ancora sulle donne che amano preti

donna

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE

PARLA UNA DELLE DONNE CHE HA SCRITTO AL PAPA
dal prezioso sito ‘finesettimana’ ricavo queste riflessioni come importante contributo alla riflessione sulle problematiche legate al celibato del clero in conseguenza anche della lettera di 26 donne che hanno scritto al papa perché in rapporto affettivo e di amore con altrettanti sacerdoti:

prete

 

 

 

 

 È successo ogni volta che il tema si è presentato alla ribalta dell’opinione pubblica che giornali e televisioni gli dessero grande rilevanza. Stavolta però, vuoi per il pontificato considerato di “rottura”, vuoi per un’opinione pubblica attenta ad ogni segnale di novità o di “svolta”, vuoi per un episcopato, quello italiano, in fase di transizione (e che quindi rende i media maggiormente “intraprendenti” su temi tradizionalmente considerati “scomodi”), anche nel nostro Paese la lettera di 26 donne che amano preti ha prodotto enorme clamore e dibattito.

Nel testo, rivelato da Vatican insider, ma pubblicato integralmente sulla homepage del nostro sito internet (www.adista.it), le firmatarie, che hanno voluto restare anonime (anche se nella raccomandata inviata in Vaticano hanno lasciato le loro generalità e recapiti telefonici), hanno detto a Francesco di essere «un piccolo campione» che parla a nome di tante che «vivono nel silenzio» e che chiede la revisione del celibato ecclesiastico.

«Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa», scrivono. «Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con sé purtroppo tutto il dolore del “non pienamente vissuto”. Una continua altalena di “tira e molla” che dilaniano l’anima».

«E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale, unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente gioverebbe all’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza». Per discutere di tutto questo, chiedono un’udienza privata al papa: «Per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio».

La lettera delle 26 non è la prima inviata ad un pontefice da donne che amano preti. Nel 2010 un’analoga iniziativa all’indirizzo di Benedetto XVI fu presa da un gruppo di donne che partecipano ad un blog all’interno del sito della rivista Il dialogo (di Monteforte Irpino) dedicato proprio al celibato ecclesiastico ed alle donne che hanno o hanno avuto relazioni con sacerdoti.

Sulle questioni sollevate dall’iniziativa delle 26 donne Adista ha interpellato sia una delle firmatarie, di cui tuteliamo la volontà di restare anonima, sia Stefania Salomone, che da anni si occupa di animare il blog sul sito del dialogo.org e che è stata tra le promotrici della missiva del 2010. (valerio gigante)

«Maturi i tempi per la svolta»

Intervista a una delle firmatarie

Nella vostra lettera chiedete al papa di riconsiderare il tema del celibato ecclesiastico, ma ancora di più, chiedete a lui un aiuto affinché il tema delle relazioni sentimentali che coinvolgono donne e preti esca dal clima di rimozione e clandestinità in cui oggi la Chiesa istituzionale lo relega. Cosa vi fa pensare che i tempi siano maturi per una svolta in questo senso?

I tempi per affrontare il tema del celibato obbligatorio sono maturi ormai da tempo. Ogni periodo storico ha delle sue peculiarità. Guardiamo al passato. Chi avrebbe pensato, anni addietro, di sollevare questo dibattito? Eppure anche anni fa i sacerdoti avevano storie con alcune donne. Nell’attuale contesto storico si è più propensi a chiedere il confronto sulle tematiche che si ritengono importanti. Culturalmente si è più preparati ad affrontare un tema spinoso come quello sollevato da noi donne. Se non si prova a cambiare, il cambiamento non arriverà mai. Dobbiamo essere pronti a far sentire la nostra voce. Crediamo che questo papa, presentatosi come il papa dell’ascolto e della misericordia, più dei suoi predecessori non possa fingere che questo problema non esista e che in cuor suo sappia che un sacerdote può essere tale anche se sposato.

Quanto è diffuso, per la percezione ed il confronto che avete tra di voi, il fenomeno di relazioni stabili tra preti e donne?

Dal confronto avuto in questi anni con numerose donne, il fenomeno è molto diffuso: da brevi relazioni passando a relazioni che durano anni, con immenso dolore per donne e sacerdoti (nella più facile delle ipotesi). Queste esperienze si sommano ad altre vissute più da vicino. Personalmente ho visto, nell’arco di appena quattro anni, un sacerdote che ha chiesto e ottenuto la dispensa (e che in passato mi risulta avesse anche sentito un’altra donna); il travaglio del sacerdote che è stato il mio compagno; il tormento di un altro sacerdote per la vicinanza di una donna e per il chiacchierare della gente.

È proprio vero che ci si rende conto di qualcosa solo quando la si vive sulla propria pelle: mi fidai di quel sacerdote perché, un po’ come tutti, ho ingenuamente pensato che lui non potesse avere un interesse particolare verso di me. Era un pensiero che non mi aveva mai sfiorato. Invece quando sperimenti l’amore per un prete capisci che niente è impossibile, che tutto può capitare a tutti; quindi che non si deve mai giudicare o pensare “nella mia vita questo non accadrà mai”. Entrare in contatto con donne che hanno avuto la mia stessa esperienza mi ha aperto un mondo: siamo tantissime donne e tantissimi sacerdoti. Il fenomeno è più esteso di quanto si pensi. Tutte le barriere crollano, e scopri l’unica realtà: quella umana. Fatta di limiti e fragilità. Quando un sacerdote ama realmente una donna (e non è sempre così scontato) i due vivono i segni di in amore concreto. Vivono la relazione. La bellezza della relazione. Fatta di affettività e sessualità.

Finora, a vostro giudizio, cos’è che ha realmente impedito alla Chiesa istituzionale di affrontare, addirittura di parlare di questo argomento?

A nostro giudizio vi sono diversi aspetti che non consentono alla Chiesa di affrontare l’argomento. Di base, la paura generalizzata di un vero cambiamento che presume un’inversione di rotta, un rimettere tutto in discussione. Insomma, cambiamenti vasti e conseguenze complesse. Forse la posizione più comoda per la Chiesa è lasciare tutto com’è. Mi chiedo se, a lungo termine, sarà un bene fingere che il celibato obbligatorio (istituito per tutelare i beni della Chiesa) sia una legge divina! La Chiesa DEVE affrontare queste tematiche, rimettendo i figli di Dio al centro dell’attenzione. Come si può accettare la sofferenza dei figli di Dio? Mi auguro che papa Francesco ci dia una risposta. Mi auguro che altre donne e sacerdoti facciano sentire con coraggio la loro voce e la loro sofferenza.

«Ancora molta la strada da fare»

Intervista a Stefania Salomone

La lettera delle 26 ha suscitato enorme clamore, in Italia ed all’estero. Come giudichi i contenuti della missiva, e come mai a tuo giudizio i temi sottoposti da questo gruppo di donne al papa hanno prodotto un’eco così vasta?

Non poteva che essere così. La stessa cosa è accaduta quattro anni fa, quando, assieme ad altre nove donne, ho scritto la prima lettera aperta delle “donne dei preti” italiane al papa. L’interesse della stampa, specie quella estera, fu talmente grande da costringermi a spegnere il telefono perché non riuscivo a dare seguito a tutte le richieste. È un tema che suscita enorme curiosità nell’opinione pubblica. Si sa che i preti hanno storie sentimentali e/o sessuali, ma ci si limita a ridacchiarne o magari le si liquida con frettolose valutazioni moralistiche.

Difficilmente ci si interroga sul perché ad esempio una donna possa innamorarsi ed incominciare una storia già in partenza complicatissima, come quella con un prete o religioso. Semplice masochismo? Forse. Ma andrei un minimo più a fondo, considerando innanzitutto la valenza che “il senso del sacro” ha ancora oggi nella nostra cultura, specie nell’immaginario femminile.

Personalmente, apprezzo le intenzioni e considero in genere positivo ogni tentativo che viene fatto per rendere note problematiche scomode, a qualsiasi livello. Ho apprezzato meno, invece, sia il tono che le scarse argomentazioni contenute nella missiva. Mi è parso più una sorta di piagnisteo che una reale rivendicazione di un diritto, quale a mio avviso una comunicazione di questo tipo avrebbe potuto e dovuto rappresentare. Parlare unicamente del dolore, dell’emotività, di quanto noi donne saremmo brave ad “accompagnare” il prete nel suo ministero, francamente mi sembra limitativo e controproducente. Non parliamo poi del concetto di “porre le sofferenze ai piedi del papa”, che proprio mi fa orrore.

Il lavoro che da sette anni svolgo con le donne che mi contattano sul blog mira proprio ad aiutarle a liberarsi dalla cappa della religiosità, incominciando ad immaginare un prete meno sacro ed intoccabile, nonché un ruolo femminile meno legato al ricordo della perpetua, o a colei che deve avere pazienza ed aspettare che lui si renda disponibile ad un fugace incontro.
Le firmatarie della lettera hanno voluto mantenere il più stretto anonimato. Per quale ragione c’è ancora tanto timore ad uscire allo scoperto?

Le ragioni dell’anonimato sono diverse. Prima di tutto solitamente il prete non gradisce che lei si esponga, anche senza rivelare dettagli della storia. Il timore è principalmente quello del prete, e la donna in genere lo asseconda. In secondo luogo queste storie nascono come storie clandestine e il senso di segretezza è insito nel loro dna. Nei casi in cui una relazione diviene pubblica, le donne vengono spesso stigmatizzate dai parrocchiani, dagli amici, dai familiari, che sono generalmente molto “progressisti” solo se si parla di situazioni che riguardano persone sconosciute.

Infine, esiste a mio avviso l’assioma donna-tentazione che la dottrina cattolica ha instillato nelle menti dei credenti e non, e che stenta ad abbandonarci. Mi è capitato spesso di parlare con donne che hanno relazioni con i preti e sentirle affermare “le sue sacre mani mi hanno toccato”, oppure di confrontarmi con qualcuno che non fosse coinvolto nella problematica e che mi dicesse: “Sì d’accordo, ma lui è un prete, perché andate a dargli fastidio?”. Quindi può capitare anche che una donna provi vergogna per la sua condizione. Magari la prova senza ammetterlo.
Ritieni che sotto questo pontificato possa essere maturo il tempo per una riconsiderazione del celibato ecclesiastico e, ancor di più, della questione (che pare riguardi circa un terzo del clero) delle relazioni amorose che coinvolgono i preti?

Stando alla mia esperienza, una percentuale molto alta del clero ha intrattenuto o intrattiene relazioni amorose/sessuali con uomini o donne. O, per lo meno, ha attraversato il momento della crisi, dell’innamoramento che ha magari gestito, soffocato o sublimato, come comunemente si usa dire. Comunque ben più di un terzo. In ogni caso ritengo che sia ben difficile che un pontefice qualsiasi, anche l’attuale, possa riconsiderare la disciplina del celibato ecclesiastico tout-court. Se particolarmente illuminato – ma personalmente credo che possa accadere unicamente per problemi legati allo scarso numero dei chierici attualmente in esercizio – questo papa potrebbe valutare la possibilità di ordinare uomini sposati.

