ricordando ogni 2 di agosto l’olocausto dei rom chiamato ‘porrajmos’

in “silenzio per la pace”

con i Rom e i Sinti

nella ricorrenza del Porrajmos

Auschwitz – Birkenau

 2 agosto 1944ricordo

Sotto la scritta “Arbeit macht frei” del cancello di ingresso di Auschwitz, centinaia di ragazzi rom avanzano a passo lento con gli occhi verso il basso. Sarà il sole accecante di una mattina tersa d’azzurro che impedisce di alzare gli occhi, o sarà invece che nessuno riesce a reggere lo sguardo di fronte alla “fabbrica della morte”. È il 2 Agosto, giorno della memoria del genocidio dei Rom e Sinti. La storia che non si trova sui libri di testo: ad Auschwitz, il 16 maggio 1944 , le SS decidono di chiudere il “campo degli zingari” e sterminare l’ultimo gruppo di 4 mila internati, tra uomini, donne e bambini. Dovevano essere condotti nelle camere a gas e bruciati nei forni crematori. Ma trovarono la forza di ribellarsi, con pietre, mattoni e un coraggio sovrumano, che trassero dai loro corpi esili, sui 30 chili circa. Eroicamente arrivarono al 2 Agosto, stremati senza cibo né acqua. Nei racconti dei rom, c’è chi assicura che le famiglie riuscirono a salutarsi per il Pasomilaj, la festa di mezz’estate del 2 agosto. Ma quella stessa notte, le loro voci scomparvero. Per sempre. I nazisti assassinarono tra la notte del 2 e 3 agosto, nelle camere a gas, 2897 persone. Domenica Chancano

( Domenica Chancano 2 agosto 2013)

PORRAJMOS    Auschwitz – Birkenau 2 agosto 1944
ZINGARI UN’ESTATE
Dalle baracche del Zigeuner Camp vedevamo gli ebrei
colonne incamminate diventare colonne verticali di fumo dritto al cielo,
erano lievi
andavano a gonfiare gli occhi e il naso del loro Dio affacciato.
Noi non fummo leggeri.
La cenere dei corpi degli zingari non riusciva ad alzarsi al cielo di Alta Slesia.
In piena estate diventammo nebbia corallina.
Ci tratteneva in basso la musica suonata e stracantata intorno ai fuochi degli accampamenti,
siepe di fisarmoniche e di danze, la musica inventata ogni sera del mondo non ci lasciava andare.
Noi che suonammo senza uno spartito, fummo chiusi dietro le righe a pentagramma del filo spinato.
Noi zingari di Europa, di cenere pesante
senza destinazione di oltre vita da nessun Dio chiamati a sua testimonianza
estranei per istinto al sacrificio bruciammo senza l’odore della santità
senza residui organici di una pietà seguente,
bruciammo tutti interi, chitarre con le corde di budello.
Erri De Luca  erri de luca

Unisciti ai Rom e ai Sinti la notte del 2 agosto e tieni accesa una candela alla finestra

Gruppo In silenzio per la pace                                                                                                                                               Mantova

nel video seguente un documento drammatico e shokkante per ricordare quell’assoluta disumanità chiamata porrajmos

Pharrajimos, il genocidio rom

di Katalin Barsony*
in “il manifesto”

Uno stato d’animo cupo era palpabile fra la folla radunata ieri intorno al memoriale dell’Olocausto di Londra, una pietra posta nel cuore di Hyde Park. A mezzogiorno, circa un centinaio di persone, soprattutto rom ed ebrei provenienti da tutto il paese, si sono riunite per commemorare il Pharrajimos – l’uccisione di oltre mezzo milione di persone, circa un quarto di tutta la popolazione rom e sinti dell’epoca – avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale. In piedi, sono rimaste in silenzio per ricordare sotto la pioggia battente e un cielo plumbeo. Qualcuno teneva in mano uno striscione blu con la scritta: «Stop al razzismo contro i rom». Una manifestazione commemorativa si è tenuta anche a Berlino, di fronte al Reichstag dove c’è il monumento ai rom e ai sinti sterminati dai nazisti. Tuttavia, tra molti rom c’è la sensazione che la loro sofferenza sia stata aerografata dalla storia – un’amnesia che rende oggi le comunità rom più vulnerabili alla discriminazione e all’aggressione. È stata scelta la data del 2 agosto perché quel giorno del 1944, nel campo di Auschwitz-Birkenau, furono uccisi gli ultimi tremila rom internati nello speciale zigeunerlager. Era il «lager degli zingari», che fu la prigione di oltre ventimila persone uccise nelle camere a gas, mentre i bambini venivano sottoposti a esperimenti terrificanti da parte del medico del campo Joseph Mengele. Il 16 maggio di quell’anno i seimila rom rinchiusi lì vennero a sapere che era in programma il loro sterminio per fare spazio a un gruppo appena arrivato di lavoratori internati. Quando le guardie irruppero per condurli al massacro, i rom, anche se indeboliti dalla prigionia, furono pronti a reagire con qualunque strumento potessero trovare a disposizione – pietre, tubi, pezzi di legno. Il comandante del campo richiamò le guardie per impedire che la rivolta si diffondesse oltre lo zigeunerlager. Noi ricordiamo questo atto di ribellione come «il Giorno della Resistenza rom». Nei mesi successivi, le autorità del campo ridussero la popolazione dello zigeunerlager mandando 1.000 dei prigionieri più giovani al campo di Buchenwald e 1.000 donne a Ravensbruck. Lo sterminio, però, era stato solo rimandato: la notte tra l’1 e il 2 agosto le ss rientrarono nel lager e lo fecero con una forza soverchiante. All’interno c’erano tremila rom – prevalentemente giovani, anziani e malati – che furono sopraffatti e immediatamente mandati a morire nelle camere a gas. Ogni anno che passa, la necessità di riconoscere questi eventi si fa più urgente e i mezzi con cui farlo più difficili. Non c’è quasi più nessuno ormai che può ricordarli in prima persona. Non dobbiamo permettere che il 2 agosto 1944 sia relegato alla polvere degli archivi storici. L’ultima testimone oculare conosciuta era Erzsébet Szenesné Brodt, morta poco fa, che fu deportata all’età di 17 anni da Kaposvár, in Ungheria, ad Auschwitz con la madre e la sorella di dieci anni mandate alla camera a gas appena scese dal treno. Intervistata nel 2012 dalla Romedia Foundation, Brodt, che viveva in una baracca vicina allo zigeunerlager, ha ricordato chiaramente quella notte, quando le ss attaccarono con lanciafiamme e cani da assalto. Per il resto della sua vita, ogni volta che ha visto un cane di grossa taglia, ha sentito un brivido per la paura. La commemorazione del 2 agosto come Giorno della Memoria del genocidio dei rom e dei sinti sta avendo qualche riconoscimento istituzionale negli ultimi anni. La Giornata è riconosciuta in Polonia, Ungheria e Ucraina (i sinti fanno parte dell’esodo rom che si è stabilito principalmente in Europa centrale). Ma il processo è faticosamente lento. Il governo della Germania dell’Ovest non riconobbe l’Olocausto dei rom fino al 1982; la Germania riunificata dedicò un monumento ai rom e ai sinti vittime del nazionalsocialismo solo nel 2012. Nell’aprile del 2015, il parlamento europeo ha approvato una risoluzione che istituisce ufficialmente il 2 agosto come il Giorno della memoria dell’Olocausto rom e ha esortato gli stati membri a fare lo stesso ricordando l’attuale situazione di difficoltà dei rom in Europa ed
esprimendo «profonda preoccupazione per l’aumento di un sentimento anti-rom in Europa accompagnato spesso da violente aggressioni». Più di settant’anni dopo il Pharrajimos, i dodici milioni di rom d’Europa sono la minoranza etnica più grande del continente e la più discriminata: l’86% degli italiani, il 73% dei danesi e il 60% dei francesi vedono i rom sfavorevolmente. Il 71% dei rom che vive nell’Europa dell’Est è in profonda povertà ed è minacciato da una parte all’altra del continente dal ritorno di una ideologia violenta e di estrema destra. Per onorare correttamente l’oltre mezzo milione di vittime dell’Olocausto rom e sinti, i rom dovrebbero vedere riconosciuto il loro diritto ad esistere come cittadini europei a pieno titolo e liberi. Quando davanti ai suoi occhi donne e bambini rom venivano spinti nelle camera a gas dalle ss, Erzsébet Brodt promise a se stessa che sarebbe sopravvissuta. «Il mio dovere sarà quello di raccontare a tutti», disse l’ultima testimone di quella tragedia, «È responsabilità di tutti i sopravvissuti battersi perché queste cose non accadano mai più».

*attivista e regista rom, direttore esecutivo della Fondazione Romedia con sede a Budapest

la dura vita in un bordello del Bangladesh

 

ecco cosa vuol dire lavorare nel bordello più antico del Bagladesh

Il Bangladesh è uno dei pochi paesi musulmani dove la prostituzione è legale e nel bordello più antico del paese, Kandapara, vivono oltre 700 donne.

Le ragazze vengono impiegate giovanissime, ancora bambine, dai 12 anni di età.

Spesso vengono vendute dalle loro famiglie, troppo povere per mantenerle; oppure, poverissime, entrano nel bordello per saldare dei debiti, ma dopo averli estinti non sono in grado di reintegrarsi nella società, ormai stigmatizzate come prostitute e impossibilitate a trovare un altro lavoro per il resto della loro vita.

Kandapara si trova in Bangladesh, nella regione di Tangail ed è in attività da più di 200 anni

Già dal dodicesimo anno di età le ragazze si prostituiscono, vendute dalle famiglie stesse, o per sfuggire al controllo del marito, oppure per saldare debiti che non possono pagare.

vengono pagate circa 10 euro al giorno e sono obbligate a soddisfare quotidianamente oltre i 15/20 clienti

Non hanno nessun diritto: da quando vengono vendute, diventano di proprietà del gestore del bordello, senza nessuna possibilità di un futuro diverso. Vengono infatti stigmatizzate come prostitute e, fuori da Kandapara, nessuno sarebbe disposto ad assumerle.

ci sono ragazze con figli, che spesso vivono con loro in condizioni misere, di estrema povertà

Sono malnutrite e costrette ad assumere l’Oraxedon, uno steroide che i contadini usano per far ingrassare i bovini, in modo da prendere peso ed avere un aspetto più sano ed attraente per i clienti. Secondo i dati, il 90% delle prostitute ricorre costantemente all’Oradexon, che comporta effetti negativi come il diabete, la pressione alta, gli sfoghi cutanei e il mal di testa.

all’interno del bordello è proibito l’uso del velo, che invece le ragazze sono obbligate ad indossare fuori

Numerose ragazze sono costrette a prostituirsi dal loro stesso marito, che ne gestisce gli affari e i clienti.
A volte hanno la “fortuna” di incontrare clienti che non chiedono di avere rapporti, ma si limitano a parlare, bere il tè o stringere la loro mano: tutte cose normali nella nostra società, ma che diventano una lussuriosa evasione nella rigida cultura bengalese.

il dilagare della prostituzione in Bangladesh è legato alla miseria: più del 50% del paese vive sotto la soglia di povertà

e le donne vendute come schiave del sesso, spesso non hanno nessuna alternativa

“Se riuscissi a fuggire”, dice una di loro, “dove potrei andare? I miei mi hanno sempre detestato e non mi rivogliono indietro. Noi tutte ci dobbiamo rassegnare al fatto che siamo delle schiave e come schiave dobbiamo morire”.

il capitalismo non è più per giovani

i giovani dell’era della crisi che non amano il capitalismo

di Mauro Magatti in “Corriere della Sera”

giovani

Una recente ricerca condotta dall’Institute of Politics della Università di Harvard ha fatto discutere i media americani. Dai dati, risulta infatti che, nei giovani tra i 19 e i 25 anni, solo il 42% degli intervistati sostiene il capitalismo, mentre la maggioranza (51%) ne ha un’opinione negativa. Il Washington Post è arrivato a chiedersi se la crisi non stia cambiando gli orientamenti culturali delle nostre società: forse di fronte a un cambio generazionale destinato a trasformare gli equilibri economici e sociali? Difficile dire come andranno le cose. Certo è che i dati della prestigiosa università sembrano confermare ciò che, da qualche tempo, segnalano anche altri istituti di ricerca: nella testa e nel cuore dei giovani americani (ed europei) sta cambiando qualcosa.

