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QUARESIMA Istruzioni d’uso Alberto MAGGI
Con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare. Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore c…ontenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, dai sacrifici e dalle mortificazioni. Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo”, secondo le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (Mc 1,15). Un invito al cambiamento di vita, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e a dare adesione alla buona notizia di Gesù. L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è eterna, cioè indistruttibile, e per questo capace di superare la morte.
In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima. Mai Gesù nel suo insegnamento a invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 12,7). I sacrifici centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, la misericordia orienta l’uomo al bene del fratello. Sacrifici, penitenze, mortificazioni infatti non fanno che centrare l’uomo su se stesso, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di queste pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi: “Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: Non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti umani,che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,16.20-23). Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche centrano l’uomo su se stesso, nel miraggio di una impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quantogrande è la propria ambizione. Per questo Gesù invita invece al dono di sé, immediato e concreto, tanto quanto è grande la propria capacità di amare.
La quaresima non è orientata al venerdì santo, ma alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni.
Si tratta di scoprire forme nuove, originali, inedite, di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria. Per questo oggi c’è l’imposizione delle ceneri. Pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi,verso la fine dell’inverno, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra. Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (“Convertiti e credi al vangelo”), è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere.

p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

così p. Maggi commenta il vangelo della terza domenica del tempo ordinario (26 gennaio 2014):

VENNE A CAFARNAO PERCHE’ SI COMPISSE CIO’ CHE ERA STATO DETTO PER MEZZO DEL PROFETA ISAIA

Mt 4,12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, rché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, eAndrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre,  aravano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

L’evangelista Matteo presenta in questo brano l’inizio dell’attività di Gesù. Una volta venuto a sapere che Giovanni è stato arrestato e quindi l’aria si fa pesante e difficile in Giudea, Gesù sale al nord, nella Galilea, nella regione che vedremo abbastanza disprezzata ,“lascia Nazareth, il suo paese natale, e va ad abitare a Cafarnao”. E’ interessante il fatto che né Nazareth né Cafarnao vengono mai nominate nell’Antico Testamento, comunque Cafarnao era una città di frontiera, importante posto di dogana. L’evangelista scrive poi “sulla riva del mare”, ma in realtà è un lago. Perché l’evangelista parla di mare? Perché con questo sotterfugio, sostituendo lago con mare, l’evangelista vuol dare un’indicazione teologica; il mare era quello che separava Israele dai pagani, ma soprattutto il mare era quello che il popolo di Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Quindi indicava la piena liberazione. Tutta la tematica dell’evangelista è in chiave di Esodo e Gesù è il nuovo Mosè che viene a liberare il suo popolo. E qui l’evangelista vede, nell’attività di Gesù, nella scelta di Gesù di salire in Galilea, la realizzazione della promessa di liberazione messianica da una situazione di oppressione a una di salvezza, di un territorio che era stato devastato dagli Assiri e cita il profeta Isaia al capitolo 8, versetto 23, dove si parla di Galilea delle genti. Mentre la Giudea deve il suo nome a Giuda, uno dei patriarchi più importanti, questa regione al nord era talmente disprezzata – era una regione abitata da poveri, da bifolchi, da gente violenta – era talmente disgustata la popolazione della Giudea da quelli del nord, che lo stesso Isaia non sa come definire questa regione e usa un termine dispregiativo, la chiama ‘la provincia o il distretto dei non ebrei’. Il distretto in ebraico è Gelil da cui il termine Galilea, quindi mentre Giudea deriva da Giuda, Galilea deriva da questo termine dispregiativo col quale il profeta indica questa regione al nord. Ebbene proprio questa regione disprezzata a nord, dove il popolo abita nelle tenebre, proprio lì è sorta la luce. E qui l’evangelista anticipa quella che poi l’azione di Gesù, luce del mondo, di comunicare ai suoi stessi discepoli la possibilità di essere luce del mondo. E Gesù inizia la sua attività. 

“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi …»”. Il verbo ‘convertire’ nel testo greco dei vangeli si trova in due maniere, una che indica un ritorno religioso a Dio, l’altra, che è quella che adopera l’evangelista, significa un cambio di mentalità che indice sul comportamento. Gli evangelisti, Matteo in particolare, evitano il primo termine, quello che indica il ritorno religioso a Dio. Con Gesù, il Dio con noi, non c’è più da tornare verso Dio, ma accogliere questo e con lui e come lui andare verso gli altri, per cui la conversione significa orientare diversamente la propria esistenza. Se fino ad adesso si è vissuto per sé, da ora in poi si vive per gli altri. Questa conversione è  finalizzata al fatto che “ «il regno dei cieli è vicino»”. Non è ancora realtà perché il regno dei cieli si realizzerà con l’accoglienza delle beatitudini. La prima beatitudine permetterà la realizzazione del regno dei cieli. Ma cosa si intende per ‘regno dei cieli’? Gesù non parla di un regno nei cieli, cioè l’aldilà. Regno dei cieli, espressione che troviamo soltanto nel vangelo di Matteo, indica il regno di Dio. Matteo, che scrive per una comunità di ebrei, evita di usare il termine ‘Dio’ tutte le volte che gli è possibile, per non offendere la sensibilità dei suoi lettori e, quando gli è possibile, usa dei sostituti. Uno di questi era ‘cieli’, quindi regno dei cieli non significa l’aldilà, ma il regno di Dio, cioè Dio  che diventa il re del popolo, si permette a Dio di governare il suo popolo. Allora la conversione, il cambiamento della propria esistenza, è per permettere questa realizzazione del regno, che diventerà realtà con l’accoglienza della prima beatitudine. Il regno dei cieli, il regno di Dio, non cade dall’alto ma richiede la collaborazione dell’uomo. Ebbene, “mentre camminava lungo il mare ”, di nuovo torna questo termine mare, l’evangelista scrive che Gesù vide Simone e Andrea. Questi due personaggi hanno nomi greci, quindi significa che provengono da una famiglia abbastanza aperta. Simone in particolare è conosciuto per la sua testardaggine, infatti ha un suo soprannome ‘pietra’ che significa la sua caparbietà, la durezza, che poi verrà scoperta lungo tutto il vangelo. “Gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori”. Il richiamo dell’evangelista è alla profezia contenuta nel libro di Ezechiele, capitolo 47, versetto 10, dove  “il tempo del messia sarà un tempo di abbondanza per i pescatori”. Ebbene “Gesù disse loro: «Venite dietro a me»”. E’ interessante, Gesù per iniziare la sua comunità, il gruppo con il quale inaugurare questo regno di Dio, non va in cerca di monaci – c’erano gli esseni – non chiama le persone pie, i farisei, non chiama neanche gli appartenenti al clero, i sacerdoti, neanche le persone potenti, i benestanti, quelli erano i sadducei, né tanto meno i teologi, gli scribi, ma chiama gente normale, dei pescatori. Dice, «Vi farò pescatori di uomini»”. E’ interessante che questo titolo, la missione alla quale Gesù chiama i suoi poi verrà abbandonato presto dalla chiesa. Preferiranno farsi chiamare pastori, titolo che Gesù non ha dato a nessuna persona – lui è l’unico pastore – anziché pescatori di uomini, che è quello che Gesù chiede ai suoi di fare. Che significa pescatori di uomini? Mentre pescare il pesce significa tirar fuori il pesce dal suo habitat naturale per dargli la morte, pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, simbolo del male, imbolo della morte, per salvarli, per dare loro vita. Quindi la proposta di Gesù è di andare dietro di lui per comunicare vita a tutta l’umanità. “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”. C’è poi la chiamata di altri due fratelli, Giacomo e Giovanni, questi hanno nomi giudaici, nomi ebrei, e si vedrà poi nel corso del vangelo il loro atteggiamento che rispecchia il loro nome e qui sottolinea l’evangelista che c’è la presenza del padre, Zebedeo. Gesù li chiama, “Essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”. Per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre. Il padre indica l’autorità e per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre, perché l’unico Padre che c’è all’interno della comunità dei credenti è il Padre che è nei cieli, che non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore. “Gesù percorreva tutta la Galilea”, quindi questa regione disprezzata, “insegnando nelle loro sinagoghe e annunziando il vangelo del Regno”. L’evangelista adopera due verbi differenti per l’azione di Gesù. Nelle sinagoghe insegna, e insegnare significa prendere dal patrimonio dell’Antico Testamento per poi proporlo. Quindi nelle sinagoghe Gesù prende quella che è la ricchezza del popolo, contenuta nell’Antico Testamento, e gliela propone. ma, per annunziare la buona notizia del Regno, Gesù non insegna, ma annunzia o predica. Quindi sono due verbi differenti. Quando si rivolge agli ebrei Gesù insegna, quando si rivolge a persone miscredenti o fuori della legge, non ebrei, Gesù annunzia o predica. E questo significa cogliere il nuovo senza il bisogno di andare a ripescare l’antico. E, per la prima volta in questo vangelo appare il termine ‘vangelo’ che significa ‘buona notizia’. E qual è la buona notizia? La buona notizia è quella del Regno. E infatti Gesù non si limita a parlare, ma agisce. Come? “Guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. Notate che non sono ‘del popolo’, ma ‘nel popolo’, cioè Gesù libera da quegli impedimenti che ostacolano l’accoglienza del suo messaggio di pienezza di vita nel popolo, e quindi inizia così a dilagare l’attività di Gesù e inizia il nuovo, inarrestabile esodo.

