a proposito del funerale del rom Casamonica: i ‘fatti’ e la loro ‘contestualizzazione’

un funerale rom  e il teatrino della politica

riflessioni di Marcello Palagi che a livello di studio e di frequentazione, avendo da sempre, senz’altro da tanti decenni, fatto un percorso di condivisione e di amicizia con famiglie appartenenti al popolo rom e sinto, bene conosce il mondo e la cultura di questo popolo:

Marcello

I fatti sono fatti
Non c’è nessuna dichiarazione meno utile di questa, per cercare di capire la vicenda del funerale di Vittorio Casamonica. I fatti, da sè, non parlano;  vanno contestualizzati, analizzati e interpretati. Anche perchè poi, di fatti, in questa storia, ne sono stati appurati meno di quanto si creda.

Ad esempio, si è detto che a partecipare a questi funerali oceanici c’era tutta la Roma “mafiosa” e invece, c’erano quasi solo dei rom abruzzesi (non sinti, come si trova scritto – e tutti hanno ripetuto pedissequamente, senza andare a cercare riscontri -, in Wikipedia). E non mi  sembra, almeno stando alle immagini trasmesse dai mass media, che la partecipazione al funerale sia stata così di massa come si vuol far credere: alcune centinaia di persone. Anche una persona di una certa notorietà, da noi, vedrebbe la sua bara seguita da un numero di parenti, amici e conoscenti, egualmente se non più numerosi. Ma l’affermazione iniziale è servita e serve ancora per dire che il funerale è stato una prova di forza  “che le associazioni mafiose” hanno esibito, e “per affermare il mito della loro impunità,  per affermare la supremazia  della mafia sullo Stato”. Se queste sono le prove di forza… ! Anche se è stato Caselli che ha detto questo, al seguito, però, di molti altri,  si tratta di un’affermazione sbagliata e frutto di pregiudizi: “I Casamonica sono mafiosi e quindi ostentando tanto lusso, perché vogliono mandare segnali mafiosi di potenza agli altri clan della capitale e allo stato”.

bara Casamonica

I Casamonica non sono appartenenti alla mafia ed è sbagliato estendere il concetto di mafia a realtà, altrettanto malavitose, ma che hanno strutture e organizzazioni, modi di funzionare, assolutamente diverse e che si muovono secondo mentalità e culture diverse. Dirò poi quali fraintendimenti ha determinato, nella lettura dei fatti, l’uso della parola mafia. I fatti sono pochi e se si esclude il volo dell’elicottero, non sembrano  contro legge. Il feretro di un personaggio noto come appartenente a una famiglia considerata malavitosa e ricca, appartenente ai rom abruzzesi, arriva in chiesa, per le cerimonie funebri, su una lugubre e nera carrozza trainata da sei cavalli (la stessa servita per i funerali di Totò) ed è seguita da un lungo corteo di automobili lussuose che, sembra abbia determinato un ingorgo nel traffico e richiesto l’intervento dei vigili urbani. Mentre in chiesa si svolgono la messa e i riti dei defunti, fuori, nella piazza, un buon numero di rom attende più o meno “compostamente” l’uscita della cassa. Improvvisamente appare nel cielo un velivolo che sgancia sulla piazza petali di rosa. Che cosa ci sia in questi “fatti” di illegale, salvo, forse, l’elicottero, non è dato sapere. Se i fatti sono questi e se, dal punto di vista del diritto e della legge italiana, Vittorio Casamonica non era mai stato condannato, anche se più volte denunciato e inquisito, ci si deve domandare non solo perchè non avrebbe dovuto avere questo funerale, ma come, le autorità competenti civili e religiose avrebbero potuto vietarlo.

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E’ un mafioso notorio anche se non ha subito condanne

Perchè, si risponde, tutti sanno che era un mafioso e apparteneva a una famiglia mafiosa. E per dimostrarlo si riportano rapporti di polizia che indubbiamente danno da pensare, ma che non sono sentenze e, soprattutto, non comportano incriminazioni per Vittorio Casamonica. L’argomentazione è perciò preoccupante, perchè eleva il “sentire comune”, come diceva a suo tempo il vecchio Bossi, a verità indiscutibile e giudiziaria: siccome appartiene a una famiglia “mafiosa”, è “mafioso” e quindi si deve proibire che abbia funerali sfarzosi e appariscenti. E chi l’ha detto? Perchè in Calabria, a Napoli ecc. si è stabilito che i funerali dei mafiosi e camorristi si devono svolgere in forma privata e alle sei di mattina. Ma a parte i dubbi di legittimità che certi regolamenti suscitano, e il fatto che tale regolamento fino ad oggi non esiste per Roma, si deve intendere che la regola valga, una volta adottata, per tutti gli appartenenti alla famiglia Casamonica, anche a quelli che non hanno subito condanne? Non è ipotizzabile che tra i Casamonica ci siano anche persone oneste e non malavitose?  Se si pensa che non sia ipotizzabile, il razzismo non è lontano.

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Lo sanno tutti

Molte cose erano note a tutti, ma non hanno impedito che per un ventennio Berlusconi abbia dominato la scena politica italiana o che sia stato assolto Scajola per essersi trovato a sua insaputa, proprietario di una casa miliardaria, o Andreotti che con i mafiosi si baciava pure. Per non dire del ministro Poletti che con qualche Casamonica ci  andava a cena, senza suscitare scandalo. Era noto a tutti che i partiti riscuotevano laute tangenti che permettevano loro, se non altro, di tenere aperte sedi, pagare funzionari e finanziare le loro campagne elettorali. Eppure tanti che ora si scandalizzano per la notorietà “mafiosa” di Vittorio Casamonica, al massimo e fino a prova contraria reo di ricettazione o incauto acquisto, non hanno rinunciato a sostenerli e a farsi sostenere nella campagne elettorali con quei soldi di provenienza malavitosa (non era ricettazione anche questa?), e a partecipare a governi e amministrazioni locali corrotti dai denari della mafia vera. Eppure tutti sapevano, (Io so – gridava il povero Pasolini, prendendosela con i politici e non con i marginalissimi rom – ma non ne ho le prove); non era possibile che non fossero informati, anche molto prima che Craxi lo confessasse e rendesse certo, per sè e per tutti gli altri partiti e politici.

Mafia-capitale solo a Roma?

Anche il sacco delle risorse pubbliche europee, nazionali e locali per i progetti sui rom, la “Ziganopoli” come venne definita a suo tempo e giustamente da un rom abruzzese, Santino Spinelli, onesto, e imparentato con i Casamonica,  era noto a tutti e non avveniva solo a Roma, ma dovunque, anche in questo territorio. Possibile che chi ha usufruito di quei finanziamenti locali oggi si scandalizzi di Vittorio Casamonica e si ponga in prima linea per denunciare il suo funerale come scandaloso e mafioso?  Lo dico perché non si è trattato di pochi spiccioli, ma di decine e decine di milioni di vecchie lire, solo in questa provincia. Ci sono i documenti ufficiali a testimoniarlo e storie di volontariato “a pagamento” niente affatto edificanti, anche se, come per i Casamonica e i rom, non è legittimo fare di ogni erba un fascio: il volontariato normalmente, anche da noi, ha operato  in modo del tutto disinteressato e gratuito  – ma non per i rom – e non sarebbe giusto discreditarlo per le incapacità e le velleità di alcuni o per le mele marce che ci sono state.
Il funerale

Credo che non se ne possa comprendere il senso se non si conosce il ruolo centrale della morte e del culto dei morti, per l’identità-sopravvivenza culturale dei rom. Se si capisce questo, si comprende anche perchè il funerale di Casamonica non abbia niente a che vedere con messaggi mafiosi, avvertimenti criminali e sfide allo stato. Va tenuto presente che le considerazioni che seguono, sinteticissime e non esaurienti sul rapporto che i rom in generale, e con modalità anche differenti da gruppo a gruppo e da famiglia a famiglia, hanno con la morte e il ricordo dei morti riguardano (se li riguardano)  solo i gruppi rom che ho conosciuto, tra cui gli abruzzesi, ma non pretendo che valgano anche per altri che non ho mai avuto la ventura di incontrare e conoscere.  Tanto più che oggi i rom sono gruppi in fase di grossi cambiamenti e specie le nuove generazioni non sempre seguono le tradizioni, anche se  le mentalità dominanti, che sono quelle che assicurano la  loro continuità e l’identità, sopravvivono forti, anche tra i giovani. Il momento della morte e del funerale di qualsiasi rom, ricco o povero,  autorevole o no, è cruciale, per il doveroso mantenimento e la fissazione della memoria del defunto, perchè dopo non si potrà più parlare liberamente di lui; diventerà sostanzialmente tabù, anche se oggi le attenuazioni  e le trasgressioni del tabù sono sempre più diffuse, perchè la società rom non ne ha probabilmente più bisogno.  Ma nei “riti”, mi sembra, conservi tutta la sua forza. La morte e il funerale definiscono la memoria del defunto per l’ultima volta e in forme definitive. Per questo, devono essere celebrati nel modo più alto e appariscente possibile, con il massimo dispendio di soldi e inventività consentiti alla famiglia. Deve imprimersi il ricordo del defunto in modo indelebile, presso tutti i rom che lo hanno conosciuto. Lo sfarzo  e l’ostentazione hanno   questa funzione e prescindono dalle qualità morali o dalla fedina penale del defunto. Al morto in sé,  vanno resi obbligatoriamente grandi onori, se si vuole evitare che ne derivino mali per chi resta, per aver  mancato di rispetto nei suoi confronti. Del resto, anche tra noi, si onorano parenti o uomini importanti, anche se in vita non hanno avuto comportamenti onesti; dei morti non si deve parlar male  e nei loro confronti si utilizzano circonlocuzioni eufemistiche.

Poveri e ricchi

Se il defunto rom appartiene a una famiglia povera e poco autorevole le esequie saranno meno appariscenti di quelle di una famiglia ricca e potente, ma tutti, dovranno fare il possibile per rendere l’estremo saluto il più vistoso e lussuoso  possibile, secondo ovviamente i canoni estetici e del gusto dei rom che non sono necessariamente coincidenti con quelli nostri. Certo più un funerale è lussuoso e ricco, più dimostra il valore del morto e quello della famiglia, ma ciò è indipendente dal fatto che il morto appartenga o meno a qualche gruppo malavitoso e soprattutto dall’intenzione di inviare sfide e avvertimenti mafiosi. Sarebbero un’intrusione di interessi e finalità estranee al momento.

Funerale per i rom, non per i gagé

Il funerale è solo per il defunto e per i rom, non per i gagé. Che invece vi hanno letto, pregiudizialmente, intenzionalità che non c’erano  e si sono, per questo, scandalizzati e non vogliono credere che si possa avere una visione diversa della morte e del lutto, lontana da quella nostra corrente,  piagnona e lugubre. Tutto quel lusso e quell’ostentazione che definiamo, con supponenza da civilizzatori, kitsch,  non dovevano trasmettere un bel niente ai gagé, ma parlavano solo per i rom, dicevano la continuità della vita del morto in chi gli era legato affettivamente. Il lutto rom  è bere, fumare, mangiare per il morto, ascoltare la musica che amava, ma anche, al contrario, non radersi per un certo periodo di tempo, non mangiare più determinati cibi, magari per tutta la vita, non ascoltare più quella determinata canzone, ecc. per continuare a ricordarsi del morto. La morte e la vita sono troppo importanti per i rom, per mescolarli con segnali di potenza contro lo stato. Il fatto insomma che Vittorio Casamonica appartenesse o meno a un clan malavitoso non ha a che fare con queste esequie che sarebbero state egualmente “hollywoodiane”, anche se lui non avesse avuto questa fama negativa.