Lontanissimi gli anni della contestazione, ma anche i tempi in cui a spopolare era l’affermazione soggettivistica del proprio Io, i giovani cresciuti nella crisi — specie quelli dotati di un buon livello di istruzione — esprimono sensibilità nuove verso la costruzione di un equilibrio più avanzato tra l’Io e il Noi, tra il sé e l’ambiente circostante. Le ricerche dicono, ad esempio, che i millennials hanno maturato un orientamento critico tanto verso il liberismo sfrenato quanto verso lo statalismo aggressivo. Convinti della bontà dell’economia di mercato, pensano tuttavia che essa vada regolata e difesa dei suoi stessi eccessi e che sia importante il ruolo attivo che lo Stato può svolgere per garantire le condizioni della crescita.

future

Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sono convinti che il tema debba essere preso sul serio: non c’è più tempo per rinviare decisioni necessarie per la sopravvivenza del pianeta. Semplicemente perché sanno che sarà la loro generazione a dover sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, i millennials fanno della tolleranza un valore fondamentale e ritengono che la convivenza delle diversità debba diventare un modo ordinario di convivere. Un atteggiamento che li rende anche aperti nei confronti dei migranti, visti più come risorsa che come minaccia. Chi arriva è titolare del diritto a costruirsi una vita migliore. Un diritto che gli stessi giovani vivono sulla loro pelle poiché sanno, per scelta o per necessità, che le loro possibilità di vita non sono legate al posto in cui sono nati. Infine, l’affermazione personale non è contrapposta ai rapporti sociali. Per la propria vita i giovani aspirano a svolgere un’attività che riconosca le loro capacità, ma che al tempo stesso possa recare un vantaggio alla comunità nella quale vivono, al di là del puro reddito economico o della pura strumentalità. E considerano la qualità delle relazioni un ingrediente fondamentale per il proprio benessere. Una sensibilità che nasce da un’esperienza fondamentalmente positiva dei legami familiari, punto di riferimento sicuro e solido in un mondo incerto. Si tratta, come si può vedere, di un pacchetto di orientamenti dotato di una chiara logica interna. Una logica relazionale.

È come se la nuova generazione, di fronte ai guasti lasciati dal modello di sviluppo iperindividualistico degli ultimi decenni, stesse cercando di trovare un nuovo modo di pensare il legame con l’altro, visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà. Riconoscendo, in buona sostanza, che non esiste l’Io se non in relazione.sogni

Ovviamente le ricerche non dicono che tutti giovani la pensano in questo modo. E tuttavia esse riconoscono un orientamento prevalente, benché ancora frammentato e soprattutto privo di un discorso pubblico capace di renderlo riconoscibile e riproducibile. Ma, come già accaduto altre volte nella storia (l’ultima volta nel ‘68), anche oggi è probabilmente negli orientamenti di questi giovani che si può intravvedere una via per il nostro futuro. A condizione che, anche politicamente, le generazioni degli adulti e degli anziani siano disposte ad ascoltare le proposte e le istanze di chi ha vissuto la propria adolescenza lontano dei miti della crescita infinita; di chi cioè ha conosciuto sulla propria pelle i guasti e le contraddizioni di un modello in liquidazione. Così, con forme, parole e modalità nuove siamo forse alla vigilia di un nuovo cambio di generazione. Che, possiamo tutti augurarci, potrebbe trasformarsi presto anche in un cambio di paradigma sociale.

due teologie nell’unico racconto della passione di Gesù non armonizzate

non è facile comprendere la passione

di p. José M. Castillo

in “Religión Digital” del 21 marzo 2016

Castillo

Non risulta facile comprendere quello che vediamo e viviamo ogni Settimana Santa. Perché non è facile capire per quale motivo, ogni anno e quando arrivano questi giorni, girano per le nostre strade immagini di dolore, agonia e morte, in processioni di rispetto e di devozione. E – quello che è più stupefacente – esibiamo le immagini del fallimento con troni di esaltazione trionfale, con musica gregoriana, incenso e bande di musica, grancasse e trombe. Tutto questo è l’espressione più eloquente del tentativo incomprensibile di fare, del fallimento più umiliante della vita, il trionfo sognato delle nostre più sublimi illusioni. Perché nell’ambito della religione succede quello che nessuno può immaginare negli altri settori della vita? Non so se questo fenomeno – così chiaramente contraddittorio – si verifichi, con tanta naturalezza, nella storia e nelle pratiche di altre religioni. Nel cristianesimo è un fatto, che ha una storia di secoli ed alcune radici che risalgono alle origini della Chiesa. Ed è il fatto che, comunque rigiriamo la questione, non è facile comprendere la passione di Gesù. Dove sta la chiave del problema? Negli scritti più antichi della Chiesa, nei documenti che chiamiamo Nuovo Testamento, ci sono due teologie, che non si sono integrate debitamente l’una con l’altra, ma sono state pensate e scritte indipendentemente l’una dall’altra. Ed in questioni molto decisive ci dicono cose che non sono facili da armonizzare. La prima di queste teologie (quella che è stata scritta per primo) è stata quella di Paolo (tra gli anni 45 e 55). La seconda è stata quella dei vangeli (dopo l’anno 70, fino agli anni 90). La differenza più ovvia, che si nota tra queste due teologie, è che quella dei vangeli è una “teologia narrativa”, ossia è costruita sulla base di una serie di racconti mediante i quali a noi si spiega la maniera di vivere o il progetto di vita del protagonista di tali racconti, un modesto galileo del sec. I, Gesù di Nazareth. La teologia di Paolo è una “teologia speculativa”, cioè è costruita sulla base di una serie di riflessioni religiose, che non si riferiscono più direttamente all’umile galileo che è stato Gesù, ma al Figlio di Dio, Messia e Signore nostro (Rm 1, 4), che è Cristo, il Risorto che è unito al Padre del Cielo. Detto ciò – e come è logico -, queste due teologie ci offrono due spiegazioni della passione e morte di Gesù. Secondo la teologia dei vangeli, la decisione della morte di Gesù fu presa dall’autorità religiosa (il Sinedrio: sommi sacerdoti, anziani e dottori della Legge). E questa decisione fu approvata dall’autorità politica, il prefetto dell’Impero. Il motivo della condanna a morte è stato religioso (Gesù fu accusato di essere un pericolo per il tempio, di essere e di agire come un bestemmiatore ed un delinquente); ed è stato politico (poiché il governatore ordinò di crocifiggerlo). Secondo la teologia di Paolo, Cristo morì sulla croce non per una decisione umana (una questione che Paolo non cita mai), ma perché “i peccati si espiano con il sangue”, cosa che si riferisce a Cristo che sopporta l’ira di Dio scatenata su tutti i peccatori (Rm 3, 19-20. 25).  Così sul Crocifisso ricadde il giudizio distruttore di Dio, che con la morte di Gesù condannò “il peccato nella carne” (Rm 8, 3). Questo dimostra il fatto che, per Paolo, Gesù si è fatto “maledizione” (Gal 3, 13) e “peccato” (2 Cor 5, 21) per noi. In definitiva, la teologia di Paolo viene ad essere l’accettazione del principio spaventoso che presenta la lettera agli Ebrei: “senza effusione di sangue non vi è remissione” (Eb 9, 22). Riassumendo: la passione di Gesù, secondo la teologia narrativa dei vangeli, si spiega perchè Gesù, nel quale è presente Dio e che ci rivela Dio (Gv 1, 18; 14, 9; Mt 11, 27 par), ha affrontato la sofferenza umana (malattia, povertà, fame, emarginazione, disprezzo, umiliazione, odio…).  Secondo la teologia speculativa di Paolo, la passione di Cristo si spiega perchè Dio ha avuto bisogno del “sacrificio” e dell’“espiazione” dei peccati, per redimere in questo modo l’uomo peccatore.
Ebbene, accettando il fatto che nel Nuovo Testamento si trovano queste due spiegazioni della passione e della morte di Gesù, il problema concreto che si presenta di solito, negli insegnamenti della Chiesa e nella vita dei credenti, sta nel fatto che la spiegazione della passione offerta da Paolo si è costituita, si presenta ed è richiesta alla gente che la si viva come il dogma di fede della nostra salvezza. Mentre la spiegazione della passione presentata dai vangeli viene spiegata alla gente come un criterio di spiritualità per praticare la devozione e la carità cristiana.
Certo, sappiamo che Paolo ha insistito sulla carità e sull’amore cristiano (1 Cor 13, 1-13; Gal 5, 1324; Rm 13, 8-10). Così come sappiamo che i vangeli parlano ripetutamente della fede e della salvezza. Ma si consideri che, quando Gesù parla di “salvezza”, si riferisce alla “cura delle malattie”. Cioè, nei vangeli “salvare” è rimediare alla “sofferenza”. Per questo, quando Gesù diceva a qualcuno: “La tua fede ti ha salvato”, in realtà gli diceva: “La tua salda fiducia in me ti ha curato” (Mc 5, 34; Mt 9, 22; Lc 8, 48; cf. Mc 10, 52; Mt 8, 10. 13; 9, 30; 15, 28; Lc 7, 9; 17, 19; 18, 42). E richiama l’attenzione il fatto che Gesù elogia la fede di un centurione romano (Mt 8, 5-13; Lc 7, 1-10), di una donna cananea (Mt 15, 21-28; Mc 7, 24-30) o di un lebbroso samaritano (Lc 17, 11-19), tutte persone che non avevano la fede nel Dio di Israele. Senza alcun dubbio, l’elemento centrale nella teologia di Paolo è la vittoria sul peccato. Ma, se ci atteniamo alla teologia dei vangeli, l’elemento centrale è la vittoria sulla sofferenza. Detto tutto ciò, mi azzardo a dire che, finchè questa questione non abbia la giusta ed autorevole spiegazione (ed applicazione alla vita), la Chiesa non potrà adempiere al suo ruolo ed alla sua missione nel mondo. In definitiva, con una teologia disarticolata e sgangherata possiamo solo avere una Chiesa ugualmente disarticolata e sgangherata. In altre parole, finché Paolo continuerà ad essere più decisivo di Gesù nella teologia e nella gestione della Chiesa, come Chiesa e come cristiani non andiamo da nessuna parte.
articolo pubblicato il 21.3.2016 nel Blog dell’Autore in Religión Digital

 

 

 

anche questo, sì, è un padre!

