il commento al vangelo della domenica

 il Corpo di Cristo «lievito di vita»


Il Corpo di Cristo «lievito di vita»

il commento di E.Ronchi al vangelo del Corpus Domini Anno A
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. (…) Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
«Ricordati del cammino», sussurra la prima Lettura. Ricordati! Perché l’oblio è la radice di tutti i mali. Ricorda il deserto e il monte, il vento delle piste, la bellezza dell’anima affaticata dal richiamo di cose lontane. E poi la manna scesa all’improvviso, quando non l’aspettavi più.Ricordati del tuo deserto tra scorpioni e serpenti, ma soprattutto dell’acqua giunta sotto forma di una risposta, un amore bello, un amico, una musica. Improvvisi squarci si sono aperti a dirti che non sei solo, che non sei smarrito tra le dune del deserto.

Che Dio è acqua e pane incamminati verso la tua fame. La mia forza è sapermi cercato, con la mia vita distratta e le risposte che non do; sapermi desiderato è tutta la mia pace. Io vivo di Dio. Ricordati del cammino: dialoga con la storia della tua vita, rimani nella tua sorgente limpida. Il Vangelo oggi ha solo otto versetti, e Gesù a ripetere per otto volte: Chi mangia la mia carne vivrà in eterno. Quasi un ritmo incantatorio, una divina monotonia, nello stile di Giovanni, che avanza per cerchi concentrici e ascendenti, come una spirale; come un sasso che getti nell’acqua e vedi i cerchi delle onde che si allargano sempre più. È il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, e lui che ostinatamente ne ribadisce, per otto volte, come in otto cerchi, la motivazione, sempre più chiara e diretta: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. Altro è vivere, altro è lasciarsi vivere. È l’incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione e la qualità della vita. È il dono di Dio. Il dono di Dio è Dio che si dona: si dona e si perde dentro le sue creature come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo.

«Carne, sangue, pane di cielo» indicano la totalità della sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, la casa che si riempie di profumo, la pietra che rotola via. E Dio in ogni fibra. Un pezzo di Dio in me perché io salvi un pezzetto di Dio nel mondo. Il suo invito pressante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Vivi di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme del tuo campo, sangue delle tue vene, allora conoscerai cosa sia vivere davvero. Mangiare e bere Cristo significa più che «fare la comunione» eucaristica, è «farmi comunione con Lui». Il Verbo si è fatto carne perché la carne si faccia Spirito. L’Eterno cerca la nostra setacciata briciola di cielo; per poi ridarcela, luminosa e serena.

(Letture: Deuteronòmio8,2-3.14b-16a; Salmo 147; 1 Corinzi 10,16-17; Giovanni6,51-58)

il commento al vangelo della domenica

Pentecoste
la sinfonia di linguaggi dello Spirito

il commento di E. Ronchi  al vangelo della domenica di Pentecoste, Anno A

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». 

Lo Spirito Santo è Dio in libertà. Rifiuto della monotonia. Scelta della sinfonia. Ultima parola, che si offre sempre come nuova, come altra: alla nave come costa, alla terra come nave; al navigante come nostalgia di casa, all’uomo di casa come nostalgia del mare. Dio in libertà. Che fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio “fuorilegge’”, a Elisabetta un figlio profeta. E a noi dona tutto ciò di cui abbiamo bisogno per dare, a nostra volta, vita, o meglio ancora: per dare alla vita.

La Parola di Dio oggi prova una sinfonia di linguaggi per tentare di dire qualcosa della vastità dello Spirito: non sono che semplici fessure, feritoie aperte sul mistero.

1. La prima lettura (Atti 2,1-11) racconta di Apostoli come “ubriachi”, inebriati da qualcosa che li ha storditi di gioia, come un capogiro, una divina seduzione, violenta e felice. E la prima Chiesa, arroccata sulla difensiva, viene lanciata fuori e in avanti. La nostra Chiesa tentata, oggi come allora, di arroccarsi e chiudersi, perché in crisi di numeri, perché aumentano coloro che si dichiarano indifferenti o infastiditi, questa Chiesa, amata e infedele, può ancora attingere a quello slancio originario.