Solo i rom hanno accompagnato il feretro

I gagé presenti, se ce ne sono stati, devono essere stati pochi, perché in queste cerimonie non sono né ricercati né significativi per i rom. Si deve capire che con il funerale si entra in un territorio pericoloso, quello dei morti rom, un territorio da cui i gagé sono esclusi totalmente. I gagé morti non fanno paura, i rom morti sì e vanno trattati con cautela, e sono i rom vivi che devono farci i conti e regolare i loro rapporti col defunto. I gagé sono esclusi da questi rapporti. Vengano pure al funerale, se vogliono, ma non sono richiesti, non contano, non hanno alcun ruolo. Invece tutti i rom che hanno avuto rapporti col defunto, di parentela, di amicizia, di affari, devono necessariamente partecipare al funerale. Non bastano, come tra noi, una telefonata o un telegramma di condoglianze. Occorre essere presenti, se non si vuole mancare di rispetto verso chi è scomparso. E’ la conseguenza di quella concezione del rapporto vivi-morti a cui ho accennato prima. Anche chi è all’estero o vive lontano, se non ha impedimenti gravissimi, deve partecipare, nei modi più consoni alla circostanza e alle proprie possibilità. E se il defunto è un uomo ricco o autorevole, si cerca di partecipare ai funerali, in modo da non sfigurare. Succede anche tra noi, se veniamo invitati a una cena in casa di qualcuno che ha un livello sociale superiore al nostro, cerchiamo, se non altro di vestirci in modo consono, con abiti che normalmente non acquisteremmo né indosseremmo, ma che nella circostanza, ci sembrano dovuti. Il corteo di macchine di lusso, va letto in questi termini e sicuramente la maggior parte sarà stata anche presa a noleggio. Insomma, chi, rom, ha partecipato alle esequie di Vittorio Casamonica ci è andato in quanto rom e non perché appartenesse o meno a un gruppo malavitoso o, tanto meno, mafioso e si è mosso, ha agito, si è comportato in funzione del defunto, non per dimostrare che la mafia domina sullo Stato ed è impunita. E’ anche
poco credibile che si volessero  lanciare attraverso il funerale sfarzoso messaggi e minacce. Ci sono altri mezzi per lanciarli e altri tempi. Un clan malavitoso, di norma, non si esibisce mai così scopertamente e esageratamente, mettendoci in diretta le facce degli aderenti. E non si tirino fuori le processioni di Napoli e gli inchini davanti alle case dei capi agli arresti domiciliari, perchè sono altra cosa di cui si potrà discutere, eventualmente, in altra sede. I rom nelle loro manifestazioni pubbliche sono sempre eccessivi per i nostri metri di giudizio e possono, perciò, non piacerci, ma hanno tutto il diritto di celebrare funerali, matrimoni e nascite, matrimoni e compleanni  come meglio credono e noi non abbiamo nessun diritto di impedirglielo anche quando riguardino persone che dal punto di vista delle leggi, consideriamo disoneste.

Razzismo e ipocrisia politica

Mi sembra  razzista il fatto che al cognome Casamonica si associ in assoluto la qualifica di mafiosità. Ripeto la domanda già fatta: tutti i partecipanti al funerale erano malavitosi? Ci saranno i Casamonica disonesti, ma tra le centinaia di rom che hanno partecipato al funerale non si deve presumere che ce ne siano stati anche molti onesti? A meno, appunto, di non essere razzisti…  Ma, in questo caso, la pregiudiziale razzista l’ha fatta da padrone. Dalla convinzione che trattandosi di rom, il funerale serviva ad altri scopi, ovviamente criminali,  che non quelli di onorare il morto, al “sono tutti mafiosi”, al disprezzo supponente per la loro cultura e i loro modi di celebrare con ostentazione le esequie, ai sarcasmi sulla musica del Padrino, come se i rom dovessero ascoltare solo musica folkloristica e dai manouches non fosse uscito Django Reinardt e dai kalé  il flamenco o non abbiano ispirato la musica di Listz. I rom ascoltano musica di ogni genere, come noi, a seconda dei loro gusti personali. Il fatto che al funerale di Casamonica sia stato suonata la musica del Padrino, autorizza solo a pensare che gli piacesse questa colonna sonora. Durante il funerale e dopo, nei “”riti” rom, si fanno normalmente cose che piacevano al morto: se gli piaceva bere, si beve, se gli piaceva fumare, si fuma, se gli piaceva una determinata canzone la si canta e suona e se gli piaceva scherzare, si scherza. Tra Salvini che criminalizza tutti i rom e gli aulici e sarcastici commentatori preoccupati per i presunti messaggi mafiosi di un funerale rom, non c’è molta differenza, ma solo molta più ipocrisia, perchè le loro preoccupazioni non sono tanto le infiltrazioni mafiose, ma la contingenza politica dell’amministrazione di Roma.

Scandalismo sospetto

Mi sembra quindi che la veemenza e l’insofferenza intollerante con cui è stata affrontata la questione, a livello di comunicazione e mass media, debbano suscitare molti sospetti. Tutto sommato si trattava di una questione di poco conto, un funerale eccessivo (dove di leggi non ne sono state violate, se non per l’elicottero che avrebbe deviato dalla sua rotta e per questo è bene che paghi, assieme a tutti i responsabili istituzionali che non avevano previsto un’eventualità di questo genere)  che invece è assurto a simbolo della mafiosità e  della corruzione italiana, intasando giornali, televisioni e internet per giorni e giorni e su cui tutti sproloquiano come se i Casamonica fossero noti vicini di casa.  Si è chiesto il parere di tutti, cani e porci, ma a nessuno è venuto in mente di  chiedere il parere di qualche rom abruzzese, esperto di cultura rom e capace di spiegare come vadano interpretate le cose.  Eppure gli abruzzesi sono il gruppo di rom italiani che ha il maggior numero di intellettuali. Solo alle due di notte e dopo qualche giorno, ho sentito, in  tv, un passaggio di un’intervista a Santino Spinelli, intellettuale rom abruzzese (nato però a Pietrasanta), che chiariva che si era trattato di un funerale rom.

Unanimità nelle banalità perbeniste

Chi cerca di comprendere un avvenimento come questo, fuori dai luoghi comuni e non accetta supinamente quello che  gli ammanniscono i mass media, diventa uno che ha il contro in testa. Ci si può anche ridere sopra, ma tanto unanime accanimento, nelle banalità e nel ripetuto, è  sintomo  sconfortante di conformismo, di mancanza di senso critico e di disinteresse per quanto non rientra nei propri schemi abituali. E’ che di mezzo ci sono dei rom e quando si parla di rom prima scattano i pregiudizi e poi arrivano le giustificazioni dell’avversione per quello che sono e fanno o non fanno, (Lo sanno tutti che  i Casamonica sono mafiosi! Che lanciano avvertimenti e minacce alla stato. Che spacciano droga…

  Lo sanno tutti!

Lo sanno tutti che gli zingari sono tutti delinquenti, brutti, sporchi e cattivi, ladri, rapinatori di bambini e altro ancora. ecc.). I rom sono, da sempre, ottimi capri espiatori che riescono, loro malgrado, a far deviare l’attenzione dai veri problemi di un paese o di una città. Sono tanti, anche in questa provincia quelli che sull’avversione contro i rom e i loro campi, poca roba, si sono construiti un proprio esteso elettorato. La Lega con i rom ha cominciato, molti anni fa la propria storia di fortunata imprenditoria politica del razzismo. Insomma, non raccontiamoci balle, questo funerale è un pretesto per fare conti politici che non hanno a che fare né con i rom, né  con la malavita organizzata. Noto anche che non ho mai visto un eguale accanimento e sdegno  per la partecipazione di massa di politici, amministratori, uomini di cultura, imprenditori, finanzieri, ammiragli, generali ecc.,  ai funerali di uomini di potere che “lo sanno tutti che sono delinquenti, percettori di tangenti, corruttori, clientelari, ecc.” e che, stando ai criteri vietatori suggeriti, a seguito di questa vicenda di rom, dai benpensanti,  dovrebbero avere funerali senza nessun seguito, interdetti anche ai parenti di primo grado, a notte fonda e con l’inumazione delle loro spoglie sul ciglio di qualche strada fuori mano. E non vedo nessuna reazione  sdegnata  da parte di quanti si strappano i capelli alla vista del funerale rom, neanche per le manifestazioni che avvengono, in questi giorni (e da decenni) e con ben altre presenze di pubblico, a Predappio in onore del defunto Mussolini. Non hanno nulla da invidiare al funerale di Casamonica quanto a kitsch, ma costituiscono apologia di fascismo, violano apertamente le leggi esistenti e sono una sfida effettiva contro lo Stato, anche se, come è stato notato, nessuna delle anime così sensibili contro l’esuberanza ee gli eccessi dei rom, ha mosso paglia o chiesto le dimissioni del sindaco renziano di Predappio o del ministro degli interni. E non è di pessimo gusto anche il faraonico mausoleo che Berlusconi ha costruito a se stesso, anche se  opera di Cascella?     Se si vuole fare qualcosa contro il malcostume, la corruzione e le organizzazioni criminali che affliggono il nostro paese, mi sembra un grande spreco di energie, molta leghista per di più, questa indignazione così facile per un funerale dei sempre marginali rom, anche se per noi esagerato e lontano dalle nostre sensibilità. Gli imprenditori politici e le centrali operative della malavita stanno da altre parti, spesso proprio in quelle istituzioni governative e amministrative e in quei partiti, di cui tanti, che oggi si scandalizzano per questa vicenda, sono stati parte attiva per anni e anni, ricavandone lauti vantaggi economici, di carriera e altro e sapendo tutti bene come stavano le cose, mentre non sanno niente dei rom. 
Mafiosi 

La definizione di “mafiosi” attribuita ai Casamonica, in blocco, ha, di fatto,  generato molti equivoci e ha permesso di assimilare  Vittorio Casamonica a personaggi come i capi clan siciliani o camorristi, che inviano pizzini e vivono ricercati in catacombe sperdute e nascoste, in mezzo a immagini sacre e bibbie.  Di qui l’idea che Vittorio Casamonica, prima di morire si sia confessato e abbia ricevuto l’estrema unzione dal parroco della chiesa di don Bosco. E quindi la conclusione, che il parroco non potesse non sapere. Ma Casamonica non è Provenzano, i rom non appartengono alla mafia anche quando siano gravemente malavitosi, e i loro rapporti con la religione e la chiesa non sono quelli che si attribuiscono alla mafia. Non ne ho le prove  –  solo qualche riscontro, perchè  in queste cose sono sempre possibili ampi margini di scelte individuali e familiari -,  ma credo che Casamonica non sia mai stato un gran frequentatore di chiese e preti, di messe e liturgie, di confessioni e comunioni, o abbia mai avuto a che fare con libri e bibbie. I rom, in genere, non frequentano molto chiese e cerimonie religiose, salvo per due momenti fondamentali della vita, la nascita, perché viene richiesto il battesimo, per far uscire il neonato da uno stato di animalità, e la morte perché il funerale, per vari motivi, deve avere  un momento di presenza di gagé, amministratori del sacro. Gli altri aspetti e momenti della vita religiosa non li riguardano che marginalmente o per niente, anche se, tra gruppo e gruppo ci sono differenze notevoli. Con le dovute distinzioni, neanche i rom mussulmani, frequentano moschee, pregano e seguono le prescrizioni dell’Islam. Il sacro, che per i rom è uno solo  cristiano e musulmano non fa differenza, appartiene ai gagé e si fa ricorso a preti e  imam, quasi esclusivamente in questi due momenti essenziali. Ci sono anche altri motivi, meno cruciali per farci ricorso; la malatia, la carcerazione, le liti, la richiesta di grazie e miracoli, ecc., implicano altre forme di intervento del sacro gagiò, ma non necessariamente  di preti e imam; non è però il caso di parlarne qui. Se Vittorio Casamonica si fosse confessato in punto di morte, avesse avuto l’estrema unzione, o avesse comunque avuto rapporti religiosi significativi e continui con un sacerdote della “sua” parrocchia, non si spiegherebbe l’assenza di questi alla messa funebre.  La celebrazione del funerale di Vittorio Casamonica, in una chiesa diversa e fuori dalla parrocchia di appartenenza, perchè troppo piccola per accogliere i partecipanti previsti, può essere ragionevole, ma se il parroco della sua parrocchia non ha partecipato ai funerali, vuol dire che i Casamonica non avevano molti rapporti con lui, non erano parrocchiani praticanti.