 

 

SE QUESTO E’ UN PADRE

se questo

Noi che viviamo sicuri
Nelle nostre tiepide case,
Noi che troviamo tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Consideriamo se questo è un padre,
Che cammina nella tempesta e nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un nostro sì o un nostro no.
Consideriamo se questo è un padre,
Senza nome, senza casa, senza patria
Senza più forza di ricordare
Lo sguardo vuoto di passato vuoto di futuro
Le labbra sulla sua bimba
Che stringe al grembo freddo
Freddo come una rana d’inverno.
Meditiamo che questo è stato ed è ancora
Comandiamoci queste parole
Scolpiamole nel nostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandoci alzandoci
Ripetiamole ai nostri figli
Così si rinsalderà la nostra casa
Così la gioia ravviverà i nostri corpi
Così nostri figli volgeranno il viso sul nostro
Così ci riconosceranno come padri.

Ignazio Punzi
(ispirata a Se questo è un uomo di Primo Levi)

relazione di don Vito Impellizzeri al CCIT 2016 di Esztergom in Ungheria

CCIT –Esztergom– 2016

basilica1la figura della coscienza del Samaritano lo sguardo dal basso della prossimità culturale

 

di don Vito Impellizzeri

A mio padre, vangelo nascosto

Introduzione

«L’altro è l’inferno» (Sartre)Vito

«Oggi sarai con me in Paradiso» (Gesù)

«La sofferenza, la fame, i disagi finiscono per fare degli uomini dei lupi fra loro: beati quei popoli che riescono a prevenire con l’unico mezzo efficace, la vera profonda leale solidarietà. La società di domani sarà come noi l’avremo voluta oggi» (G. Andrea Trebeschi, Brescia 1897 – Dachau Mauthausen Gusen 24.1.1945)

«Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, curò le sue ferite …» (Lc 10,33)

A proposito di misericordia … nell’accompagnare mio papà alle porte del cielo ho imparato il nostro poter essere due domande fondamentali. Certo mi piacerebbe da subito, in questa riflessione, fermarmi sul nostro essere due (ovvero relazione, ad immagine e somiglianza dell’essere relazione di Dio; il nostro essere due aperto al compimento del terzo, di Dio che sceglie di abitare nelle nostre relazioni autentiche di umanità nel suo nome; essere da) e sul nostro essere domanda (ovvero ricerca, desiderio, speranza, apertura, verso la verità, la bellezza, l’unità, il bene, verso Dio; essere per). Ma devo prima raccontare le due domande sentite ripetutamente negli ultimi giorni di mio papà. Domande che abitano come senso e come promessa la mia ricerca, che hanno ricordato alla mia coscienza l’intelligenza nascosta del vangelo nelle pieghe e nella piaghe del quotidiano.

  1. Accompagnandolo in ospedale a fare le visite, ma lo stesso potrebbe avvenire in posta, in un supermercato, o dal dentista, dovunque si crei un legame antropologico reale tra il tempo come attesa e lo spazio come fila e questo attenda la scelta delle relazioni, la prima domanda era sempre la stessa: «Scusate, chi è l’ultimo?». È, a mio semplice modo di vedere, riflesso di vangelo, completamento della domanda con cui Gesù conclude la parabola del Buon Samaritano, perché anche qui la risposta, il riconoscimento presuppone poi che io, cioè colui che pone la domanda, prenda il suo posto, diventi io l’ultimo. E lui diventi colui che è prima di me. Diventi il primo di me. È questa semplice domanda che trasforma gli ultimi in primi. È questa semplice domanda che custodisce l’umanità come riflesso bello di vangelo. È veramente una domanda bella.

  1. Ma, mentre diventati gli ultimi e resi primi quelli davanti a noi, eravamo in attesa del nostro turno, capitava sempre che qualcuno, magari perché conoscesse me, veniva a salutarci. Ed ecco la sua seconda domanda, fatta da mio papà proprio nella sua condizione di anziano con la fatica della memoria e della vita sociale e del senso del raccogliersi del tempo: «Ma, mi conosci?». Questa domanda immediatamente mi ha ricondotto alla pagina evangelica del giudizio sulla carità di Mt 25 e sul criterio del discernimento del Figlio dell’uomo, riguardo il conoscere e amare uniti dalla carità come opera, che permette il riconoscimento come benedizione e beatitudine. Ed ero reso partecipe, coinvolto, immediatamente in bellissimi dialoghi della memoria, in cui il mio giovane amico diceva semplicemente il nome del proprio genitore e del proprio nonno, e mio papà, con una semplicità autenticamente tenera, si faceva lui stesso dono come memoria graziosa (fatta di ricordi e forse di rimpianti) per la sua storia, indicandogli luoghi, fatti, vicende, esperienza, che il giovane stesso non conosceva, ma che ora, finalmente riconosceva, (ma quando noi abbiamo …); in forza del dono della memoria (fate questo in memoria di me) lo rendeva erede di un nome diventato memoria, cioè storia, relazione tra gli uomini oltre la loro stessa morte. Per questo benedetto e non maledetto.

  1. Il mondo come spazio della vera fraternità.

[È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, Questo sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.1 ]

Alcune semplici note ci permetteranno di cogliere la bellezza, la novità e anche la libertà di alcuni passaggi di questo numero del Concilio della misericordia2 intorno alla teologia pastorale dei segni dei tempi. In verità la teologia dei segni dei tempi è considerata da molti fra le più forti eredità del Concilio. Essa segna il cammino contemporaneo della Chiesa e ne manifesta la sua necessaria recezione creativa. Essa rinnova, cambia, forse completa, la percezione della relazione tra Chiesa e Mondo, avviando quel legame di reciprocità che permette al mistero della Chiesa di restare fedele al mistero stesso di Cristo e alla sua incarnazione, fedeltà alla Kenosi, allo scandalo e alla stoltezza della Croce; e allo stesso modo, le permette di restare aperta, come seme e come opera, all’annuncio e alla venuta del Regno di Dio. La Chiesa non può essere pienamente se stessa senza l’alterità del mondo, senza cioè la storia e la famiglia umana, oltre che senza l’alterità di Cristo. Cristo – Chiesa – Mondo, segnata dal suo legame con lo Spirito e con il Regno, e dunque in dissimmetria Spirito – Chiesa – Regno. È il percorso dell’autocoscienza che essa stessa ha percorso nel Concilio. Inoltre da questa eredità (traditio vivens) conciliare passa la fedeltà contemporanea alla natura missionaria della Chiesa. La Chiesa è tutta missionaria. È in gioco la contemporaneità della salvezza, come misericordia e come giustizia, e non solo la sua eternità, come giustizia e come misericordia! La GS ha piena consapevolezza che nella storia le cose non stanno semplicemente cambiando ma si sta entrando, in forza della tecnica e della comunicazione, della intelligenza e creatività umana, in una epoca del cambiamento e allora compie uno sforzo grande, proprio di una grammatica genitoriale della responsabilità e del responsabilizzare: riconosce in questa crisi di crescenza la necessità della crescita personale e sociale dell’uomo ed indica la necessità di non smarrire, di non perdere, il riferimento ai valori perenni dell’umanità che custodiscono la dignità di ogni persona e dell’intera famiglia umana. La scelta di indicare i valori come perenni mostra tutto intero il mistero che lega la Chiesa e il Mondo nel tempo, nella storia, come missione e come memoria. Si tratta dunque della responsabilità di ricordare in ogni cambiamento il permanere della sua dignità e della sua vocazione, del suo compito e del suo destino, della sua identità e della sua responsabilità. Il perenne non è perché nulla cambi, ma perché il cambiamento non smarrisca il senso, il camminare non smetta di essere crescenza. Infatti il Concilio è così libero di affermare la non paura dell’aggiornamento e la necessità della Chiesa di dover farsi trovare adeguata, cioè comprensibile e significativa, ad e per ogni epoca ed ogni generazione. Aggiornamento. Questo non vuol dire perdere i valori perenni, non vuol dire cedere i valori non negoziabili. Anzi. Questi le sono continuamente partecipati dal suo legame vivo e vitale con il Cristo, con l’umano dell’umanità crocifissa e risorta del Figlio di Dio e di ogni uomo partecipe del dolore della croce, con il suo Spirito e con la già presenza del suo Regno non ancora compiuta. Ed è proprio la perennità dei valori a spingere la Chiesa a cercare il dialogo con ogni uomo e in ogni contesto storico e sociale. Incarnazione ed inculturazione. Non c’è nulla di autenticamente umano che non riguardi e soprattutto non interessi la Chiesa. Il Concilio propone una idea di mondo plurale e completa, lo coglie nel suo significato antropologico e sociale, creazionistico e teologico, amartiologico (legato al peccato), storico, cristologico ed escatologico salvifico. Ne afferra l’orizzonte greco di cosmos; quello ebraico e cristiano di creazione e promessa di salvezza ed evento dell’incarnazione; ed anche quello occidentale moderno di storia e natura. Oggi il Concilio aggiungerebbe anche quello postmoderno e mediatico di rete e di comunicazione, fluido. Un piccolo mondo, dove niente è più fuori, extra, lontano, separato, dall’altra parte, nascosto, irraggiungibile. Un mondo raccolto e raggiungibile. I fatti del mondo riguardano tutti e possono ricadere su tutti. Nessuna guerra è più molto lontana. Il mondo raccolto, lo spazio piccolo, il tempo comunicazione, diviene oggi il luogo della responsabilità etica dell’uomo, giudicato e purificato dalla croce e continuamente rinnovato e ricreato dal suo spirito nell’evento della risurrezione escatologica. La GS sorprende anche per la sua tensione universalistica. In un mondo realmente globale e raccolto in rete la Chiesa sente forte la necessità di voler raggiungere tutti, di voler contattare interamente la famiglia umana e fare appello ad ogni singola e libera coscienza. Unico diventa il destino dell’umana società senza diversificarsi più in tante storie separate. Papa Francesco, seguendo le orme del Concilio, nella Laudato sii parla del mondo come casa comune e propone un’ecologia integrale. Dal Concilio è stata riconosciuta e assunta, cioè imparata, del cammino veritativo dell’uomo il valore forte che la modernità riconosce e attribuisce al soggetto e alla libertà. Il trittico che tutti abbiamo imparato in Occidente dalla rivoluzione francese libertà – uguaglianza – fraternità non risulta più contrario alla fede e alla vita cristiana. Si può dialogare. Resta il disagio però che da subito il trittico è stato ridotto nella modernità politica a dittico e il tema della fraternità è sparito dal riferimento al guadagno politico della modernità. Ora, per noi, la fraternità è proprio il contributo del cristianesimo ad una cultura occidentale che vuole assumersi in modo adulto il peso di una libertà che matura come responsabilità e di un soggetto che si riconosce e si costituisce nella sua identità proprio grazie all’alterità, all’altro. Il Concilio dimostra semplicemente la struttura dell’identità del soggetto legata all’alterità attraverso il ricorso alle dinamiche del micro sociale (padri-figli e uomo-donna) e del macro sociale (solidarietà, partecipazione). La socializzazione padri e figli e uomo-donna evidenzia le due polarità fondamentali che strutturano la condizione umana come intrinsecamente chiamata alla socialità; in senso così storico-temporale, come susseguirsi di generazioni, e in senso di contemporaneità orizzontale come essenziale espressione della creatura umana nella polarità di identità – differenza e identità – dialogo. Il macro sociale testimonia solidarietà, partecipazione, unità, conflitto, pluralismo, comunicazione. Sempre seguendo il cammino tracciato e avviato dal Concilio Papa Francesco afferma:

In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita sola da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.3

La storia dunque è il luogo specifico e il teatro di realizzazione dell’uomo come singolo e come comunità sociale. Ma il Concilio, proprio secondo la prospettiva dell’unità, assume una decisa prospettiva trinitaria, legge in tale chiave proprio l’ Intersoggettività.