2. Il salmo tra le letture (Sal 104,30) apre la seconda fessura: “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Una delle affermazioni più belle e rivoluzionarie della nostra fede è offerta dalla Prece eucaristica III, quando il presidente proclama: “Tu, che per mezzo di Cristo e per opera dello Spirito fai vivere e santifichi l’universo”. Non solo l’uomo, ma tutto ciò che esiste; non solo doni vita, ma semini santità nell’universo, santità della luce, l’umile santità del bosco, del bambino che nasce, del cuore che ama, dell’anziano che pensa. Una divina liturgia santifica l’universo.

3. La terza finestra sulla Pentecoste la apre Paolo nella seconda lettura (1Cor 12,5). Lo Spirito dà a ciascuno una manifestazione particolare per il bene comune. Sposa vite diverse, consacra vocazioni differenti, benedice la genialità e l’unicità di ogni vita. Lo Spirito non vuole banali ripetitori, ma discepoli geniali, edificatori di una Chiesa che trova unità attorno alla croce, varietà e creatività attorno allo Spirito.4. Infine il Vangelo racconta la Pentecoste come un incontro leggero nella sera di Pasqua: “soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito santo” (Gv 20,22).

In quella stanza chiusa e dall’aria stagnante, entra il grande, ampio e profondo ossigeno del cielo. Entra il respiro di Dio che non sopporta schemi e chiusure, che viene per farci vivi, sottile e profondo come il respiro, umile e testardo come il battito del cuore.

(Letture: Atti 2,1-11; Salmo 104; Prima Lettera ai Corinzi 12,3b-7.12-13; Giovanni 20,19-23)

il commento al vangelo della domenica

Gesù se ne va ma resta con noi per sempre

il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica dell’Ascensione

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Ascensione: finito il tempo del pane e del pesce attorno al fuoco sulla riva del lago. Finito il tempo dei nomi pronunciati uno per uno, che sulle sue labbra parevano bruciare. L’ascensione è la festa di Lui diversamente presente: Gesù non è andato lontano, ma avanti e nel profondo; non oltre le nubi ma oltre le forme. Se prima era con i discepoli, ora sarà dentro di loro.​L’ultimo suo appuntamento è nella Galilea degli inizi, hanno camminato insieme per tre anni; e se non hanno capito molto, lo hanno però molto amato. E ci sono tutti all’appuntamento sull’ultima montagna. «Andate!». Si è appena fatto trovare e subito li invita a partire, li spinge a pensare in grande, a guardare lontano: apre il mondo, cancella frontiere, li manda a immergersi nell’umano innumerevole.

«Battezzate»: immergete ogni vita nell’oceano di Dio, che sia sommersa e sollevata dalla sua onda mite e possente… Cosa devono fare i discepoli? Creare un laboratorio di immersione in Dio, per il mondo. Dare agli uomini l’esperienza e la coscienza che sono immersi in un oceano d’amore, e non se ne rendono conto.
«Andate!». Per arruolare devoti? Per far crescere i numeri del gruppo? No, per una pandemia da spargere sulla terra, di fuoco e libertà. Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, “insegnate a vivere bene” (S. Bernardo), mostrate il mestiere del vivere buono, così come l’avete visto da me. Insegnate ad essere felici, direbbe Mosè. Insegnate a donare, cioè ad essere vivi, direbbe Paolo. «Fate discepoli tutti i popoli»: Gesù non dà l’ordine di indottrinare il mondo. Il termine “discepolo” nella sua etimologia significa colui che impara, “l’imparante”.

«Fate discepoli» vuol dire allargate le menti delle persone, insegnate loro ad essere gli imparanti,, coloro che non smettono mai di apprendere e di accogliere. «Alcuni però dubitavano»: Gesù lascia sulla terra quasi niente: un gruppetto di undici uomini impauriti, confusi, che dubitano ancora, e un nucleo di donne coraggiose e fedeli. Se ne va, compiendo un atto di enorme fiducia: affida la sua verità a gente che dubita, mostra la strada per i confini del mondo a gente che zoppica.
Grande Gesù, che non si pone come uno che ti risolve i problemi, ma come colui che offre orizzonti, che fa più grande la vita.Ma non li lascia soli con i loro limiti: «io sono con voi tutti i giorni» fino alla fine del mondo. Tu lo puoi anche mollare, ma lui non ti molla mai. Ha intriso di Dio il mondo, e ne ha impregnato anche la tua vita; il mondo e tu ne siete battezzati. Se solo io fossi capace di sentire e godere questo, camminerei sulla terra con passo di danza come dentro un battesimo infinito.