E non sarebbe la stessa cosa. Si arriverebbe ad una situazione simile a quella degli ortodossi che possono sposarsi prima dell’ordinazione, ma non successivamente, e i membri della gerarchia vengono scelti tra i celibi. Quindi ci sarebbero preti di serie a e di serie b. E guarda caso fanalino di coda sarebbero proprio gli sposati che “hanno ceduto alla tentazione e piuttosto che ardere …”. (v. g.)

elogio del sorriso sulle labbra del credente

il riso abbonda sulle labbra di chi crede

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un bell’articolo sull’importanza del ‘sorriso’ nella persona credente apparso sul quotidiano ‘l’Avvenire’ a firma del vescovo teologo B. Forte

peccato che sia macchiato del tipico peccato ‘cattolico’ quale quello di voler monopolizzare le cose belle e buone, magari dopo averle screditate o sottovalutate per secoli, o di volere sempre distinguersi e prendere le distanze separandosi (per autoaffermarsi) sia da chi ‘pretende di cambiare il mondo’ sia da chi assume un ‘pensiero debole’ per meglio dialogare e fare spazio ad altre verità in un cammino comune, magari, verso la Verità …

L’importanza del sorriso

Alla luce della fede biblica la domanda se Dio possa ridere o, almeno, sorridere, non è così ingenua come potrebbe sembrare, quasi fosse voce di un’indebita proiezione della nostra leggerezza sull’indicibile. In realtà, riso e sorriso riferiti a Dio sono temi tutt’altro che assenti nella Sacra Scrittura, come nell’intera tradizione ebraico-cristiana.
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L’ebraismo può, dunque, essere considerato la religione del riso e del sorriso? Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto si mescola delicatamente al riso, non esita a rispondere affermativamente: «L’identità ebraica è uno scoppio di risa». E una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di purim, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo. 
Purim è, perciò, festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia, il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da mendicante prodigo, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non lo è…). 
Moni Ovadia offre una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo. Così il povero ebreo, cui è capitato veramente di tutto, sussurra timidamente all’Eterno: «Noi ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma, ascolta: un’altra volta non potresti scegliere qualcun altro?».
Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione che conosce il riso e il sorriso: in esso è perfino la Verità in persona ad ammiccare un sorriso… Che la Verità sorrida, potrebbe apparire perfino imbarazzante a chi pensasse la stessa Verità nei termini dell’ideologia moderna, per la quale il Vero è il campo di dominio di una ragione “forte”, che non conosce debolezze e non tollera differenze, neanche quelle sottolineate dalla levità di un sorriso. 
Al contrario, per il cosiddetto «pensiero debole» la Verità non sorride, ma sghignazza: essa è solo una maschera, che si fa gioco di chi ancora creda che esista una verità. Il sorriso della Verità è, dunque, lontano tanto da chi pretende di cambiare il mondo e la vita con le sole forze della ragione umana, quanto da chi nega semplicemente ogni fondamento forte all’impegno dell’uomo sulla Terra.
Chi dunque può amare il sorriso della Verità? Chi crede nell’Onnipotente che per amore si fa debole, nel Signore crocifisso, in cui riconosce la follia dell’amore divino per gli uomini. La debolezza di Dio è il sorriso della Verità, che non ha nulla dell’assolutezza astratta! Né questo scorgere il sorriso della Verità ne diminuisce la forza e l’attraente bellezza: ciò che conta è corrispondervi, prendendo sul serio la fedeltà del Dio, fattosi debole e vicino per amore, e non prendendoci troppo sul serio. 
In realtà, la Verità sorridente ci invita a sorridere di noi, nell’atto di abbandonarci umilmente nelle braccia di quel Dio, che è venuto a sorriderci nel volto di un Bambino. Da allora sappiamo che – fin quando ci sarà spazio per il sorriso della Verità – il mondo potrà ancora avere una speranza più forte del dolore e della morte, che troppo spesso sembrano averla vinta…
Lo aveva ben compreso Francesco, «giullare di Dio» in tempi non certo tranquilli come furono i suoi. Lo esprimeva nel Medio Evo europeo la diffusa tradizione del risus paschalis, che prevedeva il racconto del maggior numero di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…), affinché dappertutto esplodesse la gioia, unico sentimento ritenuto consono alla vittoria pasquale della vita. 
Forse anche per questo san Filippo Neri, detto «Pippo il buono», non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e sorridere davanti al mondo e alla vita.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo siano religioni del riso e del sorriso, la risposta risiede forse nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. 
Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare tra la prossimità e la lontananza: allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura è umile e aperta alle sorprese di Dio, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua limitatezza. 
Chi è libero da sé, sa ridere e far ridere con gioia. Perciò i paradossi dell’amore sono quelli del riso e del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso. 
E qui emerge una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’islàm, religione che insiste sul dualismo fra Dio e il mondo, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: nell’islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista.
Bruno Forte
 

I muri della discriminazione, dell’isolamento e dell’esclusione del popolo rom e sinto

 

 

 

 

Il C.C.I.T. 2014 al Cavallino di Venezia

 

Si è svolto nei giorni scorsi, dal 4 al 6 aprile, al Cavallino di Venezia il Comitato Cattolico Internazionale per la pastorale del popolo Zingaro (C.C.I.T.), in luogo stupendo, a trenta metri dal mare, in una bella temperatura primaverile, soprattutto ricca di spunti di riflessione e ricchezza umana condivisa da rappresentanti di circa dieci paesi europei (circa 200 presenze) che, a dispetto della difficoltà rappresentata dalla ‘barriera’ e dal ‘muro’ delle lingue, hanno messo in comune esperienze, analisi e riflessioni sui ‘muri della discriminazione’ e dei molteplici pregiudizi che separano duramente ancora i nostri percorsi da quelli di un popolo, quello rom, che continuiamo a tenere ancora lontano e guardiamo con diffidenza, paura, anche disprezzo, e questo non solo nell’ambito della nostra convivenza sociale, ma anche in ambito ecclesiale.

Per questo l’incontro è iniziato con un bel momento di preghiera comunitaria (Liturgia di Accoglienza) preparata per noi da Agostino Rota Martir, incentrata sulla figura di ‘Maria che abbatte i muri’ della violenza, della paura, dell’indifferenza tra le persone e le nazioni.

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Il presidente p. Claude Dumas e i membri del comitato sono stati esplicitamente salutati dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti che ha indicato nella figuta di Gesù colui che “portando la buona notizia agli uomini, si è fatto anche carico delle loro condizioni. Ha aperto le porte, ha abbattuto le mura di divisione e di inimicizia”. “Gli zingari Hanno bisogno dell’umanità delle società in cui vivono per sentirsi membri della famiglia umana, usufruendo dei diritti di cui godono gli altri membri della comunità, nel rispetto della loro dignità e della loro identità”.

Il presidente Claude Dumas rivolge un ‘saluto ai partecipanti’ con un commento molto opportuno della pagina evangelica del cieco Bartimeo, immagine della sfida a cui è chiamata la chiesa stessa: “Oggi i muri di separazione sono fatti di vergogna, di pregiudizi, di odio, di concorrenza, di timore, d’ignoranza, di pregiudizi teologici e incomprensione culturale. La chiesa è chiamata  ad essere una comunità inclusiva, a abbattere tutti quei muri di separazione”

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La romni  Suzana  Jovanovic (che ha conseguito la laurea in storia discutendo la tesi     dal titolo estremamente significativo : “come restare zingari nel mondo dei gagé”), ha svolto la più significativa relazione dell’incontro prendendo le mosse dalla propria esperienza personale: “Ho abbandonato la mia gente quando avevo 18 anni: la prima cosa che mi hanno insegnato i gagé è quella di vergognarmi di essere zingara. E questo l’ho assorbito così bene che l’ho subito messo in pratica. L’essere zingari è un peccato originale. Le persona che mi sono vicine mi stimano moltissimo e io – ovviamente – ne sono contenta. Ma nel tempo ho capito che la loro stima – paradossalmente – deriva da un pregiudizio formatosi  nei secoli: la convinzione che gli zingari sono dei ritardati mentali, degli incapaci, degli sfaticati, dei nullafacenti, dei non evoluti, delle sopravvivenze di qualche stadio precedente dell’evoluzione umana”. Suzzana ha articolato una fine e approfondita analisi della discriminazione da sempre in atto a partire da quella che gli antropologi chiamano l’ “immagine rovesciata del sé” attraverso la quale si inventa un’umanità il cui stile di vita è assolutamente da scartare e che nel nostro caso si materializza nello zingaro: progressivamente si costruisce un’umanità inquinata, poi la si trasforma in umanità inquinante; e questo, mutatis mutandis, sia ieri come oggi. “la prima operazione ideologico/propagandistica nella costruzione di un’ideologia negativa verso un gruppo, ieri come oggi, è quella di legittimare la propria azione facendola percepire come assolutamente necessaria”. La paura dell’altro forse è umana e tollerabile, ma “usarla a scopo strumantale per alterare la percezione del pericolo della ‘propria’ comunità umana nei confronti di un’altra comunità umana disumanizzando quest’ultima e trasformandola in parassita pericoloso per la propria società non solo non è tollerabile, ma è assolutamente da condannare”.

La sinta Pamela Adami delinea un’analisi o una ‘lettura socio-culturale’ della presenza dei sinti e dei rom in Italia. Pur evidenziando le difficoltà obiettive nell’individuare i ‘numeri’ precisi perché l’ultimo censimento, per esempio, “è stato compiuto in Italia in regime di presunta emergenza e ha avuto anche tratti intimidatori”. Pamela delinea la situazione dal punto di vista:

  • delle denominazioni
  • delle appartenenze religiose
  • della cittadinanza
  • delle tipologie abitative
  • dell’emergere di associazioni politiche e culturali rom

     p. agostino

Agostino  Rota Martir racconta l’attenzione pastorale verso i rom e i sinti in Italia (‘quadro pastorale’) come “un cammino lungo, articolato e complesso, dove non sono mancati strappi e divergenze”. Nella necessità di sintetizzare il rapporto attuale della chiesa in Italia con i rom e i sinti Agostino elenca “tre tipi di linee fondamentali”, “tre presenze” che “a volte  si intrecciano, dialogano, ma anche si scontrano tra loro:

1.la chiesa dei ‘progetti’ per l’integrazione

2.la chiesa che evangelizza

3.la chiesa “con l’odore delle pecore”

Sembra talmente obiettiva questa pluriformità di difficile composizione e dialogo che anche in sede di C.C.I.T. ha suscitato subito delle reazioni critiche alla relazione accusandola ingiustamente di settarismo, ideologismo, volontà di divisione della chiesa: la pressoché generale convinta approvazione di essa rende ragione del settarismo, invece, di queste critiche.

La suora croata Karolina Miljak delinea dei “tentativi pastorali per l’abbattimento del muro dei pregiudizi e  delle discriminazioni” a partire dalla figura di Gesù Dio-uomo che abbatte i muri dei pregiudizi sperimentando la discriminazione e combattendo le discriminazioni. Ne deriva un’immagine dell’operatore pastorale che sa immedesimarsi con l’escluso e che sa andare verso l’ ‘altro’-

Thérèse Poisson descrive la storia di Marianna che assomiglia sicuramente a quella di molte altre storie plasmate da tanta lotta e piene di energia.