Il parroco del funerale

Del parroco della Chiesa di Don Bosco, teatro del funerale, non sono molte le notizie date dai mass media, ma è da escludere che abbia assistito religiosamente Vittorio Casamonica, nel suo trapasso o nel suo lungo periodo di malatia. I Casamonica gli hanno chiesto la messa funebre e i riti finali per un loro congiunto, perchè avevano bisogno di una chiesa più grande di quella della “loro” parrocchia  e lui ha accettato, come è suo dovere pastorale. Quando morì un giovane sinto di cui si svolse il funerale ad Avenza, il mio paese, fui io col padre del giovane ad andare dal parroco a chiedergli il rito funebre in chiesa. Lui si dichiarò disponibile pur non conoscendo né il morto né la sua famiglia, anche se appartenevano nominalmente alla sua parrocchia  e non ci chiese informazioni sui trascorsi del defunto e neanche se fosse “zingaro”, anche se probabilmente lo capì. Gli venivano chieste  preghiere e liturgie, che per la chiesa, sono valide sempre e per chiunque, santo o peccatore che sia e non poteva certo sapere che quel funerale sarebbe stato molto diverso e che sarebbe finito sulla stampa e rimasto, positivamente, nella memoria di tanti. Eppure, fatte le debite differenze quantitative, fu un funerale esorbitante anche quello, tutto di rom, con musiche non rom e non sacre e tanto di spargimento di fiori, un vero tappeto di fiori, lungo tutto il percorso dalla chiesa al cimitero. Penso che il parroco che ha celebrato i funerali di Casamonica si sia egualmente messo a disposizione senza fare domande che non gli competevano. Gli si chiedeva un funerale cattolico e, visto che nulla risultava ostare, lo ha celebrato. Per tutti i funerali di sinti e rom cattolici, ma anche per i mussulmani a cui ho assistito, ho sempre riscontrato che alla chiesa o all’imam è stato chiesto solo questo: le preghiere  e i riti specifici dei defunti, messa e benedizione o recitazione del Corano, in presenza della bara. Non ho mai visto il parroco o l’imam chiedere informazioni sul defunto anche se  non conoscevano  affatto i richiedenti o il defunto. E’ la situazione abituale, perché i rom non frequentano i luoghi sacri e gli uomini del sacro. Può anche essere che il parroco  della chiesa di don Bosco, sentendo il nome di Casamonica, abbia pensato alla famiglia, ma non era certo suo compito indagare se questo funerale potesse  rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico e non credo neanche che ci abbia pensato. Probabilmente non aveva mai avuto a che fare con i rom e con i loro funerali, come la maggior parte dei preti, degli imam e della gente. Avrà pensato alla solita messa dei morti e alla benedizione della bara. E credo che in chiesa sia avvenuto solo questo, perchè ai rom non interessa quello che avviene in chiesa, se non perchè lo giudicano un rito essenziale per i loro rapporti col morto, ma è un rito che funziona senza la loro partecipazione attiva e perfino senza la loro presenza. Ho assistito a funerali di rom mussulmani dove un imam marocchino, recitava il Corano in arabo senza nessuna spiegazione e senza che nessuno dei pochissimi presenti capisse una sola parola o un solo gesto. Il vero funerale rom, molto più affollato, si sarebbe svolto al campo, in più tempi successivi, con il “rito” rom della “pomana” e il rogo dei beni del defunto (cosa che certo non è avvenuta per quelli di Casamonica). Per questo,  a questa parte del funerale, quella che si svolge in chiesa, partecipano pochi rom, per lo più donne con bambini. La maggior parte degli uomini resta fuori, in attesa che esca la bara e cominci il vero funerale, quello gestito dai rom.  Di fatto i rom vivono qualsiasi cerimonia religiosa in chiesa, anche quando siano in pochissimi, a modo loro. Sanno di non essere in un territorio proprio, il sacro, si è detto,  appartiene ai “gagé” , ma se ne riappropriano, portandoci dentro la loro cultura altra, per noi dissacratoria o maleducati, e i loro modi e tempi di vita quotidiana: in chiesa ai bambini si lascia fare tutto quello che vogliono, vengono alimentati, sgridati ad alta voce, rincorsi se si allontanano, allattati se necessario, ma anche gli adulti si dissetano durante il rito, masticano chewingum, parlano tra di loro, scherzano e, per fumare, si alzano dal banco ed escono dalla chiesa, facendo avanti e indietro tra dentro e fuori. Sono il segno che il loro rapporto col morto è ancora attivo, normale e che si chiuderà in modo però sempre incompleto, con le cerimonie religiose “ufficiali” e dopo con il lungo periodo delle  pomane. Il sacro, la cerimonia religiosa deve esserci, perchè così si è sempre fatto, è quindi qualcosa di utile, ma è qualcosa che deve fare il prete.  Quello che avviene fuori della chiesa è invece totalmente rom, è lì e nel corteo  che avviene la loro vera cerimonia funebre e lì, la chiesa o l’imam  non ha voce in capitolo. Penso proprio che il parroco, non avesse idea che il vero funerale si sarebbe svolto  dopo la messa e l’uscita di chiesa, con la musica, l’elicottero che spargeva petali di rose, gli striscioni che proclamavano Casamonica re e papa di Roma, le acclamazioni dei presenti, le roll royce e tutte le altre forme di esibizionismo e ostentazione che ci saranno state fino all’inumazione. Non è questione di cattivo gusto, ma gli striscioni con il defunto proclamato re e papa, hanno un riscontro nei funerali degli infiniti “re e regione degli zingari” di cui leggiamo  continuamente sui giornali.  Di fatto “re e regine degli zingari” non esistono. In passato, quando i rom erano ancora in gran parte nomadi, se moriva uno o una  di loro, di vecchiaia, autorevole, con una grande famiglia e parentela, si radunavano per i suoi funerali a volte in centinaia. Per avere il permesso di accamparsi e soggiornare per un po’nel luogo dove era avvenuto il trapasso, (ma il raduno dei parenti e amici avveniva già  prima, durante il periodo di malattia che precedeva la morte, proprio nel tentativo di scongiurarla),  senza venir disturbati dalle forze dell’ordine, veniva diffusa la notizia che  si trattava del periodo di lutto necessario per le esequie del re o della regina degli zingari. E anche ora che la mobilità è facile, e molti rom sono diventati sedentari e non hanno più roulotte e furgoni,  e c’è meno bisogno di accamparsi per un funerale, finisce che il titolo di re o regina venga egualmente tirato fuori per dare lustro al defunto, per dire quanto era autorevole; da pretesto per sostare, a metafora per onorare. Si è anche scritto che il parroco, anche se non sapeva prima, di Casamonica, avrebbe dovuto prendere le distanze dagli avvenimenti almeno dopo il funerale. A che titolo? Se fosse stata una manifestazione mafiosa, forse sì, ma non lo era e ha fatto bene  a dire che l’avrebbe rifatto. Dopo tutto il “non giudicare”, vale anche per queste circostanze. In questo è stato più libero lui di tutti i benpensanti di destra e di sinistra che si sono scandalizzati del funerale rom, magari contrapponendolo moralisticamente alla vicenda di Welby. Ma qui Welby non c’entra niente: l’errore è stato, a suo tempo, quello di negargli i funerali in quella chiesa,  non di averla concessa per il rom Casamonica. E’ anche grave che si utilizzi il ricordo di Welby, un ricordo che appartiene ai democratici e alle sinistre, per sputtanare, anche da sinistra, i rom, perché se si dice “E’ una vergogna: avete negato la chiesa per il funerale di Welby e l’avete concessa ai Casamonica”, ancora una volta si avalla la discriminazione abituale nei confronti dei rom, tutti delinquenti da lasciare fuori anche dalla Chiesa.

in quale Dio merita credere

IL DIO CON CUI STO

discorso tenuto ad Assisi da Raniero La Valle  il 21 agosto 2015 al 73° Corso di studi cristiani sul tema “Responsabili dell’immagine di Dio”

La Valle

Mi era stato chiesto di raccontare “Il Dio in cui credo, il Dio in cui non credo”. Ma questo voleva dire aprire l’armadio di tutte le definizioni di Dio, di tutte le fantasie su Dio, e scegliere fior da fiore, per ricostruire il Dio che mi piace, ed escludere i connotati del Dio che non mi piace. Ma chi sono io per fare questa cernita?
Invece vi parlerò del Dio con cui sto. E’ chiaro che c’è un rapporto tra il Dio in cui si crede e il Dio con cui si sta. Ma non sempre coincidono. Se si crede in un Dio che sulla croce apre le braccia a tutti e poi in nome di Dio si mettono sul rogo gli eretici, è chiaro che non si tratta dello stesso Dio. Il boia sta con un altro Dio.
La storia è piena delle macerie provocate dal contrasto tra la fede creduta e le opere compiute in suo nome. Tutta la storia del popolo di Israele nell’Antico Testamento è attraversata da questa tragedia. Il Dio dei profeti non è il Dio nel cui nome le città cananee erano votate allo sterminio.
E oggi il dramma storico è tale e così tragico l’abuso per cui Dio viene innalzato sulle picche degli assassini, con la testa dei decapitati in suo nome, che la salvezza non viene se ci mettiamo a discutere sulle nostre diverse professioni di fede, ma se il Dio con cui decidiamo di stare non è il Dio della morte ma il Dio della vita, non è il Dio che fa uccidere gli infedeli ma è il Dio nel quale non c’è il nemico.
Il male più grande viene da chi sta con un Dio sbagliato, che corrisponda o no al Dio in cui dice di credere.
Ma c’è anche il problema di chi segue come se fosse un Dio qualcuno o qualcosa che sa benissimo non essere un Dio.
Quelli ad esempio che stanno col Dio denaro sanno benissimo che quello non è un Dio, ma un idolo; però ci stanno lo stesso, perché se non fosse un idolo non potrebbero offrirgli sacrifici umani, come fanno gli Stati che chiudono le porte dell’Europa provocando l’eccidio di migliaia di profughi o come hanno fatto i potentati europei, a cominciare dal nostro governo. dandogli la Grecia in sacrificio
Sono questi i motivi per cui preferisco parlare del Dio con cui sto.

Credere e amare

Del resto il credere non è la prima fase del rapporto con Dio. La prima fase è l’incontro. Nei Vangeli la gente seguiva Gesù senza sapere che fosse il Figlio di Dio. E a me sembra che la questione prioritaria oggi sia quella del Dio che decidiamo di amare. Questo mi pare il vero problema interreligioso ed ecumenico. E questa mi pare che sia la scelta che papa Francesco sta proponendo al mondo: prima credere o prima amare?
La sua risposta è che prima bisogna amare. Perché questo è quello che fa Dio, ci ama prima ancora di preoccuparsi se noi abbiamo fede in lui. Papa Francesco sempre dice che Dio ci precede nell’amore. Per questo Dio è misericordia. Francesco dice che Dio ci precede nell’amore, e lo dice prendendo in prestito dallo spagnolo, e dallo slang di Buenos Aires, una parola che significa arrivare per primo, amare per primo, magari anche picchiare per primo: la parola è primerear . “Il Signore ci primerea, sempre è primo, ci sta aspettando. Come la fioritura del mandorlo di cui parla Geremia, perché è il primo a fiorire, così è il Signore”.
Questo però non lo dice solo papa Francesco, lo dice tutta la tradizione. Ancora non ero formato nel ventre di mia madre, dice Geremia, e tu già mi conoscevi (Ger.1,5); il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome, dice Isaia (Is.49,1). Con l’avvento del Verbo incarnato, cioè con il cristianesimo, questa realtà di Dio che ama per primo diventa una rivelazione pubblica e universale, che non riguarda solo un individuo, un profeta, un salmista, o un popolo, ma vale per tutta l’umanità e tutti i popoli. Dio ci ha amati per primo, dice la prima lettera di Giovanni; e Paolo ai Romani dice che Dio ci ha amato, fino a morire con Cristo sulla croce, quando noi eravamo ancora peccatori, e quando ancora non credevamo in lui. Dio ci primerea nell’amore, prima ancora della nostra fede; è anzi dall’amore che nasce la fede, e non viceversa; prima ancora che crediamo in lui, lui sta con noi. Dopodiché la fede con cui crediamo in lui può essere più o meno adeguata, più o meno atta a rappresentarlo e a conoscerlo, più o meno ortodossa, ma intanto lui sta con noi e noi stiamo con lui, e l’amore sta prima. Dunque la sequela sta prima della fede, lo stare con Dio viene prima del credere in Dio.
Dunque veniamo al tema: il Dio con cui sto.