(Letture: Atti 1,1-11; Salmo 46; Efesini 1, 17-23; Matteo 28, 16-23).

liberare il cristianesimo dalle sue versioni devianti

il filosofo Fabris

non c’è più fede? liberiamoci dalle sue versioni fuorvianti


di Francesco Ognibene 

un saggio provocatorio sulla “fede scomparsa” smaschera le immagini sbagliate del credere che ci portiamo dentro, frutto della pressione culturale. Ma la fede, quella vera, va ancora scoperta

Adriano Fabris

Adriano Fabris 

Che non attraversi un periodo di particolare fascino pare pacifico. Ma di qui a dire che «non c’è più fede in questo mondo » ne corre. Già però la firma del breve e originalissimo saggio su La fede scomparsa. Cristianesimo e problema del credere, appena edito da Morcelliana, mette al riparo da ipotesi apocalittiche – che pure hanno un loro, discutibile, seguito – per portare sulla pista della provocazione intellettuale, tanto più utile in quanto si coglie in giro una certa aria di fatalistica incomprensione dei fenomeni. Perché Adriano Fabris non solo è filosofo di sguardo acuto ma ama sfrondare i suoi ragionamenti da ogni minima traccia di semplificazioni. Specie se a interrogarlo sono questioni epocali come quella che tutti – pastori e laici – ci troviamo a sperimentare: una fede già fragile sembra essersi come arresa davanti alla complessità di un mondo indecifrabile, che il rapido succedersi delle crisi ha reso ancor più apparentemente allergico a letture religiose. A che serve allora la mia fede, se sembra valere solo per me e per quelle piccole comunità di credenti che frequento e vedo? Perché questo senso di inospitalità dell’«età “neomoderna”» come la definisce Fabris? Siamo alla vigilia di una imprevedibile primavera credente oppure il senso di stanchezza e di autoreferenzialità che troppo spesso si respira (anche nella nostra personale vita religiosa) è solo destinato a consolidarsi?

Forse è perché la fede che abbiamo in mente non è fede nel senso proprio: è questa, in massima sintesi, l’ipotesi di Fabris, a parere del quale sono «fraintendimenti, deviazioni, depistaggi » a spiegare «il perché della perdita della fede e le difficoltà di un suo eventuale ritrovamento». L’autore esplicita in premessa che la «mentalità occidentale, che pone al centro l’essere umano e innanzi tutto le sue esigenze materiali, ha permeato culturalmente ogni luogo», una «versione ideologica della globalizzazione» che «non coincide affatto, oggi, con la fede cristiana », sebbene «non è che in tale mentalità scompaia la necessità di credere». Il fatto è che «sono altre le istanze che intervengono, dall’esterno, a dirigere le dinamiche umane e ad alimentare le loro motivazioni». La fede non è scomparsa, per così dire, anagraficamente: ne restano però versioni fake come quella di chi ne fa «il pretesto per un rigetto del mondo presente, che mi fa paura», o di quanti ne hanno adottato un modello ispirato alla «scelta autonoma e individuale del modo di credere» spazzando via la «necessità di far ricorso alle istituzioni religiose, ai loro simboli consolidati e alle loro tradizionali pratiche». Se è vero che «per sei italiani su dieci la religione è un orizzonte di senso importante», però ormai più che «”fai-da-te”», come usava dire, è oggi «caratterizzata dal fatto che da essa si prende di volta in volta ciò che serve, che interessa, che offre un’emozione, senza che ci si senta propriamente vincolati a tutto quel bagaglio culturale e dottrinale implicato da ciò a cui si attinge».