 

QUALCOSA DI NUOVO E BUONO

Il primo scrittore che raccolse l’attuazione ed il messaggio di Gesù lo riassunse tutto dicendo che Gesù proclamava la “Buona Notizia di Dio”. più tardi, gli altri evangelisti utilizzeranno lo stesso termine greco (euanggelion) per esprimere la stessa convinzione: nel Dio annunciato da Gesù le genti trovavano qualcosa di “nuovo” e “buono.”   C’è ancora in questo Vangelo… qualcosa che possa essere letto, in mezzo alla nostra società indifferente e miscredente, come qualcosa di nuovo e buono per l’uomo e la donna dei nostri giorni? Qualcosa che possa trovarsi nel Dio annunciato da Gesù e che non proporziona facilmente la scienza, la tecnica o il progresso? Come è possibile vivere la fede in Dio nei nostri giorni?   Nel Vangelo di Gesù noi credenti ci troviamo con un Dio dal quale possiamo sentire e vivere la vita come un regalo che ha la sua origine nel mistero ultimo della realtà che è Amore. Per me è buono non sentirmi solo e perso nell’esistenza, né nelle mani del destino o nelle mani del caso. Ho Qualcuno al quale posso dire grazie per la vita.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che, nonostante le nostre goffaggini, ci dà forza per difendere la nostra libertà senza finire schiavi di qualunque idolo; per non vivere sempre a metà né essere dei “vitelloni”; per andare imparando forme nuove e più umane di lavorare e di gioire, di soffrire e di amare. Per me è buono poter contare sulla forza della mia piccola fede in quel Dio.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che sveglia la nostra responsabilità affinché noi non ci disinteressiamo degli altri. Non potremo fare grandi cose, ma sappiamo che dobbiamo contribuire ad una vita più degna e più felice per tutti pensando soprattutto ai più necessitati e ai più indifesi. Per me è buono credere in un Dio che mi domanda con   frequenza che faccio per i miei fratelli.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che c’aiuta ad intravedere che c’è male nell’ingiustizia, e che la morte non ha l’ultima parola. Un giorno tutto quello che non è potuto qui essere, quello che è rimasto a metà, i nostri aneliti più grandi ed i nostri desideri più intimi raggiungeranno in Dio la loro pienezza. A me  fa bene vivere ed aspettare la mia morte con questa fiducia.   Certamente, ognuno di noi deve decidere come vuole vivere e come vuole morire. Ognuno deve ascoltare la sua propria verità. Per me non è la stessa cosa credere in Dio che non credere. A me fa bene poter fare il mio percorso in questo mondo sentendomi accolto,  sentendomi fortificato, perdonato e salvato dal Dio rivelato in Gesù.   Annuncia la Buona Notizia di Dio.
José Antonio Pagola

 

internet violento?

odio

L’ODIO SUL WEB

 l’web, specie nei ‘social’, sembra diventare ogni giorno di più un luogo franco perché spesso anonimo, comunque poco normato, dove molti sfogano liberamente la propria generica o specifica rabbia

De Rita ha parlato di ‘rabbia contro la casta’ dei politici, senonché sembra un fenomeno non solo legato a problematiche politiche, anzi sembra più un modo per esprimere finalmente quegli istinti più inconfessabili che ognuno porta dentro nel suo più profondo, controllato solo dalla ‘civilizzazione’ cui siamo stati ‘educati’, che per molti però non regge più, non è più sufficiente,  e l’espressione dell’odio e della violenza diventa il modo ‘liberante’ per reprimere, cancellare, uccidere ciò che ci dà noia, ciò che è diverso da noi, chi pensa diversamente, l’ ‘altro’ comunque non riconducibile ai nostri criteri di pensiero e di vita

S. Bartezzaghi così descrive il quadro dell’uso dell’ web da parte di molti e in modo sempre più frequente:

social web

Quantcast

Finalmente una bella notizia». La notizia è l’ictus che ha colpito Pierluigi Bersani e questo è il più soave e frequente fra i commenti malevoli che la notizia stessa ha ricevuto in rete ancora prima che l’ex segretario Pd fosse sotto i ferri, per un intervento chirurgico dagli esiti oltremodo incerti. Ad Angela Merkel, vittima di un incidente sciistico non gravissimo, è ancora andata bene: ma qualcuno ha rimpianto che non le sia toccata la sorte di Michael Schumacher. Per l’ischemia di Bersani si sono invece registrati messaggi di esultanza, insulti, auguri di morte lenta, incitamenti al male pari a quelli al Vesuvio e all’Etna quando minacciano eruzioni. Commenti apparsi dappertutto, sul blog di Beppe Grillo, sulla pagina Facebook del Fatto quotidiano, ma anche su quelle di altri giornali, fra cui Repubblica: atrocità.

Dopo l’esperimento che fece Radio Radicale mandando in onda i messaggi ricevuti nella sua segreteria telefonica (nel 1986 e poi nel 1993) ogni sgomento su quanto un cittadino possa dire, quando sente di poter parlare liberamente e avere ascolto, risulterebbe se non ipocrita almeno di maniera. Le interpretazioni possibili sono variegate: volontà di sfregio, goliardia, satira, occasione di dirla grossa, sfogo di «vera rabbia » (da comprendere, se non giustificare), fino all’ovvio «colpa di Internet».

Ma il problema non è Internet, per quanto la rete dia visibilità immediata e a fare notizia sia ovviamente solo la categoria dei messaggi estremi (in verità molti altri grillini hanno contestato gli sciacalli, e ieri mattina anche Beppe Grillo ha scritto un post di auguri). La rete è semplicemente sempre aperta e sempre visibile, i controlli e la moderazione non sono facili e a volte sembrano maliziosamente tardivi.

Il vero salto di qualità, però, consiste nel coro di invocazioni di morte su un avversario, nel momento in cui egli rischia effettivamente la vita. Lì siamo arrivati, qualche gradino sopra ai «devi morire» per il centravanti che mugola in area falciato da un difensore, o ai cappi sventolati in Parlamento. Oggi siamo alla morte augurata a chi la sta effettivamente rischiando, e il fatto è che il caso di Bersani non è neppure il primo. Di poco lo ha preceduto, ed è forse ancora più impressionante, quello di Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria che una settimana fa ha difeso le ragioni di una corretta sperimentazione animale (a cui, malata, deve personalmente svariati anni di vita) e di conseguenza ha ricevuto insulti e soprattutto schiette dichiarazioni il cui senso era: meglio che morissi tu, piuttosto che innocenti cavie di laboratorio. In questo caso opera un rancore puro e impersonale. Questo significa che oggi, in Italia, l’augurio di morte può saettare, e da un numero significativo di tastiere, in maniera paradossalmente spassionata.

Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio. Non l’altrui ma neppure il nostro. Bersani, anzi “Gargamella”: una parola. Angela Merkel, due parole. Schumacher, un brand. Il nostro nome-e-cognome, un account. Inventare la battuta più efficace, o l’insulto, vale al massimo come sfogo, non ci si preoccupa neppure delle conseguenze penali che possono derivarne. Nell’epoca che magnifica l’empatia come suprema qualità umana, cosa davvero sia il dolore a cui alludono con precisione le parole di una diagnosi, o quelle di una maledizione (comunque, di una condanna), non pare interessante né pertinente.

In un immaginario spaventosamente monocorde siamo tutti vittime di soprusi, il potente che cade ha finalmente avuto il fatto suo. «Anche mio nonno è stato in ospedale ma nessuno se n’è fregato», ha scritto un tizio a proposito di Bersani. Nel suo pauroso candore, la protesta indica la soglia che si è varcata, anno 2014. La nostra morte sarebbe indifferente a chiunque e quindi la morte di chiunque ci è indifferente, anzi ben venga. Questo è il limite che abbiamo raggiunto oggi. Il prossimo?

Stefano Bartezzaghi

 

‘anticapitalista’? va punito!

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Papa “marxista”, a rischio i dollari dei filantropi Usa

 

non solo M. Novak o qualche personaggio della destra americana liberista e anticlericale: ora anche la destra liberista  ‘cattolica’ reagisce duramente contro papa Francesco per le sue posizioni anticapitaliste

alcuni grandi finanziatori degli Stati Uniti stanno riconsiderando le donazioni alla Chiesa, e questo mette a rischio le sue attività in tutto il mondo:

Ricchi cattolici allarmati dalla linea di Francesco. Problemi per il restauro della cattedrale di St. Patrick  

Finché si trattava di Rush Limbaugh, l’eccentrico commentatore radiofonico conservatore americano, oppure del Tea Party, magari influenzato da un antico pregiudizio anticattolico, si poteva anche passarci sopra. Ora però, se è vero quello che il fondatore di Home Depot Ken Langone ha detto alla tv Cnbc, le posizioni di Papa Francesco sull’economia stanno creando un problema un po’ più serio da risolvere.

