle donne nei centri decisionali. Non si tratta di incrementarne la partecipazione: questa c’è sempre. Si tratta del fatto che siano loro a decidere. Le donne nella Chiesa non contano. E ciò malgrado vi siano a loro favore tre aspetti che sono più forti degli argomenti episcopali: non hanno mai tradito Gesù (gli uomini lo hanno fatto); sono state le prime testimoni dell’evento più grande della fede, che è la resurrezione; e senza una donna non ci sarebbe stata l’incarnazione. E se la Chiesa non ha mai preso sul serio questa centralità, le donne devono lottare per ottenerla e noi teologi dobbiamo dare il nostro aiuto.

Una delle più avanzate frontiere teologiche è quella impegnata nel compito di riformulare la fede cristiana in un linguaggio che sia più accessibile agli uomini e alle donne contemporanei e più compatibile con tutte le recenti acquisizioni scientifiche. Non credi che tra ciò che accettiamo come verità scientifica e ciò che afferma la dottrina tradizionale della Chiesa si sia aperto un fossato che rischia di essere incolmabile?

Io penso che sia necessario tradurre la fede in un nuovo paradigma, perché la Bibbia e l’intera teologia sono state elaborate all’interno di un paradigma occidentale che oggi non è più adeguato alle esigenze planetarie. E il paradigma che oggi sta guadagnando più terreno è quello della nuova cosmologia. Ho tentato di portare avanti questo compito nel mio libro Cristianismo. O mínimo do mínimo (apparso in italiano con il titolo Al cuore del Cristianesimo, Emi, 2013; ndr), pensando il cristianesimo all’interno del processo evolutivo e riformulando il messaggio cristiano in un linguaggio che dovrebbe divenire coscienza collettiva, il linguaggio quotidiano del nuovo paradigma. È questo il grande compito che la Chiesa intera è chiamata a svolgere, coscientemente e collegialmente. Un grande lavoro collettivo di traduzione della fede nel nuovo paradigma che viene dalla fisica quantistica, dalle scienze della vita e della Terra. È la sfida che ho cercato di cogliere scrivendo insieme al cosmologo Mark Hathaway il libro The Tao of Liberation: Exploring the Ecology of Transformation (tradotto in italiano con il titolo Il Tao della Liberazione, Fazi Editore, 2014; ndr): un libro che ha richiesto 13 anni di ricerca e di riflessione e che è il tentativo di utilizzare questa base scientifica per ripensare il concetto di Dio, i concetti di Spirito, di Grazia, di Resurrezione.

Qual è il principale messaggio di speranza che ci trasmette la nuova cosmologia?

Che tutto ha a che vedere con tutto, in tutti i momenti e in tutte le circostanze: tutto è in relazione, come ha riconosciuto lo stesso papa nell’enciclica. La materia non esiste, è solo energia altamente condensata, e tutti abbiamo lo stesso cammino e lo stesso destino. E malgrado tutte le crisi, tutte le traversie, tutte le devastazioni, l’universo va sempre auto-organizzandosi e autocreandosi in direzione di una sempre maggiore complessità. Teilhard de Chardin è stato profetico: esistono tante contraddizioni, si passa attraverso tanta devastazione e a volte sembra che il male prevalga, eppure la vita non è mai stata distrutta. Come ha evidenziato Edward Wilson, la vita non è né materiale, né spirituale: la vita è eterna ed è immersa nel processo dell’evoluzione. Ed è quello che afferma il cristianesimo: che tutto è relazionato e che esiste un fine buono per l’umanità e per l’universo. In altre parole, non andremo incontro alla morte termica, ma a forme sempre più complesse e più alte.

