il vangelo della domenica

 

RADDRIZZATE LE VIE DEL SIGNORE 

 commento al Vangelo della seconda domenica di avvento (7 dicembre 2014) di p. Alberto Maggi
 
maggi
 
Mc 1,1-8
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto:  preparate    la   via   del Signore raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

 

Leggiamo e commentiamo i primi otto versetti del vangelo di Marco, che inizia con queste parole: Inizio della buona notizia … sappiamo che il termine vangelo significa infatti buona notizia. E’ una buona notizia che è già conosciuta. L’evangelista non si rivolge a persone che ancora non conoscono la novità di Gesù, ma a persone che già la vivono. E Marco intende narrare quale è stata l’origine. Allora perché la chiama buona notizia? Perché c’è un nuovo rapporto con Dio che non è più basato sull’osservanza della legge – il termine “legge” nel vangelo di Marco non apparirà mai – ma sull’accoglienza dello Spirito, come vedremo alla fine di questo brano con l’annunzio che l’attività di Gesù sarà battezzare in Spirito Santo. Quindi non più l’osservanza di una legge esterna all’uomo, ma l’accoglienza di una realtà interiore all’individuo. La buona notizia è di Gesù Cristo, Cristo cioè Messia, e manca l’articolo, che significa che non è il Messia della tradizione, quello che Israele attendeva, il liberatore che attraverso la violenza avrebbe restaurato il Regno di Israele, ma un liberatore, un Messia completamente diverso che l’evangelista ci aiuta ora a scoprire. Figlio di Dio. Ecco Gesù sarà Messia, ma non sarà il figlio di Davide, non verrà a restaurare il regno di Israele, ma il figlio di Dio verrà ad inaugurare il regno di Dio, l’amore universale del Padre.  Come sta scritto nel profeta Isaia … e qui in realtà l’evangelista fa un collage di tre testi, in cui c’è naturalmente anche il profeta Isaia, ma apre anzitutto con il testo del libro dell’Esodo. E chiude poi quello di Isaia con l’Esodo. Il primo esodo è stato la collaborazione di tutti coloro che lo desiderano. Ed ecco la presentazione di chi è questo messaggero di Dio. E’ un inviato da Dio che prescinde da ogni istituzione religiosa. Vi fu Giovanni che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo … Il battesimo era un rito conosciuto, ci si immergeva nell’acqua a simboleggiare la morte al proprio passato, per iniziare una vita nuova. Quindi proclamava un’immersione in segno di morte al passato … di conversione, cioè cambiamento di vita. Se fino adesso hai vissuto per te, adesso vivi per gli altri, questo è il significato di “conversione” che l’evangelista adopera. Per il perdono dei peccati. Il cambiamento di condotta ottiene il condono di tutte le colpe, quindi è un atto esteriore per indicare un profondo cambiamento interiore. Ebbene, all’annunzio di Giovanni, di un battesimo per ottenere il perdono dei peccati, c’è una risposta inaspettata, incredibile. Infatti scrive l’evangelista: Accorrevano a lui … e qui l’evangelista adopera il verbo “uscire”, che è lo stesso adoperato nell’esodo per indicare la liberazione compiuta da Dio nei confronti del suo popolo. Accorrevano a lui da tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. Questo è sorprendente, perché a Gerusalemme c’era il tempio, il luogo preposto per il perdono dei peccati. Ebbene le persone comprendono che il perdono dei peccati non si ottiene attraverso un rito nell’istituzione religiosa, ma anzi bisogna allontanarsi per un cambio profondo della propria vita. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano … ecco un’altra indicazione dell’Esodo. Il Giordano è stato il fiume che il popolo d’Israele ha dovuto attraversare per entrare nella terra promessa. Confessando i loro peccati. Poi l’evangelista ci da una descrizione di questo Giovanni, che è la descrizione dei profeti. Infatti era vestito di peli di cammello, che era l’abito dei profeti, con una cintura di pelle attorno ai fianchi. Questa sottolineatura della cintura di pelle richiama il più grande dei profeti cioè il profeta Elia, quindi l’evangelista vuole rappresentare che quell’Elia che il popolo attendeva come precursore del Messia, si è manifestato nella figura di Giovanni Battista. E mangiava cavallette e miele selvatico. Quello che offre il deserto, il cibo normale dei nomadi e dei beduini. E proclamava: “Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali”. L’espressione di Giovanni Battista non è un attestato di umiltà, ma qualcosa di molto più profondo. Qui c’è un’allusione a ben tre testi, al libro del Genesi, al libro di Ruth e al libro del Deuteronomio, che si rifanno a una pratica chiamata del Levirato, da Levir, che in latino significa “cognato”. Qual era questa pratica? Quando una donna rimaneva vedova senza un figlio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta. Il bambino che sarebbe nato avrebbe portato il nome del marito defunto, in modo che il nome del defunto continuasse a perpetuarsi. Quando il cognato si rifiutava si mettere incinta la donna, colui che aveva diritto dopo di lui procedeva alla cerimonia chiamata “dello scalzamento”, scioglieva il legaccio dei sandali – era un rito particolare – si sputava sui sandali e stava a significare: il tuo diritto di mettere incinta questa donna passa a me. Allora la proclamazione di Giovanni Battista è molto più profonda. Lui dice: “non scambiate me per il Messia, lo sposo d’Israele, colui che deve fecondare questa donna, considerata come una vedova perché la relazione con Dio era ormai terminata, non sono io, ma colui che sta per venire”. Perché “io vi ho battezzato con acqua”, un rito esterno, l’acqua è qualcosa di esteriore all’uomo, “ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”. L’azione di Gesù sarà un’immersione profonda, intima, interiore, nella stessa vita divina. Ecco allora la buona notizia che l’evangelista ha annunziato. La relazione con Dio non è più basata sull’osservanza della legge, ma sull’accoglienza del suo amore. E’ questo che guiderà la vita degli uomini.

Non giudicherà secondo le apparenze..”

il commento di p. Agostino Rota Martir che ‘legge’ il vangelo non da una sala parrocchiale o da uno studio teologico ma dalla sua convivenza con un gruppo di rom a Pisa:

p. agostino

 

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    • “Preparatevi, quando arriverò io risolverò tutto! Le cose cambieranno verso.”
    • “Colui che viene dopo di me è più forte di me..”

    Due logiche diverse, anzi opposte tra di loro. La prima, tipica del leader di successo, la seconda è di chi sa e si sente un messaggero di Qualcuno.

    La prima è di chi sentendosi forte, con sondaggi alla mano tende a restringere o addirittura annullare lo spazio dell’altro, visto come un ingombro alla propria iniziativa.

    L’altro, invece sceglie di “fare spazio all’altro”: atteggiamento tipico di Dio. Racconta un Midrash ebraico che quando Dio crea il mondo e l’uomo si rannicchia, proprio per fare spazio a ciò che nasce.. in un certo senso mi sembra più bello l’ atteggiamento di un Dio rannicchiato, che si ritrae perché l’altro cresca, rispetto a quello di un Dio creatore in piedi che domina e controlla l’andamento del mondo.

    Il leader, in genere è alla ricerca dei riflettori, il Battista invece sceglie di mettersi da parte, il deserto è il suo luogo di vita, ma anche lo spazio di osservazione, la sua periferia dalla quale guardare il mondo e le persone.

    In genere, il primo gioca un po’ ad essere “come Dio”, il secondo invece, cerca Dio nelle pieghe nascoste degli uomini. Nel Mistero dell’incarnazione Dio che si fa uomo! Un Dio che si converte all’uomo, mischiandosi con l’umanità con tenerezza e sapienza.