Alcuni grandi finanziatori degli Stati Uniti stanno riconsiderando le donazioni alla Chiesa, e questo mette a rischio le sue attività in tutto il mondo. Nell’esortazione Evangelii Gaudium, il pontefice aveva messo in guardia dagli eccessi del capitalismo. I conservatori americani avevano reagito male, e Limbaugh lo aveva accusato di usare un linguaggio marxista. Nella sua intervista ad Andrea Tornielli della «Stampa», Francesco aveva risposto che il marxismo è un’ideologia sbagliata, «ma io ho conosciuto diversi marxisti che erano brave persone, e quindi quell’aggettivo non mi offende».

La disputa con Limbaugh e il Tea Party si era chiusa là, ma ora se ne starebbe aprendo un’altra più pericolosa. Ken Langone è un cattolico molto devoto, ed è anche il fondatore della grande catena di negozi per la casa Home Depot. Ha sempre fatto donazioni consistenti alla Chiesa, e il cardinale di New York Timothy Dolan lo ha coinvolto nella raccolta di circa 180 milioni di dollari necessari per restaurare St. Patrick, la cattedrale sul Fifth Avenue costruita nel 1878.

«Un potenziale donatore a sette cifre – ha detto Langone al canale economico Cnbc – mi ha detto che è riluttante a partecipare, perché è preoccupato dalle critiche del Papa verso il capitalismo. Le considera un elemento di esclusione».

Il donatore era rimasto particolarmente colpito dalle parole secondo cui «la cultura della prosperità ha reso i ricchi incapaci di provare compassione per i poveri». Langone ha detto di aver sollevato il problema proprio con Dolan: «Eminenza, questo è un ostacolo ulteriore di cui non abbiamo bisogno. Gli americani sono tra i più generosi filantropi del mondo, ma devono essere approcciati nella maniera giusta. Si ottiene di più col miele, che con l’aceto».

Secondo il fondatore di Home Depot, Dolan lo ha tranquillizzato, spiegandogli che il donatore incerto ha frainteso le parole di Francesco: «Il Papa ama tanto i poveri, quanto i ricchi. Quando questo donatore capirà bene il suo messaggio, non avrà problemi a contribuire». Langone ha risposto che gliene parlerà, ma non ha voluto rivelare il nome della persone o gli effetti della sua ambasciata.

Il problema, se fosse più diffuso di una semplice defezione, potrebbe diventare complicato per il Vaticano, andando oltre le difficoltà per raccogliere i fondi necessari a restaurare St. Patrick. Stati Uniti e Germania, infatti, sono i Paesi che contribuiscono di più alle attività della Chiesa in tutto il mondo: se i rubinetti dei filantropi cattolici americani si chiudessero, rimpiazzarli sarebbe molto difficile, proprio per finanziare le attività mirate ad aiutare i poveri come Catholic Charities.

Naturalmente può darsi che abbia ragione Dolan: un dubbio non basta a creare un fenomeno, e una migliore comprensione delle posizioni di Francesco può risolvere la questione. E’ curioso poi che proprio su queste posizioni economiche e sociali la Casa Bianca spera di ricostruire il suo rapporto col Vaticano, dopo le difficoltà del passato legate alle differenze sull’aborto e i temi della vita.

P. Mastrolilli

 

 

il saluto di D. Tutu a Mandela

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“Il mio Madiba non c’è più”

il vescovo Desmon Tutu dà il suo caloroso e affettuoso e commosso saluto all’amico e costruttore, con lui, del nuovo’ Sud Africa:

Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura.

Mandela superò le aspettative.

Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.

Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.

Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.

Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.

Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?

Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.

Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.

Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.

Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.

 

in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013

p.Pagola e p.Maggi commentano il vangelo della domenica

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi e da p. Pagola
vangelo della seconda domenica di avvento (8 dicembre 2013)

Mt 3,1-12

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea
dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del
quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle
attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora
Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui
e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di
vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un
frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi:
“Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può
suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni
albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo
nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e
io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e
fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel
granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

PERCORRERE STRADE NUOVE

Negli anni 27 o 28 apparve nel deserto del Giordano un profeta originale ed indipendente che provocò un forte impatto in tutto il popolo ebreo: le prime generazioni cristiane lo videro sempre come l’uomo che preparò la strada a Gesù.
Tutto il suo messaggio si può concentrare in un grido: “Preparate la strada al Signore, appianate i suoi sentieri”. dopo venti secoli, Papa Francesco sta gridando lo stesso messaggio ai cristiani: Aprite le strade a Dio, convertitevi a Gesù, accogliete il Vangelo.
Il suo proposito è chiaro: “Cerchiamo di essere una Chiesa che trova strade nuove”. non sarà facile. Abbiamo vissuto questi ultimi anni paralizzati dalla paura. Il Papa non si sorprende: “La novità ci fa sempre un po’ di paura perché noi ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi quelli che costruiamo, programmiamo e pianifichiamo la nostra vita”. E ci fa una domanda alla quale dobbiamo rispondere: “Siamo decisi a percorrere le strade nuove che la novità di Dio ci presenta o ci trinceriamo in strutture caduche che hanno perso capacità di risposta”?.
Alcuni settori della Chiesa chiedono al Papa che egli faccia quanto prima diverse riforme che nella chiesa sono considerate urgenti. Senza dubbio, Francesco ha manifestato la sua posizione in maniera chiara: “Alcuni sperano e mi chiedono riforme nella Chiesa e con costui io sono dunque in debito. Ma prima è necessario un cambiamento di atteggiamenti.”
Mi sembra ammirabile la chiaroveggenza evangelica di Papa Francesco. La cosa principale non è firmare decreti riformisti. Prima, è necessario mettere le comunità cristiane in uno stato di conversione e recuperare all’interno della Chiesa gli atteggiamenti evangelici più basilari. Solo con questa nuova condizione sarà possibile effettuare in maniera efficace e con spirito evangelico le riforme di cui necessita con urgenza la Chiesa.
Lo stesso Francesco ci sta indicando tutti i giorni i cambiamenti di atteggiamenti che necessitiamo. Segnalerò alcuni di grande importanza. Mettere Gesù nel centro della Chiesa: “una Chiesa che non porta a Gesù è una Chiesa morta”. non vivere in una Chiesa chiusa ed autoreferenziale: “una Chiesa che si rinchiude nel passato, tradisce la sua propria identità”. Agire sempre mossi dalla povertà di Dio verso tutti i suoi figli: non coltivare “un cristianesimo restaurazionista e legalista che vuole tutto chiaro e sicuro, e che poi non trova niente”. “Cercare una Chiesa povera e dei poveri”. Ancorare la nostra vita alla sicurezza, non “nelle nostre regole, i nostri comportamenti ecclesiastici, i nostri clericalismi.”

Cambia i tuoi atteggiamenti per percorrere strade nuove nella Chiesa.

José Antonio Pagola

p. Maggi

 

CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI E’ VICINO

Commento al Vangelo di p.
Alberto Maggi 

 