I ‘gruppi di studio’, tentando di superare le barriere segnate dal multilinguismo, hanno rappresentato come sempre una bella occasione di incontro ravvicinato delle persone, dei loro ‘racconti’ e delle loro proposte per superare i muri più resistenti, nelle società civili e nelle chiese, che impediscono un incontro libero e aperto tra rom e gagé.

Come sempre ricca di umanità, di vivande condivise (le migliori, non occorre dirlo, sempre quelle italiane!), di festa e di danza la serata del sabato che esprime i segni del superamento di ogni barriera nazionale e della comunione in atto tra sinti e rom e amici gagé operatori della pastorale di ‘comunione’.

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https://www.youtube.com/watch?v=MF8ZSIMUn68

https://www.youtube.com/watch?v=XIFT_legAMk

https://www.youtube.com/watch?v=Zrno3US2g_I

https://www.youtube.com/watch?v=QmgcKhQve7I

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Un bel giro su Venezia ci ha permesso anche di fruire delle bellezze della natura e della cultura.   

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Il tutto non avrebbe avuto una riuscita così felice senza la dedizione, il servizio e la gentilezza del gruppo dei  ‘giovanissimi’ e la capacità e l’esperienza di Cristina Simonelli

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QUARESIMA Istruzioni d’uso Alberto MAGGI
Con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare. Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore c…ontenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, dai sacrifici e dalle mortificazioni. Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo”, secondo le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (Mc 1,15). Un invito al cambiamento di vita, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e a dare adesione alla buona notizia di Gesù. L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è eterna, cioè indistruttibile, e per questo capace di superare la morte.
In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima. Mai Gesù nel suo insegnamento a invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 12,7). I sacrifici centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, la misericordia orienta l’uomo al bene del fratello. Sacrifici, penitenze, mortificazioni infatti non fanno che centrare l’uomo su se stesso, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di queste pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi: “Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: Non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti umani,che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,16.20-23). Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche centrano l’uomo su se stesso, nel miraggio di una impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quantogrande è la propria ambizione. Per questo Gesù invita invece al dono di sé, immediato e concreto, tanto quanto è grande la propria capacità di amare.
La quaresima non è orientata al venerdì santo, ma alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni.
Si tratta di scoprire forme nuove, originali, inedite, di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria. Per questo oggi c’è l’imposizione delle ceneri. Pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi,verso la fine dell’inverno, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra. Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (“Convertiti e credi al vangelo”), è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere.

p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

così p. Maggi commenta il vangelo della terza domenica del tempo ordinario (26 gennaio 2014):

VENNE A CAFARNAO PERCHE’ SI COMPISSE CIO’ CHE ERA STATO DETTO PER MEZZO DEL PROFETA ISAIA

Mt 4,12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, rché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, eAndrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre,  aravano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

L’evangelista Matteo presenta in questo brano l’inizio dell’attività di Gesù. Una volta venuto a sapere che Giovanni è stato arrestato e quindi l’aria si fa pesante e difficile in Giudea, Gesù sale al nord, nella Galilea, nella regione che vedremo abbastanza disprezzata ,“lascia Nazareth, il suo paese natale, e va ad abitare a Cafarnao”. E’ interessante il fatto che né Nazareth né Cafarnao vengono mai nominate nell’Antico Testamento, comunque Cafarnao era una città di frontiera, importante posto di dogana. L’evangelista scrive poi “sulla riva del mare”, ma in realtà è un lago. Perché l’evangelista parla di mare? Perché con questo sotterfugio, sostituendo lago con mare, l’evangelista vuol dare un’indicazione teologica; il mare era quello che separava Israele dai pagani, ma soprattutto il mare era quello che il popolo di Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Quindi indicava la piena liberazione. Tutta la tematica dell’evangelista è in chiave di Esodo e Gesù è il nuovo Mosè che viene a liberare il suo popolo. E qui l’evangelista vede, nell’attività di Gesù, nella scelta di Gesù di salire in Galilea, la realizzazione della promessa di liberazione messianica da una situazione di oppressione a una di salvezza, di un territorio che era stato devastato dagli Assiri e cita il profeta Isaia al capitolo 8, versetto 23, dove si parla di Galilea delle genti. Mentre la Giudea deve il suo nome a Giuda, uno dei patriarchi più importanti, questa regione al nord era talmente disprezzata – era una regione abitata da poveri, da bifolchi, da gente violenta – era talmente disgustata la popolazione della Giudea da quelli del nord, che lo stesso Isaia non sa come definire questa regione e usa un termine dispregiativo, la chiama ‘la provincia o il distretto dei non ebrei’. Il distretto in ebraico è Gelil da cui il termine Galilea, quindi mentre Giudea deriva da Giuda, Galilea deriva da questo termine dispregiativo col quale il profeta indica questa regione al nord. Ebbene proprio questa regione disprezzata a nord, dove il popolo abita nelle tenebre, proprio lì è sorta la luce. E qui l’evangelista anticipa quella che poi l’azione di Gesù, luce del mondo, di comunicare ai suoi stessi discepoli la possibilità di essere luce del mondo. E Gesù inizia la sua attività. 

“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi …»”. Il verbo ‘convertire’ nel testo greco dei vangeli si trova in due maniere, una che indica un ritorno religioso a Dio, l’altra, che è quella che adopera l’evangelista, significa un cambio di mentalità che indice sul comportamento. Gli evangelisti, Matteo in particolare, evitano il primo termine, quello che indica il ritorno religioso a Dio. Con Gesù, il Dio con noi, non c’è più da tornare verso Dio, ma accogliere questo e con lui e come lui andare verso gli altri, per cui la conversione significa orientare diversamente la propria esistenza. Se fino ad adesso si è vissuto per sé, da ora in poi si vive per gli altri. Questa conversione è  finalizzata al fatto che “ «il regno dei cieli è vicino»”. Non è ancora realtà perché il regno dei cieli si realizzerà con l’accoglienza delle beatitudini. La prima beatitudine permetterà la realizzazione del regno dei cieli. Ma cosa si intende per ‘regno dei cieli’? Gesù non parla di un regno nei cieli, cioè l’aldilà. Regno dei cieli, espressione che troviamo soltanto nel vangelo di Matteo, indica il regno di Dio. Matteo, che scrive per una comunità di ebrei, evita di usare il termine ‘Dio’ tutte le volte che gli è possibile, per non offendere la sensibilità dei suoi lettori e, quando gli è possibile, usa dei sostituti. Uno di questi era ‘cieli’, quindi regno dei cieli non significa l’aldilà, ma il regno di Dio, cioè Dio  che diventa il re del popolo, si permette a Dio di governare il suo popolo. Allora la conversione, il cambiamento della propria esistenza, è per permettere questa realizzazione del regno, che diventerà realtà con l’accoglienza della prima beatitudine. Il regno dei cieli, il regno di Dio, non cade dall’alto ma richiede la collaborazione dell’uomo. Ebbene, “mentre camminava lungo il mare ”, di nuovo torna questo termine mare, l’evangelista scrive che Gesù vide Simone e Andrea. Questi due personaggi hanno nomi greci, quindi significa che provengono da una famiglia abbastanza aperta. Simone in particolare è conosciuto per la sua testardaggine, infatti ha un suo soprannome ‘pietra’ che significa la sua caparbietà, la durezza, che poi verrà scoperta lungo tutto il vangelo. “Gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori”. Il richiamo dell’evangelista è alla profezia contenuta nel libro di Ezechiele, capitolo 47, versetto 10, dove  “il tempo del messia sarà un tempo di abbondanza per i pescatori”. Ebbene “Gesù disse loro: «Venite dietro a me»”. E’ interessante, Gesù per iniziare la sua comunità, il gruppo con il quale inaugurare questo regno di Dio, non va in cerca di monaci – c’erano gli esseni – non chiama le persone pie, i farisei, non chiama neanche gli appartenenti al clero, i sacerdoti, neanche le persone potenti, i benestanti, quelli erano i sadducei, né tanto meno i teologi, gli scribi, ma chiama gente normale, dei pescatori. Dice, «Vi farò pescatori di uomini»”. E’ interessante che questo titolo, la missione alla quale Gesù chiama i suoi poi verrà abbandonato presto dalla chiesa. Preferiranno farsi chiamare pastori, titolo che Gesù non ha dato a nessuna persona – lui è l’unico pastore – anziché pescatori di uomini, che è quello che Gesù chiede ai suoi di fare. Che significa pescatori di uomini? Mentre pescare il pesce significa tirar fuori il pesce dal suo habitat naturale per dargli la morte, pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, simbolo del male, imbolo della morte, per salvarli, per dare loro vita. Quindi la proposta di Gesù è di andare dietro di lui per comunicare vita a tutta l’umanità. “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”. C’è poi la chiamata di altri due fratelli, Giacomo e Giovanni, questi hanno nomi giudaici, nomi ebrei, e si vedrà poi nel corso del vangelo il loro atteggiamento che rispecchia il loro nome e qui sottolinea l’evangelista che c’è la presenza del padre, Zebedeo. Gesù li chiama, “Essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”. Per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre. Il padre indica l’autorità e per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre, perché l’unico Padre che c’è all’interno della comunità dei credenti è il Padre che è nei cieli, che non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore. “Gesù percorreva tutta la Galilea”, quindi questa regione disprezzata, “insegnando nelle loro sinagoghe e annunziando il vangelo del Regno”. L’evangelista adopera due verbi differenti per l’azione di Gesù. Nelle sinagoghe insegna, e insegnare significa prendere dal patrimonio dell’Antico Testamento per poi proporlo. Quindi nelle sinagoghe Gesù prende quella che è la ricchezza del popolo, contenuta nell’Antico Testamento, e gliela propone. ma, per annunziare la buona notizia del Regno, Gesù non insegna, ma annunzia o predica. Quindi sono due verbi differenti. Quando si rivolge agli ebrei Gesù insegna, quando si rivolge a persone miscredenti o fuori della legge, non ebrei, Gesù annunzia o predica. E questo significa cogliere il nuovo senza il bisogno di andare a ripescare l’antico. E, per la prima volta in questo vangelo appare il termine ‘vangelo’ che significa ‘buona notizia’. E qual è la buona notizia? La buona notizia è quella del Regno. E infatti Gesù non si limita a parlare, ma agisce. Come? “Guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. Notate che non sono ‘del popolo’, ma ‘nel popolo’, cioè Gesù libera da quegli impedimenti che ostacolano l’accoglienza del suo messaggio di pienezza di vita nel popolo, e quindi inizia così a dilagare l’attività di Gesù e inizia il nuovo, inarrestabile esodo.