Eppure la teoria della morte termica dell’universo, lo scenario in cui l’espansione accelerata provocherebbe un universo troppo freddo per sostenere la vita, è sostenuta da molti fisici e cosmologi…

Io penso che questa tesi sia stata superata da Ilya Prigogine, il quale ha vinto il Premio Nobel per la chimica per le sue scoperte sulle strutture dissipative, mostrando come l’evoluzione si realizzi nello sforzo di creare ordine nel disordine e a partire dal disordine, cioè come il caos si riveli altamente generativo, trasformandosi in un fattore di costruzione di forme sempre più alte di complessità e di ordine. In contraddizione con la visione lineare propria della fisica classica, ci si muove qui sul terreno della fisica quantistica, con il suo procedere per salti, per accumulazioni di energia. Oggi, pertanto, disponiamo delle basi scientifiche per elaborare una visione che è più adeguata al messaggio di speranza del cristianesimo, quella di un universo come corpo della divinità, un universo che non terminerà con una grande catastrofe, ma con un nuovo cielo e una nuova terra, un salto immenso nella linea di Theilard de Chardin, un’implosione ed esplosione all’interno di Dio. Non un’altra terra, ma questa stessa terra trasfigurata. È come la morte umana, che non è la fine della vita, bensì un luogo alchemico in cui la vita si trasforma e passa a un altro livello, fuori dallo spazio-tempo, ma restando vita.

Al tentativo di articolare Teologia della Liberazione ed ecologia hai dedicato trent’anni di lavoro: un lavoro condotto per tanto, troppo tempo in pressoché totale solitudine, davvero vox clamans in deserto, finché la gravità della crisi ambientale non ha costretto anche la teologia latinoamericana ad assumere la questione tra le proprie priorità. Com’è ti appare ora la situazione?

Negli anni ’80, ho preso consapevolezza della questione ecologica nei seguenti termini: il marchio registrato della TdL è l’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione e della giustizia sociale. E chi è, oggi, il grande povero? È la Terra! Pertanto, all’interno dell’opzione per i poveri, occorre collocare la Terra, devastata e aggredita. Ma bisogna pensare la Terra non secondo il vecchio paradigma, come una cosa inerte e inanimata, bensì all’interno della nuova cosmologia, come un superorganismo vivo, come Gaia, secondo la teoria di James Lovelock, come la Madre Terra, secondo quanto hanno riconosciuto le stesse Nazioni Unite, che hanno proclamato il 22 aprile come Giornata internazionale della Madre Terra. Mi sono allora dedicato, per alcuni anni, allo studio della cosmologia e ne è nato il libro Ecología: grito de la Tierra, grito de los pobres (tradotto in italiano con il titolo Grido della terra grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Cittadella, 1996). Un’opera che all’epoca non ha praticamente suscitato alcuna reazione tra i teologi, anche se, più tardi, alcuni l’hanno considerata ancor più importante del libro Teologia della liberazione di Gustavo Gutierrez, l’opera che ha segnato l’inizio della TdL, ma che è ancora legata al vecchio paradigma. Io penso che la grande maggioranza dei teologi della liberazione si muovi ancora all’interno del vecchio paradigma. Le difficoltà, è vero, sono molte, perché bisogna studiare le scienze della vita, la fisica quantistica, la nuova antropologia, ma in questo modo si può fare una teologia molto migliore dell’altra, e comprendere assai più in profondità il messaggio cristiano. Io penso che questo sia un compito che va anche oltre la nostra generazione: è il cammino che il cristianesimo è chiamato a percorrere per essere una buona novella per i nuovi tempi. Vino nuovo, otri nuove. Musica nuova, orecchie nuove.

Come ti spieghi che in Brasile molti movimenti popolari, pur facendo propria la lotta contro il riscaldamento globale, difendano progetti ecologicamente devastanti come il pre-sal, l’enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane?