Nel brano che la liturgia ci presenta questa domenica ci sono tre termini che è importante
esaminare perché se non si comprendono bene rischiano di avere nella vita del credente degli
effetti diversi da quelli che l’evangelista voleva.
Il primo è l’annunzio di Giovanni Battista nel deserto ed è un imperativo, “Convertitevi!” Questo
verbo ha il significato di un cambio di mentalità che poi comporta un cambio nel
comportamento. Purtroppo, in passato, l’aver tradotto questo invito di Giovanni Battista, che
Gesù poi farà anche suo, con “se non fate penitenza”, ha dato il via all’immagine di un
1cristianesimo fatto di penitenze, di sacrifici, di rinunce, di mortificazioni; tutte parole, tutti
vocaboli, tutte immagini che sono assenti nel linguaggio di Gesù.
Mai Gesù nei vangeli ha invitato a fare penitenza. Mai Gesù nei vangeli ha invitato le persone a
mortificarsi, mai Gesù nei vangeli ha invitato il popolo a fare sacrifici, ma anzi, il contrario!
Riprendendo l’espressione di Osea, “Imparate cosa significa ‘misericordia io voglio non
sacrifici’”, Gesù non chiede sacrifici verso Dio, ma la misericordia verso gli uomini.
Quindi l’invito di Giovanni Battista, il suo imperativo, è “cambiate comportamento”, che si
traduce con un orientamento diverso della propria esistenza, non pensare più a sé per pensare
agli altri. Questa conversione permette la vicinanza del Regno dei Cieli. Anche qui in passato ci
fu un po’ di confusione; si interpretò il Regno dei Cieli come un regno nei cieli.
Ma non è così. Regno dei Cieli è una forma che adopera solo Matteo e ha il significato di Regno
di Dio. Ma perché Matteo adopera l’espressione “Regno dei Cieli”? Perché lui scrive per una
comunità di giudei ed è attento a non urtare la loro sensibilità in quanto costoro non
pronunziano né scrivono la parola “Dio”, ma adoperano al suo posto dei sostituti.
Esattamente come facciamo noi nella nostra lingua quando diciamo “grazie al cielo”, laddove si
intende ringraziare Dio, la divinità. Allora il Regno dei Cieli non è un Regno nei cieli, non si tratta
dell’aldilà, ma si tratta della realizzazione del progetto di Dio sull’umanità. Lui è il re che governa
il suo popolo, lui è il padre che si prende cura dei suoi figli.
Questo è il Regno dei Cieli, quindi il Regno di Dio. Perché si dice che questo Regno di Dio è
vicino e non c’è ancora? Perché questo Regno dei Cieli non scende dall’alto per un intervento
divino, ma è condizionato dalla collaborazione degli uomini attraverso l’accettazione delle
beatitudini proposte da Gesù. Infatti Gesù nella prima beatitudine proclamerà beati i poveri per
lo Spirito, quelli che liberamente e volontariamente decidono di essere poveri, perché di questi
E’ …
Non è una promessa per il futuro (sarà), ma E’ il Regno dei Cieli.
Nel momento esatto in cui ci sono degli individui che decidono di orientare la propria vita al
bene e al benessere degli altri, in questo stesso istante la risposta di Dio è che lui, come padre,
si prende cura di loro e dei loro bisogni.
Quindi abbiamo visto il termine “conversione”, un cambio di mentalità, il Regno di Dio, la
realizzazione del progetto di Dio sull’umanità, e infine Giovanni proclama che lui battezza
nell’acqua, cioè aiuta a cambiare vita, ma poi la forza per iniziare questa vita nuova non la può
dare lui. La darà Gesù che viene qualificato come colui che battezza in Spirito Santo. Questo è
talmente importante che in tutti e quattro gli evangelisti troviamo la stessa espressione della
missione di Gesù.
Gesù è colui che battezza in Spirito Santo. Se battezzare nell’acqua significa immergere un
corpo in un liquido esterno all’uomo in segno di un cambiamento di vita, battezzare nello Spirito
significa immergere, inzuppare, impregnare la persona dello Spirito, cioè della stessa forza e
della stessa vita di Dio.
2Ma quando e come Gesù battezza in Spirito Santo? La risposta è nei vangeli, nel momento
della cena con i suoi, nel momento dell’eucaristia. Infatti nella cena, dove i discepoli si
impegnano ad essere fedeli a Gesù – mangiare il pane impegnandosi a farsi pane, alimento di
vita per gli altri, anche a costo di fare la sua stessa fine, questo significa bere al calice – si
effonde sui discepoli e sui credenti di ogni tempo lo Spirito Santo che li rende come Gesù “Figli
di Dio”.
La cena di Gesù quindi è il momento nel quale egli risponde a quanti lo hanno seguito con il
dono dello Spirito Santo. Infatti, bevendo al calice, espressione dell’impegno di non porre limiti
all’amore, i discepoli ricevono lo Spirito, la stessa forza d’amare del Padre.
La penetrazione di questo vino-sangue nell’intimo dell’uomo è la comunicazione dello Spirito,
vita e forza d’amore che trasforma l’uomo.

 

Vangelo della domenica II di avvento commentato da p. Maggi

 (versione lunga)

(brano estrapolato dal commento del vangelo di Mt.in una  relazione di Alberto Maggi)

 

L’espressione con la quale  Matteo comincia il capitolo tre in quei giorni non si riferisce al periodo trascorso, ma è un rimando alla figura di Mosè. Fin dall’inizio Matteo scrive il suo vangelo, presentando gli avvenimenti sulla chiave di lettura della vita e degli insegnamenti di Mosè. L’espressione si trova una sola volta in Matteo e si trova nel libro dell’Esodo 2,11 quando indica l’inizio dell’attività di Mosè: “In quei giorni Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi”. Questa indicazione, l’unica volta in Matteo, introduce un tema di liberazione dalla schiavitù. Mosè è colui che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù. Matteo usando questa espressione che c’è una sola volta sia nel suo vangelo sia nell’Esodo, vuole dire che tutto quello che lui narrerà, dovrà essere interpretato in chiave di Esodo, cioè di liberazione, non la liberazione dall’Egitto, ma da un altro tipo di liberazione.

 

1 “In quei giorni venne Giovanni il Battista”, è un inviato del Signore; nei vangeli gli inviati di Dio non appartengono mai all’istituzione religiosa. Quando Dio vuol comunicare qualcosa al suo popolo, evita accuratamente persone, luoghi e ambienti religiosi, perché sa che sono sordi, ostili, refrattari al suo messaggio e sceglie persone al di fuori. Il personaggio è presentato con il nome Giovanni – nome ebraico che significa Jahve è misericordia – e con l’indicazione della sua attività. È conosciuto e identificabile per l’attività di essere il battezzatore e più avanti vedremo cosa significa “a proclamare nel deserto della Giudea,” non va ad annunziare nella città di Gerusalemme, nella regione densamente abitata, ma nel deserto, la zona ad est di Gerusalemme e scende nella valle del Giordano fino al mar Morto. L’evangelista con questa sottolineatura ci richiama il tema del deserto, della liberazione

2 “dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Abbiamo visto come sia importante l’esatta traduzione del testo del vangelo perché se la nostra vita si basa sul vangelo ed esso è tradotto male, la nostra vita ne avrà delle conseguenze negative.

In passato il termine convertitevi era stato tradotto, in latino, con poenitentiam agite cioèfate penitenza, di per sé il termine era buono, perché poenitentia indica il pentimento, il ravvedimento; poi fu tradotto in italiano con l’invito a fare penitenza e da qui è uscito fuori il masochismo e le perversioni religiose, perché sembrò un invito alla mortificazione. Più la persona accettava il male della vita, o nei casi più sadici, ricercava la sofferenza, più pensava di essere gradita a Dio. Si pensava ciò perché Giovanni Battista – e Gesù, che farà proprio il messaggio – diceva: fate penitenza, e si perdeva il significato originario pentitevi, cambiate comportamento; nella voce penitenza venne compreso tutto quello che avvelena l’esistenza!

Fa piacere segnalare la nuova traduzione del testo del vangelo, dove il termine penitenza è scomparso per convertitevi, ravvedetevi. C’è un progresso nella traduzione che comporta poi un progresso anche nella vita spirituale. L’altra volta segnalavamo che il termine miracoli è scomparso nella nuova traduzione, non perché Gesù non li compia più, ma perché il termine è tradotto esattamente con segni compiuti da Gesù, le cose che vengono dette qui sono poi ufficializzate.

L’invito di Giovanni è convertitevi. Nella lingua greca esistono due termini, due verbi per indicare la conversione e vediamo quale uso ne fanno gli evangelisti.

Il primo termine indica il ritorno a Dio, è la conversione classica. La persona che  non è religiosa, in base ad una esperienza della propria vita o una scelta, ritorna a Dio, ritorna al culto, ritorna alla preghiera; convertirsi significa ritornare a Dio. Gli evangelisti evitano accuratamente questo termine, c’è una sola volta in Luca; gli evangelisti lo evitano accuratamente, usano il verbo convertirsi con il significato di cambio di mente, di comportamento nei confronti degli altri.

Per gli evangelisti la conversione non è più un ritornare a Dio, perché Gesù è il Dio con noi (ricordate l’inizio del vangelo di Matteo? Gesù è il Dio con noi). Con Gesù non c’è più da cercare Dio; non c’è più da tornare verso Dio, c’è da accoglierlo e con lui e come lui andare verso gli altri; questo esige un profondo cambio di mentalità. L’invito perentorio che viene da Giovanni è convertitevi! Cambiate testa.

Non è soltanto un cambiamento di testa, è un cambiamento anche del comportamento: cambiate mentalità e comportamento mettendo al primo posto, come valore, il bene dell’uomo. La conversione non è più un ritorno a Dio, ma con Dio e come Dio andare verso gli uomini. La conversione è richiesta perché il regno dei cieli è vicino. L’espressione regno dei cieli, viene usata esclusivamente nel vangelo di Matteo. Nei preliminari del primo incontro dicevamo che Matteo – probabilmente uno scriba, non si sa – scrive per una comunità di giudeo/credenti, giudei/ebrei, che hanno accolto Gesù come Messia, ma è attento a non urtare al loro suscettibilità o sensibilità. Gli ebrei ancora oggi evitano, non solo di nominare, ma anche di scrivere il nome Dio.

Nelle riviste o nei libri scritti da ebrei, quando gli ebrei devono scrivere Dio, ancora oggi, scrivono D-o, in tal modo non è stato scritto il nome di Dio.