 

QUALCOSA DI NUOVO E BUONO

Il primo scrittore che raccolse l’attuazione ed il messaggio di Gesù lo riassunse tutto dicendo che Gesù proclamava la “Buona Notizia di Dio”. più tardi, gli altri evangelisti utilizzeranno lo stesso termine greco (euanggelion) per esprimere la stessa convinzione: nel Dio annunciato da Gesù le genti trovavano qualcosa di “nuovo” e “buono.”   C’è ancora in questo Vangelo… qualcosa che possa essere letto, in mezzo alla nostra società indifferente e miscredente, come qualcosa di nuovo e buono per l’uomo e la donna dei nostri giorni? Qualcosa che possa trovarsi nel Dio annunciato da Gesù e che non proporziona facilmente la scienza, la tecnica o il progresso? Come è possibile vivere la fede in Dio nei nostri giorni?   Nel Vangelo di Gesù noi credenti ci troviamo con un Dio dal quale possiamo sentire e vivere la vita come un regalo che ha la sua origine nel mistero ultimo della realtà che è Amore. Per me è buono non sentirmi solo e perso nell’esistenza, né nelle mani del destino o nelle mani del caso. Ho Qualcuno al quale posso dire grazie per la vita.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che, nonostante le nostre goffaggini, ci dà forza per difendere la nostra libertà senza finire schiavi di qualunque idolo; per non vivere sempre a metà né essere dei “vitelloni”; per andare imparando forme nuove e più umane di lavorare e di gioire, di soffrire e di amare. Per me è buono poter contare sulla forza della mia piccola fede in quel Dio.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che sveglia la nostra responsabilità affinché noi non ci disinteressiamo degli altri. Non potremo fare grandi cose, ma sappiamo che dobbiamo contribuire ad una vita più degna e più felice per tutti pensando soprattutto ai più necessitati e ai più indifesi. Per me è buono credere in un Dio che mi domanda con   frequenza che faccio per i miei fratelli.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che c’aiuta ad intravedere che c’è male nell’ingiustizia, e che la morte non ha l’ultima parola. Un giorno tutto quello che non è potuto qui essere, quello che è rimasto a metà, i nostri aneliti più grandi ed i nostri desideri più intimi raggiungeranno in Dio la loro pienezza. A me  fa bene vivere ed aspettare la mia morte con questa fiducia.   Certamente, ognuno di noi deve decidere come vuole vivere e come vuole morire. Ognuno deve ascoltare la sua propria verità. Per me non è la stessa cosa credere in Dio che non credere. A me fa bene poter fare il mio percorso in questo mondo sentendomi accolto,  sentendomi fortificato, perdonato e salvato dal Dio rivelato in Gesù.   Annuncia la Buona Notizia di Dio.
José Antonio Pagola

 

internet violento?

odio

L’ODIO SUL WEB

 l’web, specie nei ‘social’, sembra diventare ogni giorno di più un luogo franco perché spesso anonimo, comunque poco normato, dove molti sfogano liberamente la propria generica o specifica rabbia

De Rita ha parlato di ‘rabbia contro la casta’ dei politici, senonché sembra un fenomeno non solo legato a problematiche politiche, anzi sembra più un modo per esprimere finalmente quegli istinti più inconfessabili che ognuno porta dentro nel suo più profondo, controllato solo dalla ‘civilizzazione’ cui siamo stati ‘educati’, che per molti però non regge più, non è più sufficiente,  e l’espressione dell’odio e della violenza diventa il modo ‘liberante’ per reprimere, cancellare, uccidere ciò che ci dà noia, ciò che è diverso da noi, chi pensa diversamente, l’ ‘altro’ comunque non riconducibile ai nostri criteri di pensiero e di vita

S. Bartezzaghi così descrive il quadro dell’uso dell’ web da parte di molti e in modo sempre più frequente:

social web

Quantcast

Finalmente una bella notizia». La notizia è l’ictus che ha colpito Pierluigi Bersani e questo è il più soave e frequente fra i commenti malevoli che la notizia stessa ha ricevuto in rete ancora prima che l’ex segretario Pd fosse sotto i ferri, per un intervento chirurgico dagli esiti oltremodo incerti. Ad Angela Merkel, vittima di un incidente sciistico non gravissimo, è ancora andata bene: ma qualcuno ha rimpianto che non le sia toccata la sorte di Michael Schumacher. Per l’ischemia di Bersani si sono invece registrati messaggi di esultanza, insulti, auguri di morte lenta, incitamenti al male pari a quelli al Vesuvio e all’Etna quando minacciano eruzioni. Commenti apparsi dappertutto, sul blog di Beppe Grillo, sulla pagina Facebook del Fatto quotidiano, ma anche su quelle di altri giornali, fra cui Repubblica: atrocità.

Dopo l’esperimento che fece Radio Radicale mandando in onda i messaggi ricevuti nella sua segreteria telefonica (nel 1986 e poi nel 1993) ogni sgomento su quanto un cittadino possa dire, quando sente di poter parlare liberamente e avere ascolto, risulterebbe se non ipocrita almeno di maniera. Le interpretazioni possibili sono variegate: volontà di sfregio, goliardia, satira, occasione di dirla grossa, sfogo di «vera rabbia » (da comprendere, se non giustificare), fino all’ovvio «colpa di Internet».

Ma il problema non è Internet, per quanto la rete dia visibilità immediata e a fare notizia sia ovviamente solo la categoria dei messaggi estremi (in verità molti altri grillini hanno contestato gli sciacalli, e ieri mattina anche Beppe Grillo ha scritto un post di auguri). La rete è semplicemente sempre aperta e sempre visibile, i controlli e la moderazione non sono facili e a volte sembrano maliziosamente tardivi.

Il vero salto di qualità, però, consiste nel coro di invocazioni di morte su un avversario, nel momento in cui egli rischia effettivamente la vita. Lì siamo arrivati, qualche gradino sopra ai «devi morire» per il centravanti che mugola in area falciato da un difensore, o ai cappi sventolati in Parlamento. Oggi siamo alla morte augurata a chi la sta effettivamente rischiando, e il fatto è che il caso di Bersani non è neppure il primo. Di poco lo ha preceduto, ed è forse ancora più impressionante, quello di Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria che una settimana fa ha difeso le ragioni di una corretta sperimentazione animale (a cui, malata, deve personalmente svariati anni di vita) e di conseguenza ha ricevuto insulti e soprattutto schiette dichiarazioni il cui senso era: meglio che morissi tu, piuttosto che innocenti cavie di laboratorio. In questo caso opera un rancore puro e impersonale. Questo significa che oggi, in Italia, l’augurio di morte può saettare, e da un numero significativo di tastiere, in maniera paradossalmente spassionata.

Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio. Non l’altrui ma neppure il nostro. Bersani, anzi “Gargamella”: una parola. Angela Merkel, due parole. Schumacher, un brand. Il nostro nome-e-cognome, un account. Inventare la battuta più efficace, o l’insulto, vale al massimo come sfogo, non ci si preoccupa neppure delle conseguenze penali che possono derivarne. Nell’epoca che magnifica l’empatia come suprema qualità umana, cosa davvero sia il dolore a cui alludono con precisione le parole di una diagnosi, o quelle di una maledizione (comunque, di una condanna), non pare interessante né pertinente.

In un immaginario spaventosamente monocorde siamo tutti vittime di soprusi, il potente che cade ha finalmente avuto il fatto suo. «Anche mio nonno è stato in ospedale ma nessuno se n’è fregato», ha scritto un tizio a proposito di Bersani. Nel suo pauroso candore, la protesta indica la soglia che si è varcata, anno 2014. La nostra morte sarebbe indifferente a chiunque e quindi la morte di chiunque ci è indifferente, anzi ben venga. Questo è il limite che abbiamo raggiunto oggi. Il prossimo?

Stefano Bartezzaghi

 

‘anticapitalista’? va punito!

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Papa “marxista”, a rischio i dollari dei filantropi Usa

 

non solo M. Novak o qualche personaggio della destra americana liberista e anticlericale: ora anche la destra liberista  ‘cattolica’ reagisce duramente contro papa Francesco per le sue posizioni anticapitaliste

alcuni grandi finanziatori degli Stati Uniti stanno riconsiderando le donazioni alla Chiesa, e questo mette a rischio le sue attività in tutto il mondo:

Ricchi cattolici allarmati dalla linea di Francesco. Problemi per il restauro della cattedrale di St. Patrick  

Finché si trattava di Rush Limbaugh, l’eccentrico commentatore radiofonico conservatore americano, oppure del Tea Party, magari influenzato da un antico pregiudizio anticattolico, si poteva anche passarci sopra. Ora però, se è vero quello che il fondatore di Home Depot Ken Langone ha detto alla tv Cnbc, le posizioni di Papa Francesco sull’economia stanno creando un problema un po’ più serio da risolvere.

Alcuni grandi finanziatori degli Stati Uniti stanno riconsiderando le donazioni alla Chiesa, e questo mette a rischio le sue attività in tutto il mondo. Nell’esortazione Evangelii Gaudium, il pontefice aveva messo in guardia dagli eccessi del capitalismo. I conservatori americani avevano reagito male, e Limbaugh lo aveva accusato di usare un linguaggio marxista. Nella sua intervista ad Andrea Tornielli della «Stampa», Francesco aveva risposto che il marxismo è un’ideologia sbagliata, «ma io ho conosciuto diversi marxisti che erano brave persone, e quindi quell’aggettivo non mi offende».

La disputa con Limbaugh e il Tea Party si era chiusa là, ma ora se ne starebbe aprendo un’altra più pericolosa. Ken Langone è un cattolico molto devoto, ed è anche il fondatore della grande catena di negozi per la casa Home Depot. Ha sempre fatto donazioni consistenti alla Chiesa, e il cardinale di New York Timothy Dolan lo ha coinvolto nella raccolta di circa 180 milioni di dollari necessari per restaurare St. Patrick, la cattedrale sul Fifth Avenue costruita nel 1878.

«Un potenziale donatore a sette cifre – ha detto Langone al canale economico Cnbc – mi ha detto che è riluttante a partecipare, perché è preoccupato dalle critiche del Papa verso il capitalismo. Le considera un elemento di esclusione».

Il donatore era rimasto particolarmente colpito dalle parole secondo cui «la cultura della prosperità ha reso i ricchi incapaci di provare compassione per i poveri». Langone ha detto di aver sollevato il problema proprio con Dolan: «Eminenza, questo è un ostacolo ulteriore di cui non abbiamo bisogno. Gli americani sono tra i più generosi filantropi del mondo, ma devono essere approcciati nella maniera giusta. Si ottiene di più col miele, che con l’aceto».

Secondo il fondatore di Home Depot, Dolan lo ha tranquillizzato, spiegandogli che il donatore incerto ha frainteso le parole di Francesco: «Il Papa ama tanto i poveri, quanto i ricchi. Quando questo donatore capirà bene il suo messaggio, non avrà problemi a contribuire». Langone ha risposto che gliene parlerà, ma non ha voluto rivelare il nome della persone o gli effetti della sua ambasciata.

Il problema, se fosse più diffuso di una semplice defezione, potrebbe diventare complicato per il Vaticano, andando oltre le difficoltà per raccogliere i fondi necessari a restaurare St. Patrick. Stati Uniti e Germania, infatti, sono i Paesi che contribuiscono di più alle attività della Chiesa in tutto il mondo: se i rubinetti dei filantropi cattolici americani si chiudessero, rimpiazzarli sarebbe molto difficile, proprio per finanziare le attività mirate ad aiutare i poveri come Catholic Charities.