È una contraddizione legata ai Paesi in via di sviluppo. I Paesi del Nord del mondo, infatti, potrebbero mirare alla prosperità rinunciando alla crescita e approfondendo maggiormente dimensioni come quella della spiritualità, dell’arte, ecc. I nostri Paesi, invece, hanno ancora bisogno di crescita, perché il livello di vita dei nostri popoli è molto basso: manca l’acqua, la casa, l’elettricità; occorre investire nella salute e nell’educazione. Così, in Brasile, c’è molta attenzione per questi temi, mentre si trascura la problematica ecologica. Esistono solo piccoli gruppi di ecologisti. Eppure il Brasile potrebbe prescindere totalmente dal petrolio sfruttando l’immensa energia prodotta dal sole. E invece si punta a un progetto come il pre-sal che avrà un impatto devastante sull’oceano, in termini di contaminazione delle acque e di distruzione della biodiversità. Ho discusso varie volte con Lula di tutto questo, ma a suo giudizio è sufficiente che piova due giorni di seguito perché tutto rifiorisca nuovamente. In realtà, però, è il sistema globale che è in crisi e che rischia il collasso. Forse la nostra coscienza si risveglierà quando sentiremo sulla nostra pelle le conseguenze della catastrofe. Come diceva Hegel, l’essere umano non apprende niente dalla storia, ma impara tutto dalla sofferenza. Anche se preferisco Sant’Agostino, il quale riteneva che fossero due le scuole: la sofferenza, che ci offre severe lezioni, e l’amore, che produce gioia e trasformazione. Io penso che trarremo insegnamento dall’amore e dalla sofferenza. Di fronte a noi ci sono solo due strade: o cambiamo o moriremo. Quella che stiamo attraversando è una grande crisi, ma la crisi purifica, obbliga a cambiare strada, prepara forse il terreno per l’avvento di una nuova civiltà centrata sulla vita umana e sulla vita della Terra, una biociviltà, la Terra della buona speranza.

Ma sarà necessario passare per quella che è stata già definita come la sesta estinzione di massa…

Siamo nel pieno dell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano – e non un meteorite, né un qualche cataclisma naturale di dimensioni colossali – è diventato la più grande minaccia contro la vita. Edward Wilson ha calcolato che stiamo perdendo ogni anno da 20mila a 100mila specie viventi. È davvero la sesta estinzione di massa e potrebbe anche colpire una buona porzione dell’umanità, soprattutto quella povera e sofferente. In questo caso, spetterà ai sopravvissuti riorganizzare il pianeta su nuove basi. Mikhail Gorbacev, il coordinatore delle attività della Carta della Terra, paragona la situazione della Terra e dell’Umanità a quella di un aereo sulla pista di decollo: arriva un momento critico in cui l’aereo deve decollare, se non vuole schiantarsi in fondo alla pista. E, a suo giudizio, abbiamo già oltrepassato il punto critico e non ci siamo alzati in volo. Ma gli esseri umani sono sorprendenti e capaci di cambiamento. L’evoluzione non è lineare, procede per salti, ed è possibile che l’umanità acquisti consapevolezza e operi il salto necessario, abbracciando una nuova visione che abbia al centro l’intera comunità di vita, anche le piante e gli animali che sono nostri compagni nella casa comune. Dopotutto, l’essere umano ha in sé energie divine, di quel Dio che è sovrano e amante della vita e che non permetterà che la vita scompaia.

Come interpreti l’attuale situazione del Brasile? Ritieni che il governo di Dilma avrà la forza di superare la crisi?