    “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse..non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire.” (Is. 11, 1.3)

    I tempi del germoglio sono lenti e costanti, non dettati dalla fretta dei risultati. E poi un germoglio è imprevedibile, proprio come il Dio dei profeti sempre al fianco dei poveri. Per i poveracci di ieri, quando Isaia pronunciò queste parole, e quelli di oggi le cose per loro non sono cambiate di molto. Stesso destino, esclusi e visti spesso come causa delle crisi, stessi atteggiamenti di pregiudizio. Gli spazi per i poveri si riducono sempre di più, visti con disagio e sospetto e affidati alla gestione a persone senza scrupoli, affaristi e con la puzza sotto il naso.

    “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello..”

    Sogno o stimolo perché la fede in Dio sia capace di entrare nei cuori di tutti? In quello dei prepotenti, come in quello delle loro vittime.

    I lupi che vorrebbero i Rom nei forni crematori, sapranno un giorno vivere insieme, accogliendosi nel rispetto reciproco? Il lupo oggi ha tante sembianze, tanti volti, sa presentarsi bene, si trasforma velocemente, segue il vento che tira, ma anche l’agnello può diventare lupo a sua volta, verso il più debole di lui. Ecco, quindi l’urgenza del vigilare (domenica scorsa), e l’invito di questa domenica alla conversione: saper fare spazio all’altro, perché “il Regno dei cieli possa farsi vicino”.

     

     

    M. Gramellini e la scelta di Brittany

    GramelliniDignità

    massimo gramellini

    Per il Vaticano la scelta della malata terminale californiana Brittany Maynard di anticipare di qualche settimana una fine dolorosa e scontata è da considerarsi «priva di dignità». La Chiesa ha ovviamente tutto il diritto di fare la Chiesa e di interpretare i dettami della divinità a beneficio di coloro che le riconoscono la funzione di intermediaria. Ma definire indegna la decisione di una donna colpita da un tumore devastante al cervello significa non sapere più dove stia di casa la parola «umanità». Nelle astrazioni della dottrina si possono anche costruire scintillanti cattedrali di ghiaccio. Ma la vita, per chi la conosce e la ama, è un’altra storia e ci racconta che qualsiasi strada percorsa con coraggio conduce a destinazione. Una persona che combatte fino all’ultimo contro il dolore e l’umiliazione della malattia ha la stessa dignità di chi preferisce sottrarre il suo corpo e i propri cari a un simile strazio. Nessun condannato a morte si avvia volentieri al patibolo, a meno che sia un martire invasato: categoria di cui da sempre abbondano soprattutto le religioni. Se sceglie di anticipare l’esecuzione, è solo perché vuole andarsene con consapevolezza. C’è molta più dignità nelle lacrime di congedo della vitalissima Brittany che in chi, ancora una volta, ha deciso di salire sull’onda di un caso mediatico per zavorrare di aggettivi infamanti la libera e drammatica scelta di un essere umano.

     

    il vangelo della domenica commentato da p.Maggi

    p. Maggi

    CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO 

    Commento al Vangelo della ESALTAZIONE DELLA CROCE  (14 settembre 2014, domenica ventiquattresima del tempo ordinario) di p. Alberto Maggi

    Gv 3,13-17

    In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
    Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.»

    Nel dialogo con il fariseo Nicodemo, capo dei Giudei, Gesù si rifà ad un episodio conosciuto della storia di Israele contenuto nel Libro dei Numeri.
    Al capitolo 3, versetto 14 l’evangelista scrive: “«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto»”; i serpenti erano stati inviati da Dio per castigare il popolo secondo lo schema classico di “castigo-salvezza/perdono”. In Gesù invece c’è soltanto salvezza.
    “«Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo»”, Gesù si riferisce alla sua futura morte in croce e parla del Figlio dell’uomo, cioè l’uomo che ha la pienezza della condizione divina.
    “«Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna»” – credere nel Figlio dell’uomo significa aspirare alla pienezza umana che risplende in questo figlio dell’uomo.
    Per la prima volta appare in questo vangelo un tema molto caro all’evangelista, cioè quello della vita eterna. La vita eterna non è, come insegnavano i farisei, un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una qualità di vita già nel presente. E si chiama “eterna” non tanto per la durata senza fine, ma per la qualità indistruttibile.
    E questa vita eterna non si avrà in futuro, ma si ha già. Chiunque da adesione a Gesù, quindi aspira alla pienezza umana che risplende in Gesù.
    “«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito»”, il Dio di Gesù non è un Dio che chiede, ma un Dio che offre, che arriva addirittura a offrire se stesso. “«Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»”.
    La vita eterna non si ottiene, come insegnavano i farisei, osservando la legge, cioè un codice esterno all’uomo, ma dando adesione al Figlio dell’uomo. E Gesù appare qui come il dono dell’amore di Dio per l’umanità. Dio è amore che desidera manifestarsi e comunicare. E Gesù è la massima espressione di questa manifestazione e comunicazione di Dio. “«Dio infatti non ha mai mandato il Figlio nel mondo per condannare»”, anche se il verbo qui non è condannare, ma “«giudicare il mondo»”.
    Di nuovo qui Gesù sta parlando con un fariseo, demolisce le attese di un messia giudice del popolo. Quindi il Figlio non è venuto per giudicare il mondo, “«ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»”. Dio è amore e in lui non c’è né giudizio né condanna, ma c’è soltanto offerta di vita.

    polemica sui campi rom di Pisa e sgomberi

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    l’intervento di Africa insieme e del Progetto Rebeldia sulle vicende riguardanti il dibattito e lo sgombero dei campi rom di Pisa

    gli articoli cui si fa riferimento si possono leggere nei link in fondo all’intervento:

     

    Come in un inquietante gioco dell’oca, la politica pisana torna di tanto in tanto alla casella di partenza, e si dimentica del percorso fatto. È quanto sta accadendo negli ultimi giorni, a proposito del dibattito sui rom: un dibattito pieno di discorsi vecchi e di stereotipi banali. Che però feriscono persone in carne e ossa, e creano esclusione e discriminazione.

    Il direttore del Parco solleva il tema del (presunto) smaltimento irregolare di rifiuti nei campi nomadi: cita fatti gravi senza circostanziarli, e accusa l’intera comunità rom di episodi che – se accertati – sarebbero comunque responsabilità dei singoli. Confcommercio definisce “inaccettabile” il campo della Bigattiera, e ne chiede lo sgombero. 

    sgomberi

    Che i campi nomadi siano “inaccettabili”, lo dicono gli stessi rom che sono costretti ad abitarvi. I campi sono luoghi di segregazione – veri e propri “ghetti” – che rappresentano la vergogna dell’Italia, e che le istituzioni internazionali (Unione Europea, Consiglio d’Europa) ci chiedono di superare. 

    “Superare i campi” non vuol dire però sgomberarli con la forza. Non è difficile capire che una famiglia allontanata da un campo, se priva di alternative, costruirà un altro campo a poche centinaia di metri. 