Naturalmente può darsi che abbia ragione Dolan: un dubbio non basta a creare un fenomeno, e una migliore comprensione delle posizioni di Francesco può risolvere la questione. E’ curioso poi che proprio su queste posizioni economiche e sociali la Casa Bianca spera di ricostruire il suo rapporto col Vaticano, dopo le difficoltà del passato legate alle differenze sull’aborto e i temi della vita.

P. Mastrolilli

 

 

il saluto di D. Tutu a Mandela

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“Il mio Madiba non c’è più”

il vescovo Desmon Tutu dà il suo caloroso e affettuoso e commosso saluto all’amico e costruttore, con lui, del nuovo’ Sud Africa:

Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura.

Mandela superò le aspettative.

Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.

Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.

Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.

Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.

Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?

Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.

Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.

Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.

Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.

 

in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013

p.Pagola e p.Maggi commentano il vangelo della domenica

rosellina

 

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi e da p. Pagola
vangelo della seconda domenica di avvento (8 dicembre 2013)

Mt 3,1-12

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea
dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del
quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel
deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».
E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle
attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora
Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui
e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di
vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un
frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi:
“Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può
suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni
albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo
nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e
io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e
fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel
granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

PERCORRERE STRADE NUOVE

Negli anni 27 o 28 apparve nel deserto del Giordano un profeta originale ed indipendente che provocò un forte impatto in tutto il popolo ebreo: le prime generazioni cristiane lo videro sempre come l’uomo che preparò la strada a Gesù.
Tutto il suo messaggio si può concentrare in un grido: “Preparate la strada al Signore, appianate i suoi sentieri”. dopo venti secoli, Papa Francesco sta gridando lo stesso messaggio ai cristiani: Aprite le strade a Dio, convertitevi a Gesù, accogliete il Vangelo.
Il suo proposito è chiaro: “Cerchiamo di essere una Chiesa che trova strade nuove”. non sarà facile. Abbiamo vissuto questi ultimi anni paralizzati dalla paura. Il Papa non si sorprende: “La novità ci fa sempre un po’ di paura perché noi ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi quelli che costruiamo, programmiamo e pianifichiamo la nostra vita”. E ci fa una domanda alla quale dobbiamo rispondere: “Siamo decisi a percorrere le strade nuove che la novità di Dio ci presenta o ci trinceriamo in strutture caduche che hanno perso capacità di risposta”?.
Alcuni settori della Chiesa chiedono al Papa che egli faccia quanto prima diverse riforme che nella chiesa sono considerate urgenti. Senza dubbio, Francesco ha manifestato la sua posizione in maniera chiara: “Alcuni sperano e mi chiedono riforme nella Chiesa e con costui io sono dunque in debito. Ma prima è necessario un cambiamento di atteggiamenti.”
Mi sembra ammirabile la chiaroveggenza evangelica di Papa Francesco. La cosa principale non è firmare decreti riformisti. Prima, è necessario mettere le comunità cristiane in uno stato di conversione e recuperare all’interno della Chiesa gli atteggiamenti evangelici più basilari. Solo con questa nuova condizione sarà possibile effettuare in maniera efficace e con spirito evangelico le riforme di cui necessita con urgenza la Chiesa.
Lo stesso Francesco ci sta indicando tutti i giorni i cambiamenti di atteggiamenti che necessitiamo. Segnalerò alcuni di grande importanza. Mettere Gesù nel centro della Chiesa: “una Chiesa che non porta a Gesù è una Chiesa morta”. non vivere in una Chiesa chiusa ed autoreferenziale: “una Chiesa che si rinchiude nel passato, tradisce la sua propria identità”. Agire sempre mossi dalla povertà di Dio verso tutti i suoi figli: non coltivare “un cristianesimo restaurazionista e legalista che vuole tutto chiaro e sicuro, e che poi non trova niente”. “Cercare una Chiesa povera e dei poveri”. Ancorare la nostra vita alla sicurezza, non “nelle nostre regole, i nostri comportamenti ecclesiastici, i nostri clericalismi.”

Cambia i tuoi atteggiamenti per percorrere strade nuove nella Chiesa.

José Antonio Pagola

p. Maggi

 

CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI E’ VICINO

Commento al Vangelo di p.
Alberto Maggi 

 

Nel brano che la liturgia ci presenta questa domenica ci sono tre termini che è importante
esaminare perché se non si comprendono bene rischiano di avere nella vita del credente degli
effetti diversi da quelli che l’evangelista voleva.
Il primo è l’annunzio di Giovanni Battista nel deserto ed è un imperativo, “Convertitevi!” Questo
verbo ha il significato di un cambio di mentalità che poi comporta un cambio nel
comportamento. Purtroppo, in passato, l’aver tradotto questo invito di Giovanni Battista, che
Gesù poi farà anche suo, con “se non fate penitenza”, ha dato il via all’immagine di un
1cristianesimo fatto di penitenze, di sacrifici, di rinunce, di mortificazioni; tutte parole, tutti
vocaboli, tutte immagini che sono assenti nel linguaggio di Gesù.
Mai Gesù nei vangeli ha invitato a fare penitenza. Mai Gesù nei vangeli ha invitato le persone a
mortificarsi, mai Gesù nei vangeli ha invitato il popolo a fare sacrifici, ma anzi, il contrario!
Riprendendo l’espressione di Osea, “Imparate cosa significa ‘misericordia io voglio non
sacrifici’”, Gesù non chiede sacrifici verso Dio, ma la misericordia verso gli uomini.
Quindi l’invito di Giovanni Battista, il suo imperativo, è “cambiate comportamento”, che si
traduce con un orientamento diverso della propria esistenza, non pensare più a sé per pensare
agli altri. Questa conversione permette la vicinanza del Regno dei Cieli. Anche qui in passato ci
fu un po’ di confusione; si interpretò il Regno dei Cieli come un regno nei cieli.
Ma non è così. Regno dei Cieli è una forma che adopera solo Matteo e ha il significato di Regno
di Dio. Ma perché Matteo adopera l’espressione “Regno dei Cieli”? Perché lui scrive per una
comunità di giudei ed è attento a non urtare la loro sensibilità in quanto costoro non
pronunziano né scrivono la parola “Dio”, ma adoperano al suo posto dei sostituti.
Esattamente come facciamo noi nella nostra lingua quando diciamo “grazie al cielo”, laddove si
intende ringraziare Dio, la divinità. Allora il Regno dei Cieli non è un Regno nei cieli, non si tratta
dell’aldilà, ma si tratta della realizzazione del progetto di Dio sull’umanità. Lui è il re che governa
il suo popolo, lui è il padre che si prende cura dei suoi figli.
Questo è il Regno dei Cieli, quindi il Regno di Dio. Perché si dice che questo Regno di Dio è
vicino e non c’è ancora? Perché questo Regno dei Cieli non scende dall’alto per un intervento
divino, ma è condizionato dalla collaborazione degli uomini attraverso l’accettazione delle
beatitudini proposte da Gesù. Infatti Gesù nella prima beatitudine proclamerà beati i poveri per
lo Spirito, quelli che liberamente e volontariamente decidono di essere poveri, perché di questi
E’ …
Non è una promessa per il futuro (sarà), ma E’ il Regno dei Cieli.
Nel momento esatto in cui ci sono degli individui che decidono di orientare la propria vita al
bene e al benessere degli altri, in questo stesso istante la risposta di Dio è che lui, come padre,
si prende cura di loro e dei loro bisogni.
Quindi abbiamo visto il termine “conversione”, un cambio di mentalità, il Regno di Dio, la
realizzazione del progetto di Dio sull’umanità, e infine Giovanni proclama che lui battezza
nell’acqua, cioè aiuta a cambiare vita, ma poi la forza per iniziare questa vita nuova non la può
dare lui. La darà Gesù che viene qualificato come colui che battezza in Spirito Santo. Questo è
talmente importante che in tutti e quattro gli evangelisti troviamo la stessa espressione della
missione di Gesù.
Gesù è colui che battezza in Spirito Santo. Se battezzare nell’acqua significa immergere un
corpo in un liquido esterno all’uomo in segno di un cambiamento di vita, battezzare nello Spirito
significa immergere, inzuppare, impregnare la persona dello Spirito, cioè della stessa forza e
della stessa vita di Dio.
2Ma quando e come Gesù battezza in Spirito Santo? La risposta è nei vangeli, nel momento
della cena con i suoi, nel momento dell’eucaristia. Infatti nella cena, dove i discepoli si
impegnano ad essere fedeli a Gesù – mangiare il pane impegnandosi a farsi pane, alimento di
vita per gli altri, anche a costo di fare la sua stessa fine, questo significa bere al calice – si
effonde sui discepoli e sui credenti di ogni tempo lo Spirito Santo che li rende come Gesù “Figli
di Dio”.
La cena di Gesù quindi è il momento nel quale egli risponde a quanti lo hanno seguito con il
dono dello Spirito Santo. Infatti, bevendo al calice, espressione dell’impegno di non porre limiti
all’amore, i discepoli ricevono lo Spirito, la stessa forza d’amare del Padre.
La penetrazione di questo vino-sangue nell’intimo dell’uomo è la comunicazione dello Spirito,
vita e forza d’amore che trasforma l’uomo.

 

Vangelo della domenica II di avvento commentato da p. Maggi

 (versione lunga)

(brano estrapolato dal commento del vangelo di Mt.in una  relazione di Alberto Maggi)

 

L’espressione con la quale  Matteo comincia il capitolo tre in quei giorni non si riferisce al periodo trascorso, ma è un rimando alla figura di Mosè. Fin dall’inizio Matteo scrive il suo vangelo, presentando gli avvenimenti sulla chiave di lettura della vita e degli insegnamenti di Mosè. L’espressione si trova una sola volta in Matteo e si trova nel libro dell’Esodo 2,11 quando indica l’inizio dell’attività di Mosè: “In quei giorni Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi”. Questa indicazione, l’unica volta in Matteo, introduce un tema di liberazione dalla schiavitù. Mosè è colui che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù. Matteo usando questa espressione che c’è una sola volta sia nel suo vangelo sia nell’Esodo, vuole dire che tutto quello che lui narrerà, dovrà essere interpretato in chiave di Esodo, cioè di liberazione, non la liberazione dall’Egitto, ma da un altro tipo di liberazione.

 

1 “In quei giorni venne Giovanni il Battista”, è un inviato del Signore; nei vangeli gli inviati di Dio non appartengono mai all’istituzione religiosa. Quando Dio vuol comunicare qualcosa al suo popolo, evita accuratamente persone, luoghi e ambienti religiosi, perché sa che sono sordi, ostili, refrattari al suo messaggio e sceglie persone al di fuori. Il personaggio è presentato con il nome Giovanni – nome ebraico che significa Jahve è misericordia – e con l’indicazione della sua attività. È conosciuto e identificabile per l’attività di essere il battezzatore e più avanti vedremo cosa significa “a proclamare nel deserto della Giudea,” non va ad annunziare nella città di Gerusalemme, nella regione densamente abitata, ma nel deserto, la zona ad est di Gerusalemme e scende nella valle del Giordano fino al mar Morto. L’evangelista con questa sottolineatura ci richiama il tema del deserto, della liberazione

2 “dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Abbiamo visto come sia importante l’esatta traduzione del testo del vangelo perché se la nostra vita si basa sul vangelo ed esso è tradotto male, la nostra vita ne avrà delle conseguenze negative.