È una situazione molto critica. Strappando alla povertà 40 milioni di brasiliani, il Pt ha commesso l’errore di trasformarli appena in 40 milioni di consumatori, trascurando quel lavoro di coscientizzazione necessario per restituire loro il senso di cittadinanza. Il consumatore, si sa, mira a consumare sempre di più. E se non è possibile si genera un grande malessere collettivo. E questo è un errore che viene sfruttato dall’opposizione. La nostra disgrazia è che non esiste un’alternativa. Nessuno tra le fila dell’opposizione possiede autorità morale e un progetto diverso dal neoliberismo e dall’allineamento agli Stati Uniti. E purtroppo il governo Dilma, venendo meno alle promesse della campagna elettorale, sta scaricando sugli operai e sui pensionati i costi della crisi, risparmiando le grandi imprese e le banche. Occorre tener presente che il Brasile, in virtù dei suoi immensi spazi geografici e delle sue grandi ricchezze naturali, è uno dei luoghi del pianeta che fa più gola al capitale. Siamo in un vicolo cieco. Non esiste in questo momento alcuna soluzione ragionevole. L’unica speranza viene dalla nascita di una grande articolazione dei movimenti di base, i quali si sono recentemente incontrati con Dilma con l’obiettivo di creare una base non parlamentare, ma popolare, per far fronte all’offensiva dell’opposizione, in maniera che su tale base Dilma possa portare avanti progetti sociali in una prospettiva realmente educativa, creando una nuova coscienza di cittadinanza. Ciò permetterebbe al governo di andare avanti, in attesa forse di una nuova candidatura di Lula nel 2018. Anche se per il Pt sarebbe meglio restare un po’ di tempo fuori dal potere, per fare autocritica e riformulare un progetto di Paese.

È difficile pensare che Lula possa rappresentare il futuro del Brasile…

Lula immagina il Brasile come un’immensa fabbrica da sud a nord in cui tutti lavorano, consumano, comprano casa e macchina. Ma si tratta di un progetto più adatto al XIX secolo che al XXI. Lula è un grande leader, ma la storia ha oggi bisogno di un’altra forma di leadership. E purtroppo non c’è alcuna figura che esprima questa coscienza nuova. A mio giudizio, il Brasile è sia espressione della tragedia dell’umanità – basti pensare all’assassinio sistematico dei giovani neri (ne vengono assassinati 60 al giorno) e alla devastazione della natura – sia laboratorio di speranza, promessa di un’altra forma di abitare il pianeta, secondo una prospettiva bioregionalista – la vera alternativa ecologica alla globalizzazione omogeneizzante – che integra e valorizza i beni e i servizi di ogni ecosistema insieme alla sua popolazione e alla sua cultura.

* Immagine di Valter Campanato (Agência Brasil), tratta dal sito Commons Wikimedia, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata, le utilizzazioni in difformità della licenza potranno essere per




p. Fabrizio è stato importante nella mia vita

è morto padre Fabrizio Forti

il vescovo: colonna della Chiesa dei poveri

<!-- -->

lutto nel mondo della chiesa e del volontariato trentino: si è spento padre Fabrizio Forti

Il frate è stato trovato privo di vita nella sua stanza del convento di Trento. Se n’è andato in silenzio, stroncato nella notte tra sabato e ieri da un malore che lo ha strappato ad un’esistenza dedicata agli altri, alle persone in difficoltà, agli ultimi.

Il religioso, che avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 20 ottobre, era nato a Gardolo dove nel 1949.

Padre Fabrizio ieri mattina, come ogni domenica, avrebbe dovuto salire al carcere di Spini, per celebrare la messa per e con i detenuti. Teneva molto a questo suo impegno, per questo quando dal carcere hanno telefonato per chiedere come mai padre Fabrizio non fosse ancora arrivato, in convento a Trento hanno subito capito che poteva essere successo qualcosa di grave.

Quando i confratelli hanno notato la sua auto nel piazzale, hanno subito deciso di intervenire, forzando la porta della sua camera.

Purtroppo, però, non c’era ormai più nulla da fare: il religioso era nel suo letto, privo di vita ed ogni soccorso è stato vano.

Al convento e alla mensa dei Cappuccini, ricordano che da un paio di giorni padre Fabrizio sembrava stare meno bene del solito: piccoli segnali, di fronte ai quali però, per il religioso, gli altri avevano la priorità: «Sei matto? C’è la mensa, c’è da fare: sto già meglio», rispondeva a chi gli chiedeva se non fosse il caso di fermarsi un attimo e riposare.