 

Che fede può mai esprimere la «religione di consumo » di questi «credenti autonomi»? Ed è davvero fede, questa? Perché se è “tutta qui”, allora ha ragione Fabris: la fede è proprio «scomparsa ». Ma l’osservazione di questa «debolezza del credere», ripercorsa senza sconti in pagine di incalzante analisi e limpido fascino espositivo, mette Fabris e il lettore sulla strada dell’incontro con la fede autentica che, intatta, è ancora lì ad attendere la nostra presa d’atto che l’incontro personale con Dio che ci precede e ci chiama per nome – è di questo che la fede tratta, e a forza di gravarla di aspettative e compiti l’abbiamo perso di vista – è un’esperienza sempre nuova, che forse ancora non abbiamo davvero vissuto. Perché la fede è «qualcosa che coinvolge l’essere umano e gli cambia la vita» oppure è solo una delle tante proposte di senso sempre incomplete e insoddisfacenti che ci vengono offerte sul mercato delle credenze. Si va dalla pretesa di “dimostrare Dio” a forza di ragionamenti al trionfo del paradigma tecnologico che offre salvezza con gli stessi strumenti che ci sfrattano dalla nostra umanità: «Allo scopo di ottenere il pieno dominio sul mondo e su noi stessi, accettiamo di essere esautorati dal controllo su ciò che ci riguarda».

Un bel paradosso, al pari del modo in cui «scambiamo il bisogno con il desiderio», l’appagamento tramite consumo (o anestesia della privazione) e ciò che «ci rinvia a un’altra dimensione» Tutte espressioni dell’idea rassegnata che «la vita si risolve nel suo puro e semplice esercizio». Non ci basta, non viviamo per questo. Fabris ce lo ricorda con tono esigente, una franchezza oggi preziosa, riportando alla sorgente dell’essere cristiani in «una dimensione di relazioni», di «fiducia » e di riconoscimento di «un mondo sensato ». Ce n’è abbastanza per dare una svolta.

Adriano Fabris La fede scomparsa Morcelliana. Pagine 132. Euro 12,00

i primi dieci anni di papa Francesco

10 anni con papa Francesco

 la Cei: “ci ha insegnato ad andare nelle periferie”


La Cei: “Ci ha insegnato ad andare nelle periferie"

“In questo tempo, ci ha aiutato a capire quanto il Vangelo sia attraente, persuasivo, capace di rispondere ai tanti interrogativi della storia e ad ascoltare le domande che affiorano nelle pieghe dell’esistenza umana”.

Lo scrive la Presidenza della Cei nel messaggio di auguri in occasione del decimo anniversario dell’elezione di papa Francesco:

“Ci ha insegnato a uscire, a stare in mezzo alla strada e soprattutto ad per capire chi siamo. Possiamo conoscere davvero noi stessi solo guardando dall’esterno, da quelle prime periferie che sono i poveri: Lei ci ha spinto a incontrarli, a vederli, a toccarli, a fare di loro i nostri fratelli più piccoli. Perché, come ci ha ricordato più volte, la nostra non è una fede da laboratorio, ma un cammino, nella Storia, da compiere insieme”.

La Presidenza della Cei esprime la

“gratitudine per aver accolto l’eredità di Benedetto XVI e per averci accompagnato, a partire dall’Anno della Fede, incoraggiandoci a vivere da cristiani nelle tante contraddizioni, sfide e pandemie di questo mondo”.

“Insieme alle Chiese che sono in Italia – conclude il messaggio – Le porgiamo i più cari auguri per questo anniversario, assicurandoLe la nostra vicinanza operosa e la nostra preghiera”.

con una politica così … non possiamo dirci cristiani

la Parola, la politica, l’orrore, le morti

non possiamo dirci cristiani


Non possiamo dirci cristiani

di Rosanna Virgili

«Non bisogna farli partire», dice il potente di turno con una solennità sicura e sufficiente. Come se si dicesse a un bambino malato che muore per mancanza di cure: « Non dovevi nascere». Invece di paventare il morso di un eventuale delitto di omissione della cura, primo diritto al mondo di ogni creatura che si affacci alla vita.