    Gli sgomberi sono inutili, controproducenti (aggravano le condizioni di marginalità), e hanno costi altissimi a carico dei contribuenti: si calcola che ogni intervento costi decine di migliaia di euro. Per di più, sono illegali ai sensi del diritto internazionale, e non si può invocare la “legalità” solo quando fa comodo… 

    Invece di ricorrere a stereotipi e frasi fatte, sarebbe utile ricordare un po’ di storia recente. L’UE ha stanziato fondi consistenti per “superare i campi”, e per garantire una sistemazione dignitosa alle famiglie che li abitano. I rom della Bigattiera, assieme a tante associazioni, chiedono che il Comune acceda a questi fondi, e avvii un programma di inserimento abitativo. Il Consiglio Comunale aveva approvato persino una mozione in questo senso, che è rimasta però lettera morta: ad oggi, i rom della Bigattiera vivono in un luogo senza luce, senza acqua e senza scuolabus per i bambini. Questa è la cosa davvero “inaccettabile”, che però non viene neanche menzionata nei comunicati di Gennai e di Confcommercio. E di questo si dovrebbe seriamente discutere. Si preferisce invece invocare gli sgomberi, e attizzare un po’ di odio verso i rom, invocando la “legalità” a sproposito (è ovvio che chi commette un reato debba essere perseguito, ma è altrettanto ovvio che le responsabilità sono personali, e non coinvolgono i rom come categoria). L’esito di queste dichiarazioni è scontato: vi saranno più controlli di polizia nei campi (come già è accaduto in questi giorni), e si farà qualche sgombero “muscolare” per accontentare chi protesta. Nel frattempo, i problemi rimarranno intatti sul tavolo, e i rom continueranno a restare senza acqua, senza luce e senza scuolabus. Un bel capolavoro.

    PISA, 27 AGOSTO 2014

    Associazione Africa Insieme

    Progetto Rebeldia

     

    29-08-2014 – Il Tirreno – Rifiuti pericolosi trovati nei campi nomadi”

    28-08-2014 – Pagina Q – Campi rom: si accende la polemica sullo sgombero della Bigattiera

    28-08-2014 Il Tirreno – Blitz nei campi nomadi di Coltano e della Bigattiera

    28-08-2014 – La Nazione – Nomadi, blitz a Coltano e alla Bigattiera

    27-08-2014 – La Nazione – “Via il campo nomadi sulla Bigattiera: è inaccettabile”

    26-08-2014 – La Nazione – Nerini in azione “Basta rinvii su sicurezza e campi rom”

    25-08-2014 – La Nazione – “Nei campi nomadi rifiuti pericolosi”

    se ‘Rebeldia’ e ‘Africa insieme’ giustamente criticano la durezza e spietatezza usate troppo spesso nel demolire le baracche e le umilissime abitazioni dei campi rom e se certamente è vero che molte volte (per cause che sbrigativamente e superficialmente vengono ricondotte alle responsabiltà dei rom) appaiono come luoghi e abitazioni di degrado e di ghetto, certo è che la soluzione che si cerca di imporre con la teorizzazione del superamento dei campi nella teoria dell’ ‘oltre i campi’ (che vede come unica soluzione l’inserimento forzato in) è troppo rigida e poco rispettosa dei veri desideri e sensibilità e cultura di questo popolo
    di questo pare sia convintissimo anche don Agostino la cui roulotte è stata abbattuta per ultima (vedi articolo de ‘la Nazione’ rortato in foto qui sopra), e che esprime il suo disagio, condiviso da diversi rom che  con lui abitavano quello spazio, col seguente grido:

    “Ridatemi per cortesia il campo di prima!”

     
    Da diverso tempo tutti gridano con disinvoltura e sicurezza che bisogna andare oltre i campi, che bisogna superare questa vergogna tipicamente italiana, e anche questo è falso! E’ un altro stereotipo, ma che si tiene volutamente nascosto. Perchè ognuno ha la sua ricetta magica da proporre.
    Di campi o di terreni dove vivono famiglie Rom e Sinte ce ne sono in Francia, in Spagna, in Inghilterra e chissà dove altro. Toh, in Francia nomadizzare è previsto, non è scandaloso o offensivo. Le municipalità con oltre 10.000 (?) abitanti hanno l’obbligo di prevedere uno spazio riservato alle “genti di viaggio”.
    Ma non voglio tifare per un modello a scapito di un altro..Credo invece che debbano essere loro, i Rom a scegliersi (liberamente) come e dove vivere la loro famiglia, che a noi piaccia o no. Quando si parla di smantellamento o di sgombero di campi Rom, l’unica prospettiva percorribile sembra essere quella della casa. Casa=integrazione, ma ne siamo così sicuri?
    Mi domando: quando i Rom di Coltano stavano nel campo in baracche e roulotte “vivevano” meglio, rispetto ad ora che abitano in appartamenti del nuovo villaggio, sotto continuo ricatto e minaccia di allontanamento? Dove erano più felici, più veri? Andando a vivere in appartamenti cosa è cambiato in loro? E’ migliorata o peggiorata la loro vita?
    Ora sono più integrati rispetto a prima? Non mi sembra proprio!
    Casa=integrazione è un altro stereotipo!
    Ciao Ago

     

     

     

    il vangelo domenicale commentato da p.Maggie p.Pagola

    maggi
    SE TI ASCOLTERA’ AVRAI GUADAGNATO IL TUO FRATELLO 

    commento al Vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (7 settembre) di p. Alberto Maggi 
    Mt 18,15-20
    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
    In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
    In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
    Dopo aver parlato dello scandalo della comunità verso i piccoli, cioè gli emarginati, che possono essere scandalizzati da quello che vedono all’interno della comunità in termini di ambizione, di superiorità, Gesù ora arriva a parlare dello scandalo dei dissidi all’interno della comunità. E’ quanto scrive Matteo al capitolo 18, versetti 15-20.
    “«Se tuo fratello»”, quindi si tratta di un componente della comunità, “«commetterà una colpa contro di te, va’ e …»”, non ammoniscilo, come riporta questa traduzione, ma “«convincilo»”. Non è la posizione di un superiore verso un inferiore per ammonirlo, ma è la posizione del fratello che cerca di ricomporre l’unità, cerca di superare il dissidio. Sempre ricordando quanto Gesù già ha ammonito, cioè che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello, occorre stare attenti che uno non abbia la trave conficcata nel suo (trave che deforma la sua realtà).
    “«Tra te e lui solo»”, quindi al dissidio non deve essere data pubblicità, si deve risolvere il problema. Ed è la persona offesa che deve andare verso l’offensore, perché chi sbaglia, chi offende spesso non ha il coraggio, non ha la forza di chiedere scusa, di chiedere perdono. Allora deve essere la parte lesa, la persona offesa, che va verso l’offensore e ricomporre il dissidio.“«E se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi con te una o due persone»”; sono quelli che nella comunità svolgono il ruolo di costruttori di pace, “«perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»”. Secondo quanto affermava il libro del Deuteronomio, capitolo 19, versetto 15, sulla validità di una testimonianza.
    “«Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»”. Il termine greco è ecclesia che rappresenta la comunità dei convocati, l’assemblea dei convocati da Gesù, “«E se non ascolterà neanche la comunità, sia per te»”, quindi non per la comunità, ma per te, “«come il pagano e il pubblicano»”. Cosa significa? Non significa che quest’individuo, causa del dissidio, vada escluso dall’amore della comunità, e neanche dal tuo amore, ma significa che questo amore sarà a senso unico.
    Mentre nella comunità l’amore donato viene anche ricevuto, perché i fratelli si scambiano vicendevolmente questo amore, verso la persona che è causa del dissidio, l’amore va dato come quello verso i nemici. Gesù dirà di amare i nemici, dirà di pregare per i persecutori. Quindi non significa escludere questa persona dal tuo amore, ma amarlo in perdita, a senso unico.
    E sempre parlando della tematica del perdono, Gesù assicura: “«In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo»”. Si tratta sempre del perdono, chi non perdona lega il perdono di Dio, “«E tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto in cielo»”. Si tratta del perdono, Il perdono di Dio diventa operativo ed efficace quando si traduce in perdono verso gli altri. Quindi chi non perdona lega il perdono di Dio, mentre chi perdona lo scioglie.
    Al termine del capitolo, al versetto 35, infatti, Gesù dirà: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore il vostro fratello”. Quindi questa affermazione di Gesù non riguarda la concessione alla sua comunità del potere di legiferare in ogni materia e in ogni campo, ma della responsabilità nel concedere il perdono: se non perdoni leghi il perdono di Dio.
    E poi Gesù conclude: “«Ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo»”, il verbo mettere d’accordo è Sinfoneo, da cui la parola “sinfonia”. E’ importante perché indica la vita della comunità. Sinfonia significa che diverse voci, diversi strumenti suonano ciascuno dando il meglio di sé. Non ci deve essere una uniformità di voci e di suoni, ma c’è una varietà nell’unico spartito che è quello dell’amore. Quindi è l’amore vissuto nelle varie forme, fiorito nelle varie modalità.
    “«Per chiedere qualunque cosa, il Padre mi oche è nei cieli gliela concederà. Perché dove due o tre …»”, ecco ritornano i due o tre che sono stati fautori della pace, coloro che sono andati a eliminare il dissidio, la loro funzione di costruttori di pace, rende manifesta la presenza del Signore. “«… sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro»”.
    E ritorna la tematica cara all’evangelista, quella del Gesù, il Dio con noi. Mentre nella tradizione ebraica si diceva che dove due o tre si riuniscono per studiare la Torah, la legge, la Shekinà, cioè la gloria di Dio è in mezzo a loro, Gesù si sostituisce alla legge. L’adesione a Dio non avviene più attraverso una legge esterna all’uomo, ma nell’immedesimazione con una persona: Gesù, il Figlio di Dio, il modello dell’umanità. Gesù assicura che quando c’è questa unità, quando si ricompongono i dissidi all’interno della comunità, la sua presenza è ininterrotta e crescente.