[Iddio che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli. Iddio abbia voluto per se stesso, non possa trovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé.4 ]

Ognuno deve considerare il prossimo, nessun eccettuato, come un altro se stesso. Il “come” dei sinottici, è in realtà la misura trinitaria della socialità umana, cioè il porre l’altro sullo stesso piano di sé, come il Padre e il Figlio, la stessa dignità. E deve considerare il prossimo come l’alterità di Dio. Amare Dio e amare il prossimo non possono essere disgiunti come comandamento, in ragione del fatto che il comandamento rileva, cioè assume a norma di comportamento, ciò che l’amore rivela: l’inseparabilità tra Dio e il prossimo. Inseparabilità realizzata in Cristo. È il mistero più profondo che abita l’incarnazione, lì dove inizia la misericordia.

[La Chiesa ha riconosciuto che l’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi,pesanti inefficaci.5 ]

Il dialogo è la forma concreta che la vita e la missione della Chiesa sono chiamate oggi ad assumere, con una reale e bella spiritualità del dialogo. Questo comporta la conversione dello sguardo: «chi è il diverso?» Diverso, cioè di(s)vertere: volgersi via da. Il diverso è l’altro in quanto diverge, in quanto cioè è percepito allontanarsi da me perché ha preso una strada che guarda altrove rispetto a quella da me intrapresa. E invece l’altro è il volto che guarda verso di me, il volto che rivela me a me stesso, come anch’io un volto capace di incontro. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” promessa di reciproco riconoscimento, l’altro non è estraneo ma fratello! L’alterità, la prossimità, nel legame di amore e verità, intesa e assunta come fraternità è ciò che vorrei provare a mostrare come il compito dell’uomo e del cristianesimo con il confronto con la teologia di K. Rahner. Provando in questo modo ad argomentare il passaggio antropologico, prima considerato connaturale e semplice come pratica, tra prossimo e fratello perché fondato sulla condizione universale di figlio. La rinuncia pratica e politica della modernità alla dimensione universale di fraternità ha oggi contribuito, in ragione anche dei drammi, dei contrasti e delle paure in atto, a discuterla, nonostante l’appello continuo alla condizione universale di figliolanza. Per di più, da sempre, l’esperienza domestica ci racconta la fatica e il dramma quotidiano di relazioni di figliolanza e di fraternità vissute in contraddizione e in contrasto. Ognuno conosce la storia di Caino. Se già la naturale fraternità per nascita fa fatica ad essere considerata criterio e norma per relazioni e per scelte, oggi, una fraternità universale costruita sul comune e filiale senso di Dio come Padre e Creatore, fa veramente fatica ad essere praticamente condivisa come il criterio guida per affrontare ed assumere i drammi, i contrasti e le contraddizioni in atto nella scena politica del mondo. Il legame di identità antropologico fratello-figlio oggi non è più scontato come dato universalmente condiviso. Qui il cristianesimo, e non solo lui con la forza del comandamento dell’amore al prossimo Forse non nella sua forma riflessa ma certamente nella sua forma pratica. Occorre testimoniare e raccontare l’umano che comune attraverso uno sguardo che sa cogliere nel diverso uno specifico esercizio di umanità, un peculiare dono per sé e per gli altri. Io per primo o mi rivolgo verso di lui e così si può accendere la compassione e la misericordia. Compatire, cioè portare insieme i pesi gli uni degli altri, gioendo per le gioie dell’altro e soffrendo con lui per la prova che lo angustiano. Patire insieme il peso e la grazia di essere creati ad immagine e somiglianza di Dio per diventare insieme suoi figli nella concretezza difficile, ardua e complessa della nostra esistenza. L’insegnamento e la prassi di Gesù dischiudono in profondità l’atteggiamento della compassione, della kenosi. Amare significa farsi l’altro, mettersi nella sua pelle (è la proposta di una globalizzazione dal basso) ascolto disarmato, vuoto di sé; fraternità. Dio in persona viene ad abitare in mezzo agli uomini, là ove si accende il mutuo riconoscimento.

[L’unione della famiglia umana viene molto rafforzata e completata dall’unità della famiglia dei figli di Dio, il compimento della sua missione.6 ]

  1. La fraternità: totalità del compito di tutto l’uomo e del cristianesimo.

Eccomi al secondo momento di questo percorso: Non c’è alcun amore a Dio che non sia in se stesso già amore al prossimo e che attraverso l’esercizio dell’amore al prossimo non raggiunge il suo fine. Riflesso l’argomentare di Rahner della Prima Lettera di Giovanni. Solo chi ama il prossimo può sapere chi è veramente Dio, e solo chi ama Dio veramente può riuscire ad entrare in relazione con l’altro uomo, senza renderlo un mezzo per la propria autoaffermazione, in maniera riflessa oppure no. Dio non è il concorrente dell’uomo, bensì colui che rende comprensibile l’uomo, colui che gli dà la sua vera radicale dignità e significazione, essendo nel più intimo dell’uomo e nel contempo superandolo infinitamente. L’esistenza in Dio è la più profonda interiorità dell’uomo. In quanto viene amato in/per Dio, l’uomo è amato nel suo essere e nel suo significato ultimo, e in quanto si apre veramente all’amore al prossimo gli è data la possibilità di uscire da se stesso per amare Dio.

Il secondo passo sta nel comprendere come l’amore al prossimo presenti una vera dimensione storica che deve concretizzarsi nell’azione. C’è veramente una storicità dell’amore cristiano verso il prossimo. Le sfide attuali sono sotto lo sguardo di tutti: comunicazione, ecologia, finanza, migrazioni, terrorismo, gender, democrazia, dignità e difesa della donna, dialogo, pluralismo, fondamentalismi religiosi; queste sfide pongono la questione se abbia senso e contenga promessa intendere l’amore al prossimo come fraternità.

Di fatto, grazie alla comunicazione oggi siamo di fronte ad una umanità che nel suo insieme tende a diventare sempre più unità. Mondiale, globale, sono parole del quotidiano di ciascuno, spesso abbinate a crisi o conseguenze, basti pensare alle situazioni di conflitto o alle sfide ambientali. Viviamo nella situazione di una umanità che si fa sempre più vicina e unita. Ciò non significa naturalmente che questo mondo umano che diviene sempre più uno sia anche più armonico e tranquillo. Anzi. In un mondo in cui le singole storie dei popoli e le singole culture non sono più separate da spazi vuoti e da terre di nessuno, le situazioni di un conflitto divengono persino più pericolose che non nei tempi passati. C’è oggi nell’umanità una forza centripeta che costringe i singoli spazi storici e culturali a convergere verso uno spazio esistenziale comune a tutti gli uomini, ad es. la questione dei diritti universali dell’uomo. Ma anche c’è una nuova interiorità dell’uomo. Una nuova percezione di se. Sta cambiando decisamente la coscienza soggettiva e la sua relazione con il bene (e il male). Questa nuova condizione globale cambia anche la percezione della Chiesa, oggi tutti percepiamo la Chiesa nella sua dimensione mondiale, fa quasi nostalgia l’espressione usata da Papa Francesco la sera della sua elezione, di un papa venuto dalla fine del mondo!

Stoltezza della croce. Vera sapienza cristiana. Domanda che scuote le coscienze. La fraternità si rivela secondo Rahner come forma concreta dell’amore verso Dio. Il fratello diventa la porta, autenticamente umana, che porta Dio. Il fratello è la porta santa. Emerge chiaramente allora il senso e la promessa con cui Francesco ha voluto ampliare il segno della porta santa nel Giubileo della misericordia ponendovi luoghi come Lampedusa, il Centro Africa e la mensa dei poveri. Quando si comprende veramente l’unità che deve esserci tra l’amore verso Dio e verso il prossimo allora quest’ultimo passa dalla situazione di richiesta di una prestazione particolare e ben limitata alla condizione di un totale impegno di vita, in cui da tutta la nostra persona si richiede qualcosa, esigendola oltre misura. È il compiersi della trascendenza secondo la carità. È autentica libertà da noi stessi. In altri termini con fraternità, nella sua necessaria unità con la risposta d’amore verso Dio, si esprime la totalità del compito di tutto l’uomo e del cristianesimo. Secondo il padre gesuita è una parola da difendere e orientare verso la coscienza. In modo che torni a trovare residenza nella coscienza comune dell’umanità raccolta globalmente. Papa Francesco oggi in qualche modo rappresenta tangibilmente e percettibilmente la coscienza dell’intera umanità che vive più che mai oggi in unità e comunicazione. Rappresenta la coscienza del mondo.

Da questa impostazione della questione del recupero della logica agapica integrale della fraternità ne conseguono alcune conseguenze. Innanzitutto una teologia politica deve derivare necessariamente dall’essenza di questa fraternità cristiana. Oggi viviamo in una società del cambiamento. È un nuovo ambito per il compito della fraternità. L’ambito della politica vera e propria, della responsabilità per le premesse socio-strutturali che consentono una vita degna dell’uomo e sanamente possibile. Spiritualità fraterna e mistica della fraternità secondo l’EG, capaci di avviare il costituirsi di strutture di misericordia, alternativa alle strutture di peccato e alla logica del potere.

Poi ne consegue che mistero è la totalità dell’esistenza umana. Dio ed uomo sono mistero. L’amore del prossimo fa sì che uno entri nell’altro. Tale amore consegna l’uomo che ama all’altro, non soltanto in questo o quella sua caratteristica bensì nella sua totalità, come soggetto, con l’ampiezza illimitata della sua coscienza e del suo essere libero, con il suo perdersi in Dio. E allo stesso modo questo amore del prossimo è pronto ad accogliere l’altro come un soggetto denso di incalcolabile mistero. L’amore per il prossimo è il vicendevole compenetrarsi dei due misteri, in cui è presente il mistero per eccellenza Dio che rende così irriconoscibili i limiti tra questi due soggetti. In terzo luogo, secondo la proposta di Ranher la grazia si rivela come attraverso l’amore al prossimo, la fraternità, Dio stesso si fa norma interiore nello scambio tra due soggetti. La realtà bella ed universale, per tutti, è che l’antropologia della fraternità cristiana riesce a dire dell’uomo comune e semplice questa sua dignità infinita. La fraternità avvolta e sostenuta dal mistero assoluto di Dio infinito è per tutti. Per l’uomo che vive il quotidiano, fatto di spazi vuoti di infinito.

Terza ed ultima conseguenza è il rischio della libertà, amare nel senso vero e proprio della parola. La fraternità che è sorretta dall’amore verso Dio e che in questo amore trova il suo compimento, è la cosa più grande che ci sia. E proprio in quanto tale rappresenta la possibilità che viene offerta ad ogni uomo nella semplicità del quotidiano.