Un Dio sacrificale

Il Dio con cui stavo da bambino era un Dio sacrificale. Non so da dove era venuto. Avevo avuto una sommaria formazione religiosa da buona famiglia borghese, quando a otto anni ebbi il dolore della morte di mio padre. Non so perché sulla pagina bianca del mio diario di quel giorno, il 3 giugno 1939, io disegnai una croce molto scura e scrissi una sola parola: sacrificio. Perché a otto anni interpretassi la morte di mio padre come un sacrificio non lo so. Subito dopo arrivò la guerra e per la piccola famiglia superstite, una vedova e tre bambini, fu dura la lotta per sopravvivere. Io vissi quella fine di infanzia come una vita di responsabilità precoce e di sacrificio; i primi rudimenti della fede che mi furono offerti in quel tempo andavano in quella direzione. Essi mi giunsero anzitutto dal cardinale Massimo Massimi che, come facevano a Roma molti cardinali che al lavoro di curia univano un servizio pastorale, aveva riunito molti giovani per bene in una Congregazione eucaristica e, come diceva lui, “arcimariana”. Era il prefetto della Segnatura apostolica, un grande giurista, ma umilissimo; era un cardinale molto conservatore ma antifascista, ci faceva il catechismo e ci faceva confessare dal famoso gesuita padre Riccardo Lombardi, che divenne poi “il microfono di Dio”. Secondo la spiritualità del tempo Dio era tutto, e noi non eravamo niente, la vita cristiana era un’espiazione, nell’insegnamento che quel santo cardinale ci impartiva “La nostra legge” era anche più importante de “La nostra fede” – i due libri che aveva scritto per noi – e andava da sé che il mondo non potesse essere amato, perché il mondo si manifestava in quegli anni di guerra a Roma con il suo volto peggiore: c’erano i bombardamenti alleati e c’erano le retate tedesche, che ci minacciavano perfino in piazza San Silvestro, dove andavamo per la messa la domenica nella chiesa di San Claudio; c’erano la povertà e la fame, i lavori precari che mia madre ed io riuscivamo a fare per vivere, la minestra che si andava a prendere a turno e la borsa nera in cui un po’ si comprava e un po’si vendeva. Dio stava lì fermo e osservava la nostra buona condotta. E quando mi fecero fare il disegno di un rifugio durante i bombardamenti, io che non sapevo disegnare, feci le pareti del rifugio squadrate col righello, e vi ricalcai sopra uno sproporzionato santino di un Sacro Cuore di Gesù trafitto.
Finita la guerra padre Lombardi andò a predicare sulle piazze e i rapporti con il cardinale Massimi si diradarono un po’, sia perché non potevamo più incontrarci nella villa moresca che aveva in viale Parioli, da cui lo avevano sfrattato perché cominciava la speculazione edilizia, sia perché io andai alla FUCI, che a lui non piaceva perché era troppo progressista e moderna e c’era promiscuità tra ragazzi e ragazze.
Anche alla FUCI la percezione sacrificale e repressiva della fede continuò, anzi si fece più circostanziata e consapevole, perché veniva veicolata dalla liturgia, a cui fummo introdotti, e di cui comprendevamo le parole perché sapevamo il latino; ogni giorno sia nella liturgia eucaristica sia nella liturgia delle ore, ci veniva incontro un Dio che giustamente ci puniva; a Compieta ogni sera, prima di coricarci, lo invocavamo perché ci difendesse dal diavolo che come un leone ruggente ci assediava per divorarci e in ogni caso per rovinare le nostre notti, e c’era un Dio a cui nelle collette della Messa di san Pio V offrivamo le nostre sofferenze mentre proclamavamo che “giustamente” eravamo “afflitti a causa del nostro operare, a causa dei nostri eccessi”, e che ci meritavamo tutti quei dolori, perché grande era la nostra colpa, e solo Dio poteva salvarci; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti.
Il richiamo a un atteggiamento ascetico e di severità morale era poi accentuato, nel passaggio dalla congregazione del cardinale Massimi alla FUCI, da quella che non a caso il cardinale considerava con sospetto, cioè la promiscuità tra ragazzi e ragazze, che era una meraviglia ma anche una tentazione. Nessuno ci aveva detto, come ha detto papa Francesco ai ragazzi in piazza Vittorio il 21 giugno scorso a Torino, che la castità consiste nel non usare l’altra o l’altro per il proprio piacere. E nessuno ci aveva proposto la castità in punta di piedi, chiedendo perdono, sapendo di dire una cosa impopolare, di chiedere una cosa non facile, perché “tutti nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile”. Se queste parole di papa Francesco avessero potuto essere ascoltate allora, il fantasma di un Dio severo, moralista, che ci metteva addosso la paura del sesso, non avrebbe turbato i nostri rapporti giovanili e forse non ci avrebbe infelicitato la vita prima e dopo il matrimonio, e forse la vita intera sarebbe stata più feconda anche di figli.
Insomma prendendo tutti insieme – il cardinale Massimi, la congregazione eucaristica di San Claudio, la FUCI, ma si potrebbe dire anche la GIAC di Arturo Paoli o il cattolicesimo militante e insieme ascetico di Dossetti, ossia il migliore cattolicesimo che si viveva in Italia prima del Concilio – si potrebbe dire che esso stava con un Dio che toglieva l’aria. E questo vuol dire che senza un vento nuovo non poteva che deperire.
Quello che personalmente mi salvò fu lo spirito critico che contestualmente la FUCI mi insegnò, ma anche il fatto che essa mi gettò nel mondo. Essere gettati nel mondo per noi allora voleva dire il confronto aspro con il cattolicesimo sanfedista di Gedda e dei Comitati civici, voleva dire il confronto politico nel mondo universitario in cui si facevano le prime prove di democrazia, voleva dire l’elaborazione di alternative culturali più aperte che sviluppavamo sul giornale della FUCI, “Ricerca”, di cui ero il redattore.
Per reggere il confronto con il mondo bisognava stare con un Dio diverso, un Dio non dolorifico, un Dio non pentito delle sue creature, non geloso della bellezza, dell’amore, un Dio non invidioso della libertà dei suoi figli, un Dio amante della vita.

I varchi per un Dio diverso

C’erano dei varchi attraverso cui irrompeva questo Dio. Uno di questi varchi fu per me l’incontro con il monachesimo camaldolese, e in particolare col più grande monaco del XX secolo, padre Benedetto Calati, dal quale ero andato casualmente a san Gregorio al Celio per farmi benedire, manco a dirlo, una croce di maiolica che avevo comprato con la mia fidanzata Cettina.
Il Dio di padre Benedetto era un Dio di una dolcezza infinita, che alla confessione prima ancora che io potessi formulare un peccato, già mi perdonava, sicché ben presto in quelle confessioni, dei peccati non ci si ricordò più, e si parlava solo di san Gregorio Magno che apriva ai nuovi popoli, e ai poveri di Roma faceva distribuire “cibi già cotti, frumento e vino” e anche “salse e balsami” ( “pigmenta et alia delicatoria commercia”), si parlava dei Padri della Chiesa che interpretavano tutta la storia come storia della salvezza, si parlava della Scrittura che cresce con chi la legge, e di Dio che, per dire la cosa più bella di lui, padre Benedetto diceva che “(Dio) è un bacio”.
Poi un giorno a Bologna, dove mi trovavo per un congresso della FUCI, che noi del Centro nazionale avevamo preparato con l’idea che fosse molto rivoluzionario, sentii in cattedrale un’omelia dell’arcivescovo cardinale Lercaro, e mi sembrò di non avere mai sentito parlare di Dio così. Forse non era vero, forse era il mio modo di ascoltare che era cambiato. Ma certamente lì c’erano parole in cui era evocato un Dio molto simile al Dio con cui volevo stare e perciò alla rivelazione nuova di Dio che veniva dal basso, dall’esperienza cioè della mia vita, si aggiunse una rivelazione nuova di Dio, un modo nuovo di parlare di Dio che veniva dall’alto, dalla stessa gerarchia della Chiesa, da un cardinale. E così quel giorno adottai il cardinale Lercaro come mio vescovo, anche perché allora non c’era la minima idea che il papa a Roma fosse anche il suo vescovo, e quindi io come fedele romano avevo in qualche modo la casella libera. Decisi che il Dio del cardinale Lercaro, il Dio della riforma liturgica, il Dio delle nuove chiese di periferia, il Dio dei ragazzi poveri che vivevano e studiavano in casa con l’arcivescovo, era il Dio con cui volevo stare. Il destino volle che poi il cardinale Lercaro diventasse il mio vescovo davvero, perché fui chiamato a dirigere “L’Avvenire d’Italia”, il giornale che usciva a Bologna, e perciò a Bologna ci andai a vivere, e fu lì che irruppe il Concilio.

Un nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo

Il Concilio fu il vero nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce ne accorgemmo perché si pensò che il Concilio non avesse valenza teologica, che avesse il suo unico scopo nella riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della pastorale intesa come veicolo e non come sostanza della fede. E invece era proprio una nuova comprensione e un nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, che papa Giovanni aveva chiesto al Concilio e che del Concilio doveva diventare il tesoro più prezioso, l’aggiornamento più profondo e duraturo. Occorre rovesciare il luogo comune che ha fuorviato la comprensione del Concilio: esso è stato un grande Concilio teologico, e proprio perciò “pastorale”.
Il Dio del Concilio è radicalmente un Dio non sacrificale. Non è un Dio mortalmente offeso dal peccato originale per cui debba essere soddisfatto e risarcito dal sacrificio del Figlio e dal sacrificio anche nostro, non è un Dio a cui sia dovuta l’espiazione delle lacrime e sangue degli uomini, non è un Dio che si è vendicato della disobbedienza di Eva e del suo compagno comminando loro la morte, il lavoro come sudore e come pena, la sessualità come concupiscenza e impurità, i parti con dolore, la terra che invece di frutti produce cardi e spine. Espiazione, come ha spiegato Carlo Molari su Rocca, non significa pagare un prezzo, ma essere perdonati, ricevere la purificazione da Dio, e del resto la parola placatio, di un Dio che dovesse essere placato nella sua ira, che era una parola chiave della teologia preconciliare, non compare mai nei testi del Concilio. Il Figlio di Dio non si è incarnato per pagare un debito al Padre, come sosteneva la dottrina di s. Anselmo (“Cur Deus homo?”) sempre ripetuta dalla Chiesa, ma per spiegare agli uomini i segreti di Dio (D.V. n. 4), per togliere le maschere antropomorfe e terribili che sfiguravano il volto di Dio, per non lasciare gli uomini soli ma al contrario “senza interruzione alcuna” fornire loro gli aiuti per la salvezza (D.V. n. 3), per unirsi in qualche modo ad ogni uomo (G. S. n. 22), per entrare in modo definitivo nella storia umana (Ad Gentes, n. 3), e rendere tutte le cose sacre, comuni. Paolo VI avrà un bel dire che il Concilio non aveva abbandonato la dottrina del peccato originale; in realtà la teoria anselmiana del Dio che risarcisce se stesso nel Figlio e nei figli è del tutto rovesciata.
Il Dio del Concilio è un Dio che fa a pezzi l’idolo che le religioni e le Chiese avevano costruito per onorarlo, che libera dai fraintendimenti di cui era vittima il Dio che, come canterà padre Turoldo, subiva “il carico di errate preghiere”, onde si credeva di rendergli onore.
Non è più il Dio che salva solo i suoi, per cui fuori della Chiesa, della Chiesa visibile e gerarchica, non vi sarebbe salvezza. Non è il Dio che diserta le altre Chiese cristiane. Non è il Dio cui non potranno mai avere accesso, nella beatitudine eterna, i bambini morti senza battesimo: questa dottrina, che si voleva fosse sancita dai Padri, non fu nemmeno presa in considerazione dal Concilio, tanto che poi il Limbo fu abolito; il Dio del Concilio non è un Dio che non ha lasciato tracce di sé e semi della sua Parola nelle altre religioni, ma tutti gli uomini e le donne, “nel modo che lui conosce”, ha associato al mistero pasquale, e fa sì che nel loro cuore lavori invisibilmente la grazia (G.S. n.22).
Il Dio del Concilio non è un Dio invidioso dell’uomo, che lo tiene per le briglie col ricatto di bollarlo come prometeico ed eretico se prova ad essere adulto; e nemmeno è il Dio che ha abbandonato l’uomo a se stesso mettendolo “in mano al suo proprio volere”, come si è fatto dire, con cattive traduzioni bibliche, anche della CEI, a un versetto del Siracide, ma ha messo l’uomo “in mano al suo consiglio”, come traduce la Gaudium et Spes, cioè lo ha fatto responsabile di se stesso e del mondo, sicché basterebbero uomini più saggi, dice il Concilio, per far fronte a una situazione in cui è in pericolo il futuro del mondo. (G.S. n.15, n.17).
Il Dio del Concilio è un Dio perciò fonte e garanzia della libertà umana, un Dio che parla attraverso la coscienza (G. S. n. 16), un Dio che non agisce con la costrizione e con la violenza ma che sceglie la via della povertà e della abnegazione, un Dio che dopo avere creato l’amore non lo mette in ceppi per farlo servire solo alla procreazione, ma lo fa traboccare in uomini e donne perché serva alla loro comunione, alla loro tenerezza, alla loro fecondità e alla loro gioia.