    croce
    commento al vangelo di p. Pagola

    Benché le parole di Gesù, raccolte da Matteo, sono di grande importanza per la vita delle comunità cristiane, poche volte attraggono l’attenzione di commentatori e predicatori. Questa è la promessa di Gesù: “Dove due o tre stanno riuniti nel mio nome, lì io sto in mezzo a loro”.
    Gesù non sta pensando a celebrazioni massicce come quelle della Piazza di San Pietro a Roma. Benché solo siano due o tre, lì egli sta in mezzo a loro. Non è necessario che sia presente la gerarchia; non è necessario che siano molti i riuniti.

    La cosa importante è che “siano” riuniti, non dispersi, né nemici tra loro: che non vivano disprezzandosi alcuni con gli altri. Egli è decisivo: “che si riuniscano nel suo nome”: che ascoltino la sua chiamata che vivano concordi col suo progetto del regno di Dio. Che Gesù sia il centro del suo piccolo gruppo, e questa presenza viva e reale di Gesù è quella che deve incoraggiare, guidare e sostenere le piccole comunità dei suoi seguaci. È Gesù che deve incoraggiare il loro discorso, le loro celebrazioni, progetti ed attività. Questa presenza è il “segreto” di ogni comunità cristiana viva.
    Noi cristiani non possiamo riunirci oggi nei nostri gruppi e comunità in qualche generico modo: per abitudine, per inerzia o per compiere alcuni obblighi religiosi. Saremo molti o, forse, pochi, ma la cosa importante è che noi ci riuniamo nel suo nome, attratti dalla sua persona e dal suo progetto di fare un mondo più umano.
    Dobbiamo ravvivare la nostra consapevolezza che siamo comunità di Gesù. Ci riuniamo per ascoltare il suo Vangelo, per mantenere vivo il suo ricordo, per contagiarci del suo Spirito, per accogliere in noi la sua gioia e la sua pace, per annunciare la sua Buona Notizia.

    Il futuro della fede cristiana dipenderà in buona parte dalle cose concrete che noi cristiani faremo nelle nostre comunità nelle prossime decadi. Non basta quello che potrà fare Papa Francesco nel Vaticano, non possiamo neanche riporre le nostre speranze nel pugno di sacerdoti che potranno essere ordinati nei prossimi anni. La nostra unica speranza è Gesù Cristo.
    Siamo noi quelli che dobbiamo centrare le nostre comunità cristiane nella persona di Gesù come l’unica forza capace di rigenerare la nostra fede consumata e abitudinaria. L’unico capace di attrarre gli uomini e le donne di oggi, l’unico capace di generare una fede nuova in questi tempi di incredulità.

    Il rinnovamento delle istanze centrali della Chiesa è urgente. I decreti
    e le riforme, necessarie. Ma niente di tanto decisivo come il ritornare con radicalità a Gesù Cristo.
    Contribuisci a rigenerare la fede cristiana in Gesù.

    José Antonio Pagola

    “ti mando in coma”

     

    Capo rom contro C. Stasolla’, presidente della 21 Luglio: “Se parli ancora della Barbuta ti mando in coma”

    Minacce dal boss del ‘villaggio’ durante la presentazione del dossier Campo Nomadi Spa, nell’aula consiliare del VII Municipio
    Carlo Stasolla: “A preoccuparmi è più il silenzio delle istituzioni”


    “Non parli più del campo, se continua lo mando in coma”

    così il rom del campo ‘la Barbuta’ si è rivolto pubblicamente, durante la presentazione del dossier ‘campo nomadi spa’, al presidente Carlo Stasolla dell’ ‘Associazione 21 luglio’ la onlus che si batte per la chiusura dei campi nomadi, e in questa  presentazione lo fa mostrando, cifre alle mano, quanto il Comune spende per un campo, e quali sono i risultati in termini di inclusione sociale dei rom 
    di seguito la ricostruzione della presentazione del dossier e della minaccia di Sartana Halilovic così come resocontato dalla stampa e un breve scambio di idee che Marcello Palagi e Agostino R. Martir hanno avuto tra di loro e che non può non condividere chiunque  non si limiti ad osservare la realtà dei campi nomadi dal di fuori, per così dire, facendo progetti sulle teste dei rom, ma,  conoscendo la realtà dall’interno, costata da sempre che certi cosiddetti ‘beni rari’ suscitino l’interesse e l’appetito non solo di qualche ‘capo’ o ‘rappresentante’ autopromosso del popolo rom ,ma anche di organizzazioni che finiscono per sostituirsi, con altri metodi – ovviamente – a quelli, ma non proprio e sempre per il vero interesse dei rom nel rispetto delle loro modalità di organizzare la vita familiare e comunitaria e dei bisogni di ciascuno:
    Parola del ‘boss’ de La Barbuta, Sartana Halilovic. Minacce alla luce del sole che irrompono tra un intervento e l’altro, gelando la platea che, giorni fa, ha riempito la sala consiliare del VII Municipio, per la presentazione del dossier Campo Nomadi Spa
    IL “SISTEMA CAMPI” 
    Le intimidazioni di Sartana, che nel ‘villaggio attrezzato’ di Ciampino sembra dettare legge, sono rivolte a Carlo Stasolla, rappresentante dell’associazione 21 Luglio. Da sempre schierata nella difesa dei diritti rom, la onlus si batte per la chiusura dei campi nomadi, e stavolta lo fa mostrando, cifre alle mano, quanto il Comune spende per un campo, e quali sono i risultati in termini di inclusione sociale dei rom. 
    Per la gestione dei ‘villaggi attrezzati’, il Campidoglio avrebbe speso nel solo anno 2013 ben 24 milioni di euro. Troppe risorse, ma soprattutto gestite male, secondo l’associazione, perché destinate in minimissima parte, l’1%, a politiche di inserimento della comunità. Insomma, dalle cifre sciorinate durante la presentazione, emergono costi stellari per mantenere in vita la “spa”,  e progetti di inserimento abitativo, già sperimentati con successo in altre città, che invece se abbracciati consentirebbero di abbattere le spese con maggiori tutele e diritti per i destinatari. 
    Ma non sono tanto i dati generici a innervosire il boss Sartana, che comunque si schiera in difesa dei campi. Il balzo dalla sedia e l’intervento choc arrivano con l’accenno a un altro studio che riguarda nello specifico La Barbuta e che verrà illustrato nel dettaglio dall’associazione in autunno.
    UN NUOVO CAMPO A LA BARBUTA
    “C’è in piedi un progetto tra il Comune, l’associazione Capodarco e la Leroy Merlin che prevede la costruzione di un nuovo campo in un’area vicina a quella attuale – spiega Stasolla – dove sorgerà invece un capannone industriale dell’azienda. Stiamo ancora studiando il progetto, ma il silenzio sulla questione è preoccupante”. Silenzio che è rimbombato anche in aula, e che allarma più delle minacce il presidente dell’associazione. 
    “LA RESISTENZA DEI POTERI FORTI” 
     “Nessun rappresentante delle istituzioni presente ha aperto bocca, neanche una parola di solidarietà”. Ma non è un fulmine a ciel sereno. “Che ci siano molte resistenze da parte di forze politiche, sedicenti rappresentanti dei rom e associazioni lo sappiamo. Sono poteri forti, che hanno tutto l’interesse economico a far sì che la situazione resti com’è”.  