  1. Il perdono e le strutture di misericordia.

[la sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. che si chiama senso del mistero.]7]

Il termine misericordia conosce possibili chiavi semantiche:

  • miseror, avere pietà verso chi è misero, e cor, il cuore che sente questa pietà.

  • Rahim, rehem, esedh, emeth: viscere materne, grembo materno, bontà originaria, completa fedeltà, ma anche verità.

  • Eleos, oiktirmos, splanchena: misericordia, compassione, commozione, viscere materne.

«Misericordia io voglio e non sacrificio» ci ricorda il profeta Osea (6,6); spesso nella pratica però a noi sembra il contrario. Ora volere, desiderare, sentire misericordia significa entrare nella relazione che lega la madre con il figlio, in quella relazione talmente interiore che sente e riconosce il muoversi della vita, che è in te, ma che non è tua, e non sei semplicemente tu; ma è più intimo di te a te stesso, ti abita e si nutre di te. Il figlio ti rende madre (padre). È un dono reciproco, vicendevole: in te, il tuo corpo, la tua libertà, il tuo amare ha donato la vita, è diventata un’altra vita. Vita da vita, amato da amare. Un amore così grande che è capace di sopportare e attraversare il dolore del parto. Il parto diventa benedizione e non più maledizione quando il grido della madre cede il passo al pianto del bambino, quel pianto cancella tutte le prove, tutte le paure e le angosce, il bambino si rivela il senso e la promessa di quel grande dolore attraversato. L’amore diventato per un momento dolore ora si compie come amato, diventa il nome nuovo, diventa la umanità nuova, diventa figlio mio, figlia mia. Ma la madre e il padre possono solo gestire l’amore diventato dolore e poi amato come compimento del parto. Un dolore più grande è la drammatica somiglianza tra l’uomo, nella sua altissima dignità di amare, e Dio stesso: è la perdita del figlio. Quando un figlio perde il padre o la madre, la parola di senso e di dolore umano non tace ma riconosce la condizione di orfano, ma quando un fratello perde suo fratello, o un padre e una madre perdono un figlio, la parola umana di senso e di dolore tace, non vuole essere consolata, non riconosce quella nuova condizione. Il silenzio, il nome non nuovo di sé, ma il nome dell’amato diventato morto, diventato pianto, ricordo, memoria, gratitudine, rimpianto, diventa il quotidiano. Chi non conosce il dolore grande del sentire il figlio come perduto non può sentire la misericordia; perché non può provare la gioia più grande ovvero sentire il figlio come ritrovato. È la dracma perduta, è la pecora perduta, è il figlio perduto, il loro ritrovamento genera la vera gioia, la festa. Ma chi non ha perso nessuno, non attende nessuno, non spera per nessuno, forse non vive per nessuno. La domanda più bella sulla risurrezione e sul senso della vita io la ho avuta posta due volte da due bambini in circostanze drammatiche: Pier Claudia, dopo la morte della sorellina Eva a soli 7 anni mi ha chiesto «quando anch’io andrò in cielo, mia sorella sarò cresciuta come me e la riconoscerò o sarà rimasta piccola a 7 anni?»; Giuseppe a 9 anni, dopo la morte del suo papà mi ha chiesto «Zio, ma la risurrezione vuol dire che io rivedrò mio papà?». Il dolore per la perdita dell’amato mostra l’altissima dignità dell’uomo, mostra che l’amore è più forte della morte, mostra che l’amore è la vocazione di ogni uomo, mostra che la misericordia, la restituzione della vita dell’amato, la restituzione della vita del figlio è la dignità umana e divina, mostra che la misericordia è atto di risurrezione, di restituzione della vita del/al figlio e della vittoria della vita sulla morte. Mostra la ragione per cui il Figlio di Dio nella sua umanità crocifissa ha perdonato i suoi uccisori. Ma chi non conosce il dolore per la perdita dell’amato a fatica conosce la misericordia e riconosce il grido del perdono, senso e promessa del pianto del figlio restituito alla vita. La restituzione del figlio alla vita è il senso e la promessa della misericordia. È la gioia. Questo non contraddice ma include, lega, pone in relazione di reciprocità la misericordia e la giustizia di Dio. Secondo la misura smisurata della dignità divina, infinita, delle creature. La vendetta è vendicativa, ma la giustizia no, è giusta! Se non riconosco alcun legame essenziale con la persona da giudicare, penso di avere davanti a me soltanto un altro, cioè di fatto uno che sta fuori di me e vale meno di me, che per giunta è reo di qualche colpa. Così sarò portato a vedere non più la sua umanità e il legame prezioso che ci unisce, bensì solo le sue prestazioni negative o positive. E, prima ancora, sarò portato a credere che il male non riguardi me ma l’altro. O, semmai, mi immaginerò spontaneamente come colui che deve decidere se perdonare o no. Invece figlio o figlia è chi, nascendo a vita nuova, scopre che i cosiddetti altri sono fratelli e sorelle, e in tale scoperta si apre alla relazione viva con Dio padre e madre (se vuole). La giustizia della misericordia non è bendata ma guarda e vede bene il volto di ciascuno. È la ragione più alta di ogni razionalità. È intelligenza suprema, poiché sa vedere ogni cosa e ogni creatura per quello che è. Sa riconoscere il valore di ognuno anche e proprio quando sembra distrutto. È una logica superiore ad ogni altra logica. È la luce dell’amore vero. I processi vitali della misericordia sono la prossimità fedele che non tradisce e si ferma per prendersi cura; il perdono; il sapere bene che il malvagio nel compiere il male ha distrutto la sua libertà perché si è reso schiavo del peccato. Misericordia è restituzione della libertà: la sua seconda e nuova libertà è suscitata dall’amore misericordioso di Dio che vuole ritrovare nel malvagio un figlio. Una forza di guarigione, di liberazione dal male, di risurrezione. È rompere il legame tra uomo e male. Il principio di misericordia è «perdona loro perché non sanno quello che fanno». La misericordia è dunque amore/dolore, intelligenza dell’anima e processo di maturazione dell’unità spirituale della persona. Gesù stesso ha attraversato il conflitto e provocato situazioni di conflitto (diatriba sul ripudio e tradimento di Giuda) mostrando una percorribile via della non violenza, con il dialogo di misericordia/giustizia e la verità/carità, alternativa alla via del potere. Emerge chiaramente anche la tenerezza politica della misericordia: cura del bene comune e riscatto degli esclusi, alternativa alla cultura dello scarto e del ricatto, si tratta di costruire strutture di misericordia (Moltmann) per una società decente, generare un mondo nuovo con la logica messianica dell’etica concreta agapica. La misericordia deve venire dal basso (dove sono le vittime, dove si alza il grido, dove Dio si incarna) è non è paternalismo pietistico e patetico ma è riscatto e rottura. Il disagio di ricordare che nel Getsemani Gesù diede ai discepoli tempo e libertà e persino spazio proprio, lì collocò nell’ora dell’uomo. Ed essi si addormentarono.

Conclusione

Conosciamo la vicenda di Babele. (Gen. 11, 1-9)

Centoquaranta rampe di scale furono addossate alla torre, settanta a Oriente e settanta a Occidente. Quelle a Oriente servivano per salire e quelle a Occidente per scendere. Così il formicaio si rivelava più che mai insensato. Le formiche cercano e scelgono sulla superficie della terra provviste indispensabili alla sopravvivenza durante l’inverno, e le trasportano nelle loro abitazioni scavate nel suolo. Gli abitanti delle tre città prendevano da terra mattoni fatti con la terra e li trasportavano in alto, sempre più in alto, con fatica sempre maggiore e senza potersi fermare a riprendere fiato, perché la minima sosta rischiava di bloccare il flusso dei portatori provocando incidenti. Ormai occorreva più di un anno per arrivare in cima e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feriva o cadeva da quell’altezza, nessuno ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone, tutti piangevano perché sarebbero dovuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire. L’unica pausa in quel moto perpetuo aveva luogo in cima alla torre, dove prima di attaccare la discesa i portatori di mattoni si fermavano a cementarli con la calce e a lanciare nugoli di frecce contro il cielo. Facendo bene attenzione a non guardare mai verso terra per paura delle vertigini. Gli angeli tornarono dall’Eterno:

  • Guardali! Sono arrivati tanto in alto che non ce la fanno a guardare il panorama.

Li vedo, disse l’Eterno rattristato, si sono trasformati in macchine puntante in un’unica direzione. Li ho lasciati fare fin’ora perché non si ingannano e non si uccidono, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo fra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare».8

  • Non apparirebbe del tutto diversa la vita cristiana se noi intendessimo spontaneamente la massima salva la tua anima con salva il tuo prossimo?

  • Noi siamo disposti a prendere sul serio la beatitudine del povero, del misericordioso, dell’operatore di pace e il consegnarsi di Gesù come reale esperienza di compimento della nostra esistenza?

  • Siamo disposti ad accogliere che nell’amore cristiano, quale si attesta alle origini, l’amore del nemico è il principio di ogni amore ecclesiale?

  • Scusate, chi è l’ultimo, perché io possa prendere il suo posto?

  • Ma mi conosci? Ogni volta che lo hai fatto al più piccolo dei miei/tuoi fratelli lo hai fatto a me

1 Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 4

2 Espressione scelte da Piero Coda per una sua recente pubblicazione: Piero Coda , Il Concilio della misericordia. Sui sentieri del Vaticano II, Città Nuova, Roma 2015, pp. 407. Testo chiave per l’elaborazione di questo mio primo paragrafo.

3 Francesco, Evangelii Gaudium, Città del Vaticano 2013, n. 228

4 Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 24

5 Francesco, Evangelii Gaudium, Città del Vaticano 2013, nn. 188-189.

6 Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n.42

7 Francesco, Evangelii Gaudium, nn. 276.278-279

8 G. Limentani, Gli uomini del libro, Adelphi, Milano 1975, pp.82-84

Weil

“Il Padre nostro” meditato da Simone Weil
 

Testi, conferenze, interviste  di :

Alberto Maggi

Carlo Maria Martini

Ricardo Pérez Márquez

Josè Maria Castillo

Vito Mancuso

Enzo Bianchi

Altri Autori e Testi completi in diversi formati

Appunti di Rosario Franza

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“Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.”

 

«Padre nostro che sei nei cieli».

Egli è nostro Padre; non c’è nulla in noi di reale che non proceda da lui.

Noi gli apparteniamo. Egli ci ama, perché ama se stesso e noi siamo cosa sua. Ma è il Padre che è nei cieli. Non altrove. Se noi crediamo di avere un padre quaggiù non è lui, ma un falso dio. Non possiamo fare un solo passo verso di lui: non si cammina verticalmente. Possiamo dirigere verso di lui soltanto il nostro sguardo. Non dobbiamo cercarlo, dobbiamo soltanto mutare la direzione dello sguardo. Tocca a lui cercarci. Dobbiamo essere felici di sapere che egli è infinitamente fuori della nostra portata.

Abbiamo così la certezza che il male in noi, anche se sommerge tutto il nostro essere, non contamina in alcun modo la purezza, la felicità, la perfezione di Dio.

«Sia santificato il nome tuo».