Padre Fabrizio Forti, gardolòto classe 1949, fin da quando aveva risposto alla «chiamata» vocazionale aveva iniziato a cogliere il messaggio evangelico nel sostegno dei fratelli in difficoltà: «Bisogna innamorarsi: innamorarsi di un Dio che vedi dentro ogni uomo, con le sue diverse povertà. E ogni sera in verità mi sembra di riscoprirmi innamorato», raccontava sette anni fa al collega Diego Andreatta.

Il percorso seguito da padre Fabrizio prima di dedicarsi alla «mensa della Provvidenza» alla Cervara, è stato lungo e sempre segnato dall’attenzione agli ultimi, tra gli altri ed ai percorsi di vita segnati dalle difficoltà. Era stato tra i più convinti sostenitori delle esperienze di comunità di cui era stato tra le anime in Valle di Cembra – a Piazzo prima e Faver poi, con Valle Aperta, realtà alla quale l’allora trentaquattrenne religioso si dedicò intensamente – ed in Valle dei Laghi.

Le parole del vescovo

La scomparsa di padre Fabrizio Forti ci addolora molto. Con lui se ne va prematuramente una colonna di quella Chiesa capace di incarnare il Vangelo dei poveri e il volto misericordioso di Dio Padre Fabrizio si è speso per restituire dignità alle persone, fossero piegate dall’indigenza o condannate al carcere. Ha narrato un Dio che non emette giudizi, ma si prende cura di chi fa più fatica. Dio lo ha chiamato durante il Giubileo della misericordia, quella che lui ha esercitato per tutta la vita con fede tenace. Prego perché le opere e le idee dell’amico Fabrizio possano continuare a portare frutto.

Il dolore di Ugo Rossi

La comunità trentina perde un pilastro, un esempio e un punto di riferimento. Un grande uomo, che ha dedicato la propria vita a dare ristoro e soccorso ai più deboli. Ricorderemo padre Forti come il simbolo di un Trentino umile, solidale, ma anche caparbio ed instancabile nell’impegno verso gli altri. La storia di quest’uomo rappresenta una fulgida testimonianza di vita cristiana, di fede e di generosità, un insegnamento per tutti noi che non dovremo mai dimenticare, aiutando e sostenendo coloro che proseguiranno nella sua opera.

Fu una delle persone più contrarie alla realizzazione dell’inceneritore

Video of jTpfXSFbA98

L’intervista

 




Bob Dylan un profeta di stampo biblico

LA BIBBIA DI BOB DYLAN

Brunetto Salvarani

“Bob Dylan è un vero profeta, sulla scia dei saggi dell’Antico Testamento”

Seth Rogovoy

È indubbio che il riferimento alla Bibbia rappresenti un punto di riferimento costante lungo tutto il cammino creativo di Bob Dylan, di famiglia ebraica e iniziato alla religione con la cerimonia del bar-mitzvà nel 1954.

Buona parte dei suoi primi successi, a partire dalla celebre Blowin’ in the Wind, s’ispira chiaramente a passaggi dei libri di Ezechiele e Isaia, mentre – secondo Alessandro Carrera – “la sua opera potrebbe essere letta come una sorta di ripetizione della Bibbia, una grande storia di ritorno al paradiso perduto”. Dai suoi ricordi giovanili (nasce a Duluth nel ’41) si può cogliere che il suo sentimento di appartenenza alla comunità ebraica è sfumato e debole. Ha un primo approccio col testo biblico in famiglia, che diventa più sistematico con la frequentazione del rabbino per la preparazione del bar-mitzvà, ma l’ambiente in cui cresce è tutt’altro che facile: con la post-adolescenza si registrano i primi conflitti col padre Abe, il cui carattere autoritario e i costumi borghesi mal si combinano col carattere del figlio, inquieto e ribelle al punto da eleggere a eroi gli interpreti della gioventù bruciata dell’epoca, i vari Dean e Brando.bob-dylan

Dylan non solo rigetta l’educazione familiare ricevuta, ma diverrà un dropout, svincolato da qualsiasi dovere nei confronti di famiglia e società. Ma la Bibbia, nonostante tutto, resta un testo di riferimento capitale e ricorrente nella sua produzione artistica: Dylan legge la Bibbia essenzialmente da poeta, come insuperabile repertorio di metafore e di parabole, o come grande codice della civiltà. Più un riferimento culturale che pietra d’angolo su cui si regge l’universo spirituale dell’artista.