La fede nicena

Questo Dio il Concilio non se lo è inventato, ma lo ha recuperato da tutta la grande tradizione della Chiesa. Il Vaticano II ha riproposto la cristologia dei primi quattro Concilii, e in particolare ha riproposto la fede nicena, che in Cristo Gesù ha riconosciuto non “un Dio in seconda”, fatto dal Padre, ma un vero Dio, coeterno col Padre, della stessa essenza del Padre. Questo cardine della fede fu espresso dal Concilio di Nicea nel 321 sotto la forma non di una definizione dogmatica, ma di una professione di fede, ed è infatti giunto fino a noi in forma di preghiera, nella forma di un Credo. C’è un bellissimo libro di Giuseppe Ruggieri, “Della fede”, in cui si spiega che questo è stato il processo di formazione della fede nelle comunità primitive, come racconto e come preghiera, e non come dogmatica e come dottrina; ciò ha permesso il convivere di diversi racconti, come sono diversi i Vangeli, tant’è che fino a Nicea non c’è traccia di una formula di fede unica per tutte le comunità cristiane, che invece irrompe a Nicea, ma in forma di preghiera, nella forma di un Credo. È solo con il Concilio di Calcedonia, nel V secolo,che avviene uno slittamento strutturale, e si passa dalla fede alla dottrina sulla fede, tant’è che mentre le prime parole del niceno-costantinopolitano erano: “noi crediamo che”, le prime parole della definizione di Calcedonia suonano: “noi insegniamo che”, e comincia una storia di ortodossia dottrinale che è anche una storia di esclusione.
Ma indipendentemente dall’irrigidimento dogmatico la professione di fede di Nicea, ripresa dal Concilio Vaticano II (“Colui dunque, per opera del quale aveva creato anche l’universo, Dio lo costituì erede di tutte quante le cose, per restaurare tutto in lui”, dice ad esempio il decreto Ad Gentes, n. 3), è decisiva per noi perché rende universale la storia della salvezza e mostra come nel Cristo coeterno al Padre tutti gli uomini abbiano avuto accesso alla salvezza anche prima che Gesù fosse concepito e anche fuori del succedersi delle generazioni del popolo di Israele (“Indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, dice il decreto Ad Gentes n. 4) e che anche dopo il Gesù storico, la salvezza di Dio in Cristo può traboccare in tutti gli uomini e in tutte le culture anche fuori del filone giudeo-cristiano. Per questo si potrebbe dire che il cristianesimo sia una religione post-biblica, che reca non solo l’unità dei due Testamenti, ma l’unità di tutti i Testamenti. Noi spesso ci dimentichiamo di essere niceni e ci rappresentiamo una storia della salvezza secondo una linea di successione che dalla creazione giunge ad Abramo, a Mosè, ai profeti e attraverso Gesù Cristo passa nel nuovo Israele che è la Chiesa. Ma la fede di Nicea ci dice che, fin dall’inizio, Dio è stato il Dio di tutta l’umanità e di tutta la Chiesa, non per successione o sostituzione del Dio di Israele. Ed è per questo che cambia tutta la prospettiva del Concilio sia riguardo all’ecumenismo sia riguardo alle religioni non cristiane, sia riguardo al primato della coscienza e alla libertà religiosa, ma anche riguardo al rapporto col mondo e con la storia, che fin dall’inizio giacciono in Cristo e non giacciono nel Maligno.
Ed è questo, dice il Vaticano II, il Dio con cui stare, il Dio che sta con noi fin dalla fondazione del mondo, non solo dal momento dell’incarnazione di Cristo come secondo Adamo, ma fin dall’inizio, perché fin dalla creazione del mondo Cristo è lì, il primo Adamo è lui.

Dopo il Concilio

Lo splendore di questo Dio del Concilio si è però ben presto appannato, non è stato questo il Dio che è stato predicato dopo il Concilio, ed è proprio per questo che i cinquant’anni che sono seguiti sono stati anni di deserto. E molti, anche tra i cattolici più aperti, hanno finito per disamorarsi del Concilio, per esserne delusi, e infine abbandonarlo.
Io sono rimasto col Concilio, e mano a mano che più lo scoprivo, più mi rallegravo del fatto che proprio quel Dio che il Concilio aveva ritrovato e messo a fermentare nei suoi documenti era il Dio con cui volevo stare.
E’ stato così che tutte le cose che io ho fatto dopo il Concilio mi sono riuscite facili, perfettamente serene e pacificanti dalla parte di Dio, tanto quanto erano dure, controverse, conflittive dalla parte degli uomini.
Così è stato per la lotta per il NO nel referendum sul divorzio, e non con l’argomento profano della separazione tra Chiesa e Stato, ma con l’argomento cristiano della misericordia (che fu la motivazione del No, dopo una notte di preghiera, di Fratel Carlo Carretto), perché non può lo Stato per far contenta la Chiesa infliggere una vita di inferno ai suoi cittadini.
Così è stato per la scelta di rompere l’unità politica dei cattolici e dare legittimità politica ai comunisti, perché non c’era nessun Dio degli eserciti a disporre e a dividere le truppe nella battaglia, e andava recuperata la compatibilità ma anche la reciproca libertà tra fede e politica.
Così è stato per la prima legge che mi sono trovato a dover fare in Parlamento, la legge sull’aborto, che siamo riusciti a fare non come una legge che cambia un reato in diritto, come voleva la cultura radicale di Adele Faccio e della Bonino, ma come una legge che cura le ferite e allevia il dolore sociale, e come tale è riuscita a sopravvivere fino ad oggi.
E così è stato, naturalmente nelle battaglie contro i missili a Comiso, per i palestinesi, contro i regimi militari cattolici dell’America Latina, contro la guerra del Golfo, contro la guerra della Jugoslavia, per la difesa della Costituzione, fino alla battaglia in corso per impedire che governanti e parlamentari corrotti dal potere distruggano Costituzione, rappresentanza, scuola e diritti del lavoro e portino l’Italia fuori dalla democrazia e la Grecia fuori dall’Europa.
In tutte queste circostanze, il Dio con cui sto mantiene una sua presenza discreta e fedele. Non è il Dio dei tormenti di coscienza e delle ascensioni mistiche ma piuttosto il compagno di stanza con cui ci si confida e ti incoraggia.
Il Dio con cui sto può anche essere il Dio che non dice niente, che non si fa sentire; esperienza questa che non è solo dei cristiani comuni, ma anche dei mistici: racconta Leonardo Boff che un giorno trovò Arturo Paoli in chiesa, e gli domandò: “Fratello Arturo, tu senti Dio quando, dopo il lavoro, vieni a pregare qui in chiesa? Lui ti dice qualcosa?” E Arturo gli rispose: “Non sento niente. Molto tempo fa ho sentito la sua voce. È stato affascinante. Riempiva i miei giorni di musica e luce. Oggi non sento più niente. Soffro di tenebre. Forse Dio non vuole più parlarmi”.
Perciò io non sono d’accordo con certi linguaggi che per rendere più razionale il discorso su Dio non lo chiamano per nome ma lo descrivono con un’astrazione, come “forza vitale”, come “forza creativa”, come “offerta di vita”, come “fonte di energia” e simili. A me un Dio indistinto, liquido, pura astrazione del pensiero, non interessa, preferisco l’ateismo; il Dio con cui sto è un Dio che sia un Tu e un Dio tale per cui io sia un tu per lui, e noi siamo le sue immagini, i suoi figli, i suoi “califfi”. Un Dio capace di amore. In questo senso un Dio persona. Perché se è vero, come ha detto papa Francesco ai Movimenti Popolari in Bolivia il 9 luglio scorso, che ”non si amano né i concetti né le idee, si amano le persone”, è anche vero che solo se si è persona si ama; perciò Dio è persona.

Il Dio di papa Francesco

Ed ecco che questo Dio si è aperto l’ultimo varco, e anche questo dall’alto, nella predicazione di papa Francesco.
Riprendendo quello che era stato il munus più proprio e meno compreso del Concilio, papa Francesco ha offerto alla Chiesa e al mondo, un nuovo annuncio di Dio,”in quella forma che la nostra età esige”. E la nostra età – ma io credo ogni età – ha bisogno di un Dio come Gesù lo ha rivelato, come il Vangelo lo ha custodito, come la Chiesa degli apostoli e dei discepoli l’ha tramandato fin qui, e come papa Francesco lo racconta: un Dio di misericordia, che ama per primo, che non si stanca mai di perdonare, Padre universale, che non ammette né esclusione, né scarti, un Dio non violento, libero e umano, guardiano non della legge ma della vita, un Dio iconoclasta.
Si è fatta un’obiezione a questo Dio della misericordia: la misericordia va bene, ma dov’è il giudizio? Un Dio che non giudica, dice il senso comune, sarebbe un Dio dimezzato, non sarebbe un vero Dio.
C’è una cosa molto giusta che dice un libro recente del biblista Gerhard Lohfink, “Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu”. È un libro che non mi persuade perché fa di Gesù talmente un personaggio ebreo, e del Vangelo talmente una glossa della Legge e dei Profeti, che non si capisce che bisogno c’era che Dio rimettesse tutto in gioco con l’Incarnazione. Però ha ragione Lohfink quando dice che nel nostro annuncio del Dio del Vangelo, spesso censuriamo il Dio del giudizio, mentre il tema del giudizio era parte essenziale del discorso sul Regno fatto da Gesù.
Questa critica però non si può fare nei confronti del Dio della misericordia di cui parla Francesco; il giudizio sul mondo di papa Francesco è durissimo, e si può dire che senza questo giudizio non ci sarebbe nemmeno l’annuncio della misericordia. Basta pensare alla sua denuncia sull’economia che uccide, alla condanna di un sistema che non ha volto e scopi veramente umani, alla critica del denaro che governa, della cultura dello scarto, della globalizzazione dell’indifferenza.
Però nell’annuncio cristiano di papa Francesco non c’è la minaccia del giudizio di Dio, ma c’è la constatazione evangelica che il mondo è già giudicato, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni, che è il mondo stesso che è giudice contro se stesso, e che se dal giudizio non passerà alla conversione sarà perduto.
La distruzione della natura che stiamo operando è il paradigma esemplare di questo. La crisi ecologica è il giudizio sul nostro operato nel mondo, la fine siamo noi a procurarla, l’enciclica Laudato sì lo ha reso manifesto.
Quello che l’Europa ha fatto alla Grecia è il giudizio di condanna che l’Europa ha pronunciato su se stessa.
Il fecondo Mezzogiorno d’Italia che non fa più figli, col tasso di natalità più basso degli ultimi 150 anni, è il giudizio che condanna l’ “inequità” delle politiche economiche.
Una generazione di giovani perduta e senza lavoro è il giudizio pronunziato sull’abbandono di qualsiasi idea di bene comune come ragione e fine della politica.
Il governo vanesio e fascistizzante di Renzi è il giudizio che punisce il lungo tradimento della Costituzione con cui, a partire dal 1989, la classe politica italiana ha risposto alla caduta del muro di Berlino.
Lo Stato d’Israele con le sue violenze è il giudizio che grida contro la deformazione idolatrica della fede biblica.
Lo Stato islamico, la tragedia del Medio Oriente, i 232 milioni di migranti internazionali sono il giudizio su un mondo che non vuole conoscere ciò che giova alla sua pace.
Il mondo è già giudicato, ma la misericordia lo può salvare, il chirografo che ci era avverso è stato inchiodato sulla croce.
Questo è il messaggio di papa Francesco. E dice Scalfari: questo è un papa profetico. Ed io aggiungo: non solo profetico ma messianico, perché il suo annunzio, in quanto annunzio messianico, è che il regno di Dio, cioè il regno di misericordia, è vicino.
Ma neanche ora col Concilio Vaticano II, con papa Francesco, il processo di comprensione del Dio con cui stare è concluso. Ci sono delle cose che Pietro non capì di Gesù che lavava i piedi nell’ultima cena e Gesù gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai. Il monaco camaldolese Innocenzo Gargano in vista del Sinodo dei vescovi ha proposto una nuova interpretazione del detto di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio, nel senso che Gesù non parlava da giurista e, pur proponendo un ideale più alto, “scritto nelle stelle”, non avrebbe abrogato la legge di Mosè che facendosi carico della durezza di cuore dei coniugi aveva concesso il divorzio. Un cattolico zelante ha sbeffeggiato padre Innocenzo, perché dopo duemila anni proponeva una lettura nuova del Vangelo, come se fino ad ora si fosse sbagliato a capirlo. Eppure proprio questa è la dinamica dello Spirito nella storia della fede: quello che finora non avete capito ecco ora lo comprendete.
Ed è in questo spazio tra il già e il non ancora di ciò che abbiamo capito di Dio che c’è tutta l’eccedenza del Dio con cui stiamo rispetto al Dio in cui crediamo, perché il Dio che sta con noi è sempre al di là di qualsiasi cosa noi possiamo pensare e credere di lui.