Dio solo ha il potere di nominarsi. Il suo nome non può essere pronunciato da labbra umane; il suo nome è la sua parola: è il Verbo. Il nome di un essere fa da intermediario tra la mente umana e questo essere, è la sola via attraverso la quale la mente umana possa afferrare qualcosa di questo essere quando è assente. Dio è assente: è nei cieli. Il suo nome è la sola possibilità per l’uomo di accedere a lui. È il Mediatore. L’uomo può accedere a questo nome, per quanto esso pure sia trascendente. Questo nome brilla nella bellezza e nell’ordine del creato e nella luce interiore dell’anima umana: è la santità stessa e non v’è santità fuori di lui; dunque non occorre che sia santificato. Chiedendo questa santificazione, noi chiediamo ciò che è dell’eternità, con una pienezza di realtà alla quale non possiamo aggiungere né togliere nemmeno una parte infinitesimale. Chiedere ciò che è, ciò che è in maniera reale, infallibile, eterna, del tutto indipendente dalla nostra domanda, è la richiesta perfetta.

Non possiamo impedirci di desiderare: noi siamo desiderio; ma questo desiderio che ci inchioda all’immaginario, al tempo, all’egoismo, possiamo, esprimendolo tutto intero in questa richiesta, farlo divenire una leva che, strappandoci dall’immaginario e dal tempo, ci colloca nel reale e nell’eternità, fuori della prigione dell’io.

«Venga il tuo regno».

Si tratta di qualcosa che deve venire, che non c’è. Il regno di Dio è lo Spirito Santo che colma tutta l’anima delle creature intelligenti. Lo Spirito soffia dove vuole. Non si può fare altro che invocarlo. Non bisogna neppure pensare d’invocarlo in maniera particolare su di sé, o su questo o su quello, o anche su tutti; bisogna semplicemente invocarlo, di modo che il semplice pensare a lui sia un appello, un grido: quando si è al limite della sete, quando si è ammalati di sete, non ci si raffigura più l’atto del bere in rapporto a se stessi e nemmeno l’atto del bere in generale; ci si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in se stessa, ma questa raffigurazione dell’acqua è come un grido di tutto l’essere.

«Sia fatta la tua volontà».

Noi siamo certi in maniera assoluta e infallibile della volontà di Dio soltanto per il passato: tutti gli avvenimenti che si sono verificati, quali che siano, sono conformi alla volontà del Padre onnipotente. Questo è implicito nel concetto di onnipotenza. Anche l’avvenire, qualunque esso sia, una volta compiuto, sarà compiuto conforme­mente alla volontà di Dio. Non possiamo aggiungere o sottrarre nulla a questa conformità. Così, dopo uno slancio di desiderio verso il possibile, con questa frase noi chiediamo di nuovo ciò che è già realtà: ma non più una realtà eterna, come la santità del Verbo; l’oggetto della nostra richiesta riguarda ciò che si produce nel tempo: noi chiediamo che ciò che si produce nel tempo sia conforme, infallibilmente ed eternamente, alla volontà divina. Con la prima richiesta del Paternoi avevamo strappato il desiderio dal tempo per applicarlo all’eterno, e così l’avevamo trasformato: ora riprendiamo questo desiderio, diventato esso stesso in certo modo eterno, e lo rivolgiamo di nuovo al tempo. Allora il nostro desiderio oltrepassa il tempo e trova dietro di esso l’eternità. Questo avviene quando sappiamo trasformare in oggetto di desiderio ogni avvenimento compiuto. È una cosa ben diversa dalla rassegnazione. Persino la parola accettazione è troppo debole. Si deve desiderare che tutto ciò che è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché ciò che è avvenuto è un bene a nostro modo di vedere, ma perché Dio lo ha permesso e perché l’obbedienza degli eventi a Dio è in sé un bene assoluto.

«Così in cielo come in terra».

Questo associarsi del nostro desiderio alla volontà di Dio deve estendersi anche alle cose spirituali. I progressi e i regressi spirituali nostri e degli esseri che amiamo hanno un rapporto con l’altro mondo, ma sono anche avvenimenti che si producono quaggiù, nel tempo. Sono quindi dei particolari nell’immenso mare degli avvenimenti, mossi, con questo mare, in maniera conforme alla volontà di Dio. Poiché le nostre passate debolezze si sono verificate, dobbiamo desiderare che esse si siano verificate e dobbiamo estendere questo desiderio all’avvenire, per il giorno in cui sarà divenuto passato. È una correzione necessaria alla richiesta che venga il regno di Dio. Dobbiamo abbandonare tutti i desideri che non siano quello della vita eterna, ma anche la vita eterna dobbiamo desiderarla con spirito di rinuncia. Non bisogna attaccarsi nemmeno al distacco. È l’attaccamento alla salvezza è più pericoloso degli altri. Si deve pensare alla vita eterna come si pensa all’acqua quando si muore di sete e, nel medesimo tempo, desiderare per sé e per gli esseri cari la privazione eterna di quest’acqua piuttosto che riceverla contro la volontà di Dio, se mai una cosa simile fosse concepibile.

Le tre richieste precedenti sono in rapporto con le tre Persone della Trinità: il Figlio, lo Spirito e il Padre, e anche con le tre parti del tempo: il presente, l’avvenire e il passato. Le tre richieste che seguono vertono sulle tre parti del tempo più direttamente e in un altro ordine: presente, passato, avvenire.

«Dacci oggi il nostro pane soprannaturale».

Cristo è il nostro pane. Possiamo chiederlo soltanto per oggi, perché è sempre alla porta della nostra anima: vuole entrare, ma non viola il nostro consenso. Se consentiamo che entri, egli entra; appena non lo vogliamo più, egli se ne va. Noi non possiamo vincolare oggi la nostra volontà di domani, fare oggi con lui un patto affinché domani sia in noi anche contro il nostro volere. Il nostro consenso alla sua presenza è la stessa cosa della sua presenza. Il consenso è un atto: non può essere che attuale. Non ci è stata data una volontà che possa essere applicata all’avvenire. Tutto ciò che nella nostra volontà non è efficace, è immaginario. La parte efficace della volontà è efficace immediatamente; la sua efficacia non è distinta dalla volontà stessa. La parte efficace della volontà non è lo sforzo, che è teso verso l’avvenire. È il consenso, il sì del matrimonio, un sì pronunciato nell’istante presente, per l’istante presente, ma pronunciato come una parola eterna, poiché è il consenso all’unione di Cristo con la parte eterna della nostra anima.

Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che di continuo traggono dall’esterno la loro energia, poiché, via via che la ricevono, la esauriscono nei loro sforzi. Se la nostra energia non è quotidianamente rinnovata, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Al di fuori del nutrimento propriamente detto, tutto ciò che ci stimola è per noi fonte di energia. Il denaro, l’avanzamento, la considerazione, le decorazioni, la celebrità, il potere, le persone amate, tutto ciò che mette in noi la capacità di agire è come il pane. Quando una di queste affezioni penetra in noi tanto profondamente da arrivare alle radici vitali della nostra esistenza fisica, l’esserne privati può spezzarci e persino farci morire: è quel che si dice morire di dolore. È come morire di fame. Gli oggetti delle nostre affezioni costituiscono, con il nutrimento propriamente detto, il pane di quaggiù. Dipende interamente dalle circostanze di accordarcelo. Per quanto concerne le circostanze, dobbiamo chiedere soltanto che esse siano conformi alla volontà di Dio. Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù.

Esiste un’energia trascendente la cui sorgente è in cielo e che passa in noi non appena lo desideriamo. È veramente una energia e si traduce in azione tramite la nostra anima e il nostro corpo.

È questo l’alimento che dobbiamo chiedere. Nel momento in cui lo chiediamo, e per il fatto stesso che lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole darcelo. Non dobbiamo tollerare di restare un solo giorno senza di esso. Poiché quando i nostri atti vengono alimentati soltanto da energie terrene, sottoposte alle necessità di quaggiù, non possiamo fare e pensare che il male. «Dio vide che i misfatti dell’uomo si moltiplicavano sulla terra, e che il frutto dei pensieri del suo cuore era costantemente e unicamente cattivo». La necessità che ci costringe al male governa tutto in noi, salvo l’energia che ci viene dall’alto nel momento in cui entra in noi. Non possiamo farne provvista.

«E rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori».

Al momento di dire queste parole dobbiamo aver già rimesso tutti i nostri debiti. Non si tratta soltanto delle offese che pensiamo di aver subito. È anche la rinuncia alla riconoscenza per il bene che pensiamo di aver fatto, e in genere a tutto ciò che ci attendiamo dagli esseri e dalle cose, tutto ciò che crediamo ci sia dovuto, la cui mancanza ci darebbe la sensazione di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che noi crediamo che il passato ci dia sull’avvenire. Anzitutto, il diritto a una certa durata. Quando abbiamo potuto godere una certa cosa per lungo tempo, crediamo che essa ci appartenga e che la sorte sia tenuta a lasciarcela godere ancora. Poi, il diritto a un compenso per ogni sforzo, di qualsiasi natura esso sia, per ogni lavoro, ogni sofferenza o desiderio. Ogni volta che noi facciamo uno sforzo e che l’equivalente di questo sforzo non torna a noi sotto forma di un frutto visibile, abbiamo una sensazione di squilibrio, di vuoto, ci sentiamo come derubati. Quando subiamo un’offesa noi aspettiamo che l’offensore venga castigato o si scusi, se facciamo del bene ci attendiamo la riconoscenza della persona beneficata. Questi sono casi particolari di una legge universale della nostra anima: tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo di averne diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’universo intero. E noi crediamo di avere crediti verso tutte le cose; ma tutti questi presunti crediti sono sempre crediti immaginari del passato verso l’avvenire: è a questi che dobbiamo rinunciare.

Aver rimesso i debiti ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato; accettare che l’avvenire sia vergine e intatto, rigorosamente legato al passato da legami che ignoriamo ma del tutto libero dai legami che la nostra immaginazione crede di imporgli; accettare la possibilità che l’avvenire si attui e, in particolare, che ci accada qualsiasi cosa e che il domani faccia di tutta la nostra vita passata una cosa sterile e vana.

Rinunciando a tutti i frutti del passato, senza eccezione, possiamo chiedere a Dio che i nostri peccati passati non diano nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errore. Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire in noi questa orribile fruttificazione: non possiamo attaccarci al passato senza attaccarci ai nostri delitti, poiché non conosciamo quanto c’è in noi di essenzialmente cattivo.

Il credito principale che pensiamo di possedere verso l’universo è la continuazione della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri. L’istinto di conservazione ci fa sentire questa continuazione come una necessità, e noi crediamo che una necessità sia un diritto. Come il mendicante che diceva a Talleyrand: «Monsignore, devo pur vivere», e al quale Talleyrand rispondeva: «Non ne vedo la necessità». La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla, ma noi preferiremmo morire anziché riconoscerlo. L’equilibrio del mondo è per noi un susseguirsi di circostanze tali che la nostra personalità resta intatta e sembra appartenerci. Tutte le circostanze che in passato hanno ferito la nostra personalità ci sembrano squilibri che un giorno o l’altro devono essere compensati da fenomeni contrari. Noi viviamo nell’attesa di queste compensazioni. L’incombenza della morte ci appare orrenda soprattutto perché ci costringe a renderci conto che queste compensazioni non avranno mai luogo.