L’espressione regno dei cieli è solo in Matteo, gli altri evangelisti parlano sempre di regno di Dio. Regno dei cieli non significa l’al di là, pensate quali deformazioni nella spiritualità hanno dato in passato l’inesatta traduzione del vangelo: si pensava che Gesù fosse venuto ad assicurare, promettere un bel posto nell’al di là. Ricordate la fregatura per i poveri: beati voi che siete poveri, perché vostro è il regno dei cieli, contenti e coglionati! State buoni, rimanete poveri, perché poi andrete in paradiso. Gesù indica qualcosa di molto diverso; non è un regno nei cieli, ma il regno dei cieli. Abbiamo detto che evitano di scrivere Dio e uno dei termini con il quale sostituirlo è cielo o cieli, come facciamo anche noi nella lingua italiana. Delle volte diciamo grazie al cielo, vogliamo ringraziare il Signore, il cielo non voglia…, ma non parliamo di meteorologia!

Cosa si intende per regno di Dio (=regno dei cieli)? L’esperienza della monarchia in Israele era stata tragica, causa di tutte le disgrazie che pativano nel momento presente. Dio che non tollera che un uomo possa mettersi al di sopra degli altri e comandarli, non voleva l’istituto della monarchia per il popolo d’Israele. Tutti gli altri popoli avevano la monarchia, Israele no! Dio diceva: quando c’è un  pericolo io comunico la mia forza, il mio spirito a uno di voi, questo vi libera dal pericolo, poi torna a badare le pecore. Troviamo nella storia di Israele personaggi che conosciamo, come Sansone che muore con tutti i Filistei o Gedeone. Erano persone normali che, nel momento del pericolo per il popolo, erano investite della forza di Dio e salvavano il popolo. Le loro gesta le trovate nella Bibbia nel libro dei Giudici, che significa libro dei condottieri, sono i condottieri che salvano il popolo, ma questo non piaceva al popolo che ha insistito, perché voleva un re come gli altri popoli. Dio manda il profeta Samuele che dice: voi volete un re? Ma si prenderà per sé i vostri campi, metterà delle tasse, farà soldati dei vostri figli e serve le vostre figlie! Noi vogliamo il re.

Dio che rispetta la libertà degli uomini, anche quando questa va contro il suo disegno, concede la monarchia, ed è un disastro completo! Saul il primo dei re impazzì e morì suicida; erede al trono era il figlio Isbàal, che venne fatto assassinare dal genero di Saul, Davide, che ne occupò il trono. Nella Bibbia, Davide è stato maledetto dal Signore che gli ha impedito di costruire il tempio con queste parole: perché hai versato troppo sangue sulla terra, davanti a me. Morto Davide, sarebbe dovuto succedergli al trono il figlio Adonia, ma fu ammazzato dal fratellastro Salomone. Salomone è peggiore dei precedenti, un despota megalomane e neanche molto intelligente, da quanto dice  la storia. Questo lo dico proprio per far risaltare il contrasto – perché a me da piccolo insegnavano la sapienza di Salomone, che faceva  a pezzi i bambini per darne un pezzo ad una madre e un pezzo all’altra – di quello che crediamo di sapere su certe figure, di quello che la Bibbia dice.

Salomone despota e megalomane mise ai lavori forzati il suo popolo per la propria mania di grandezza; morì idolatra, la peggiore delle morti, e per un ebreo è il massimo orrore. La Bibbia, 1 Re 11,6, dice: Salomone commise quanto è male agli occhi di Jahve e non fufedele a Jahve.

Gli successe il figlio Roboamo, ambizioso come il padre, meno intelligente e abbandonò non solo la legge di Dio, ma trascinò tutto il popolo lontano da Dio e la Bibbia dice: Roboamo abbandonò la legge di Jahve e tutto Israele lo seguì. Alla sua morte ci fu lo scisma, il regno si divise in casate in lotta fra loro; l’indebolimento del regno rese Israele un boccone appetibile per i regni confinanti. La tragica esperienza della monarchia, dove non ci fu un re degno, portò il popolo a proiettare in Dio l’immagine di un re ideale che è padre degli orfani e difensore delle vedove, perché orfani e vedove sono le categorie di persone che, non avendo un uomo in casa che le difende, sono alla mercé degli altri. Si pensava che il vero re sarebbe stato Dio: Dio, re del popolo che si prende cura degli elementi più deboli e più poveri. Un re che non governa i suoi, emanando leggi e dominando, ma comunicando il suo Spirito e potenziando le persone.

Questo significa regno di Dio, e si deve interpretare così l’espressione del vangelo di Matteo regno dei cieli, e si intende che si deve permettere a Dio di governare i suoi.

La comunità dei credenti che non accetta nessuno al di sopra, viene governata da Dio mediante il suo Spirito. Il regno dei cieli, il regno di Dio è vicino ed è condizionato dal cambiamento; l’evangelista mette le cose in chiaro perché loro pensavano che il regno di Dio si sarebbe inaugurato per un intervento di Dio. All’improvviso Dio avrebbe cominciato a essere il re del suo popolo. Matteo non è d’accordo; il regno di Dio è condizionato dal cambiamento del popolo: se voi cambiate comportamento, il regno di Dio diventa realtà. Continua l’evangelista

3 “Egli è colui del quale aveva parlato Isaia, il profeta, dicendo:

Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri!

Ancora una chiave di lettura data dall’evangelista, nel caso non avessimo capito, per situare il brano in chiave di liberazione dell’esodo. Il testo del profeta Isaia 40,3 si riferisce alla fine della deportazione in Babilonia, quando a causa dell’editto del re Ciro, venne concessa la libertà. Il testo citato indica l’inizio della nuova libertà per il popolo da Babilonia. C’è una differenza fra la citazione di Isaia e quella di Matteo. Il testo di Isaia dice:“Nel deserto aprite una via a Jahve e spianate nella steppa una strada al nostro Dio”.L’evangelista non dice: nel deserto aprite una via, ma dal deserto comincia a sentirsi il messaggio di liberazione e lo attribuisce a Giovanni. Se Isaia dice i sentieri del nostro Dio, Matteo cambia la citazione e scrive: preparate la via per il Signore, rendete dritti i suoi sentieri. L’evangelista comincia a fare l’attribuzione alla figura di Gesù, di quelle che erano le prerogative esclusive di Dio. Matteo pian piano comincia a spostare, attribuire a Gesù, tutto quello che nell’Antico Testamento, è attribuito a Dio. Non più la via al nostro Dio, ma al Signore che è Dio. È una maniera dell’evangelista per indicare, prima ancora che compaia in scena, che in Gesù si manifesta la pienezza di Dio.

Poi c’è la descrizione di Giovanni

4 “Giovanni aveva un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico”. Più volte lo diciamo e lo ripetiamo nella consapevolezza di essere noiosi: quando nei vangeli troviamo dei particolari, che di per sé non sono importanti per la comprensione del testo, sono sempre indicazioni teologiche. Per noi non cambia molto che Giovanni avesse o no, una cintura di pelle ai fianchi; perché l’evangelista tiene a sottolineare che Giovanni avesse un vestito di pelli di cammello? Il mantello di pelo era indossato dai profeti per profetizzare. L’evangelista ci vuole indicare in Giovanni un profeta, ma un profeta particolare che ha una cintura di pelle ai fianchi, questa rendeva riconoscibile il più grande dei profeti in Israele, Elia. Quando degli inviati si recano da Elia e poi ritornano, dicono che hanno visto un uomo con una cintura di pelle a fianchi: questo è il profeta Elia, reso riconoscibile dalla cintura di pelle ai fianchi. L’evangelista vuole dirci che il profeta Elia, che la tradizione religiosa attendeva per la venuta del Messia, si può già vedere – non come reincarnazione – nelle gesta di Giovanni Battista. Poi vedremo il perché.

Per quanto riguarda le indicazioni della alimentazione che per noi non è il massimo, le cavallette in oriente sono un cibo normale. Tra l’altro nella Bibbia sta scritto: potrete mangiare ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di grillo. In un libro di ricette dell’epoca, si dice che le cavallette vanno messe nel fuoco o nell’acqua fintanto che sono ancora vive. In queste traduzioni noi stiamo attenti il più possibile al testo greco, che poi bisogna aggiustare per renderlo comprensibile. L’evangelista dice qui:

5 “Allora uscivano verso di lui Gerusalemme, accorrevano” è esatto, Matteo scriveuscivano verso di lui perché il verbo uscire è usato nel libro dell’Esodo, per indicare l’uscita del popolo ebreo dalla schiavitù dall’Egitto, per andare verso la terra promessa. Ancora una volta Matteo sta dicendo: tutto il brano è in chiave di liberazione. Liberazione non più dall’Egitto, ma da Gerusalemme. Avrebbe dovuto scrivere da Gerusalemme, invece dice: “uscivano verso di lui Gerusalemme”, che appare così tutto uno. È strano che Gerusalemme risponda all’invito, perché Gerusalemme fin dall’inizio al primo apparire, sta in una luce sinistra, in una cappa di morte. Quando viene annunciato: è nato il re dei Giudei, Erode tremò e con lui tutta Gerusalemme. Gerusalemme sa che quando arriva Gesù è la sua fine.