     

    Il boss che ha minacciato di “mandarlo in coma”, ne sarebbe un esponente. “Siamo certi che non parli a nome della comunità rom, si definisce un ‘rappresentante’, ma in un sistema democratico qualunque, per parlare di rappresentanza, serve una votazione, una legittimazione da parte della comunità, che di fatto non c’è”. 

     

     

    :
    Il 24/lug/2014 12:25 “Ecoapuano” <eco.apuano@virgilio.it> ha scritto:

     

    Marcello

     

     

     

    Succede, quando si decide per i rom, sulla loro testa. Allora,se serve, si  “scopre” e sputtana anche che esistono i boss del campo e si addossa loro la colpa del fallimento dei nostri progetti. I rom sono sempre buoni se si adeguano a noi, ritornano ad essere brutti, sporchi e  cattivi se invece vogliono fare di testa loro. Questo è il volontariato che si inventa il mestiere del protettore. E che si inventa anche una nuova democrazia, assumendosi la rappresentanza dei rom con le istituzioni e altre associazioni di gagé “per i rom” . Nessuno di loro è stato eletto dai rom a loro rappresentante, ma accusano e sputtanano i rom di avere dei boss non eletti: Ma loro , questi volontari, cos’altro sono se non nuovi, veri boss che sanno quale deve essere il bene dei rom e aspirano al potere di decidere per loro? Tanto più potenti, quanto più legati e dialoganti con le istituzioni. Devono invece essere i rom a organizzarsi, quando lo vorranno e ci riusciranno, e a decidere di se stessi, se stare nei campi o se andare nelle case popolari o altro ancora. Il fatto che Stasolla riduca il problema a una questione di soldi – Il comune, risparmierebbe se mettesse i rom nelle case popolari – chiarisce da che parte stia. Sono i soldi che decidono, non i diritti, la propria cultura, il proprio gruppo, l’identità a cui ciascuno tiene. Il cosidetto boss, vuole solo difendere il suo sacrosanto diritto di stare in un campo e di non farsi omologare da volontari e antropologi che hanno deciso che i rom non sono “nomadi” e che il comune deve risparmiare, perchè loro vogliono mettere i rom nelle case popolari… Sempre peggio.

    Il giorno 24/lug/2014, alle ore 10.47, Agostino Rota Martir ha scritto:

    http://m.romatoday.it/politica/minacce-carlo-stasolla-21-luglio-rom.html

    p. agostino

    Caro Marcello e’ proprio quello che penso anch’io. Volevo commentare anch’io, ma da una settimana faccio il “carrozziere”, sto lavorando sul camper in vista della revisione (tra  5 giorni), e con tutti qs temporali mi ritardano tanto.
    Quando qs mattina ho trovato qs notizia, pubblicata solo su Roma..e qs. gia la dice lunga: 21 luglio divulga sul territorio nazionale solo i suoi “successi”.. dando per scontato di essere portavoce e depositario unico dei Rom. 

    I  cosidetti “Boss” dentro i campi, che sempre ci sono stati e con i quali le amministrazioni hanno  dialogato in svariate occasioni, allora li chiamavano “portavoce” del campo. Li usavano anche per far fare a loro i lavori “sporchi” (controllo, allontanamento, spie..), poi quando non servivano piu’, perche’ subentravano associazioni gage’ ben piu’ affidabili, ecco che i portavoce rom diventano boss, pericolosi e un inciampo.

    Che nei campi ci siano dei cosidetti ” boss” e’ vero, ma con caratteristiche e stili completamente diversi dal nostro immaginario usuale.

    Ciao ago

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    razzismo a Mantova, ma solo a Mantova!

    Forni crematori e saponi: il razzismo 2.0 verso i sinti di Mantova

    mercoledì, 9 luglio 2014

    I sinti che vivevano in un campo alla periferia di Mantova dovranno andare via entro il 20 agosto. La giunta di centrodestra guidata dal sindaco di Forza Italia Nicola Sodano ha deciso ormai da tempo di espropriare questi terreni, ma l’esecuzione di questa misura ha incontrato molte proteste da parte della comunità sinta. Nella giornata di lunedì i sinti mantovani hanno messo in atto una protesta che si è conclusa con un incontro con il primo cittadino. La notizia è stata riportata sul profilo Facebook del più importante quotidiano locale, “Gazzetta di Mantova”, e, come si vede da questo foto ripresa dal sito del Fatto Quotidiano, sulla bacheca del giornale sono arrivati numerosi commenti razzisti.

    Alcuni, firmati, erano particolarmente pesanti, con tanto di invito alla riapertura dei forni crematori e al trasformare i sinti in sapone. La foto è stata diffusa dall’associazione Sucar Drom, che si è chiesta perché le autorità non intervengano di fronte a così evidenti casi di razzismo.

     

    Carlo Berini, segretario di “Sucar Drom”, l’istituto di cultura Sinta di Mantova, ha rimarcato al “Fatto” come gran parte di questi commenti razzisti e xenofobi, a dir poco ora sono spariti, ma io li ho salvati e pubblicati sulla nostra pagina Facebook. Chiedo l’immediato intervento della Digos e della Procura della Repubblica, poiché chi ha scritto quelle frasi si è firmato e non deve passarla liscia. Non si può permettere che chi alimenta istigazione all’odio razziale rimanga impunito”. La tensione sul tema è piuttosto elevata, tanto che un consigliere della Lega Nord, il partito che più si è speso contro la presenza dei rom a Mantova, è stato accompagnato dalla Digos al consiglio comunale poi caratterizzato dalla protesta dei sinti locali. Il sindaco Sodano ha promesso un intervento, anche se ha rimarcato come l’esproprio dei terreni lottizzate abusivamente non possa essere ritirato.

    ancora sulle donne che amano preti

    donna

    LE CONSEGUENZE DELL’AMORE

    PARLA UNA DELLE DONNE CHE HA SCRITTO AL PAPA
    dal prezioso sito ‘finesettimana’ ricavo queste riflessioni come importante contributo alla riflessione sulle problematiche legate al celibato del clero in conseguenza anche della lettera di 26 donne che hanno scritto al papa perché in rapporto affettivo e di amore con altrettanti sacerdoti:

    prete

     

     

     

     

     È successo ogni volta che il tema si è presentato alla ribalta dell’opinione pubblica che giornali e televisioni gli dessero grande rilevanza. Stavolta però, vuoi per il pontificato considerato di “rottura”, vuoi per un’opinione pubblica attenta ad ogni segnale di novità o di “svolta”, vuoi per un episcopato, quello italiano, in fase di transizione (e che quindi rende i media maggiormente “intraprendenti” su temi tradizionalmente considerati “scomodi”), anche nel nostro Paese la lettera di 26 donne che amano preti ha prodotto enorme clamore e dibattito.