Il coro dei profeti di partito corona d’enfasi retorica l’argomento del primo violino: l’Europa ha perso il suo altruismo, dicono, perché qualcuno non vuole mandare armi all’Ucraina. L’altruismo è il nome di quanto l’Europa occidentale dovrebbe fare verso l’Ucraina – poco importa se accogliendo donne e bambini profughi o collaborando a che sangue sia sparso – mentre lasciar morire i migranti che vengono da Sud questo si chiama giustizia, sapienza politica, custodia dei confini. Questo merita il giudizio paternalistico di chi regge il Paese.

Ma è la storia a smentire le false verità, a togliere qualsiasi, credibile dignità morale ai proclami di chi oggi governa in Europa. Gente che sembra non conoscere il passato che, appunto, sarebbe un maestro di vita. Difetto ancor più grave in chi si fa eleggere dicendosi cristiano o cristiana e, magari, non ha mai aperto una pagina dei testi “rivelati” e comunque non ne frequenta. Se l’avesse fatto, saprebbe che, anche qualche millennio, fa c’era tanta povera gente che era sottoposta alla schiavitù, proprio in quel Sud del mondo da dove ancor oggi salgono, su illeciti barconi, i profughi e i migranti, ritenuti i potenziali delinquenti, pericolosi nemici del benessere e della pace in Europa.

Ebbene, tra loro, c’erano anche tanti uomini e donne che erano rimasti per quattrocento anni nel meraviglioso Paese dov’erano cresciuti felici sino a diventare un popolo grandissimo. Non avrebbero mai voluto andare via, mettersi su una strada o su un barcone diretto in terra straniera, verso un mondo che avevano conosciuto a malapena e solo per sentito dire. Ma, a un certo punto, la vita era divenuta invivibile per loro, erano derubati dei loro beni primari, vessati giorno e notte con violenze e lavori forzati, non avevano diritto né a un giorno né a una notte di riposo, i figli maschi gli venivano uccisi mentre le madri li mettevano al mondo. Per questo iniziarono a gridare e a cercare una via d’uscita, foss’anche quella di abbandonare la “mamma Africa”, il grande Paese dove erano stati allevati e che, senz’altro, amavano.

Al principe-oppressore fu Dio stesso a mandare a dire: « Lascia partire il mio popolo »! E quello la pensava come i nostri governanti e rispondeva: «Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Israele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele! » (Es 5,1-2). E anche per quelli che erano impauriti e titubanti a partire, temendo un peggiore destino, anche per loro ci fu l’incoraggiante parola di Dio che usciva dalla bocca di Mosè: « Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati ..vi libererò dalla schiavitù… vi riscatterò con braccio teso… io sono il vostro Dio che vi sottrae ai lavori forzati… vi farò entrare in una terra» bella, spaziosa e dolce! (Es 6,6-8). Il Dio della Bibbia è Lui il “colpevole” delle grandi migrazioni.

Fu lui a mettere in testa a quel povero Mosè di far partire il popolo che stava soffrendo e morendo in Egitto. È Lui che apre le menti degli schiavi alle aurore possibili della libertà. È Lui che stabilisce l’unico lecito, universale Codice: che di Dio è la terra per cui ogni creatura ha diritto di camminarvi sopra e di condividerne fraternamente i frutti. Di vivere, di muoversi, di partire per trovare uno spazio dove fissare una tenda, coltivare un giardino, costruire cortili dove possano giocare i bambini.

Di sognare la gloria della vita e non di rassegnarsi alla vergogna della morte. E a chi, come diverse donne al potere, oggi, in Europa si fa eleggere, magari proclamandosi politicamente “madre”, vorrei suggerire una lettura: il primo capitolo del libro dell’Esodo, pochi versetti inondati di “Splendore” e “Bellezza” (in ebraico: “ Sifra” e “ Pua”); sono le levatrici dell’Egitto che, invece di ubbidire al decreto reale che ordinava di soffocare sul nascere i bambini maschi delle donne ebree, dissero: “No”! consegnandoli al viaggio della vita. Che tutte le madri, che tutte le donne, cristiane e non cristiane, e tutti i nobili, stimati cittadini d’Europa abbiano il coraggio di fare obiezione di coscienza a quanto è fonte del respingimento cieco, dell’inazione colpevole e dell’orrore delle migliaia di cadaveri sommersi nelle acque o esposti al sole sulle coste del grembo che ci ha partorito: il Mar Mediterraneo.