La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità, rinuncia a tutto ciò che chiamiamo «io», senza alcuna eccezione. Sapere che in tutto ciò che chiamiamo «io» non c’è nulla, non c’è alcun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far scomparire. Bisogna accettare che sia così ed esserne felici.

Le parole: «Sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano questa accettazione.

Per questo un istante dopo si può dire: «Abbiamo rimesso ai nostri debitori».

La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. Se accettiamo completamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi: infatti, chiedergli di rimettere i nostri peccati, significa chiedergli di cancellare il male che è in noi. Il perdono è la purificazione. Il male che è in noi, e che vi resta, neppure Dio ha il potere di perdonarlo. Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha messi nello stato di perfezione.

Fino ad allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi li rimettiamo ai nostri debitori.

«E non indurci in tentazione, ma liberaci dal male».

La sola prova, la sola tentazione per l’uomo è di essere abbandonato a se stesso, a contatto con il male. Egli allora verifica sperimentalmente il proprio nulla. Sebbene l’anima abbia ricevuto il pane soprannaturale nel momento in cui lo ha richiesto, la sua gioia è mista a timore, perché ha potuto chiederlo solo per il presente. L’avvenire resta temibile. L’anima, che non ha diritto di chiedere il pane per il domani, esprime il proprio timore sotto forma di supplica. E con queste parole conclude. Con la parola «Padre» ha inizio la preghiera, con la parola «male» si conclude. Bisogna passare dalla fiducia al timore: solo la fiducia dà forza sufficiente affinché il timore non causi una caduta. Dopo aver contemplato il nome.

È il regno e la volontà di Dio, dopo aver ricevuto il pane soprannaturale ed essere stata purificata dal male, l’anima è pronta per la vera umiltà, che corona tutte le virtù. L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima (non solo la parte che chiamiamo «io» nella sua totalità ma anche la parte soprannaturale dell’anima che è Dio presente in essa) è sottoposta alle vicissitudini del tempo. Bisogna accettare in modo assoluto la possibilità che tutto ciò che in sé è naturale venga distrutto. Ma bisogna accettare e respingere nello stesso tempo la possibilità che la parte soprannaturale dell’anima scompaia: accettarla come evento che potrebbe verificarsi solo se Dio lo vuole, respingerla come qualcosa di orribile. Bisogna averne paura, ma in modo che la paura sia come il compimento della fiducia.

Le sei richieste si corrispondono a due a due. Il pane trascendente è la stessa cosa del nome divino: è ciò che opera il contatto dell’uomo con Dio. Il regno di Dio è la stessa cosa della protezione che egli stende su di noi contro il male: proteggere è una funzione regale. La remissione dei debiti ai nostri debitori è la stessa cosa dell’accettazione totale della volontà di Dio. La differenza sta nel fatto che nelle prime tre richieste la nostra attenzione è rivolta verso Dio, mentre nelle ultime tre la riportiamo su di noi, per costringerci a fare di quelle tre richieste un atto reale e non immaginario.

Nella prima metà della preghiera si comincia con l’accettazione, poi ci si permette un desiderio, quindi lo si corregge, tornando all’accettazione. Nella seconda metà l’ordine è mutato: si conclude esprimendo un desiderio. Ma il desiderio è diventato negativo e si esprime sotto forma di timore; in tal modo esso corrisponde al più alto grado di umiltà, l’atteggiamento più adatto a una conclusione.

Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.

anche i rom possono insegnare qualcosa alla chiesa

Lettera aperta al papa. Quello che i rom possono insegnare alla Chiesa

lettera aperta al papa

quello che i rom possono insegnare alla Chiesa

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 02/04/2016

Caro papa Francesco, siamo un gruppetto di laici, religiosi e sacerdoti che si è formato attraverso l’amicizia con rom e sinti: una lunga amicizia fatta di frequentazioni e di vita vissuta dentro i campi.

A vario titolo siamo stati un’espressione dell’UNPReS (Ufficio Nazionale Pastorale Rom e Sinti) della Migrantes, fino a quando, per una riforma infelice, non solo si è demandato alle diocesi la responsabilità pastorale, il che è più che giusto, ma si è abolito l’Ufficio nazionale che sensibilizzava e richiamava l’attenzione su questo ambito e che aveva il compito di preparare specificamente gli operatori pastorali e far sorgere una pastorale specifica e coordinata a livello nazionale. 

Ci siamo interrogati varie volte sull’utilità di scrivere queste nostre impressioni. A distanza di qualche mese abbiamo deciso di farlo e di diffondere questo nostro scritto, nella speranza che possa essere compreso e accolto.

Quello che ci spinge a scriverti, con spirito fraterno, è il discorso che hai tenuto all’udienza con i rom e sinti, al quale eravamo presenti, in occasione dell’anniversario del pellegrinaggio a Pomezia di cinquant’anni fa. 

Sostanzialmente, nelle parole che hai rivolto ai sinti e rom non abbiamo ritrovato lo Spirito di quel cammino pluridecennale di una Chiesa (sia pur piccola e fragile) che vive a contatto con questo popolo. Una Chiesa che con uno sguardo di Fede, cerca e trova anche in questo popolo, il riflesso del Volto Misericordioso di Dio. Siamo convinti che la loro vita continua ad essere per noi un “luogo teologico”, nel quale veniamo anche noi “evangelizzati” da loro. È possibile «vivere il Vangelo con i piedi dentro queste periferie», che in genere sono i campi rom-sinti. Lo stupore nello scoprire che c’è anche un “magistero” che fiorisce dalle periferie, da chi vive al margine della società. Non a distanza, ma da dentro: condividendo, accompagnando e custodendo amicizie, percorsi anche difficili, ma vissuti insieme. La nostra “missione” non è tanto quella di organizzare progetti, nemmeno quella di volerli integrare nei nostri schemi o di porci come risolutori del “problema rom”, anche per il fatto che per noi questo popolo non è affatto un “problema”, come lo è per i più, ma un’opportunità umana e spirituale. Desideriamo semplicemente essere una “presenza ponte” capace di accogliere, di bene-dire, di comprendere punti di vista diversi dai nostri e di raccogliere con cura e attenzione la voce dello Spirito che sussurra, attraverso le vite dei sinti e rom, il Suo Magistero. 

Tra di noi c’è chi ha speso la sua vita all’interno dei campi rom, imparando a conoscere e ad amare i suoi abitanti per come sono, con i loro difetti e le loro ricchezze, e alcuni vivono ancora in questi “mondi di mondi”.

Condividere la loro vita ha significato per ognuno di noi dei cambiamenti, graduali ma arricchenti, non sempre facili o scontati. Siamo loro riconoscenti perché ci hanno permesso di entrare nelle loro vite, ci siamo lasciati accompagnare da loro e questa fiducia ci ha permesso di vedere e leggere la realtà con occhi diversi, fino a scoprire, quasi con stupore e meraviglia, che anche “il punto di vista” di chi vive nelle carovane, nelle baracche dei campi merita attenzione, rispetto e ascolto. 

Siamo testimoni di perle di Vangelo, nascoste nelle loro esistenze, che nonostante il disprezzo e il pregiudizio di cui sono spesso vittime brillano e illuminano dando senso anche alle nostre vite. Ma per notare questa loro ricchezza, è importante spogliarsi dei pregiudizi presenti e radicati nella maggioranza, e che purtroppo non mancano neanche in chi li avvicina a fin di bene. Un processo che può avvenire a condizione di saper perdere le nostre rigidità mentali, sociali e religiose. La condizione, almeno per noi è “stare dentro” questo mondo. Non può certo avvenire a distanza. A distanza le cose si vedono sfocate, notiamo solo quello che a noi disturba, difficile percepire le sfumature, si rischia di non comprendere in profondità la realtà, le sue dinamiche.

Scusaci se te lo diciamo con franchezza, ma il tuo discorso ai sinti e ai rom ci è sembrato un po’ distante, perché abbiamo sentito riproporre più o meno gli stessi schemi della maggioranza che osserva le cose a distanza e che spesso si limita fare discorsi moralistici: dovete cambiare, scuola, minori, legalità, integrazione… ma senza accompagnamento. In altre occasioni e contesti, invece, sei riuscito a immergerti, capire le situazioni e fare una lettura diversa, coraggiosa e per niente scontata. Ecco questa lettura “altra” ci è sembrata assente nel tuo intervento, eppure il cammino della Chiesa che vive in carovana, da Pomezia ad oggi, ci ha reso sensibili a questa lettura altra e alta.

I campi rom e sinti sono quelle “periferie” di cui ci parli e a cui solleciti la Chiesa a prestare attenzione e ascolto. È un’immagine che ci piace tanto, stimolante ed arricchente: per noi i campi rom sono un “luogo teologico” da contemplare innanzitutto, perché sovente «lo Spirito Santo precede l’arrivo e l’azione dei missionari» (Evangelii nuntiandi).

Sì certo, siamo ben consapevoli delle difficoltà, delle ferite che ci sono all’interno e che ci sono, in modi diversi, in ogni gruppo sociale; alcune sono ben visibili, altre più nascoste e spesso passano inosservate, inascoltate. Contempliamo e celebriamo la vita, fatta di resistenze, di attenzione, di lotta, di fatiche, di paure, di violenza, di prevaricazioni, di riconciliazioni, di gioie, di attaccamento alla vita, nonostante tutto, di sogni e di delusioni. Come tutte le periferie, sono spazi dove il bello e il brutto convivono insieme, si attraversano, si contagiano, ma per noi rimangono spazi di Vita, perché riconosciamo che anche nei loro campi, ci sono manifestazioni di vita buona. Quasi mai questo emerge, si fa risaltare invece solo ciò che è brutto, si sottolinea esclusivamente la devianza o il maltrattamento di pochissimi. Eppure, questa periferia, la vita dei rom, ha qualcosa da insegnare nella Chiesa e con essa alla società. Così è successo a noi.

Tempo fa hai usato l’immagine (bellissima!) del pastore con l’odore delle pecore. L’abbiamo sentita adatta alla nostra esperienza, calzante con la nostra vita a fianco dei rom e sinti. Il loro “odore” è anche un po’ il nostro e il nostro si è trasmesso un po’ a loro e questo disturba non pochi, sia dentro la Chiesa che nella società. 

Sono molti oggi ad avvicinarsi a  queste periferie con in mano “deodoranti” per coprire il loro odore e renderlo simile al nostro presunto profumo, più presentabile ai nostri nasi, sentendosi incaricati, inviati a decidere cosa devono fare, cosa devono cambiare, decretando anche i tempi e le modalità. Quasi sempre ciò avviene sulle loro teste, senza coinvolgimento e partecipazione dei diretti interessati. La nostra esperienza invece, proprio perché cerchiamo di contemplare la vita che pulsa nei campi, ci dice che sinti e rom sanno cosa è meglio per il loro futuro, quali strade intraprendere e cosa cambiare.

Molti si avvicinano, entrano anche nei campi, ma fanno fatica ad accompagnare e a sedersi a mani vuote nelle loro esistenze per comprenderle meglio. È triste questo: non trovare la strada per saper riconoscere i valori che l’altro ci può comunicare.