Raniero La Valle

Assisi, 21 agosto 2015

il commento al vangelo della domenica

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

commento al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario (16 agosto 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 6, 51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

L’evangelista ci presenta la conclusione del lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, tutto incentrato sull’Eucaristia.
Giovanni è l’evangelista che non ha il racconto della cena Eucaristica, ma in realtà è l’evangelista che, più degli altri, ne esplora i ricchissimi significati. Vediamoli.
Gesù, rivendicando la condizione divina con il nome “Io sono”, afferma di essere questo “pane vivo che discende dal cielo. Chi lo mangia vivrà per sempre”, quindi è un pane che consente una vita di una qualità tale che neanche la morte potrà scalfire, e, dichiara Gesù “il pane che vi darò è la carne per la vita del mondo”.
Qual è il significato di questa espressione? ‘La Carne’ indica l’uomo nella sua debolezza. La vita di Dio non si può dare al di fuori della realtà umana. Non può esserci comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. I doni dello Spirito passano attraverso l’umanità, più si è umani e più si scopre il divino che è in sé. 
Ebbene “i Giudei” – ricordo che con questo termine si indicano le autorità religiose, i capi – non accettano questo, si mettono a discutere aspramente e dicono “come può costui” – notiamo come i giudei si rivolgano sempre a Gesù con disprezzo, ed evitano sempre di nominarlo –  “darci la sua carne da mangiare?”
Un Dio che, anziché pretendere i doni si fa lui dono per la vita del mondo, questo è inaccettabile per un’istituzione religiosa che ha creato un Dio a sua immagine e somiglianza, e come essa sfruttatrice dei bisogni dell’uomo.
Ebbene, ecco la dichiarazione di Gesù “in verità, in verità vi dico” – affermazione importante che significa ‘vi assicuro, con certezza’ – “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. Questa carne e sangue sono un tema molto caro all’evangelista, che rimanda a Gesù quale  Agnello di Dio. Gesù è stato presentato fin dall’inizio di questo vangelo come l’Agnello di Dio, cioè l’agnello dell’esodo pasquale, quell’agnello di cui, secondo le indicazioni di Mosè,  bisognava mangiare la carne per avere la forza di iniziare questo esodo e il cui sangue avrebbe liberato dalla morte nella notte dello sterminio dei figli degli egiziani.
Ebbene Gesù viene presentato da questo evangelista come il vero Agnello, la carne darà la capacità di perpetuare questo esodo fino al suo pieno completamento e il sangue non libererà dalla morte terrena, da una morte fisica, ma libera dalla ‘morte per sempre’, cioè consentirà di vivere una ‘vita per sempre’.
E Gesù, a questa espressione già difficile da accettare per i giudei, mangiare la carne, aggiunge qualcosa che stride per la cultura e la mentalità ebraiche, cioè bere il sangue. Per evitare che intendano in maniera simbolica, in maniera metaforica, Gesù dice “chi mastica”. Qui l’evangelista per il verbo ‘mangiare’, usa il greco ‘trogo’ (trogo), che già dà l’idea di qualcosa di molto rude che significa ‘triturare’, ‘masticare’, quindi Gesù vuole evitare che ci sia un’adesione ideale; no, l’adesione deve essere completa.
“Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Di nuovo Gesù torna sul tema che gli è molto caro: la vita eterna non è collocata nel futuro, come una ricompensa per il buon comportamento tenuto nel presente, ma un’esperienza nel presente. Chi dà adesione a Gesù e come lui si fa carne per la vita degli uomini, si fa pane per il bene degli uomini, questo ha già una vita di una qualità tale che la morte non potrà interromperla.
E continua Gesù “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”. Il progetto di Dio è quello di fondersi con l’uomo. Mentre l’istituzione religiosa allontana  Dio dall’uomo per mettersi come unica mediatrice, Dio vuole fondersi con l’uomo e diventare una sola cosa con lui. Dichiara Gesù “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, c’è questa fusione tra Dio e l’uomo.
L’unico vero santuario nel quale si irradia l’amore di Dio da questo momento è l’uomo che lo ha accolto.
E, continua Gesù, “come il Padre, che ha la vita”  – è la prima volta nel vangelo il Padre viene dichiarato il Padre vivente, colui che comunica vita – “ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Non è soltanto la causa, ma è anche l’effetto. Chi mangia di Gesù vivrà grazie a lui, ma vivrà per lui. Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per essere testimone di un Dio ESCLUSIVAMENTE BUONO, di un amore fedele, così questo sarà  il destino e la missione di tutti quelli che accolgono Gesù.
L’unico vero santuario dove si manifesta l’amore di Dio è dove questo amore non esclude nessuno. E poi Gesù di nuovo ritorna sull’affondo “questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono”. Ricorda il fallimento dell’esodo che è avvenuto perché non hanno ascoltato la voce di Dio. “Chi mangia questo pane vivrà in eterno”, l’esodo di Gesù è destinato a realizzarsi pienamente.

macché proclama politico si tratta solo di un grido di umanità

un grido di umanità

Barca di migranti

barca di migranti

La Repubblica, 13 Agosto 2015
di ENZO BIANCHI

“Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”

Queste parole di Helder Camara oggi suonano al contempo attualissime e superate: almeno in Italia, ormai sono pochissimi quelli che chiamano “santo” chi sfama i poveri – al massimo è un buonista – mentre, con il trionfo del pensiero unico neo-liberista, l’epiteto “comunista” è usato solo da alcuni ambienti della destra americana nei confronti di papa Francesco.

Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni – o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? – e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani – realtà ben più ampia sia della CEI che del Vaticano – sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.

Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.

Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.

Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.

Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.

Sì, come ha detto papa Francesco, “respingere gli immigrati è un atto di guerra!”. Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.

una vera guerra, parola di papa

il papa: ‘respingere i migranti e’ atto di guerra

 per Papa Francesco respingere in mare gli immigrati e’ un atto di guerra

 lo ha affermato questa mattina nel dialogo a braccio con i ragazzi del Movimento Eucaristico Giovanile, prendendo spunto dal dramma che si sta consumando in Asia dove i “boat people” in fuga dal Myanmar sono respinti nell’Oceano. “Pensiamo – ha detto il Papa – a quei fratelli nostri Rohingya che sono stati cacciati  via da un paese da un altro e vanno sul mare e quando arrivano su un porto danno loro da mangiare e li cacciano di nuovo. E’ un conflitto non risolto: e’ guerra, si chiama violenza, e’ uccidere”.

“Se ti uccido e’ finito il conflitto. Ma non e’ il cammino”, ha detto ai 1500 ragazzi che lo ascoltavano nell’Aula Nervi. Per il Pontefice “quando identita’ diverse vivono insieme, sempre ci saranno i conflitti, ma – ha scandito – soltanto col rispetto dell’identita’ dell’altro si risolve il conflitto. Le tensioni si risolvono nel dialogo, i veri conflitti sociali e culturali si risolvono col dialogo ma prima con il rispetto dell’identita’ dell’altra persona”. Francesco ha parlato del problema degli immigrati rispondendo alla domanda di Gregorius, un ragazzo indonesiano che, ha riassunto il Papa, “ha parlato dei conflitti in una societa’ come l’Indionesia, dove si respira una grande diversita’ intrerna di culture”. “E’ un conflitto sociale. Ma anche i conflitti – ha osservato – possono farci bene, perche’ ci fanno capire le differenze, come sono le cose diverse. E ci fanno capire che se non troveremo la soluzione che risolve questo conflitto ci sara’ una vita di guerra”. Secondo Bergoglio, “il conflitto per essere bene assunto deve essere orientato verso l’unita’. Una societa’ con tante culture diverse – ha spiegato – deve cercare l’unita’ nel rispetto di ciascuna identita’ perche’ il conflitto si risove con il rispetto delle identita’”. “Alla tv e sui girnali – ha aggiunto il Pontefice – vediamo conflitti che non si sanno risolvere e finiscono in guerre perche’ una cultura non tollera l’altra”. Il Papa ha fatto cenno in proposito anche all’integralismo cattolico, un male da evitare. L’atteggiamento verso chi non ha la nostra stessa fede deve essere di apertura. “Non e’ cattolico, non crede, ma tu – ha suggerito – rispettalo, cerca che cosa di buono ha, i valori che ha. Cosi’ i conflitti si risovono con il rispetto delle identita’ e le tensionio con il dialogo”. (AGI) .

i migranti e le chiusure di Londra ai limiti della disumanizzazione

i militari di Londra

l’aiuto dell’Italia

i due volti dell’Europa sui profughi

migranti

di Maria Serena Natale
in “Corriere della Sera” del 5 agosto 2015

Londra manda uomini e cani addestrati per rafforzare i controlli sul lato francese della Manica e il premier David Cameron spiega l’emergenza in tv parlando di «uno sciame che attraversa il mare in cerca di una vita migliore». Budapest e Vienna studiano forme congiunte di monitoraggio dei confini, quei confini dove il varco aperto nell’agosto 1989 nella Cortina di ferro innescò il domino che avrebbe riunito il continente. Più a sud cresce il muro di filo spinato tra la Serbia e l’Ungheria per arginare la marea di disperati che risale dai Balcani. Di fronte alle migliaia in fuga da guerra e povertà c’è un’Europa che arretra nel tempo e nello spazio, alza barriere fisiche e mentali. L’inasprimento della retorica britannica, con termini che richiamano gli «sciami di stranieri» di Hitler, segna l’apice della disumanizzazione del dibattito. Già l’enfasi sulla ripartizione dei migranti nel negoziato Ue aveva spostato il focus sull’«onere» dell’accoglienza. Ora i toni diventano ancora più duri, complici dinamiche politiche come nel caso britannico, dove il premier conservatore deve difendersi dagli attacchi dell’ala più dura del partito e dall’estrema destra. Lo stesso Nigel Farage, il leader nazionalista dell’Ukip, ha preso le distanze dalle dichiarazioni di Cameron. «Non parlerei mai così» ha commentato, lui che era stato il primo a usare quella parola, «swarm», sciame, che equipara persone e animali, cancella i contorni dei volti riducendo uomini, donne e bambini a un flusso indistinto che avanza minaccioso con obiettivi comuni e manovre coordinate. In comune solo una scommessa con il destino. Forse Cameron voleva evitare termini biblici come «piaga», ragionano i commentatori su una stampa ugualmente polarizzata, con i tabloid più agguerriti che chiedono al governo di «mandare l’esercito» a Calais, come nell’assedio del Trecento. A Calais l’area dei campi di accoglienza è stata soprannominata «la giungla», ancora quel pericolo oscuro e selvaggio. Il Regno Unito ha fatto valere la clausola di opt-out per sfilarsi dalla cooperazione nello smistamento dei richiedenti asilo. Per scoraggiare la traversata della Manica, il ministero dell’Interno ha annunciato un piano che prevede una stretta su sussidi e benefici del welfare. Misure simili erano già state annunciate in Danimarca. Le fondamenta dello Stato sociale nordico vacillano.
Non piacciono, a Bruxelles, le resistenze britanniche. «C’è bisogno di più solidarietà e responsabilità nel modo in cui affrontiamo la pressione migratoria» commentano i portavoce della Commissione europea. Né piacciono alla Francia che chiede cooperazione, o all’Italia con i suoi 90 mila arrivi dall’inizio dell’anno, o alla Germania che secondo le previsioni entro la fine del 2015 dovrà gestire 400 mila ingressi, la cifra più alta dall’ondata di profughi delle guerre balcaniche. Nel 2014 la Gran Bretagna ha ricevuto 26 mila domande d’asilo, ne ha accettate 10 mila. Ieri il Financial Times contrapponeva gli scrupoli inglesi agli sforzi di Italia, Germania e Paesi come l’Irlanda, che pur potendo sfilarsi con l’aiuto dei meccanismi di opt-out ha scelto di essere della partita. Le ricadute politiche sono difficili da gestire ovunque. Nella stessa Germania che con il suo rodato sistema di distribuzione dei rifugiati nei sedici Länder si pone come modello di integrazione, crescono le tensioni, spinte dal linguaggio esasperato della destra xenofoba. Negli ultimi mesi si sono verificati numerosi attacchi a strutture che accolgono i migranti. C’è chi reagisce come il deputato Martin Patzelt, dell’Unione cristiano-democratica della cancelliera Angela Merkel, che rivela alla tv Ard di aver ospitato due rifugiati eritrei, «così si combatte l’odio».

i tanti pregiudizi sui rom

 

I rom rubano i bambini e gli altri stereotipi sulla minoranza più discriminata d’Europa

Una rifugiata bosniaca di etnia rom, in un campo a Giugliano, in provincia di Napoli.  - Andrea Baldo, LightRocket/Getty Images
 una rifugiata bosniaca di etnia rom, in un campo a Giugliano, in provincia di Napoli
 

Secondo il Pew research center, l’Italia è il paese europeo dove l’intolleranza verso i rom e i sinti è più diffusa. L’istituto di ricerca statunitense ha esaminato l’ostilità nei confronti dei rom in sette paesi d’Europa nel 2014, e in Italia l’85 per cento degli intervistati ha espresso sentimenti negativi verso questa popolazione. Nel 2014 l’Osservatorio 21 luglio ha registrato 443 episodi di violenza verbale contro i rom, di cui 204 ritenuti di particolare gravità, e l’87 per cento di questi episodi è riconducibile a esponenti politici.

Gli stereotipi negativi su questo popolo sono molto diffusi, influenzano la percezione collettiva, le politiche pubbliche e hanno contribuito a fare dei rom un capro espiatorio in molte situazioni. Tuttavia alcune ricerche suggeriscono che la maggior parte della popolazione italiana conosce molto poco i rom. Uno studio di Paola Arrigoni e Tommaso Vitale per l’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione ha mostrato che il 42 per cento degli italiani non conosce la cultura rom.