Eppure, a un certo punto del suo percorso Bob praticherà la canzone come atto di fede: sa di avere un pubblico vasto davanti, di possedere un carisma capace di suscitare la massima attenzione possibile. Al riguardo è esemplare la famosa e controversa trilogia cristiana, gli album incisi dal 1979 al 1981, in un momento particolare della sua vita. A metà degli anni Settanta il rapporto con la moglie Sara inizia a deteriorarsi, tra infedeltà del marito, liti e incomprensioni, fino a sfociare in divorzio nel 1977: la crisi ha come esito la conversione alla religione cristiana e, in particolare, alla Vineyard Fellowship, una chiesa evangelica fondata dal pastore Ken Gulliksen, presso la quale passa qualche mese, per cinque giorni la settimana, a studiare la Parola di Dio.

Da qui nascono gli album – Slow train coming, Saved e Shoot of love – in cui Dylan non si risparmia nel cantare la nuova fede, utilizzando spesso le forme musicali del gospel, con brani nel complesso deludenti. Se oggi, al netto delle critiche che piovvero ai tempi sul capo del reborn, del rinato a Cristo, si può convenire sull’ottima cura degli arrangiamenti e sulle capacità vocali sfoggiate nell’occasione, certi testi sono lontani anni luce da precedenti prove: “Quando la distruzione arriverà improvvisa/ e non ci sarà tempo per un ultimo addio/ avete deciso da che parte stare?/ Col paradiso o con l’inferno?/ Siete pronti, siete pronti?”. La canzone, Are you ready?, è inserita in Saved, album con cui Dylan esce definitivamente allo scoperto, usando toni talmente perentori che rischiano di sconfinare nel fondamentalismo. Qui la Bibbia di Bob è implacabile, non fa sconti, richiede una fede “aggrappata a una solida roccia” (da Solid rock).dylan-baez

Per ritrovare canzoni dal sapore biblico ma anche efficaci artisticamente, conviene tornare al Dylan classico, quello degli esordi. Ad esempio, a A hard rain’s a-gonna fall (da Freewheelin’ Bob Dylan del ‘63), scritta al tempo della crisi dei missili a Cuba e che ha ispirato generazioni di musicisti: “Ho visto un bimbo appena nato con lupi selvaggi tutti intorno/ Ho visto un’autostrada di diamanti e nessuno che la percorreva/ Ho visto un ramo nero e sangue ne scorreva/ Ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati/ Ho visto una scala bianca tutta ricoperta d’acqua/ Ho visto diecimila persone parlare con lingue spezzate/ Ho visto armi e spade affilate nelle mani di bambini/ E una dura, e una dura, e una dura, e una dura/ e una dura pioggia cadrà”. Il pezzo, che fu letto in chiave di protesta contro la corsa agli armamenti e la paura per una terza guerra mondiale che sembrava prossima, trascende però il suo primo livello di lettura e acquista un significato universale, grazie alla presenza di diversi riferimenti biblici. Innanzitutto l’uso delle numerazioni, tipiche del Primo Testamento (dodici montagne nebbiose, sei strade contorte, sette tristi foreste, dodici oceani morti, diecimila miglia nella bocca di un cimitero, diecimila persone che parlavano, cento tamburini, diecimila persone bisbigliare); poi le immagini, simboliche o meno, degli eventi catastrofici. A hard rain’s a-gonna fall è il primo di una lunga serie di brani in cui Dylan userà toni profetici per dire della malvagità del mondo e della necessità di un cambiamento profondo. Anche nel terzo disco (The times they are a-changin’, ‘64) si trovano canzoni del genere: in When the ship comes in egli canta che “I mari si divideranno/ e le navi si scontreranno/ e le sabbie sulla riva tremeranno./ Poi la marea risuonerà/ e le onde scrosceranno/ e il mattino comincerà a sorgere/ …e le rocce sulla sabbia/ si ergeranno fiere,/ l’ora in cui la nave arriverà in porto/ …i nemici si alzeranno/ con il sonno ancora negli occhi/ e dai letti si scuoteranno…/ …Allora alzeranno le mani/ dicendo ‘Faremo ciò che volete’,/ ma noi dalla prua grideremo ‘i vostri giorni sono contati’./ E come il popolo del Faraone, saranno sommersi dalla marea, e come Golia saranno vinti”.