Gerusalemme viveva sfruttando il nome di Dio, quando arriva il vero Dio per lei è la fine. Gerusalemme, allora  è  la città che va in tutt’uno, lei è la città del sacro e accorre per un rito in più, che verrà poi materializzato nella figura degli scribi e dei farisei

6 “e si facevano battezzare da lui, nel fiume Giordano, confessando i loro peccati”.Torniamo sull’attività di Giovanni, chiamato il Battista o il Battezzatore. Il verbo battezzare in greco significa immergere, il gesto dell’immersione o battesimo era conosciuto e significava la morte ad un passato che non c’è più. Infatti se una persona si immerge nell’acqua e resta immersa, muore. Quando ad uno schiavo era concessa la libertà, lo si immergeva nell’acqua (simbolicamente lo schiavo moriva) e  chi usciva dall’acqua era una persona nuova, una persona libera; oppure quando un pagano voleva avvicinarsi alla religione giudaica, era immerso nell’acqua, moriva il pagano e l’uomo nuovo iniziava il cammino per avvicinarsi alla religione giudaica. Questi si fanno battezzare da Giovanni, nel fiume Giordano, è una indicazione che indica la frontiera che il popolo di Israele ha dovuto attraversare per entrare nella terra promessa. Ora diventa una frontiera per il nuovo e definitivo esodo di Gesù.

Confessando i loro peccati, forse è meglio tradurre riconoscendo così i loro peccati. A noi il termine confessione ci rimanda al rito del confessionale in cui si butta la lista delle cose sporche per ricevere lo scontrino di buona condotta per andare a fare la comunione, qui non ha questo senso! Con il fatto che andavano ad immergersi nell’acqua riconoscevano i peccati. Il termine peccati usato dall’evangelista, non indica sbaglio o mancanza o colpe occasionali  o abitudinarie; indica un atteggiamento sbagliato che riguarda il passato delle persone. Nei vangeli il termine peccato riguarda il passato della persona, mai il presente. Quando la persona incontra Gesù e lo accoglie, – il passato – il peccato viene cancellato e poiché non c’è la perfezione esistono sbagli, mancanze, colpe. La gente, per il fatto di immergersi nel fiume Giordano, riconosceva di avere un passato di ingiustizia che voleva abbandonare.

7 “Ma vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito (o avvertito, dipende) di sottrarvi all’ira imminente?”Gerusalemme che accorre a Gesù, che già il profeta Isaia aveva denunciato come: popolo che onora Dio con le labbra, mentre il suo cuore gli è lontano, si materializza nella figura di farisei e sadducei.

Il termine che noi traduciamo con farisei viene da una parola ebraica, perushim, che significa separati.

Ed anche santo vuol dire separato. La differenza tra fariseo e santo oltre che etimologica è che sono due termini diversi.

Santo vuol dire separato da tutto quello che non è vita, che è contrario alla vita. Dio è santo perché non c’è nulla di non vita in lui, è il pienamente santo. Tutti quelli che come lui diventano santi, sono separati da ogni forma di male. La separazione da parte di Dio, vuol dire separato da ogni forma di male per andare incontro agli altri con atteggiamenti di vita, di compassione o di solidarietà.

I farisei facevano un altro tipo di discorso, loro erano separati, non dal male, ma dagli altri. L’osservanza della Legge, automaticamente li rendeva superiori agli altri, e li separava. Io non mi potevo associare, accomunare con persone che ritenevo incapaci di osservare la legge. La separazione dei farisei è la separazione dell’altro, porta all’ingiustizia, alla discriminazione dal punto di vista religioso.

Sono due separazioni diverse, quella da Dio e quella dei farisei.

I farisei fanno parte di un movimento nato circa due secoli prima di Gesù, al tempo della resistenza contro i re stranieri, per opera dei fratelli Maccabei. Sono dei pii laici che, per accelerare l’arrivo del regno di Dio, osservavano quotidianamente tutte le severe prescrizioni igieniche e rituali, che nell’Antico Testamento, il libro del Levitico, indicava per il sacerdote nel limitato periodo di tempo che serviva al tempio. Il libro del Levitico dice: quando il sacerdote deve svolgere le sue funzioni nel tempio, deve fare le abluzioni, non può toccare questo, osserva quest’altro ecc., ma era per un  periodo limitato, al massimo una settimana. I farisei osservavano quelle regole quotidianamente! Poiché la gente normale non poteva osservare tutto questo, si separavano dalla gente a causa di questa osservanza.

Erano riusciti a tirare fuori dalla Bibbia 613 regole da osservare, sommando le 365 proibizioni che vi hanno trovato, più i 248 precetti. Il numero 365 è legato ai giorni dell’anno, il 248 invece riguarda le componenti del corpo umano, secondo la loro cultura.

Pensavano che  il corpo umano fosse composto da 248 pezzi. È un modo per dire che tutto l’uomo, per tutto il tempo (365 giorni è l’anno), deve osservare le regole e i precetti. Loro preoccupazione era di mangiare cibi puri, per i quali fosse stata pagata la decima al tempio e soprattutto il sabato si astenevano dal praticare uno dei 1521 lavori proibiti in giorno di sabato. Il numero dei lavori proibiti viene dai 39 lavori principali svolti per costruire il tempio, moltiplicato per 39 lavori secondari; un mese fa sono diventati 1522 perché il gran rabbino di Israele, fra le azioni proibite in giorno di sabato, ha messo quella di non potersi infilare le dita per il naso!

È una cosa seria perché nel fare ciò, si può staccare un pelo, il che equivarrebbe al radersi. Una ditta di pannolini ha investito cento milioni di dollari per trovare un pannolino che non dovesse essere attaccato con l’adesivo, perché di sabato non si può attaccare con l’adesivo; ora hanno trovato un pannolino, con l’autorizzazione del rabbino, che deve essere solo appoggiato e rimane fermo, senza dover ricorrere all’adesivo. Appoggiare non è ancora compreso tra i lavori proibiti in giorno di sabato. È una vita complicatissima, assurda che dava ai farisei un enorme prestigio presso la gente, che li odiava, ma li ammirava. Erano i santoni dell’epoca e al tempo di Gesù la vita religiosa era retta tutta secondo le loro prescrizioni. Uno storico dell’epoca, Giuseppe Flavio scrive: crebbero in potenza i farisei, un gruppo di giudei in fama di superare tutti gli altri nel rispetto della religione e della esatta interpretazione delle leggi. Divennero i padroni del regno, liberi di esiliare e di richiamare chi volessero, di assolvere e di condannare. Fecero mandare a morte chi volevano. Tanta pietà non impedisce loro di esercitare il potere. All’epoca del regno di Erode erano circa seimila.

I sadducei sono i discendenti di un certo Zadòk. Salomone ha usurpato il trono al fratello, uccidendolo, ma prima di questo si era fatto consacrare re d’Israele da un sacerdote traditore, Zadòk, che poi ricompensò nominandolo sommo sacerdote al posto del legittimo sacerdote. I figli di Zadòk vennero addetti al servizio del tempio e al tempo di Gesù erano i componenti del Sinedrio ed erano l’aristocrazia economica e potere politico dell’epoca. Giuseppe Flavio quando deve parlare dei sadducei, li descrive semplicemente con la parola i ricchi. Come tutti i ricchi erano estremamente conservatori e riconoscevano come parola di Dio solo i primi cinque libri della Bibbia e disprezzavano i Profeti in cui c’è una continua invettiva contro i ricchi, contro quelli che accumulano potere su potere e ricchezze. Non accettavano i profeti dicendo che non c’era in loro parola di Dio. Tra farisei e sadducei c’era un odio mortale, ma li vedremo sempre uniti quando c’è  una situazione di pericolo.

Appena Giovanni li vede arrivare, li apostrofa subito Razza di vipere. Qual è il significato dell’espressione? A quell’epoca si credeva che la vipera dovesse uccidere la madre per nascere, è quindi un animale mortifero. È l’espressione che poi Gesù farà sua e la rivolgerà di nuovo ai farisei e poi agli scribi, indica in costoro i discendenti del serpente che nel giardino dell’Eden causò la morte di Adamo ed Eva. Il libro del profeta Isaia dice: dal ceppo del serpente uscirà una vipera. Razza di vipere significa gente capace di trasmettere soltanto e unicamente morte. Sempre Isaia dice: covano uova di vipere. Chi mangia quelle uova morirà, e dall’uovo schiacciato esce una vipera. Farisei e sadducei non credono all’invito di Giovanni e più avanti Gesù stesso glielo rinfaccerà dicendo: è venuto da voi Giovanni e non gli avete creduto. Gli hanno creduto le prostitute, i pubblicani, voi, farisei e sadducei non gli avete creduto. Non vanno al battesimo di Giovanni perché ci credono, vanno per indagare. C’è un movimento di massa, c’è una emorragia da Gerusalemme verso il deserto e loro vanno ad indagare questo movimento, che li allarma; per indagare fingono di sottoporsi loro stessi al rito.