I rom rubano i bambini. La storia che i rom rubano i bambini è molto antica e di tanto in tanto riaffiora nelle cronache dei quotidiani.

Nell’ottobre del 2014 in Irlanda, a Dublino e ad Althon, una bambina rom di sette anni e uno di due furono sottratti ai genitori perché avevano i capelli biondi e gli occhi azzurri e le autorità pensarono che erano stati rubati. Ma gli esami del dna confermarono che i due bambini erano figli delle famiglie a cui erano stati sottratti. Il ministro della giustizia irlandese aprì un’inchiesta sull’accaduto, ma l’episodio scatenò un’isteria collettiva, commenti razzisti e una serie di false denunce di bambini rubati dai rom.

Episodi come questi sono ciclici in Italia e in Europa. La ricercatrice Sabrina Tosi Cambini nel libro La zingara rapitrice ha analizzato gli archivi dell’Ansa dal 1986 al 2007 e ha preso in considerazione le decine di notizie in cui si denunciavano presunti rapimenti e scomparse di bambini a opera dei rom. Lo studio ha analizzato trenta casi di presunti rapimenti e ha verificato che nessuno di questi casi si è dimostrato vero dopo le indagini della polizia e della magistratura. Ma spesso i mezzi d’informazione, che hanno dato la notizia del rapimento, hanno invece ignorato gli esiti delle inchieste. Quello che si sa poco, invece, è che molti bambini rom vengono sottratti alle loro famiglie dai tribunali dei minori a causa delle condizioni materiali di indigenza delle loro famiglie.

Il rapporto dell’Associazione 21 luglio, Mia madre era rom, ha mostrato che un bambino rom ha il 60 per cento di possibilità in più di altri bambini che sia aperta nei suoi confronti una procedura di adottabilità.

I rom non vogliono abitare nelle case, sono nomadi. Solo il 3 per cento della popolazione rom in Italia è nomade, mentre la maggior parte è stanziale (dati della commissione diritti umani del senato). In Italia, quattro rom su cinque vivono in normali abitazioni, lavorano e conducono una vita perfettamente integrata. Si tratta di almeno 130mila persone. Tutti gli altri (un quinto del totale, circa 40mila persone) vivono nei campi, in una situazione di emergenza abitativa. Si tratta dello 0,06 per cento della popolazione italiana.

L’Italia è l’unico paese in Europa dove esistono i campi, creati dalle autorità per risolvere l’emergenza abitativa dei cittadini rom. L’idea che i rom amano vivere nei campi perché sono nomadi per cultura è priva di fondamento. Più del 90 per cento di quelli che vivono in Italia è stanziale.

In Abruzzo per esempio le famiglie rom vivono in normali appartamenti e conservano la cultura, la lingua e le tradizioni rom. La parola nomadi inizia a essere usata per parlare delle popolazioni rom e sinti alla fine dell’ottocento. Nando Sigona del Centro studi sui rifugiati dell’università di Oxford ha spiegato a Redattore sociale che “l’utilizzo del termine nomadi serve per giustificare la costruzione dei cosiddetti campi nomadi”, dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Secondo Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, “la parola nomade è molto pericolosa” perché giustifica la segregazione delle persone rom in campi speciali isolati dalla città. Nel suo rapporto annuale l’Associazione 21 luglio afferma: “Nel 2014 la costruzione e la gestione dei campi rom continua a essere un’eccezione italiana nel quadro europeo. Tali politiche hanno comportato voci di spesa elevatissime senza far registrare alcun miglioramento nelle condizioni di vita di rom e sinti, ma ne hanno sistematicamente violato i diritti umani. A Roma nel 2013 sono stati spesi più di 22 milioni di euro per mantenere in piedi il sistema dei campi e dei centri di accoglienza per soli rom”.

Sono troppi, devono tornare a casa loro. L’Italia è uno dei paesi europei dove abitano meno rom e sinti, al contrario di quanto percepito dalla popolazione.

In Italia abitano 180mila rom, lo 0,25 per cento della popolazione totale, una delle percentuali più basse d’Europa. La Romania è il paese europeo con la maggiore presenza di rom (circa due milioni), seguita dalla Spagna dove i rom sono circa 800mila. Nonostante il numero dei rom in Italia sia basso, nel 2008 il governo italiano ha dichiarato lo “stato di emergenza nomadi” nel Lazio, in Campania e in Lombardia. Ad aprile 2013 la corte di cassazione ha dichiarato illegittimo il piano di emergenza, perché non ha rilevato nessuna relazione tra la presenza dei rom e i presunti pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica denunciati dal governo.

I rom e i sinti sono presenti in Italia da più di sei secoli. Infatti il 50 per cento dei rom che abitano nel paese è di nazionalità italiana. Le regioni dove la presenza rom è più significativa sono il Lazio, la Campania, la Lombardia e la Calabria. In Emilia Romagna più del 90 per cento dei rom è italiano. I rom di più recente insediamento provengono dai Balcani, sono profughi della guerra nella ex Jugoslavia, molti di loro sono apolidi di fatto, non hanno i documenti, perché il loro paese d’origine non esiste più.

il commento al vangelo della domenica

BATTEZZATE TUTTI I POPOLI NEL NOME DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO  

commento al Vangelo della domenica della ss. Trinità (31 maggio 2015) di p. Alberto Maggi 

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Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

La liturgia di oggi ci presenta la finale del Vangelo di Matteo, che al versetto 16 scrive “gli undici discepoli” – non sono più dodici, manca Giuda. Giuda ha scelto il denaro e il denaro lo ha distrutto, lo ha divorato, non ha scelto la beatitudine della povertà, cioè della condivisione solidale e continua, ma ha pensato soltanto al proprio interesse e chi pensa al proprio interesse si distrugge.
“Gli undici discepoli”, scrive l’evangelista, “intanto andarono in Galilea”. In Galilea per tre volte nel vangelo c’è l’invito di Gesù ad andare in Galilea dopo la sua risurrezione. Gesù non può essere sperimentato a Gerusalemme, la città santa e assassina, ma per sperimentarlo bisogna andare in Galilea – e per tre volte nel Vangelo di Matteo c’è questo invito – “sul monte che Gesù aveva loro indicato”.
Se per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, mai appare in questi inviti, l’invito ad andare su “il monte” che Gesù ha indicato. Gesù non ha mai indicato nessun monte. E perché gli undici vanno non su “un monte” – la Galilea è una zona montagnosa, ci sono tanti monti – ma su “il monte”?
Cosa vuol dire l’evangelista?
L’esperienza del Cristo risuscitato non è un privilegio concesso 2000 anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi. E l’ evangelista ce l’indica come?  Per sperimentare il Cristo risuscitato bisogna andare in Galilea su “il monte”. Questa espressione con l’articolo determinativo, “il monte”, è apparsa al capitolo 5, quando Gesù proclama le beatitudini su “il monte”.
Allora l’evangelista vuol dire che situarsi in Galilea su il monte significa situarsi nel cuore del messaggio di Gesù, le beatitudini. Le beatitudini invitano l’uomo a orientare la propria esistenza al bene dell’altro. Chi orienta la propria vita al bene dell’altro sente dentro di sé una forza, un’energia tale di vita che gli fa sperimentare il Cristo risuscitato. Quindi questo è possibile a tutti.
Continua l’evangelista: “Quando lo videro ”.
Vedere, nella lingua greca, si può dire in diversi modi; qui l’evangelista non adopera il termine che indica la vista “fisica”, ma la vista “interiore”.
Questo vedere non riguarda la vista, ma la fede. Ed è lo stesso che nelle beatitudini, nella beatitudine de “i puri di cuore”, Gesù aveva proclamato: “Beati i puri di cuore perché questi vedranno Dio” (cf Mt 5,8). Gesù non garantisce apparizioni o visioni, ma una profonda esperienza del Signore.
Quindi “lo videro, si prostrarono”. Prostrarsi  significa che riconoscono in Gesù qualcosa di diverso, vedono in Gesù la pienezza della condizione divina.
Però stranamente, scrive l’evangelista, “essi dubitarono”. Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, lo vedono! Non che in Gesù ci sia la condizione divina, si prostrano! Di che cosa dubitano?
L’unica volta che c’è il verbo “dubitare” in questo Vangelo è al capitolo 14, quando Pietro pretese di camminare sulle acque – e questo significava avere la condizione divina – ma incominciò ad affogare. E Gesù lo rimproverò: “uomo di poca fede, perché dubitasti? (Mt 14,32).
Allora in questo brano questa espressione “dubitare” dei discepoli si riferisce a che cosa? Anche loro pensano di avere la condizione divina, di arrivare alla condizione divina come Gesù, ma capiscono attraverso cosa è passato Gesù: l’ignominia della croce.
Allora dubitano di se stessi, non sanno se saranno anch’essi capaci di affrontare la persecuzione, la sofferenza e il martirio per arrivare alla condizione divina.
Ebbene Gesù, nonostante questa loro esitazione, li manda. Dice: “andate e fate discepoli tutti i popoli” – il termine indica le nazioni pagane, quindi proprio quelle popolazioni che erano emarginate, quelle popolazioni che erano disprezzate, proprio queste sono oggetto dell’amore di Dio.
Ed ecco il comando di Gesù “battezzandoli” – non è un rito liturgico quello che Gesù chiede di fare. Il verbo battezzare significa “immergere, inzuppare, impregnare”.  “Battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, nel nome di qualcuno indica una realtà.
Allora, è compito della comunità dei credenti di andare verso gli esclusi, verso gli emarginati, verso i rifiutati dalla religione e proprio a loro far fare una esperienza – di questo si tratta – della pienezza  dell’amore del Padre, colui che da la vita, del Figlio, colui nel quale questa vita si è pienamente realizzata, e dello Spirito, questa energia vitale.
“Insegnando”. E’ la prima volta nel Vangelo di Matteo che Gesù autorizza i discepoli ad insegnare. Non li autorizza ad insegnare una dottrina, ma una pratica: infatti “a praticare e a osservare tutto ciò che io vi ho comandato”.
E l’unica volta che appare qualcosa che Gesù comanda in questo Vangelo è riferito alle beatitudini. Non una dottrina da proclamare, ma una pratica da insegnare, “insegnate a praticare le beatitudini”, “insegnate a praticare la condivisione per amore, il servizio reso per amore”.
Se c’è questo – ecco la garanzia – “ecco io sono con voi”; Matteo aveva iniziato il suo Vangelo con l’espressione che Gesù è “il Dio con noi”  e termina con questa stessa espressone  “io sono con voi tutti i giorni fino …” – dispiace vedere qui nella nuova traduzione della CEI ritornare il termine inesatto, “fine del mondo”.
Non si tratta di fine del mondo, era meglio la vecchia traduzione dove si parlava di “fine dell’epoca, fine del tempo”; infatti la Bibbia di Gerusalemme dice “fino alla fine del tempo”.
Non si tratta di una scadenza, ma di una qualità di presenza; non c’è nessuna fine del mondo, Gesù non mette paura, Gesù assicura che se ci sono queste condizioni di andare comunicando amore, lui è sempre presente nella sua comunità e questo “per sempre” quindi non è una scadenza, ma una qualità della sua presenza.

 

la vita: un grande dono; il rito: la sua celebrazione

 

la vita:un’avventura meravigliosa

tutto inizia da qui: la nascita

 

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benvenuto nel nostro mondo!

 

benvenuto fra di noi a fare più bella

   questa nostra famiglia umana !

 

TI FACCIAMO FIN DA ORA GLI AUGURI PIU’ BELLI PERCHE’ TU POSSA TROVARTI BENE TRA DI NOI

TI AUGURIAMO DI POTER CRESCERE NEL CORPO, NELL’ANIMO E NEL CUORE FINO A ADARE IL MEGLIO DI TE

LA VITA TI REGALA FIN DA ORA TANTI DONI CHE ORA SONO PICCOLISSIMI DENTRO DI TE COME DEI PICCOLI SEMINI CHE ATTENDONO DI SVILUPPARSI E CRESCERE PER DARE TUTTI I LORO FRUTTI

CON L’AIUTO DEI TUOI GENITORI MA ANCHE DI TUTTE LE TUE AMICHE E AMICI POTRAI IMPEGNARTI IN QUESTA AVVENTURA CHE SARA’ BELLISIMA SE CI METTERAI TUTTO IL TUO IMPEGNO

 

 

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buona crescita!
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festa di compleanno

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TANTI AUGURI A TE

  TANTI AUGURI FELICI

   TANTI AUGURI A TE!