In passato il termine convertitevi era stato tradotto, in latino, con poenitentiam agite cioèfate penitenza, di per sé il termine era buono, perché poenitentia indica il pentimento, il ravvedimento; poi fu tradotto in italiano con l’invito a fare penitenza e da qui è uscito fuori il masochismo e le perversioni religiose, perché sembrò un invito alla mortificazione. Più la persona accettava il male della vita, o nei casi più sadici, ricercava la sofferenza, più pensava di essere gradita a Dio. Si pensava ciò perché Giovanni Battista – e Gesù, che farà proprio il messaggio – diceva: fate penitenza, e si perdeva il significato originario pentitevi, cambiate comportamento; nella voce penitenza venne compreso tutto quello che avvelena l’esistenza!

Fa piacere segnalare la nuova traduzione del testo del vangelo, dove il termine penitenza è scomparso per convertitevi, ravvedetevi. C’è un progresso nella traduzione che comporta poi un progresso anche nella vita spirituale. L’altra volta segnalavamo che il termine miracoli è scomparso nella nuova traduzione, non perché Gesù non li compia più, ma perché il termine è tradotto esattamente con segni compiuti da Gesù, le cose che vengono dette qui sono poi ufficializzate.

L’invito di Giovanni è convertitevi. Nella lingua greca esistono due termini, due verbi per indicare la conversione e vediamo quale uso ne fanno gli evangelisti.

Il primo termine indica il ritorno a Dio, è la conversione classica. La persona che  non è religiosa, in base ad una esperienza della propria vita o una scelta, ritorna a Dio, ritorna al culto, ritorna alla preghiera; convertirsi significa ritornare a Dio. Gli evangelisti evitano accuratamente questo termine, c’è una sola volta in Luca; gli evangelisti lo evitano accuratamente, usano il verbo convertirsi con il significato di cambio di mente, di comportamento nei confronti degli altri.

Per gli evangelisti la conversione non è più un ritornare a Dio, perché Gesù è il Dio con noi (ricordate l’inizio del vangelo di Matteo? Gesù è il Dio con noi). Con Gesù non c’è più da cercare Dio; non c’è più da tornare verso Dio, c’è da accoglierlo e con lui e come lui andare verso gli altri; questo esige un profondo cambio di mentalità. L’invito perentorio che viene da Giovanni è convertitevi! Cambiate testa.

Non è soltanto un cambiamento di testa, è un cambiamento anche del comportamento: cambiate mentalità e comportamento mettendo al primo posto, come valore, il bene dell’uomo. La conversione non è più un ritorno a Dio, ma con Dio e come Dio andare verso gli uomini. La conversione è richiesta perché il regno dei cieli è vicino. L’espressione regno dei cieli, viene usata esclusivamente nel vangelo di Matteo. Nei preliminari del primo incontro dicevamo che Matteo – probabilmente uno scriba, non si sa – scrive per una comunità di giudeo/credenti, giudei/ebrei, che hanno accolto Gesù come Messia, ma è attento a non urtare al loro suscettibilità o sensibilità. Gli ebrei ancora oggi evitano, non solo di nominare, ma anche di scrivere il nome Dio.

Nelle riviste o nei libri scritti da ebrei, quando gli ebrei devono scrivere Dio, ancora oggi, scrivono D-o, in tal modo non è stato scritto il nome di Dio.

L’espressione regno dei cieli è solo in Matteo, gli altri evangelisti parlano sempre di regno di Dio. Regno dei cieli non significa l’al di là, pensate quali deformazioni nella spiritualità hanno dato in passato l’inesatta traduzione del vangelo: si pensava che Gesù fosse venuto ad assicurare, promettere un bel posto nell’al di là. Ricordate la fregatura per i poveri: beati voi che siete poveri, perché vostro è il regno dei cieli, contenti e coglionati! State buoni, rimanete poveri, perché poi andrete in paradiso. Gesù indica qualcosa di molto diverso; non è un regno nei cieli, ma il regno dei cieli. Abbiamo detto che evitano di scrivere Dio e uno dei termini con il quale sostituirlo è cielo o cieli, come facciamo anche noi nella lingua italiana. Delle volte diciamo grazie al cielo, vogliamo ringraziare il Signore, il cielo non voglia…, ma non parliamo di meteorologia!

Cosa si intende per regno di Dio (=regno dei cieli)? L’esperienza della monarchia in Israele era stata tragica, causa di tutte le disgrazie che pativano nel momento presente. Dio che non tollera che un uomo possa mettersi al di sopra degli altri e comandarli, non voleva l’istituto della monarchia per il popolo d’Israele. Tutti gli altri popoli avevano la monarchia, Israele no! Dio diceva: quando c’è un  pericolo io comunico la mia forza, il mio spirito a uno di voi, questo vi libera dal pericolo, poi torna a badare le pecore. Troviamo nella storia di Israele personaggi che conosciamo, come Sansone che muore con tutti i Filistei o Gedeone. Erano persone normali che, nel momento del pericolo per il popolo, erano investite della forza di Dio e salvavano il popolo. Le loro gesta le trovate nella Bibbia nel libro dei Giudici, che significa libro dei condottieri, sono i condottieri che salvano il popolo, ma questo non piaceva al popolo che ha insistito, perché voleva un re come gli altri popoli. Dio manda il profeta Samuele che dice: voi volete un re? Ma si prenderà per sé i vostri campi, metterà delle tasse, farà soldati dei vostri figli e serve le vostre figlie! Noi vogliamo il re.

Dio che rispetta la libertà degli uomini, anche quando questa va contro il suo disegno, concede la monarchia, ed è un disastro completo! Saul il primo dei re impazzì e morì suicida; erede al trono era il figlio Isbàal, che venne fatto assassinare dal genero di Saul, Davide, che ne occupò il trono. Nella Bibbia, Davide è stato maledetto dal Signore che gli ha impedito di costruire il tempio con queste parole: perché hai versato troppo sangue sulla terra, davanti a me. Morto Davide, sarebbe dovuto succedergli al trono il figlio Adonia, ma fu ammazzato dal fratellastro Salomone. Salomone è peggiore dei precedenti, un despota megalomane e neanche molto intelligente, da quanto dice  la storia. Questo lo dico proprio per far risaltare il contrasto – perché a me da piccolo insegnavano la sapienza di Salomone, che faceva  a pezzi i bambini per darne un pezzo ad una madre e un pezzo all’altra – di quello che crediamo di sapere su certe figure, di quello che la Bibbia dice.

Salomone despota e megalomane mise ai lavori forzati il suo popolo per la propria mania di grandezza; morì idolatra, la peggiore delle morti, e per un ebreo è il massimo orrore. La Bibbia, 1 Re 11,6, dice: Salomone commise quanto è male agli occhi di Jahve e non fufedele a Jahve.

Gli successe il figlio Roboamo, ambizioso come il padre, meno intelligente e abbandonò non solo la legge di Dio, ma trascinò tutto il popolo lontano da Dio e la Bibbia dice: Roboamo abbandonò la legge di Jahve e tutto Israele lo seguì. Alla sua morte ci fu lo scisma, il regno si divise in casate in lotta fra loro; l’indebolimento del regno rese Israele un boccone appetibile per i regni confinanti. La tragica esperienza della monarchia, dove non ci fu un re degno, portò il popolo a proiettare in Dio l’immagine di un re ideale che è padre degli orfani e difensore delle vedove, perché orfani e vedove sono le categorie di persone che, non avendo un uomo in casa che le difende, sono alla mercé degli altri. Si pensava che il vero re sarebbe stato Dio: Dio, re del popolo che si prende cura degli elementi più deboli e più poveri. Un re che non governa i suoi, emanando leggi e dominando, ma comunicando il suo Spirito e potenziando le persone.

Questo significa regno di Dio, e si deve interpretare così l’espressione del vangelo di Matteo regno dei cieli, e si intende che si deve permettere a Dio di governare i suoi.

La comunità dei credenti che non accetta nessuno al di sopra, viene governata da Dio mediante il suo Spirito. Il regno dei cieli, il regno di Dio è vicino ed è condizionato dal cambiamento; l’evangelista mette le cose in chiaro perché loro pensavano che il regno di Dio si sarebbe inaugurato per un intervento di Dio. All’improvviso Dio avrebbe cominciato a essere il re del suo popolo. Matteo non è d’accordo; il regno di Dio è condizionato dal cambiamento del popolo: se voi cambiate comportamento, il regno di Dio diventa realtà. Continua l’evangelista

3 “Egli è colui del quale aveva parlato Isaia, il profeta, dicendo:

Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri!

Ancora una chiave di lettura data dall’evangelista, nel caso non avessimo capito, per situare il brano in chiave di liberazione dell’esodo. Il testo del profeta Isaia 40,3 si riferisce alla fine della deportazione in Babilonia, quando a causa dell’editto del re Ciro, venne concessa la libertà. Il testo citato indica l’inizio della nuova libertà per il popolo da Babilonia. C’è una differenza fra la citazione di Isaia e quella di Matteo. Il testo di Isaia dice:“Nel deserto aprite una via a Jahve e spianate nella steppa una strada al nostro Dio”.L’evangelista non dice: nel deserto aprite una via, ma dal deserto comincia a sentirsi il messaggio di liberazione e lo attribuisce a Giovanni. Se Isaia dice i sentieri del nostro Dio, Matteo cambia la citazione e scrive: preparate la via per il Signore, rendete dritti i suoi sentieri. L’evangelista comincia a fare l’attribuzione alla figura di Gesù, di quelle che erano le prerogative esclusive di Dio. Matteo pian piano comincia a spostare, attribuire a Gesù, tutto quello che nell’Antico Testamento, è attribuito a Dio. Non più la via al nostro Dio, ma al Signore che è Dio. È una maniera dell’evangelista per indicare, prima ancora che compaia in scena, che in Gesù si manifesta la pienezza di Dio.

Poi c’è la descrizione di Giovanni

4 “Giovanni aveva un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico”. Più volte lo diciamo e lo ripetiamo nella consapevolezza di essere noiosi: quando nei vangeli troviamo dei particolari, che di per sé non sono importanti per la comprensione del testo, sono sempre indicazioni teologiche. Per noi non cambia molto che Giovanni avesse o no, una cintura di pelle ai fianchi; perché l’evangelista tiene a sottolineare che Giovanni avesse un vestito di pelli di cammello? Il mantello di pelo era indossato dai profeti per profetizzare. L’evangelista ci vuole indicare in Giovanni un profeta, ma un profeta particolare che ha una cintura di pelle ai fianchi, questa rendeva riconoscibile il più grande dei profeti in Israele, Elia. Quando degli inviati si recano da Elia e poi ritornano, dicono che hanno visto un uomo con una cintura di pelle a fianchi: questo è il profeta Elia, reso riconoscibile dalla cintura di pelle ai fianchi. L’evangelista vuole dirci che il profeta Elia, che la tradizione religiosa attendeva per la venuta del Messia, si può già vedere – non come reincarnazione – nelle gesta di Giovanni Battista. Poi vedremo il perché.