L’evangelista dice: chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira di Dio? È importante il termine ira ed è l’unica volta che è presente nel vangelo di Matteo, praticamente assente nel Nuovo Testamento. L’evangelista si riferisce al fatto che si aspettava il giorno del Messia, il giorno del Signore e veniva chiamato il giorno dell’ira. Prima della riforma liturgica quando moriva una persona cara, per consolarci c’era il “dies irae”! E una serie di maledizioni capitavano al poveretto! Era il giorno della venuta del Signore, il giorno dell’ira. Gesù prenderà le distanze dal messaggio, ma per Giovanni Battista che continua la tradizione di Israele, quando arriva il Messia, viene a giudicare, a condannare e a castigare; l’ira è allora imminente. Gesù smentirà quest’attesa e Giovanni Battista andrà in crisi.

Gesù riprenderà l’apostrofe di Giovanni Battista anche per gli scribi e se c’è la minaccia dell’ira imminente, c’è pure la possibilità di uscirne

8 “Fate dunque frutti degni di conversione”, il termine frutto indica sempre delle azioni concrete del comportamento. L’evangelista invita farisei e sadducei a rinunciare al loro atteggiamento mortifero e a rendere visibile la conversione, significata dal rito del battesimo, mediante gesti concreti che comunichino e trasmettiamo vita. Anticipiamo la storia: l’invito non verrà ascoltato e i due gruppi saranno sempre ostili a Gesù e al suo messaggio, fino a volerne la morte. Prima che farisei e sadducei possano rispondere e obiettare, il Battista incalza

9 “e non crediate di poter dire fra voi: per padre abbiamo Abramo, perché io vi dico che Dio può da queste pietre far suscitare figli di Abramo”. C’era una certezza nel popolo ebraico che per il fatto di essere discendenti di Abramo, fossero eredi delle promesse di Dio e poi del regno di Dio; per i meriti di Abramo tutto era loro dovuto.

Giovanni non è d’accordo, e dice: non state certi di questo, perché Dio da queste pietre può far suscitare figli di Abramo. Perché l’immagine delle pietre? Sempre in Isaia, Abramo viene descritto: guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo vostro padre. Abramo è l’immagine della roccia, della pietra e il Battista li avverte che Dio non è condizionato dalla discendenza di Abramo, perché come da un uomo ormai vecchio, come era Abramo e con una moglie sterile, come era Sara, ha potuto suscitare un popolo nuovo, così ora potrà far nascere una realtà nuova. Qui la lingua italiana non può rendere il gioco di parole che c’è nella lingua ebraica, non nella greca con cui è scritto il vangelo. Figli in ebraico si dice ‘banaya e pietre ‘abnaya, è un gioco di parole che l’evangelista tenta di riportare.

L’alleanza con Dio non è più vincolata a un popolo o ad una razza, ma chiunque darà adesione a Gesù è per questo erede delle promesse che Dio aveva fatto ad Abramo, di suscitare un grande popolo. Il Battista riprende:

10 “Ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. L’evangelista nell’indicare Giovanni Battista gli attribuisce i tratti del profeta Elia, che era il più grande dei profeti della storia di Israele e veniva rappresentato con il simbolo del fuoco. In uno dei libri della Bibbia, nel Siracide, si legge: Allora sorse Elia profeta simile al fuoco. Da una parte la tradizione biblica diceva che era stato rapito al cielo su un carro di fuoco e cavalli di fuoco, ma soprattutto perché aveva un metodo infallibile per vincere le discussioni con i pagani: un fuoco dal cielo, un arrosto collettivo! Questo è nel 2° libro dei Re, 1,13: c’è il re Acazia che gli manda cinquanta inviati, ed Elia li manda a fuoco e così anche con i successivi cinquanta perché a quei tempi il Padreterno era spicciativo! Elia è famoso per il fuoco sui cento pagani, ma non si ferma qui. Personalmente si vanta di aver sgozzato 450 sacerdoti pagani.

A parte queste immagini, il profeta Elia era un riformatore religioso che usava la violenza in nome di Dio e in Giovanni si vedono questi atteggiamenti. La sua è una immagine di giudizio, di condanna e di castigo.

11 “Io vi battezzo con l’acqua per la conversione”; il battesimo di Giovanni è un segno di morte al proprio passato, ma non basta eliminare il peso del passato, bisogna avere poi la forza e l’energia per vivere in maniera nuova il presente. Questo Giovanni non lo può dare. Quello che lui può dare è compiere un gesto che significa il desiderio di cambiamento di vita, ma per l’effettivo cambiamento ci vuole qualcosa di nuovo. I buoni propositi non servono molto. Io vi battezzo nell’acqua, come segno di cambiamento,

“ma colui che viene dopo di me ed è più forte di me io non sono degno di togliergli i sandali”; abbiamo già accennato a questo nella genealogia di Gesù, per il caso di Giuda e di Tamar e di Onan e abbiamo parlato del matrimonio ebraico. Una delle immagini con cui si rappresentava l’alleanza tra Dio e il suo popolo era quella del matrimonio: Dio è lo sposo, Israele è la sposa. La formula togliere i sandali si rifà all’istituto giuridico del matrimonio, alla legge del Levirato. Levirato deriva dalla parola levi che significa cognato, ed è la legge del cognato. L’accenno brevemente perché è già stata trattata.

Quando una donna rimaneva vedova e senza figli, il cognato aveva l’obbligo di fecondarla e metterla incinta. Se costui rifiutava, (Onan rifiutò e fu subito castigato da Dio!) colui che aveva diritto dopo di lui, procedeva alla cerimonia dello scalzamento, cioè scioglieva i sandali (questo era un grande disonore e la famiglia veniva chiamata la famiglia dello scalzato). Attribuendo queste parole a Giovanni Battista, l’evangelista non dà una lezione di umiltà da parte del Battista, ma vuol dire che colui che deve fecondare il popolo di Israele e dargli nuova vita, non è il Battista. Lui può solo fare l’amico dello sposo, ma colui che deve fecondare è colui che viene dopo Giovanni.

“ egli infatti vi battezzerà nello Spirito santo e fuoco”.

Giovanni battezza in acqua, simbolo di morte al proprio passato, la nuova immersione è nello Spirito santo e fuoco. Già nella annunciazione di Gesù abbiamo visto che spirito in greco è vento, forza, e l’immagine alla quale Giovanni si riporta è quella della vagliatura del grano. Giovanni aiuta ad arrivare all’incontro con Gesù che poi ci immergerà in un vento, in una forza – la forza vitale di Dio – la cui azione è di santificare. Faccio un richiamo: Spirito significa la forza di Dio, santo è l’attività di questa forza, cioè separare dal male. Ritorna di nuovo il termine separati: i farisei mediante l’osservanza della legge e dei precetti si separavano dalle persone. Gesù comunica una forza che non separa dalle persone, ma dalla sfera del male.

Mentre l’osservanza della legge produceva la disuguaglianza e la superiorità, l’immersione nello Spirito santo provocherà l’uguaglianza e il servizio. L’azione di Gesù sarà di immergere nella forza che elimina le scorie dell’uomo e le brucia nel fuoco, che nella Bibbia è sempre un segno di castigo. Lì si dice che il fuoco è stato creato per il castigo. La forza (dello Spirito) è l’energia per rendere perfetto il desiderio di cambiamento.

12 “Egli ha in mano la pala, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Ecco l’immagine alla quale Matteo voleva arrivare. Nell’Antico Testamento gli empi sono descritti sempre come paglia o come pula che poi è bruciata. Quando si parla di fuoco non significa che si subisce una pena, ma una distruzione completa perché il fuoco consuma completamente. Giovanni erede della tradizione descrive l’azione del Messia come quella di colui che attua un giudizio tra la gente, per realizzare quel sogno che è descritto nell’ultima parte, nel profeta Isaia: il tuo popolo sarà tutto di giusti. Quando verrà il Messia, egli dividerà i giusti dagli ingiusti ed eliminerà fisicamente i peccatori. Nel libro del profeta Malachia l’annuncio dell’invio di Elia è preceduto da questa immagine: Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia e quel giorno venendo li incendierà. Il fuoco distrugge e annienta completamente tutto quanto, un fuoco inestinguibile.

Nel corso del vangelo vedremo come Gesù prenderà una posizione di distanza nei confronti di questa immagine annunziata da Giovanni Battista. Questi aveva annunciatoarriva colui con la scure posta alla radice degli alberi, ma in Luca Gesù dice: se un albero non  porta frutto, io lo zappetto, lo concimo nella speranza che poi porti frutto. Gesù non solo non condanna, non giudica, non castiga i peccatori, ma si unisce a loro. Gesù è conosciuto per essere amico dei pubblicani e dei peccatori.

Il povero Giovanni Battista va in  crisi e mentre è in carcere, gli manda un ultimatum che sa di scomunica: sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? Gesù risponde: E Gesù dice: andate a dire a Giovanni quello che vedete, e sono tutte azioni che comunicano vita, nessuna è di condanna. Arriviamo alla figura di Gesù.