i pacifisti italiani in marcia ad Assisi schierati per la pace

Ucraina

un anno di guerra: mezzanotte di pace ad Assisi

di Tommaso Rodano
in “il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2023

Si schierano di nuovo, i pacifisti italiani. Già inquadrati dall’opinione pubblica “dei buoni” come terze colonne putiniane e nemici dell’Occidente, ci mettono ancora la faccia. Rieccoli, sotto l’insegna del movimento Europe for Peace, i tremendi putiniani: sono i tre sindacati – Cgil, Cisl e Uil –, i partigiani dell’Anpi, Arci, Acli, Emergency, Stop the war now, Sbilanciamoci, Rete del disarmo, Comunità di Sant’Egidio, Tavola della pace e tanti altri gruppi laici e cattolici.
È la settimana del ritorno in piazza, in coincidenza con il primo anniversario dell’invasione russa in Ucraina. La mobilitazione si apre a Perugia giovedì 23, con un’edizione notturna della marcia della
pace fino ad Assisi, e prosegue in un centinaio di piazze italiane tra venerdì, sabato e domenica, Sarà una Perugia-Assisi speciale, spiega l’organizzatore Flavio Lotti: “Partiremo alla mezzanotte esatta del 24 febbraio e cammineremo al freddo, perché crediamo che in questa situazione la prima cosa da fare sia provare ad avvicinarci alla comprensione delle vittime di questa tragedia”. La lunga marcia della pace si concluderà alla Basilica di San Francesco, il corteo dovrebbe arrivare attorno alle sei di mattina. Di fronte alla tomba del Padre serafico, chi vorrà, potrà fermarsi per un momento di riflessione o di preghiera. La lunga nottata di cammino sarà anticipata da una fiaccolata, alle ore 19 e da un “incontro di riflessione e di proposta” nella Sala Notari del Palazzo dei Priori di Perugia, a cui parteciperà anche l’arcivescovo del capoluogo umbro, don Ivan Maffeis. Giovedì mattina, inoltre, l’associazione Articolo 21 organizza un incontro di formazione dedicato all’informazione in tempo di guerra alle 10, presso la sede del Comune perugino.
Venerdì 24 febbraio è invece il primo giorno di mobilitazione in circa 30 piazze italiane, tra cui Napoli, Bari, Torino, Bologna, Cagliari e Verona. La tre giorni culmina sabato a Roma, con una manifestazione a Centocelle e poi una fiaccolata dal Colosseo fino al Campidoglio. Il 26 febbraio, infine, si chiude con le ultime iniziative di un tour organizzato dal Movimento Nonviolento, che ospita in Italia tre esponenti dei movimenti per la pace nei paesi coinvolti dal conflitto: le attiviste
Kateryna Lanko (Ucraina), Darya Berg (Russia) e Olga Karach (Bielorussia).
“Viviamo un tempo straordinario che richiede un impegno straordinario”, ha detto il presidente  dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, annunciando l’adesione dell’associazione dei partigiani alle iniziative di Europe for Peace. Secondo Pagliarulo, sullo scenario internazionale c’è un cambiamento che induce alla speranza: “Il presidente brasiliano Lula ha proposto un G20 per la pace gestito dai Paesi neutrali per aprire una trattativa. Mi pare un’iniziativa importante. Insieme al direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, chiederò un incontro con l’ambasciatore del Brasile per approfondire questa iniziativa”.
A 20 anni esatti dalle manifestazioni fluviali contro la guerra in Iraq, inoltre, la mobilitazione arcobaleno torna a riunire un movimento internazionale: “Ci saranno 72 manifestazioni tra Madrid,
Berlino, Parigi, Vienna, Lisbona e altre capitali del continente – ha confermato Giulio Marcon di Sbilanciamoci –. L’Italia è stata d’esempio e ora c’è una ripresa della mobilitazione a livello europeo”.

in morte di fratel Biagio Conte

 papa Francesco

ha consolato i poveri nei quali vedeva il volto di Gesù


“generoso missionario di carità e amico dei poveri”

è così che il Papa ricorda, unendosi all’unanime cordoglio, fratel Biagio Conte, scomparso ieri a Palermo dopo una lunga malattia, in un telegramma a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e indirizzato all’arcivescovo della città, monsignor Corrado Lorefice.