    Nel testo, rivelato da Vatican insider, ma pubblicato integralmente sulla homepage del nostro sito internet (www.adista.it), le firmatarie, che hanno voluto restare anonime (anche se nella raccomandata inviata in Vaticano hanno lasciato le loro generalità e recapiti telefonici), hanno detto a Francesco di essere «un piccolo campione» che parla a nome di tante che «vivono nel silenzio» e che chiede la revisione del celibato ecclesiastico.

    «Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa», scrivono. «Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con sé purtroppo tutto il dolore del “non pienamente vissuto”. Una continua altalena di “tira e molla” che dilaniano l’anima».

    «E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale, unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente gioverebbe all’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza». Per discutere di tutto questo, chiedono un’udienza privata al papa: «Per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio».

    La lettera delle 26 non è la prima inviata ad un pontefice da donne che amano preti. Nel 2010 un’analoga iniziativa all’indirizzo di Benedetto XVI fu presa da un gruppo di donne che partecipano ad un blog all’interno del sito della rivista Il dialogo (di Monteforte Irpino) dedicato proprio al celibato ecclesiastico ed alle donne che hanno o hanno avuto relazioni con sacerdoti.

    Sulle questioni sollevate dall’iniziativa delle 26 donne Adista ha interpellato sia una delle firmatarie, di cui tuteliamo la volontà di restare anonima, sia Stefania Salomone, che da anni si occupa di animare il blog sul sito del dialogo.org e che è stata tra le promotrici della missiva del 2010. (valerio gigante)

    «Maturi i tempi per la svolta»

    Intervista a una delle firmatarie

    Nella vostra lettera chiedete al papa di riconsiderare il tema del celibato ecclesiastico, ma ancora di più, chiedete a lui un aiuto affinché il tema delle relazioni sentimentali che coinvolgono donne e preti esca dal clima di rimozione e clandestinità in cui oggi la Chiesa istituzionale lo relega. Cosa vi fa pensare che i tempi siano maturi per una svolta in questo senso?

    I tempi per affrontare il tema del celibato obbligatorio sono maturi ormai da tempo. Ogni periodo storico ha delle sue peculiarità. Guardiamo al passato. Chi avrebbe pensato, anni addietro, di sollevare questo dibattito? Eppure anche anni fa i sacerdoti avevano storie con alcune donne. Nell’attuale contesto storico si è più propensi a chiedere il confronto sulle tematiche che si ritengono importanti. Culturalmente si è più preparati ad affrontare un tema spinoso come quello sollevato da noi donne. Se non si prova a cambiare, il cambiamento non arriverà mai. Dobbiamo essere pronti a far sentire la nostra voce. Crediamo che questo papa, presentatosi come il papa dell’ascolto e della misericordia, più dei suoi predecessori non possa fingere che questo problema non esista e che in cuor suo sappia che un sacerdote può essere tale anche se sposato.

    Quanto è diffuso, per la percezione ed il confronto che avete tra di voi, il fenomeno di relazioni stabili tra preti e donne?

    Dal confronto avuto in questi anni con numerose donne, il fenomeno è molto diffuso: da brevi relazioni passando a relazioni che durano anni, con immenso dolore per donne e sacerdoti (nella più facile delle ipotesi). Queste esperienze si sommano ad altre vissute più da vicino. Personalmente ho visto, nell’arco di appena quattro anni, un sacerdote che ha chiesto e ottenuto la dispensa (e che in passato mi risulta avesse anche sentito un’altra donna); il travaglio del sacerdote che è stato il mio compagno; il tormento di un altro sacerdote per la vicinanza di una donna e per il chiacchierare della gente.

    È proprio vero che ci si rende conto di qualcosa solo quando la si vive sulla propria pelle: mi fidai di quel sacerdote perché, un po’ come tutti, ho ingenuamente pensato che lui non potesse avere un interesse particolare verso di me. Era un pensiero che non mi aveva mai sfiorato. Invece quando sperimenti l’amore per un prete capisci che niente è impossibile, che tutto può capitare a tutti; quindi che non si deve mai giudicare o pensare “nella mia vita questo non accadrà mai”. Entrare in contatto con donne che hanno avuto la mia stessa esperienza mi ha aperto un mondo: siamo tantissime donne e tantissimi sacerdoti. Il fenomeno è più esteso di quanto si pensi. Tutte le barriere crollano, e scopri l’unica realtà: quella umana. Fatta di limiti e fragilità. Quando un sacerdote ama realmente una donna (e non è sempre così scontato) i due vivono i segni di in amore concreto. Vivono la relazione. La bellezza della relazione. Fatta di affettività e sessualità.

    Finora, a vostro giudizio, cos’è che ha realmente impedito alla Chiesa istituzionale di affrontare, addirittura di parlare di questo argomento?

    A nostro giudizio vi sono diversi aspetti che non consentono alla Chiesa di affrontare l’argomento. Di base, la paura generalizzata di un vero cambiamento che presume un’inversione di rotta, un rimettere tutto in discussione. Insomma, cambiamenti vasti e conseguenze complesse. Forse la posizione più comoda per la Chiesa è lasciare tutto com’è. Mi chiedo se, a lungo termine, sarà un bene fingere che il celibato obbligatorio (istituito per tutelare i beni della Chiesa) sia una legge divina! La Chiesa DEVE affrontare queste tematiche, rimettendo i figli di Dio al centro dell’attenzione. Come si può accettare la sofferenza dei figli di Dio? Mi auguro che papa Francesco ci dia una risposta. Mi auguro che altre donne e sacerdoti facciano sentire con coraggio la loro voce e la loro sofferenza.

    «Ancora molta la strada da fare»

    Intervista a Stefania Salomone

    La lettera delle 26 ha suscitato enorme clamore, in Italia ed all’estero. Come giudichi i contenuti della missiva, e come mai a tuo giudizio i temi sottoposti da questo gruppo di donne al papa hanno prodotto un’eco così vasta?

    Non poteva che essere così. La stessa cosa è accaduta quattro anni fa, quando, assieme ad altre nove donne, ho scritto la prima lettera aperta delle “donne dei preti” italiane al papa. L’interesse della stampa, specie quella estera, fu talmente grande da costringermi a spegnere il telefono perché non riuscivo a dare seguito a tutte le richieste. È un tema che suscita enorme curiosità nell’opinione pubblica. Si sa che i preti hanno storie sentimentali e/o sessuali, ma ci si limita a ridacchiarne o magari le si liquida con frettolose valutazioni moralistiche.

    Difficilmente ci si interroga sul perché ad esempio una donna possa innamorarsi ed incominciare una storia già in partenza complicatissima, come quella con un prete o religioso. Semplice masochismo? Forse. Ma andrei un minimo più a fondo, considerando innanzitutto la valenza che “il senso del sacro” ha ancora oggi nella nostra cultura, specie nell’immaginario femminile.

    Personalmente, apprezzo le intenzioni e considero in genere positivo ogni tentativo che viene fatto per rendere note problematiche scomode, a qualsiasi livello. Ho apprezzato meno, invece, sia il tono che le scarse argomentazioni contenute nella missiva. Mi è parso più una sorta di piagnisteo che una reale rivendicazione di un diritto, quale a mio avviso una comunicazione di questo tipo avrebbe potuto e dovuto rappresentare. Parlare unicamente del dolore, dell’emotività, di quanto noi donne saremmo brave ad “accompagnare” il prete nel suo ministero, francamente mi sembra limitativo e controproducente. Non parliamo poi del concetto di “porre le sofferenze ai piedi del papa”, che proprio mi fa orrore.