Per quanto riguarda le indicazioni della alimentazione che per noi non è il massimo, le cavallette in oriente sono un cibo normale. Tra l’altro nella Bibbia sta scritto: potrete mangiare ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di grillo. In un libro di ricette dell’epoca, si dice che le cavallette vanno messe nel fuoco o nell’acqua fintanto che sono ancora vive. In queste traduzioni noi stiamo attenti il più possibile al testo greco, che poi bisogna aggiustare per renderlo comprensibile. L’evangelista dice qui:

5 “Allora uscivano verso di lui Gerusalemme, accorrevano” è esatto, Matteo scriveuscivano verso di lui perché il verbo uscire è usato nel libro dell’Esodo, per indicare l’uscita del popolo ebreo dalla schiavitù dall’Egitto, per andare verso la terra promessa. Ancora una volta Matteo sta dicendo: tutto il brano è in chiave di liberazione. Liberazione non più dall’Egitto, ma da Gerusalemme. Avrebbe dovuto scrivere da Gerusalemme, invece dice: “uscivano verso di lui Gerusalemme”, che appare così tutto uno. È strano che Gerusalemme risponda all’invito, perché Gerusalemme fin dall’inizio al primo apparire, sta in una luce sinistra, in una cappa di morte. Quando viene annunciato: è nato il re dei Giudei, Erode tremò e con lui tutta Gerusalemme. Gerusalemme sa che quando arriva Gesù è la sua fine.

Gerusalemme viveva sfruttando il nome di Dio, quando arriva il vero Dio per lei è la fine. Gerusalemme, allora  è  la città che va in tutt’uno, lei è la città del sacro e accorre per un rito in più, che verrà poi materializzato nella figura degli scribi e dei farisei

6 “e si facevano battezzare da lui, nel fiume Giordano, confessando i loro peccati”.Torniamo sull’attività di Giovanni, chiamato il Battista o il Battezzatore. Il verbo battezzare in greco significa immergere, il gesto dell’immersione o battesimo era conosciuto e significava la morte ad un passato che non c’è più. Infatti se una persona si immerge nell’acqua e resta immersa, muore. Quando ad uno schiavo era concessa la libertà, lo si immergeva nell’acqua (simbolicamente lo schiavo moriva) e  chi usciva dall’acqua era una persona nuova, una persona libera; oppure quando un pagano voleva avvicinarsi alla religione giudaica, era immerso nell’acqua, moriva il pagano e l’uomo nuovo iniziava il cammino per avvicinarsi alla religione giudaica. Questi si fanno battezzare da Giovanni, nel fiume Giordano, è una indicazione che indica la frontiera che il popolo di Israele ha dovuto attraversare per entrare nella terra promessa. Ora diventa una frontiera per il nuovo e definitivo esodo di Gesù.

Confessando i loro peccati, forse è meglio tradurre riconoscendo così i loro peccati. A noi il termine confessione ci rimanda al rito del confessionale in cui si butta la lista delle cose sporche per ricevere lo scontrino di buona condotta per andare a fare la comunione, qui non ha questo senso! Con il fatto che andavano ad immergersi nell’acqua riconoscevano i peccati. Il termine peccati usato dall’evangelista, non indica sbaglio o mancanza o colpe occasionali  o abitudinarie; indica un atteggiamento sbagliato che riguarda il passato delle persone. Nei vangeli il termine peccato riguarda il passato della persona, mai il presente. Quando la persona incontra Gesù e lo accoglie, – il passato – il peccato viene cancellato e poiché non c’è la perfezione esistono sbagli, mancanze, colpe. La gente, per il fatto di immergersi nel fiume Giordano, riconosceva di avere un passato di ingiustizia che voleva abbandonare.

7 “Ma vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha suggerito (o avvertito, dipende) di sottrarvi all’ira imminente?”Gerusalemme che accorre a Gesù, che già il profeta Isaia aveva denunciato come: popolo che onora Dio con le labbra, mentre il suo cuore gli è lontano, si materializza nella figura di farisei e sadducei.

Il termine che noi traduciamo con farisei viene da una parola ebraica, perushim, che significa separati.

Ed anche santo vuol dire separato. La differenza tra fariseo e santo oltre che etimologica è che sono due termini diversi.

Santo vuol dire separato da tutto quello che non è vita, che è contrario alla vita. Dio è santo perché non c’è nulla di non vita in lui, è il pienamente santo. Tutti quelli che come lui diventano santi, sono separati da ogni forma di male. La separazione da parte di Dio, vuol dire separato da ogni forma di male per andare incontro agli altri con atteggiamenti di vita, di compassione o di solidarietà.

I farisei facevano un altro tipo di discorso, loro erano separati, non dal male, ma dagli altri. L’osservanza della Legge, automaticamente li rendeva superiori agli altri, e li separava. Io non mi potevo associare, accomunare con persone che ritenevo incapaci di osservare la legge. La separazione dei farisei è la separazione dell’altro, porta all’ingiustizia, alla discriminazione dal punto di vista religioso.

Sono due separazioni diverse, quella da Dio e quella dei farisei.

I farisei fanno parte di un movimento nato circa due secoli prima di Gesù, al tempo della resistenza contro i re stranieri, per opera dei fratelli Maccabei. Sono dei pii laici che, per accelerare l’arrivo del regno di Dio, osservavano quotidianamente tutte le severe prescrizioni igieniche e rituali, che nell’Antico Testamento, il libro del Levitico, indicava per il sacerdote nel limitato periodo di tempo che serviva al tempio. Il libro del Levitico dice: quando il sacerdote deve svolgere le sue funzioni nel tempio, deve fare le abluzioni, non può toccare questo, osserva quest’altro ecc., ma era per un  periodo limitato, al massimo una settimana. I farisei osservavano quelle regole quotidianamente! Poiché la gente normale non poteva osservare tutto questo, si separavano dalla gente a causa di questa osservanza.

Erano riusciti a tirare fuori dalla Bibbia 613 regole da osservare, sommando le 365 proibizioni che vi hanno trovato, più i 248 precetti. Il numero 365 è legato ai giorni dell’anno, il 248 invece riguarda le componenti del corpo umano, secondo la loro cultura.

Pensavano che  il corpo umano fosse composto da 248 pezzi. È un modo per dire che tutto l’uomo, per tutto il tempo (365 giorni è l’anno), deve osservare le regole e i precetti. Loro preoccupazione era di mangiare cibi puri, per i quali fosse stata pagata la decima al tempio e soprattutto il sabato si astenevano dal praticare uno dei 1521 lavori proibiti in giorno di sabato. Il numero dei lavori proibiti viene dai 39 lavori principali svolti per costruire il tempio, moltiplicato per 39 lavori secondari; un mese fa sono diventati 1522 perché il gran rabbino di Israele, fra le azioni proibite in giorno di sabato, ha messo quella di non potersi infilare le dita per il naso!

È una cosa seria perché nel fare ciò, si può staccare un pelo, il che equivarrebbe al radersi. Una ditta di pannolini ha investito cento milioni di dollari per trovare un pannolino che non dovesse essere attaccato con l’adesivo, perché di sabato non si può attaccare con l’adesivo; ora hanno trovato un pannolino, con l’autorizzazione del rabbino, che deve essere solo appoggiato e rimane fermo, senza dover ricorrere all’adesivo. Appoggiare non è ancora compreso tra i lavori proibiti in giorno di sabato. È una vita complicatissima, assurda che dava ai farisei un enorme prestigio presso la gente, che li odiava, ma li ammirava. Erano i santoni dell’epoca e al tempo di Gesù la vita religiosa era retta tutta secondo le loro prescrizioni. Uno storico dell’epoca, Giuseppe Flavio scrive: crebbero in potenza i farisei, un gruppo di giudei in fama di superare tutti gli altri nel rispetto della religione e della esatta interpretazione delle leggi. Divennero i padroni del regno, liberi di esiliare e di richiamare chi volessero, di assolvere e di condannare. Fecero mandare a morte chi volevano. Tanta pietà non impedisce loro di esercitare il potere. All’epoca del regno di Erode erano circa seimila.

I sadducei sono i discendenti di un certo Zadòk. Salomone ha usurpato il trono al fratello, uccidendolo, ma prima di questo si era fatto consacrare re d’Israele da un sacerdote traditore, Zadòk, che poi ricompensò nominandolo sommo sacerdote al posto del legittimo sacerdote. I figli di Zadòk vennero addetti al servizio del tempio e al tempo di Gesù erano i componenti del Sinedrio ed erano l’aristocrazia economica e potere politico dell’epoca. Giuseppe Flavio quando deve parlare dei sadducei, li descrive semplicemente con la parola i ricchi. Come tutti i ricchi erano estremamente conservatori e riconoscevano come parola di Dio solo i primi cinque libri della Bibbia e disprezzavano i Profeti in cui c’è una continua invettiva contro i ricchi, contro quelli che accumulano potere su potere e ricchezze. Non accettavano i profeti dicendo che non c’era in loro parola di Dio. Tra farisei e sadducei c’era un odio mortale, ma li vedremo sempre uniti quando c’è  una situazione di pericolo.

Appena Giovanni li vede arrivare, li apostrofa subito Razza di vipere. Qual è il significato dell’espressione? A quell’epoca si credeva che la vipera dovesse uccidere la madre per nascere, è quindi un animale mortifero. È l’espressione che poi Gesù farà sua e la rivolgerà di nuovo ai farisei e poi agli scribi, indica in costoro i discendenti del serpente che nel giardino dell’Eden causò la morte di Adamo ed Eva. Il libro del profeta Isaia dice: dal ceppo del serpente uscirà una vipera. Razza di vipere significa gente capace di trasmettere soltanto e unicamente morte. Sempre Isaia dice: covano uova di vipere. Chi mangia quelle uova morirà, e dall’uovo schiacciato esce una vipera. Farisei e sadducei non credono all’invito di Giovanni e più avanti Gesù stesso glielo rinfaccerà dicendo: è venuto da voi Giovanni e non gli avete creduto. Gli hanno creduto le prostitute, i pubblicani, voi, farisei e sadducei non gli avete creduto. Non vanno al battesimo di Giovanni perché ci credono, vanno per indagare. C’è un movimento di massa, c’è una emorragia da Gerusalemme verso il deserto e loro vanno ad indagare questo movimento, che li allarma; per indagare fingono di sottoporsi loro stessi al rito.

L’evangelista dice: chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira di Dio? È importante il termine ira ed è l’unica volta che è presente nel vangelo di Matteo, praticamente assente nel Nuovo Testamento. L’evangelista si riferisce al fatto che si aspettava il giorno del Messia, il giorno del Signore e veniva chiamato il giorno dell’ira. Prima della riforma liturgica quando moriva una persona cara, per consolarci c’era il “dies irae”! E una serie di maledizioni capitavano al poveretto! Era il giorno della venuta del Signore, il giorno dell’ira. Gesù prenderà le distanze dal messaggio, ma per Giovanni Battista che continua la tradizione di Israele, quando arriva il Messia, viene a giudicare, a condannare e a castigare; l’ira è allora imminente. Gesù smentirà quest’attesa e Giovanni Battista andrà in crisi.