Curiosamente una delle migliori fra le sue ultime canzoni, del 2000, richiama The times they are a-changin’, sia per il titolo (Things have changed, Le cose sono cambiate) sia per l’approccio, anche qui, da fine del mondo: “Ho camminato sulla cattiva strada per quaranta miglia/ se la Bibbia dice il vero il mondo sta per esplodere”. Una lunga fedeltà, quella alla Bibbia, al di là delle giravolte esistenziali, per il menestrello di Duluth più volte candidato al Nobel per la letteratura(1).

(1) E oggi, 13 ottobre 2016, finalmente insignito di questo riconoscimento…




perdonaci, Omran Daqneesh, bambino di Aleppo, non meritavi di sperimentare la nostra spietatezza!

la foto del bambino di Aleppo

sta circolando moltissimo ed è diventata il simbolo delle atrocità compiute nella battaglia più importante per la guerra in Siria

Da mercoledì sera sta circolando moltissimo sui social network l’immagine di un bambino siriano estratto vivo dalle macerie dopo un bombardamento ad Aleppo e seduto dentro un’ambulanza: il bambino sembra molto disorientato e sotto shock, coperto dalla polvere delle macerie e con una ferita sulla testa. Tecnicamente non è una foto: è un fermo-immagine da un video girato dall’Aleppo Media Centre, un network di Aleppo vicino all’opposizione, ed è stata usata nelle ultime ore per mostrare la gravità e la disperazione che ha raggiunto la battaglia per Aleppo, una città del nord della Siria contesa tra diversi gruppi ribelli e l’esercito del presidente siriano Bashar al Assad. L’immagine del bambino è stata twittata inizialmente da Raf Sanchez, corrispondente in Medio Oriente del Telegraph, e poi condivisa da migliaia di utenti e ripresa dalle più importanti testate internazionali.

bambinoOmran Daqneesh seduto dentro a un’ambulanza dopo un bombardamento su Aleppo, in Siria (Aleppo Media Centre)

Il bambino nell’ambulanza si chiama Omran Daqneesh, ha cinque anni ed è uno dei cinque bambini rimasti feriti mercoledì da un bombardamento aereo compiuto a Qaterji, un quartiere di Aleppo. Non si sa precisamente chi abbia compiuto l’attacco: potrebbero essere stati aerei dell’esercito siriano o gli aerei della Russia (i russi sono alleati con Assad). Nel video da cui è stata presa l’immagine, si vede Omran che viene sollevato da un soccorritore tra le macerie della casa bombardata e poi viene portato all’interno dell’ambulanza, dove rimane impassibile mentre proseguono i soccorsi.

Attenzione: il video contiene immagini che potrebbero impressionare

Il Telegraph ha scritto che Omran è stato curato per una ferita alla testa all’ospedale M10 di Aleppo e poi dimesso quella stessa notte. Raf Sanchez ha twittato un’altra foto di Omran con una fasciatura sulla testa, dopo le cure ricevute «da alcuni medici straordinariamente coraggiosi di Aleppo».