    Il lavoro che da sette anni svolgo con le donne che mi contattano sul blog mira proprio ad aiutarle a liberarsi dalla cappa della religiosità, incominciando ad immaginare un prete meno sacro ed intoccabile, nonché un ruolo femminile meno legato al ricordo della perpetua, o a colei che deve avere pazienza ed aspettare che lui si renda disponibile ad un fugace incontro.
    Le firmatarie della lettera hanno voluto mantenere il più stretto anonimato. Per quale ragione c’è ancora tanto timore ad uscire allo scoperto?

    Le ragioni dell’anonimato sono diverse. Prima di tutto solitamente il prete non gradisce che lei si esponga, anche senza rivelare dettagli della storia. Il timore è principalmente quello del prete, e la donna in genere lo asseconda. In secondo luogo queste storie nascono come storie clandestine e il senso di segretezza è insito nel loro dna. Nei casi in cui una relazione diviene pubblica, le donne vengono spesso stigmatizzate dai parrocchiani, dagli amici, dai familiari, che sono generalmente molto “progressisti” solo se si parla di situazioni che riguardano persone sconosciute.

    Infine, esiste a mio avviso l’assioma donna-tentazione che la dottrina cattolica ha instillato nelle menti dei credenti e non, e che stenta ad abbandonarci. Mi è capitato spesso di parlare con donne che hanno relazioni con i preti e sentirle affermare “le sue sacre mani mi hanno toccato”, oppure di confrontarmi con qualcuno che non fosse coinvolto nella problematica e che mi dicesse: “Sì d’accordo, ma lui è un prete, perché andate a dargli fastidio?”. Quindi può capitare anche che una donna provi vergogna per la sua condizione. Magari la prova senza ammetterlo.
    Ritieni che sotto questo pontificato possa essere maturo il tempo per una riconsiderazione del celibato ecclesiastico e, ancor di più, della questione (che pare riguardi circa un terzo del clero) delle relazioni amorose che coinvolgono i preti?

    Stando alla mia esperienza, una percentuale molto alta del clero ha intrattenuto o intrattiene relazioni amorose/sessuali con uomini o donne. O, per lo meno, ha attraversato il momento della crisi, dell’innamoramento che ha magari gestito, soffocato o sublimato, come comunemente si usa dire. Comunque ben più di un terzo. In ogni caso ritengo che sia ben difficile che un pontefice qualsiasi, anche l’attuale, possa riconsiderare la disciplina del celibato ecclesiastico tout-court. Se particolarmente illuminato – ma personalmente credo che possa accadere unicamente per problemi legati allo scarso numero dei chierici attualmente in esercizio – questo papa potrebbe valutare la possibilità di ordinare uomini sposati.

    E non sarebbe la stessa cosa. Si arriverebbe ad una situazione simile a quella degli ortodossi che possono sposarsi prima dell’ordinazione, ma non successivamente, e i membri della gerarchia vengono scelti tra i celibi. Quindi ci sarebbero preti di serie a e di serie b. E guarda caso fanalino di coda sarebbero proprio gli sposati che “hanno ceduto alla tentazione e piuttosto che ardere …”. (v. g.)

    elogio del sorriso sulle labbra del credente

    il riso abbonda sulle labbra di chi crede

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    un bell’articolo sull’importanza del ‘sorriso’ nella persona credente apparso sul quotidiano ‘l’Avvenire’ a firma del vescovo teologo B. Forte

    peccato che sia macchiato del tipico peccato ‘cattolico’ quale quello di voler monopolizzare le cose belle e buone, magari dopo averle screditate o sottovalutate per secoli, o di volere sempre distinguersi e prendere le distanze separandosi (per autoaffermarsi) sia da chi ‘pretende di cambiare il mondo’ sia da chi assume un ‘pensiero debole’ per meglio dialogare e fare spazio ad altre verità in un cammino comune, magari, verso la Verità …

    L’importanza del sorriso

    Alla luce della fede biblica la domanda se Dio possa ridere o, almeno, sorridere, non è così ingenua come potrebbe sembrare, quasi fosse voce di un’indebita proiezione della nostra leggerezza sull’indicibile. In realtà, riso e sorriso riferiti a Dio sono temi tutt’altro che assenti nella Sacra Scrittura, come nell’intera tradizione ebraico-cristiana.
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    L’ebraismo può, dunque, essere considerato la religione del riso e del sorriso? Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto si mescola delicatamente al riso, non esita a rispondere affermativamente: «L’identità ebraica è uno scoppio di risa». E una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di purim, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo. 
    Purim è, perciò, festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia, il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da mendicante prodigo, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non lo è…). 
    Moni Ovadia offre una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo. Così il povero ebreo, cui è capitato veramente di tutto, sussurra timidamente all’Eterno: «Noi ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma, ascolta: un’altra volta non potresti scegliere qualcun altro?».
    Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione che conosce il riso e il sorriso: in esso è perfino la Verità in persona ad ammiccare un sorriso… Che la Verità sorrida, potrebbe apparire perfino imbarazzante a chi pensasse la stessa Verità nei termini dell’ideologia moderna, per la quale il Vero è il campo di dominio di una ragione “forte”, che non conosce debolezze e non tollera differenze, neanche quelle sottolineate dalla levità di un sorriso. 
    Al contrario, per il cosiddetto «pensiero debole» la Verità non sorride, ma sghignazza: essa è solo una maschera, che si fa gioco di chi ancora creda che esista una verità. Il sorriso della Verità è, dunque, lontano tanto da chi pretende di cambiare il mondo e la vita con le sole forze della ragione umana, quanto da chi nega semplicemente ogni fondamento forte all’impegno dell’uomo sulla Terra.
    Chi dunque può amare il sorriso della Verità? Chi crede nell’Onnipotente che per amore si fa debole, nel Signore crocifisso, in cui riconosce la follia dell’amore divino per gli uomini. La debolezza di Dio è il sorriso della Verità, che non ha nulla dell’assolutezza astratta! Né questo scorgere il sorriso della Verità ne diminuisce la forza e l’attraente bellezza: ciò che conta è corrispondervi, prendendo sul serio la fedeltà del Dio, fattosi debole e vicino per amore, e non prendendoci troppo sul serio. 
    In realtà, la Verità sorridente ci invita a sorridere di noi, nell’atto di abbandonarci umilmente nelle braccia di quel Dio, che è venuto a sorriderci nel volto di un Bambino. Da allora sappiamo che – fin quando ci sarà spazio per il sorriso della Verità – il mondo potrà ancora avere una speranza più forte del dolore e della morte, che troppo spesso sembrano averla vinta…
    Lo aveva ben compreso Francesco, «giullare di Dio» in tempi non certo tranquilli come furono i suoi. Lo esprimeva nel Medio Evo europeo la diffusa tradizione del risus paschalis, che prevedeva il racconto del maggior numero di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…), affinché dappertutto esplodesse la gioia, unico sentimento ritenuto consono alla vittoria pasquale della vita. 
    Forse anche per questo san Filippo Neri, detto «Pippo il buono», non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e sorridere davanti al mondo e alla vita.
    Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo siano religioni del riso e del sorriso, la risposta risiede forse nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. 
    Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare tra la prossimità e la lontananza: allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso.
    In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura è umile e aperta alle sorprese di Dio, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua limitatezza. 
    Chi è libero da sé, sa ridere e far ridere con gioia. Perciò i paradossi dell’amore sono quelli del riso e del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso. 
    E qui emerge una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’islàm, religione che insiste sul dualismo fra Dio e il mondo, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: nell’islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista.
    Bruno Forte
     

    I muri della discriminazione, dell’isolamento e dell’esclusione del popolo rom e sinto

     

     

     

     

    Il C.C.I.T. 2014 al Cavallino di Venezia

     

    Si è svolto nei giorni scorsi, dal 4 al 6 aprile, al Cavallino di Venezia il Comitato Cattolico Internazionale per la pastorale del popolo Zingaro (C.C.I.T.), in luogo stupendo, a trenta metri dal mare, in una bella temperatura primaverile, soprattutto ricca di spunti di riflessione e ricchezza umana condivisa da rappresentanti di circa dieci paesi europei (circa 200 presenze) che, a dispetto della difficoltà rappresentata dalla ‘barriera’ e dal ‘muro’ delle lingue, hanno messo in comune esperienze, analisi e riflessioni sui ‘muri della discriminazione’ e dei molteplici pregiudizi che separano duramente ancora i nostri percorsi da quelli di un popolo, quello rom, che continuiamo a tenere ancora lontano e guardiamo con diffidenza, paura, anche disprezzo, e questo non solo nell’ambito della nostra convivenza sociale, ma anche in ambito ecclesiale.