 

processo

Offese razziste a rom e sinti processo in vista per Borghezio

Chiuse le indagini sull’europarlamentare

Mario Borghezio stavolta rischia il processo per diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione o di odio etnico o razziale prevista dalla legge Mancino

di Mario Consani

Borghezio

Borghezio

Milano, 24 novembre 2013 – Rom e sinti? «Non tutti i rom sono ladri ma molti ladri sono rom (…) una bella percentuale». E se il presidente della Camera Laura Boldrini riceve alcuni rappresentanti delle comunità rom e sinti italiane: «La giornata della demagogia e del fancazzismo, poi con contorno di festival dei ladri». E ancora: «Speriamo che non si portino via gli arredi alla Camera, perché lì è pieno di quadri di pregio, di soprammobili (…) io un esamino con l’elenco di tutto quello che c’era prima della visita e di quello che è rimasto dopo lo farei prudenzialmente, l’esperienza insegna». Parole e musica di Mario Borghezio naturalmente, intervistato lo scorso aprile dalla trasmissione radiofonica “La zanzara”. Stavolta, però, rischia il processo per diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione o di odio etnico o razziale prevista dalla legge Mancino.

La Procura, dopo gli esposti di varie associazioni rom, ha infatti chiuso le indagini sul contenuto di quell’intervista radiofonica e il pm Piero Basilone ha intenzione di chiedere a breve il rinvio a giudizio di Borghezio, habituée di certe eleganti frasi a effetto. La primavera scorsa, persino il gruppo europarlamentare degli “euroscettici” Edf lo espulse dalle sue fila dopo che a un settimanale – intervistato sempre da uno dei giornalisti della “Zanzara” – Borghezio aveva ribadito le sue idee sul ministro Cecile Kyenge e sul «governo del bonga bonga».

Potevano mancare dunque le affettuose attenzioni per rom e sinti? Ovviamente no. Così quando l’8 aprile scorso il presidente della Camera ricevette a Montecitorio una delegazione di “figli del vento” in occasione della giornata internazionale istituita dall’Onu, Borghezio signorilmente commentava alla radio: «… quelle facce di c… che qualche presidente della Camera riceve…» e poi «un saluto al popolo rom glielo mando con una certa tranquillità e con una certa preoccupazione perché non sono in casa». Così ora il leghista è indagato anche per violazione dell’articolo 3 della legge del ’75 che ratificò la convenzione di New York, per aver diffuso “idee fondate sull’odio razziale ed etnico, consistenti nel pregiudizio che gli appartenenti al popolo rom commettano furti e nemmeno si propongano di lavorare”.

una tirata d’orecchi a mons. Fisichella

fiorito

 

Fisichella, invece di “evangelizzare”, come gli aveva detto di fare papa Ratzinger intriga per un nuovo partito dei cattolici (di destra)

il caporedattore della sezione politica de ‘la Repubblica’, Claudio Tito, ricostruisce i retroscena della separazione della parte cattolico-moderata (i ‘lealist’ al governo) dal resto di Forza Italia e vede dietro ai motivi di tensione legati alle condanne di Berlusconi qualcuno che trama e intriga per un nuovo partito dei cattolici:

Quei vertici in Vaticano con i ministri alfaniani per preparare la scissione

di Claudio Tito

La Repubblica 18 novembre 2013

 

Monsignor Fisichella e la regia di Ruini. NESSUNO del Pd. Ed è proprio lì che è maturata la scelta di arrivare alla frattura dentro il Pdl: gli alfaniani da una parte e i berlusconiani dall’altra. «I cattolici da una parte, i laici dall’altra», ripetevano. A organizzare le riunioni era Monsignor Fisichella, ex cappellano di Montecitorio ed ora titolare del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Gli ospiti erano stabilmente tre membri del governo Letta: i due pidiellini Angelino Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello; e l’ex montiano Mario Mauro. In almeno una occasione si è unito anche il vicepresidente del consiglio Angelino Alfano. L’obiettivo: provare a ricostruire l’unità politica dei cattolici. O meglio, era lo slogan utilizzato, «restituire una nuova unità politica dei credenti». Porre fine insomma alla fase degli ultimi venti anni in cui i cattolici impegnati nelle istituzioni potessero essere disseminati nei vari partiti — dalla sinistra alla destra — per unirsi sui singoli temi. Riunire quindi gli esponenti “credenti” del centrodestra deberlusconizzato e il gruppo “centrista” di Scelta civica, quello che fa riferimento a Mauro, appunto, e anche all’Udc di Casini. E magari attrarre i cristiani che si trovano in questa fase anche nel Partito Democratico e che non gradiscono l’ascesa di Matteo Renzi e l’iscrizione al Pse. Insomma il sogno spesso invocato di una rinascita in piccolo — e ancora embrionale — di quella che fu la Democrazia Cristiana. Dietro gli incontri a Piazza Pio XII, però, non c’era solo Monsignor Fisichella. Come spesso è accaduto in questi anni, un ruolo determinante l’ha avuto Camillo Ruini. L’ex presidente della Cei ha da tempo preso atto della fine politica di Silvio Berlusconi ed è convinto che si possa costruire un nuovo soggetto politico che interpreti in forme nuove il cattolicesimo in politica. Il messaggio lanciato ai quattro ministri era infatti sempre il medesimo: «Dare vita ad un contenitore svincolato dai due poli principali, e sicuramente non alleato con il centrosinistra». In attesa che l’eredità elettorale del Cavaliere, quel blocco sociale e di voti custodito a Palazzo Grazioli, cada come un frutto maturo all’interno del nuovo soggetto politico. «Perché ricordatevi che se anche il Cavaliere è finito — avvertiva l’ex Vicario di Roma e ora Presidente del comitato scientifico della Fondazione Joseph Ratzinger — i voti ce l’ha». Eppure con il ministro degli Interni ed ex delfino di Berlusconi e’ stato piu’ che incoraggiante. Attraverso Fisichella gli ha fatto pervenire un messaggio esplicito: «Le sue intenzioni sono positive, vada avanti». L’operazione guidata dunque da Ruini e dall’ex cappelano della Camera ha però provocato più di un dissidio all’interno delle sale ovattate di San Pietro. Soprattutto non ha ricevuto l’avallo della Segreteria di Stato. Anzi, molti sospettano che la Conferenza episcopale, guidata da un altro ruiniano come Bagnasco, si sia mossa approfittando dell’assenza del successore di Bertone al vertice della Curia. Pietro Parolin, infatti, sebbene nominato da tempo, si insedierà a Roma concretamente solo oggi. E pur stando a Padova non avrebbe gradito l’interferenza di una parte della Cei nei fatti della politica italiana. Anche perché Papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sempre spiegato di volersi attenere ad una linea di “non intervento” nelle questioni dei partiti lasciando spazio al protagonismo dei laici. Non è un caso che solo una parte dei vescovi italiani abbia assecondato i progetti “ruiniani”. Le più attive in questo senso sono state le diocesi del “Triangolo del nord”: Milano-Genova-Venezia. Tutte e tre guidate da esponenti vicini a Don Camillo: Bagnasco, appunto, a Genova, Scola a Milano e Moraglia a Venezia. E tra le associazioni cattoliche di base è stata soprattutto Comunione e Liberazione, di cui sono esponenti di spicco proprio i ministri Lupi e Mauro (e alcuni scissionisti come Formigoni), e Rinnovamento nello Spirito Santo a promuovere l’operazione a favore del Nuovo Centrodestra. Il resto della galassia cattolica è rimasta in attesa, forse anche consapevole che alcuni equilibri all’interno della Conferenza episcopale appaiono “congelati” ma non “confermati”. Basti pensare alla semplice “proroga” concessa a Monsignor Crociata, segretario generale della Cei. O anche all’arcivescovo di Firenze Betori che potrebbe essere presto trasferito e che non ha mai nascosto una certa avversione nei confronti del sindaco fiorentino, Matteo Renzi, cattolico ma probabile leader del centrosinistra. «E’ chiaro — spiegava qualche mese fa proprio il candidato alla segretaria del Pd — che non sto simpatico all’Arcivescovo». Ed è chiaro che il disegno ruiniano punta a strappare anche una parte consistente dei cattolici del Partito democratico, i suoi dirigenti e anche i suoi elettori, minando le basi originarie del progetto che ha unificato gli ex Ds e gli ex Ppi. Nella consapevolezza che in questa fase la tolda di comando del fronte progressista è proprio occupata da ex popolari come Letta e Renzi, non interessati ad un’operazione neocentrista, e quindi simbolicamente in grado di sgonfiare gli scenari a favore della Nuova unità dei cattolici. E del resto non è un caso che tra i pilastri della separazione da Berlusconi ci siano quegli esponenti del Pdl che nel 2009 si sono battuti in sintonia con le richieste del mondo ecclesiastico sul caso Englaro. Allora in prima fila spiccavano proprio uomini come Lupi, Quagliariello, Sacconi. Alcuni di loro cattolici dell’ultima ora che hanno abbracciato con vigore la ragioni della Chiesa. «In quei giorni — raccontava qualche mese fa Beppe Pisanu — Sacconi mi diceva “noi cattolici non possiamo cedere sul caso di questa ragazza”. E io gli rispondevo: voi ex socialisti atei in effetti sì che siete cattolici, mica un democristiano come me…».

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