Gesù riprenderà l’apostrofe di Giovanni Battista anche per gli scribi e se c’è la minaccia dell’ira imminente, c’è pure la possibilità di uscirne

8 “Fate dunque frutti degni di conversione”, il termine frutto indica sempre delle azioni concrete del comportamento. L’evangelista invita farisei e sadducei a rinunciare al loro atteggiamento mortifero e a rendere visibile la conversione, significata dal rito del battesimo, mediante gesti concreti che comunichino e trasmettiamo vita. Anticipiamo la storia: l’invito non verrà ascoltato e i due gruppi saranno sempre ostili a Gesù e al suo messaggio, fino a volerne la morte. Prima che farisei e sadducei possano rispondere e obiettare, il Battista incalza

9 “e non crediate di poter dire fra voi: per padre abbiamo Abramo, perché io vi dico che Dio può da queste pietre far suscitare figli di Abramo”. C’era una certezza nel popolo ebraico che per il fatto di essere discendenti di Abramo, fossero eredi delle promesse di Dio e poi del regno di Dio; per i meriti di Abramo tutto era loro dovuto.

Giovanni non è d’accordo, e dice: non state certi di questo, perché Dio da queste pietre può far suscitare figli di Abramo. Perché l’immagine delle pietre? Sempre in Isaia, Abramo viene descritto: guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo vostro padre. Abramo è l’immagine della roccia, della pietra e il Battista li avverte che Dio non è condizionato dalla discendenza di Abramo, perché come da un uomo ormai vecchio, come era Abramo e con una moglie sterile, come era Sara, ha potuto suscitare un popolo nuovo, così ora potrà far nascere una realtà nuova. Qui la lingua italiana non può rendere il gioco di parole che c’è nella lingua ebraica, non nella greca con cui è scritto il vangelo. Figli in ebraico si dice ‘banaya e pietre ‘abnaya, è un gioco di parole che l’evangelista tenta di riportare.

L’alleanza con Dio non è più vincolata a un popolo o ad una razza, ma chiunque darà adesione a Gesù è per questo erede delle promesse che Dio aveva fatto ad Abramo, di suscitare un grande popolo. Il Battista riprende:

10 “Ormai la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. L’evangelista nell’indicare Giovanni Battista gli attribuisce i tratti del profeta Elia, che era il più grande dei profeti della storia di Israele e veniva rappresentato con il simbolo del fuoco. In uno dei libri della Bibbia, nel Siracide, si legge: Allora sorse Elia profeta simile al fuoco. Da una parte la tradizione biblica diceva che era stato rapito al cielo su un carro di fuoco e cavalli di fuoco, ma soprattutto perché aveva un metodo infallibile per vincere le discussioni con i pagani: un fuoco dal cielo, un arrosto collettivo! Questo è nel 2° libro dei Re, 1,13: c’è il re Acazia che gli manda cinquanta inviati, ed Elia li manda a fuoco e così anche con i successivi cinquanta perché a quei tempi il Padreterno era spicciativo! Elia è famoso per il fuoco sui cento pagani, ma non si ferma qui. Personalmente si vanta di aver sgozzato 450 sacerdoti pagani.

A parte queste immagini, il profeta Elia era un riformatore religioso che usava la violenza in nome di Dio e in Giovanni si vedono questi atteggiamenti. La sua è una immagine di giudizio, di condanna e di castigo.

11 “Io vi battezzo con l’acqua per la conversione”; il battesimo di Giovanni è un segno di morte al proprio passato, ma non basta eliminare il peso del passato, bisogna avere poi la forza e l’energia per vivere in maniera nuova il presente. Questo Giovanni non lo può dare. Quello che lui può dare è compiere un gesto che significa il desiderio di cambiamento di vita, ma per l’effettivo cambiamento ci vuole qualcosa di nuovo. I buoni propositi non servono molto. Io vi battezzo nell’acqua, come segno di cambiamento,

“ma colui che viene dopo di me ed è più forte di me io non sono degno di togliergli i sandali”; abbiamo già accennato a questo nella genealogia di Gesù, per il caso di Giuda e di Tamar e di Onan e abbiamo parlato del matrimonio ebraico. Una delle immagini con cui si rappresentava l’alleanza tra Dio e il suo popolo era quella del matrimonio: Dio è lo sposo, Israele è la sposa. La formula togliere i sandali si rifà all’istituto giuridico del matrimonio, alla legge del Levirato. Levirato deriva dalla parola levi che significa cognato, ed è la legge del cognato. L’accenno brevemente perché è già stata trattata.

Quando una donna rimaneva vedova e senza figli, il cognato aveva l’obbligo di fecondarla e metterla incinta. Se costui rifiutava, (Onan rifiutò e fu subito castigato da Dio!) colui che aveva diritto dopo di lui, procedeva alla cerimonia dello scalzamento, cioè scioglieva i sandali (questo era un grande disonore e la famiglia veniva chiamata la famiglia dello scalzato). Attribuendo queste parole a Giovanni Battista, l’evangelista non dà una lezione di umiltà da parte del Battista, ma vuol dire che colui che deve fecondare il popolo di Israele e dargli nuova vita, non è il Battista. Lui può solo fare l’amico dello sposo, ma colui che deve fecondare è colui che viene dopo Giovanni.

“ egli infatti vi battezzerà nello Spirito santo e fuoco”.

Giovanni battezza in acqua, simbolo di morte al proprio passato, la nuova immersione è nello Spirito santo e fuoco. Già nella annunciazione di Gesù abbiamo visto che spirito in greco è vento, forza, e l’immagine alla quale Giovanni si riporta è quella della vagliatura del grano. Giovanni aiuta ad arrivare all’incontro con Gesù che poi ci immergerà in un vento, in una forza – la forza vitale di Dio – la cui azione è di santificare. Faccio un richiamo: Spirito significa la forza di Dio, santo è l’attività di questa forza, cioè separare dal male. Ritorna di nuovo il termine separati: i farisei mediante l’osservanza della legge e dei precetti si separavano dalle persone. Gesù comunica una forza che non separa dalle persone, ma dalla sfera del male.

Mentre l’osservanza della legge produceva la disuguaglianza e la superiorità, l’immersione nello Spirito santo provocherà l’uguaglianza e il servizio. L’azione di Gesù sarà di immergere nella forza che elimina le scorie dell’uomo e le brucia nel fuoco, che nella Bibbia è sempre un segno di castigo. Lì si dice che il fuoco è stato creato per il castigo. La forza (dello Spirito) è l’energia per rendere perfetto il desiderio di cambiamento.

12 “Egli ha in mano la pala, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Ecco l’immagine alla quale Matteo voleva arrivare. Nell’Antico Testamento gli empi sono descritti sempre come paglia o come pula che poi è bruciata. Quando si parla di fuoco non significa che si subisce una pena, ma una distruzione completa perché il fuoco consuma completamente. Giovanni erede della tradizione descrive l’azione del Messia come quella di colui che attua un giudizio tra la gente, per realizzare quel sogno che è descritto nell’ultima parte, nel profeta Isaia: il tuo popolo sarà tutto di giusti. Quando verrà il Messia, egli dividerà i giusti dagli ingiusti ed eliminerà fisicamente i peccatori. Nel libro del profeta Malachia l’annuncio dell’invio di Elia è preceduto da questa immagine: Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia e quel giorno venendo li incendierà. Il fuoco distrugge e annienta completamente tutto quanto, un fuoco inestinguibile.

Nel corso del vangelo vedremo come Gesù prenderà una posizione di distanza nei confronti di questa immagine annunziata da Giovanni Battista. Questi aveva annunciatoarriva colui con la scure posta alla radice degli alberi, ma in Luca Gesù dice: se un albero non  porta frutto, io lo zappetto, lo concimo nella speranza che poi porti frutto. Gesù non solo non condanna, non giudica, non castiga i peccatori, ma si unisce a loro. Gesù è conosciuto per essere amico dei pubblicani e dei peccatori.

Il povero Giovanni Battista va in  crisi e mentre è in carcere, gli manda un ultimatum che sa di scomunica: sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro? Gesù risponde: E Gesù dice: andate a dire a Giovanni quello che vedete, e sono tutte azioni che comunicano vita, nessuna è di condanna. Arriviamo alla figura di Gesù.

 

processo

Offese razziste a rom e sinti processo in vista per Borghezio

Chiuse le indagini sull’europarlamentare

Mario Borghezio stavolta rischia il processo per diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione o di odio etnico o razziale prevista dalla legge Mancino

di Mario Consani

Borghezio

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Milano, 24 novembre 2013 – Rom e sinti? «Non tutti i rom sono ladri ma molti ladri sono rom (…) una bella percentuale». E se il presidente della Camera Laura Boldrini riceve alcuni rappresentanti delle comunità rom e sinti italiane: «La giornata della demagogia e del fancazzismo, poi con contorno di festival dei ladri». E ancora: «Speriamo che non si portino via gli arredi alla Camera, perché lì è pieno di quadri di pregio, di soprammobili (…) io un esamino con l’elenco di tutto quello che c’era prima della visita e di quello che è rimasto dopo lo farei prudenzialmente, l’esperienza insegna». Parole e musica di Mario Borghezio naturalmente, intervistato lo scorso aprile dalla trasmissione radiofonica “La zanzara”. Stavolta, però, rischia il processo per diffamazione aggravata dalla finalità di discriminazione o di odio etnico o razziale prevista dalla legge Mancino.

La Procura, dopo gli esposti di varie associazioni rom, ha infatti chiuso le indagini sul contenuto di quell’intervista radiofonica e il pm Piero Basilone ha intenzione di chiedere a breve il rinvio a giudizio di Borghezio, habituée di certe eleganti frasi a effetto. La primavera scorsa, persino il gruppo europarlamentare degli “euroscettici” Edf lo espulse dalle sue fila dopo che a un settimanale – intervistato sempre da uno dei giornalisti della “Zanzara” – Borghezio aveva ribadito le sue idee sul ministro Cecile Kyenge e sul «governo del bonga bonga».

Potevano mancare dunque le affettuose attenzioni per rom e sinti? Ovviamente no. Così quando l’8 aprile scorso il presidente della Camera ricevette a Montecitorio una delegazione di “figli del vento” in occasione della giornata internazionale istituita dall’Onu, Borghezio signorilmente commentava alla radio: «… quelle facce di c… che qualche presidente della Camera riceve…» e poi «un saluto al popolo rom glielo mando con una certa tranquillità e con una certa preoccupazione perché non sono in casa». Così ora il leghista è indagato anche per violazione dell’articolo 3 della legge del ’75 che ratificò la convenzione di New York, per aver diffuso “idee fondate sull’odio razziale ed etnico, consistenti nel pregiudizio che gli appartenenti al popolo rom commettano furti e nemmeno si propongano di lavorare”.

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