    Per questo l’incontro è iniziato con un bel momento di preghiera comunitaria (Liturgia di Accoglienza) preparata per noi da Agostino Rota Martir, incentrata sulla figura di ‘Maria che abbatte i muri’ della violenza, della paura, dell’indifferenza tra le persone e le nazioni.

    foto ccit 8  il ponte 1

    Il presidente p. Claude Dumas e i membri del comitato sono stati esplicitamente salutati dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti che ha indicato nella figuta di Gesù colui che “portando la buona notizia agli uomini, si è fatto anche carico delle loro condizioni. Ha aperto le porte, ha abbattuto le mura di divisione e di inimicizia”. “Gli zingari Hanno bisogno dell’umanità delle società in cui vivono per sentirsi membri della famiglia umana, usufruendo dei diritti di cui godono gli altri membri della comunità, nel rispetto della loro dignità e della loro identità”.

    Il presidente Claude Dumas rivolge un ‘saluto ai partecipanti’ con un commento molto opportuno della pagina evangelica del cieco Bartimeo, immagine della sfida a cui è chiamata la chiesa stessa: “Oggi i muri di separazione sono fatti di vergogna, di pregiudizi, di odio, di concorrenza, di timore, d’ignoranza, di pregiudizi teologici e incomprensione culturale. La chiesa è chiamata  ad essere una comunità inclusiva, a abbattere tutti quei muri di separazione”

    .suzana

    La romni  Suzana  Jovanovic (che ha conseguito la laurea in storia discutendo la tesi     dal titolo estremamente significativo : “come restare zingari nel mondo dei gagé”), ha svolto la più significativa relazione dell’incontro prendendo le mosse dalla propria esperienza personale: “Ho abbandonato la mia gente quando avevo 18 anni: la prima cosa che mi hanno insegnato i gagé è quella di vergognarmi di essere zingara. E questo l’ho assorbito così bene che l’ho subito messo in pratica. L’essere zingari è un peccato originale. Le persona che mi sono vicine mi stimano moltissimo e io – ovviamente – ne sono contenta. Ma nel tempo ho capito che la loro stima – paradossalmente – deriva da un pregiudizio formatosi  nei secoli: la convinzione che gli zingari sono dei ritardati mentali, degli incapaci, degli sfaticati, dei nullafacenti, dei non evoluti, delle sopravvivenze di qualche stadio precedente dell’evoluzione umana”. Suzzana ha articolato una fine e approfondita analisi della discriminazione da sempre in atto a partire da quella che gli antropologi chiamano l’ “immagine rovesciata del sé” attraverso la quale si inventa un’umanità il cui stile di vita è assolutamente da scartare e che nel nostro caso si materializza nello zingaro: progressivamente si costruisce un’umanità inquinata, poi la si trasforma in umanità inquinante; e questo, mutatis mutandis, sia ieri come oggi. “la prima operazione ideologico/propagandistica nella costruzione di un’ideologia negativa verso un gruppo, ieri come oggi, è quella di legittimare la propria azione facendola percepire come assolutamente necessaria”. La paura dell’altro forse è umana e tollerabile, ma “usarla a scopo strumantale per alterare la percezione del pericolo della ‘propria’ comunità umana nei confronti di un’altra comunità umana disumanizzando quest’ultima e trasformandola in parassita pericoloso per la propria società non solo non è tollerabile, ma è assolutamente da condannare”.

    La sinta Pamela Adami delinea un’analisi o una ‘lettura socio-culturale’ della presenza dei sinti e dei rom in Italia. Pur evidenziando le difficoltà obiettive nell’individuare i ‘numeri’ precisi perché l’ultimo censimento, per esempio, “è stato compiuto in Italia in regime di presunta emergenza e ha avuto anche tratti intimidatori”. Pamela delinea la situazione dal punto di vista:

    • delle denominazioni
    • delle appartenenze religiose
    • della cittadinanza
    • delle tipologie abitative
    • dell’emergere di associazioni politiche e culturali rom

         p. agostino

    Agostino  Rota Martir racconta l’attenzione pastorale verso i rom e i sinti in Italia (‘quadro pastorale’) come “un cammino lungo, articolato e complesso, dove non sono mancati strappi e divergenze”. Nella necessità di sintetizzare il rapporto attuale della chiesa in Italia con i rom e i sinti Agostino elenca “tre tipi di linee fondamentali”, “tre presenze” che “a volte  si intrecciano, dialogano, ma anche si scontrano tra loro:

    1.la chiesa dei ‘progetti’ per l’integrazione

    2.la chiesa che evangelizza

    3.la chiesa “con l’odore delle pecore”

    Sembra talmente obiettiva questa pluriformità di difficile composizione e dialogo che anche in sede di C.C.I.T. ha suscitato subito delle reazioni critiche alla relazione accusandola ingiustamente di settarismo, ideologismo, volontà di divisione della chiesa: la pressoché generale convinta approvazione di essa rende ragione del settarismo, invece, di queste critiche.

    La suora croata Karolina Miljak delinea dei “tentativi pastorali per l’abbattimento del muro dei pregiudizi e  delle discriminazioni” a partire dalla figura di Gesù Dio-uomo che abbatte i muri dei pregiudizi sperimentando la discriminazione e combattendo le discriminazioni. Ne deriva un’immagine dell’operatore pastorale che sa immedesimarsi con l’escluso e che sa andare verso l’ ‘altro’-

    Thérèse Poisson descrive la storia di Marianna che assomiglia sicuramente a quella di molte altre storie plasmate da tanta lotta e piene di energia.

    I ‘gruppi di studio’, tentando di superare le barriere segnate dal multilinguismo, hanno rappresentato come sempre una bella occasione di incontro ravvicinato delle persone, dei loro ‘racconti’ e delle loro proposte per superare i muri più resistenti, nelle società civili e nelle chiese, che impediscono un incontro libero e aperto tra rom e gagé.

    Come sempre ricca di umanità, di vivande condivise (le migliori, non occorre dirlo, sempre quelle italiane!), di festa e di danza la serata del sabato che esprime i segni del superamento di ogni barriera nazionale e della comunione in atto tra sinti e rom e amici gagé operatori della pastorale di ‘comunione’.

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    https://www.youtube.com/watch?v=MF8ZSIMUn68

    https://www.youtube.com/watch?v=XIFT_legAMk

    https://www.youtube.com/watch?v=Zrno3US2g_I

    https://www.youtube.com/watch?v=QmgcKhQve7I

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    Un bel giro su Venezia ci ha permesso anche di fruire delle bellezze della natura e della cultura.   

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    Il tutto non avrebbe avuto una riuscita così felice senza la dedizione, il servizio e la gentilezza del gruppo dei  ‘giovanissimi’ e la capacità e l’esperienza di Cristina Simonelli

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