Un’ultima nota riguarda il silenzio di una triste realtà che coinvolge migliaia di rom in Italia e non solo, e che senz’altro toccava la maggioranza di quelli che erano presenti all’udienza: la questione degli sgomberi e il suo uso politico. Ci saremmo aspettati almeno un accenno di condanna per il fatto che, sull’altare della sicurezza e del consenso elettorale, vengono scartati interi nuclei familiari, buttati per strada e abbandonati a se stessi, privati dei loro diritti riconosciuti anche dalla Legge: tanto sono “zingari”!

Caro papa Francesco ti abbracciamo forte, sappi che la nostra fiducia in te non è per nulla scalfita, ma ci preme farti conoscere anche questo lungo e arricchente cammino pastorale che stiamo portando avanti, anche grazie ai sinti e rom che ci accolgono e sostengono con la loro fiduciosa amicizia.

Ti auguriamo ogni bene e mentre ti chiediamo la benedizione del Signore, sappi che preghiamo per te, insieme a tanti sinti e rom che ti ammirano e ti guardano con amicizia,

suor Carla e suor Rita Viberti (campo Rom Torino), p. Luciano Meli (Lucca), don Piero Gabella (Brescia), don Agostino Rota Martir (campo Rom Pisa), Marcello Palagi e Franca Felici (Carrara – Avenza)

*Immagine di Nestor Galina, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza

gli immigrati ripopolano e ringiovaniscono l’Italia

Italia senza figli

(se non fosse per gli immigrati)

Chierici

 

di Maurizio Chierici
in “il Fatto Quotidiano” del 23 febbraio 2016

Quasi una favola quando nasce un bambino. Ottant’anni fa, Mussolini ammoniva le donne senza figli: se le bare supereranno le culle prenderò provvedimenti dragoniani. Ottant’anni dopo, famiglie cambiate, bambini sempre meno. Meno della metà dei piccoli che aprivano gli occhi nei favolosi anni Sessanta quando i “profughi economici” (oggi maledetti dai pifferai della politica pop) non arrivavano a 63mila. Ormai sono sei milioni. Per fortuna. Senza le loro facce nere, gialle, marron saremmo in ginocchio.

Non solo perché aiutano le promesse di Renzi con 7 miliardi di tasse, ma soprattutto per aver addolcito le abitudini delle generazioni on line allergiche ai lavori fangosi: contadini che sudano, operai Cinq’ ghej, cinque soldi come i migranti lombardi nella Svizzera del dopoguerra. Muratori su e giù da impalcature traballanti, mani nelle immondizie, schiavi nella raccolta di arance e pomodori: 12 ore sotto l’occhio dei caporali pagando oro il piatto delle brodaglie e le baracche del sonno. Anni così che ogni giorno dimentichiamo.

foto premio migranti E dimentichiamo i turbanti dei sikh che alle tre del mattino mungono nelle stalle il Parmigiano Reggiano, Grana Padano e ogni formaggio della pianura del benessere perché bergamini lombardo-emiliani non se ne trovano più. Qualcuno va meglio nel nord delle fabbriche. Migliaia di artigiani e piccoli imprenditori si affacciano con l’ottimismo di chi vuol cambiare ma si allarga ogni anno la folla di chi scappa dalle guerre o dalla fame: piega la testa e tira la vita. Non tutti sono angeli: chi ruba, chi spaccia, chi beve e poi orrori di sangue che la nostra innocenza non può sopportare. Siamo perbene: mai femminicidi o esaltati che fanno a pezzi donne troppo sole. Mai clan oscuri, niente mafie, nessuna corruzione. Per carità, gli italiani non imbrogliano, quindi non sopportano la barbarie dei profughi selvaggi. “Nigeriano strangola la fidanzata; marocchino strappa la borsa alla vecchia signora”: gli appositi giornali informano così. Quarant’anni fa, Basaglia approvava ogni deformazione a patto che i titoloni annunciassero “sano di mente stermina la famiglia”. IN PIÙ GLI EXTRA fanno figli. Troppi. Si ammalano e pretendono due stanze per fare casa: “Paghiamo sempre noi”. Bisogna riconoscere che senza i bambini arcobaleno, le scuole dei paesi abbandonati nei mille chilometri dell’Appennino sarebbero scatole vuote, maestri disoccupati nel silenzio delle comunità fantasma. Perché le nostre ragazze non fanno figli o li cercano a 40 anni? Come mai i bambini non rientrano nei programmi degli gnomi che controllano mercati, finanza, segreti delle banche? Li considerano clienti da coccolare ma fino a una certa età. Intanto i giovani studiano o lavorano inseguendo la stabilità necessaria a mettere su famiglia. Disoccupate e disoccupati bussano a porte che non si aprono. E fanno i conti. Un bambino costa più di un peccato mortale: asili nido talmente cari da scoraggiare la voglia di tenerezze mentre dalla Francia ai paradisi del nord, lo Stato “rimborsa” per 3 anni madre e padre e allunga la protezione contante fino alla maggiore età. C’è da dire che la famiglia è cambiata: meno matrimoni (civili e religiosi) mentre si allunga l’anticamera delle convivenze nell’attesa di chissà quale domani. Meno male che i profughi da tante cose continuano a fare bambini neri, gialli, marron. Non è semplice mescolarli a scuola o nel lavoro ai piccoli bianchi dell’Italia che invecchia. Loro non sanno niente di noi; noi niente di loro. La politica guarda e tace: si arrangino da soli.

il commento al vangelo della domenica

GESU’ FU GUIDATO DALLO SPIRITO NEL DESERTO E TENTATO DAL DIAVOLO 

commento al vangelo della prima domenica di quaresima (14 febbraio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi
Lc  4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

La prima domenica di Quaresima la liturgia ci presenta le Tentazioni del Deserto, secondo l’interpretazione che ne dà Luca nel suo vangelo al capitolo 4.
Leggiamo. Gesù, pieno di Spirito Santo. E’ dopo il battesimo. Su Gesù dopo il battesimo è sceso lo Spirito che ha convertito Gesù nella manifestazione visibile del perdono e dell’amore di Dio.  Si allontanò dal Giordano ed era guidato (letteralmente “condotto”) dallo Spirito nel deserto. Il deserto richiama l’esodo di Israele, quando dalla schiavitù egiziana iniziò il cammino per entrare nella terra promessa. Ora la terra promessa si è trasformata in una terra di schiavitù dalla quale Gesù deve liberare.
L’istituzione religiosa, per i propri interessi, per la propria convenienza, si è impadronita di Dio e Gesù deve liberare il popolo dalle grinfie di questi.   Per quaranta giorni. I numeri nei vangeli, e nella Bibbia, non vanno mai interpretati in maniera aritmetica, matematica, ma sempre figurata. Il numero quaranta indica una generazione. L’evangelista vuole dirci: quello che adesso ti sto presentando non riguarda un singolo periodo della vita di Gesù, ma tutta la sua esistenza.
Tentato dal diavolo. Ecco è giusto tradurre così. Ma per noi “tentazione” significa sempre qualcosa che induce a compiere il male. Nulla di tutto questo. Il diavolo, – lo vedremo – non si presenta come un rivale di Gesù, ma come un suo collaboratore. Allora più che tentazioni potremmo parlare di seduzioni del diavolo nel deserto.
Non mangiò nulla in quei giorni. Non è un digiuno. L’evangelista evita la parola digiuno, perché la fame di Gesù era una fame diversa. Più avanti Gesù dirà: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”.
Ma quando furono terminati, ebbe fame. Ma appunto non è una fame di pane. Ecco che ora si presenta il diavolo. Chi è il diavolo? Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il diavolo è potere che domina le persone.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio”. Non è un mettere in dubbio la figliolanza divina, che era stata già affermata nel battesimo, ma significa “giacché sei il figlio di Dio usa le tue capacità a tuo proprio vantaggio”. “Di’ a questa pietra che diventi pane». Quindi usare a proprio vantaggio le proprie capacità.
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». E’ una citazione del libro del Deuteronomio. Vediamo che la disputa tra Gesù e il diavolo sembra proprio una disputa teologica tra degli scribi o dei rabbini. L’evangelista infatti la costruisce in questa maniera.
Il diavolo lo condusse in alto – in alto indica la condizione divina –  gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.” E’ tremenda questa affermazione che Luca attribuisce al diavolo. Non è Dio, ma il diavolo colui che conferisce potere e ricchezza. Quindi quelli che detengono potere e ricchezza non la ricevono da Dio, ma la loro è un’attività diabolica perché la ricevono dal diavolo.
E’ una denuncia  molto seria, ed è tipico dell’evangelista Luca.
“Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Quindi lui invita ad un gesto di idolatria, ma Gesù anche questa volta, citando sempre il Deuteronomio, gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». E’ l’incompatibilità tra Dio e il potere, tra l’amore e il servizio. Quindi Gesù rifiuta categoricamente la proposta del diavolo, questa idolatria del potere.
Lo condusse a Gerusalemme, quindi il diavolo sembra pratico dei luoghi santi e della Bibbia. Lo pose sul punto più alto del tempio … perché lo pose lì? Perché c’era la tradizione religiosa che diceva che il messia nessuno sapeva chi era. All’improvviso, durante la festa delle capanne, si sarebbe manifestato sul punto più alto del tempio. Allora il diavolo lo invita a manifestarsi aggiungendo un segno spettacolare.
E gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio…” Notiamo che nella prima e nella terza seduzione, tentazione, il diavolo dice “giacché sei il Figlio di Dio”, per quella di mezzo, quella del potere e del denaro, non ha avuto bisogno di scomodare la condizione divina, perché è una tentazione alla quale soccombono tutti gli uomini, quella della corruzione e quella del potere, del denaro. Ma qui di nuovo “se tu sei il Figlio di Dio”, cioè “Giacché sei il Figlio di Dio”.
“Gèttati giù di qui”, cioè fai un segno spettacolare. E il diavolo sembra abbastanza esperto di sacra scrittura, perché, come Gesù gli ha controbattuto citando frasi del libro del Deuteronomio, ecco che il diavolo controbatte a Gesù citando il salmo 91. “Sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; vediamo come il diavolo è esperto, quindi l’evangelista qui ci fa comprendere che sono le dispute che Gesù ha avuto con i rabbini, gli scribi, che sono i veri strumenti del diavolo. “E anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo dal libro del Deuteronomio. Gesù asserisce la piena fiducia nell’azione del Padre senza bisogno di provocarlo per farne scaturire l’azione.
Dopo aver esaurito ogni tentazione… il verbo “tentare” comparirà poi di nuovo per l’azione dei dottori della legge. Ecco chi sono i diavoli, questi difensori della dottrina in realtà l’evangelista li denuncia come strumenti del diavolo.
 Il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. Quale può essere questo momento fissato? Dai dati che abbiamo il momento fissato è il momento della croce, momento tremendo, drammatico, della fine di Gesù, quando saranno i capi del popolo che diranno a Gesù “Se è il Cristo si salvi”, quindi che usi le sue capacità per salvarsi.
Ma Gesù tutto quello che era, tutte le sue forze, tutte le sue energie, tutte le sue capacità non le ha mai usate per il proprio interesse, ma sempre per l’interesse degli altri. Non per la propria convenienza, ma per la convenienza degli uomini; non ha pensato alla sua vita, ma alla vita degli altri. Ecco allora la differenza che emerge tra Dio e il diavolo: Dio è amore che si mette a servizio e mette l’interesse dell’altro al primo posto, il diavolo è potere che domina e pensa soltanto alla propria convenienza.

 

 

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