 

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“ti vogliamo bene”

ti vogliamo bene

 

 

 

 

 

 

te lo diciamo anche con la musica e il canto

 

 

 

 

 

auguri

 

 

tanti tanti di questi auguri, tanti tanti di questi anni!

infatti uno dopo l’altro passano i nostri anni tutti preziosi per fare le esperienze più belle e rendere sempre più bella e ricca di talenti la nostra vita

e gli anni passano a volte lenti come una lumachina, a volte veloci come un treno per darci l’opportunità di crescere: si nasce e si vive per crescere

 

LA VITA E’ IL LUOGO DELLA CRESCITA

  CRESCE IL CORPO MA DEVE

   CRESCERE ANCHE LA MENTE

 

 

 

 

 

 

 

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il corpo cresce mangiando tanto

la mente cresce frequentando la scuola:

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dalla scuola elementare che stai frequentando fatta apposta per quelli piccoli come te

 

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alla scuola media per quelli più cresciuti
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 fino alla scuola superiore per quelli che sono ormai quasi pronti per dare il meglio di sé nella vita

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a questo punto si diventa capaci di dare il meglio di noi avendo fatto tante esperienze e avendo imparato tante cose

siamo capaci di lavorare per fare più bello il nostro mondo e dare tutto il nostro apporto

 

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  negli uffici 

 

 

 

 

 

o nell’agricoltura

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o in fabbrica

 

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cioè dove uno si sente meglio  portato per dare il proprio contributo per fare più bello il nostro mondo

 

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si forma anche una famiglia per vivere con la persona a cui vogliamo più bene tutto il nostro amore

 

perché l’amore è bello 

è la cosa più bella del mondo

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è bello dire alla persona del nostro cuore: “sei la cosa più importante per me! ti voglio donare tutta la mia vita!”

 

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 come nel terreno buono i semini nascono e crescono fino a dare i loro frutti migliori, così nell’amore nascono i figli e crescono per fare più bello il nostro mondo

 

 

ma gli anni passano, corrono, sembrano sfrecciare come treni

 e si diventa vecchietti, malati, bisognosi di assistenza e cure

 

vecch1

 

 

 

 

 

la vita rallenta perché ha dato già il meglio di sé e guarda in dietro in modo riflessivo per valutare quello che abbiamo fatto, come lo abbiamo fatto e quello che avremmo potuto fare

si comincia a fare un bilancio della vita

si dice in modo più consapevole il nostro grazie alla vita che ci ha dato tante opportunità  per gioire, amare, donare noi stessi per fare più bella la vite degli altri

vecch2

 

 

 

 

  e pian piano ci prepariamo quindi a dare con grande serenità il nostro saluto definitivo alla vita col cuore colmo di gioia proprio di colui che sa di avere ricevuto tanto e di avere dato tanto ed è sazio di tutti i bei giorni che ha vissuto

 

 

 

    osp lucca

 

 

 l’ospedale è il luogo dove curiamo le nostre malattie e torniamo guariti a continuare la nostra avventura

ma è anche il luogo dove, dopo aver consumato e vissuto tutti i nostri giorni, chiudiamo definitivamente i nostri occhi per affidarci e rituffarci nel mistero della vita da cui veniamo

 

 la vita quindi è

cammino,

avventura,

crescita:

fisica

intellettuale

affettiva

psicologica

morale

spirituale

la vita è occasione per:

amare
gioire
far festa
aprirci agli altri
dare il meglio di noi
imparare dagli altri
imparare dagli sbagli

la nostra vita sarà quello che noi vorremmo farne

può diventare il nostro capolavoro!

che cosa c’entra in tutto questo  con la prima comunione alla quale ci vogliamo preparare?

il ‘rito’ è la ‘celebrazione’ della vita e dei suoi momenti più significativi

 

nato

 

 

 

 

la nascita viene celebrata con il rito del battesimo

 

battesimo

 

 

 

 

nel battesimo presentiamo il bambino a Dio:

  • per ringraziarlo del dono grande che lui ha fatto ai genitori e a noi tutti perché un bambino o una bambina che nasce è un regalo grande che fa più bello il mondo di tutti
  • perché lo benedica riempiendolo di tutti i suoi doni
  • perché con l’aiuto di Dio cresca nell’animo e sviluppi al meglio i doni di Dio

cresimA

 

 

 

 

la crescita fisica e soprattutto la crescita spirituale del bambino viene celebrata col sacramento della cresima

 

la cresima che il bambino cresciuto riceve rende evidente attraverso il rito che comincia ad essere capace di testimoniare la sua fede e il suo amore a Dio con una vita di apertura del suo cuore agli altri, in particolare ai più bisognosi

 

 

comunione

 

 

 

come per crescere nel corpo abbiamo bisogno di mangiare, così per crescere nell’animo abbiamo necessità di alimentarsi

se una persona non mangia muore, se non alimento il mio animo il mio animo muore

prima com

 

 

 

 

 

per questo Gesù ci da un pane tutto particolare che alimenta e rende sempre più robusta la nostra vita spirituale

ci alimentiamo con questo pane col rito della prima comunione

si dice prima comunione perché dopo la prima c’è la seconda, poi la terza …

abbiamo sempre bisogno di questo pane che riceviamo nel rito o sacramento dell’eucarestia

CONFESSIONE

 

 

 

nella vita a volte succede che non ci comportiamo bene con i nostri amici e ci scappa una parola poco bella verso di loro recando loro offesa

o succede che sentiamo di non essere stati gentili e rispettosi verso i genitori facendo di testa nostra trascurando i loro consigli e suggerimenti

o sentiamo di non impegnarci bene nello studio perché preferiamo giocare e divertirci …

in questi casi sentiamo di dover chiedere scusa e perdono ai nostri amici, ai genitori e anche a Dio perché trascuriamo di far tesoro dei suoi doni: i cristiani chiedono scusa e perdono nel rito pubblico della confessione nel quale ci impegniamo advessere più buoni

CONFESSIONE1

 

 

 

chiedendo il perdono ritorniamo più amici di prima con tutti

 

MATRIM

 

 

 

il cristiano sente che i sentimenti più belli che vive nel suo cuore per la persona che ama sono il più grande dono di Dio per cui sente il bisogni di dire davanti a tutti a Dio il suo grazie più commosso

la fa in Chiesa davanti a tutta ala comunità cristiana col rito o sacramento del matrimonio perché Dio benedica questo amore e per chiedere a lui che questo grande amore non finisca mai

 

 

MATRIMONIO

 

 

 

 

 

l’amore è una cosa così grande e così bella che merita di essere celebrata con la festa più grande e più bella

MATRMO

 

 

 

 

 

non tute le persone si sposano:

  • ci sono delle persone che non sono interessate a sposarsi
  • ci sono delle persone che non si sposano perché non hanno trovato la persona giusta con cui condividere la vita
  • ci sono persone che si lasciano prendere e riempire il cuore in modo così totale e forte da alcuni valori della vita – come l’arte o la scienza o altre cose – che sentono che nel loro cuore non ci sta altro, non c’è posto per amare un’altra persona e sono contente così
  • ci sono persone che sentono che la cosa più bella del mondo, cioè l’amore, si può vivere anche in una forma più aperta e integrale impegnando tutta ala sua vita a servizio della comunità umana e cristiana, soprattutto dei più bisognosi

CONSACRAZ

 

 

 

il dedicare la vita intera a servizio della comunità cristiana avviene in modo pubblico con il rito dell’ordine sacro o sacerdozio

 

 

CONSACRAZIONE

 

in questa maniera il sacerdote rende evidente alla comunità e a Dio che da ora in avanti  i suoi bisogni, le sue esigenze, le sue necessità, il suo bene sono subordinati o meglio vengono dopo i bisogni, le esigenze, le necessità e il bene della comunità: in questa maniera esprime la sua sottomissione alla gioia e al bene degli altri

 

voti frati

 

 

 

 

i religiosi, cioè i frati e le suore, lo dicono consacrando la vita per questi ideali attraverso i tre voti, cioè le tre promesse pubbliche: obbedienza, povertà, castità

voti suore

 

 

 

 

 

unzione malati

 

 

 

la vita è un grande dono di Dio, ma è molto fragile, soggetto a malattie

 

il cristiano sa che è importante vivere anche la malattia alla luce della fede, non nel senso che le malattie ce le manda il Signore – come molti credono – perché ci siamo comportati male (Dio non fa queste cattiverie!), ma nel senso che la fragilità, la debolezza e la malattia fanno parte della nostra vita e come col rito celebriamo la vita così col rito celebriamo anche la malattia

unzione malati1

 

la malattia la celebriamo col rito o sacramento della unzione degli infermi

con questa unzione chiediamo al Signore che ci dia la forza di vivere con coraggio e serenità la nostra malattia in attesa di tornare più sani alle nostre attività quotidiane

unzione

 

 

 

 

non solo l’amore, la gioia, la salute fanno parte della vita

anche la morte fa parte della vita: il cristiano celebra la morte

con il funerale cristiano
funerale

 

 

 

 

 

fune

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

le parole feroci di Salvini contro i rom

la politica della ferocia

a proposito di ‘radere al suolo i campi rom’

di Michele Serra
in “la Repubblica” del 9 aprile 2015

Serra

È sperabile e forse probabile che Matteo Salvini, quando dice che bisognerebbe “radere al suolo i campi Rom”, abbia in mente qualcosa di meno insolente e meno violento. Per esempio che, con congruo preavviso, quei campi andrebbero sgomberati. Perché allora, Salvini dice proprio “raderli al suolo”? Lo dice perché è al tempo stesso artefice e vittima di uno dei più funesti equivoci della scena politica italiana degli ultimi anni. L’idea che il “parlare come si mangia” sia un decisivo passo avanti; mentre è un penoso, umiliante passo indietro. La politica è — da sempre — il tentativo di dare una forma, anche verbale, alle pulsioni di massa. Di renderle, diciamo così, presentabili in pubblico, e non per il piacere privato di quattro intellettuali, ma per dare una voce più intellegibile e dunque più autorevole soprattutto a chi voce non ha. Che quella dei campi rom sia una questione sociale rilevante, e lo sia tanto per i rom quanto per chi con quei campi convive, è perfettamente vero. Ma nemmeno il più ottuso e infelice dei politici, a meno che sia un nazista (e Salvini non lo è)

salvini

può dire pubblicamente che quei campi vanno “rasi al suolo” senza attirarsi la dura critica e lo spregio di chi (per esempio la Caritas) la politica la fa sul campo. La fa nelle strade e nelle case, nelle periferie e nei campi nomadi, non nei “salotti del centro” tanto invisi a Salvini: e proprio per questo conosce le difficoltà, la fatica, la povertà, il degrado, le paure, il dolore umano, insomma la maledetta complicazione del problema. E detesta le semplificazioni becere, quelle scodellate in tivù per cercare l’applauso facile. L’urlaccio, il grido minaccioso, il borborigmo che non trova sbocchi non sono politica. Sono, della politica, un ingrediente bruto che chi fa politica ha il dovere di elaborare. Ignorare quegli ingredienti per non sporcarsi le mani è un vizio grave. Ma ficcarcele dentro, le mani, estraendone i peggiori effluvi e le più dolenti frattaglie come trofei, è il vizio opposto. In questo vizio sguazza, fino dalle sue origini, la Lega, che della sua matrice “popolana” si fa un vanto. Non rendendosi conto che il politicamente scorretto, per quanto lucroso (a tratti) e per quanto di facilissimo conio, ha il difetto strutturale di non riuscire a risolvere neanche mezzo problema. Se il politicamente corretto è spesso ipocrita, il politicamente scorretto è sempre impotente, rabbia da parata, smargiassata mediatica, niente che odori di soluzione anche parziale, anche imperfetta dei problemi. Niente che possa diventare governo, egemonia culturale, nuova identità condivisa e operativa. Se non si è Hitler o Tamerlano il politicamente scorretto, la minaccia feroce, le soluzioni finali sono solamente il segno della più fragorosa inettitudine. A questo danno interno, il politicamente scorretto aggiunge i danni inflitti, suo malgrado, alla comunità intera. Come un contagio. La dequalificazione del linguaggio politico, la sua capillare corrosione fa male a tutti indistintamente. Contamina, indebolisce, danneggia, peggiora, incanaglisce: diventa parte integrante del discredito della politica e della classe dirigente. Un personaggio come Razzi, oggi considerato una amabile macchietta, fino a non troppi anni fa sarebbe stato visto come una figura scandalosa o un caso umano da soccorrere. Quando ci si abitua a sdoganare l’insolenza, l’aggressività e l’ignoranza come ragioni identitarie, niente può più sbalordire e niente può più indignare. Fino a vent’anni fa a dire che bisogna “radere al suolo” i campi rom era qualche personaggio da bar. Nei bar si diceva (e si dice) anche molto peggio. Ma trasformare la polis in un bar vuol dire non avere alcun rispetto né della polis, né del bar.

il cardinale Vegliò le ha definite ‘parole stupide non meritevoli di commento’, il grande Vauro le ha commentate così:

Salvini e i rom

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