Il Papa: ha consolato i poveri nei quali vedeva il volto di Gesù

Nel testo, Francesco sottolinea come il missionario laico scorgesse proprio nei poveri “il volto stesso di Gesù”, e come per loro si sia “instancabilmente prodigato offrendo loro consolazione, protezione e speranza”. Il Papa sottolinea quindi la

“coraggiosa testimonianza evangelica di questo discepolo di Cristo che ha accesso una fiamma d’amore nella città di Palermo e nel cuore di quanti lo hanno incontrato”.

il commento al vangelo della domenica

 

Gesù, Agnello che toglie il peccato del mondo

il commento di E. Ronnchi al vangelo della seconda domenica del Tempo ordinario – Anno A

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».

Il mondo ci prova, ha tentato, ma non ce la fa a fiorire secondo il sogno di Dio: gli uomini non ce la fanno a raggiungere la felicità. Dio ha guardato l’umanità, l’ha trovata smarrita, malata, sperduta e se n’è preso cura. È venuto, e invece del ripudio o del castigo, ha portato liberazione e guarigione.Lo afferma il profeta roccioso e selvatico, Giovanni delle acque, quando dichiara: ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Sono parole di guarigione, eco della profezia di Isaia, rilanciata dalla prima Lettura: ecco il mio servo, per restaurare le tribù di Giacobbe. Anzi, è troppo poco: per portare la mia salvezza fino all’estremità della terra.Giovanni parlava in lingua aramaica, come Gesù, come la gente del popolo, e per dire “ecco l’agnello” ha certamente usato il termine “taljah”, che indica al tempo stesso “agnello” e “servo”. E la gente capiva che quel giovane uomo Gesù, più che un predestinato a finire sgozzato come un agnello nell’ora dei sacrifici nel cortile del tempio, tra l’ora sesta e l’ora nona, era invece colui che avrebbe messo tutte le sue energie al servizio
del sogno di Dio per l’umanità, con la sua vita buona, bella e felice.Servo-agnello, che toglie il peccato del mondo. Al singolare. Non i peccati, ma piuttosto la loro matrice e radice, la linfa vitale, il grembo che partorisce azioni che sono il contrario della vita, quel pensiero strisciante che si insinua dovunque, per cui mi importa solo di me, e non mi toccano le lacrime o la gioia contagiosa degli altri, non mi importano, non esistono, non ci sono, non li vedo. Servo-agnello, guaritore dell’unico peccato che è il disamore. Non è venuto come leone, non come aquila, ma come agnello, l’ultimo nato del gregge, a liberarci da una idea terribile e sbagliata di Dio, su cui prosperavano le istituzioni di potere in Israele. Gesù prende le radici del potere, le strappa, le capovolge al sole e all’aria, capovolge quella logica che metteva in cima a tutto un Dio dal potere assoluto, compreso quello di decretare la tua morte; e sotto di lui uomini che applicavano a loro volta questo potere, ritenuto divino, su altri uomini, più deboli di loro, in una scala infinita, giù fino all’ultimo gradino. L’agnello-servo, il senza potere, è un “no!” gridato in faccia alla logica del mondo, dove ha ragione sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, il più crudele.
E l’istituzione non l’ha sopportato e ha tolto di mezzo la voce pura, il sogno di Dio. Ecco l’agnello, mitezza e tenerezza di Dio che entrano nelle vene del mondo, e non andranno perdute, e porteranno frutto; se non qui altrove, se non oggi nel terzo giorno di un mondo che sta nascendo.

(Letture: Isaia 49,3.5-6; Salmo 39; Prima lettera ai Corinzi 1,1-3; Giovanni 1,29-34)

gli ‘auguri scomodi’ di natale di don Tonino Bello

AUGURI SCOMODI

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’ idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’ ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli!
Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’ inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe, che nell’ affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’ aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’ oscurità e la città dorme nell’ indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
Che i ritardi dell’ edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge”, e scrutano l’ aurora, vi diano il senso della storia, l’ ebbrezza delle attese, il gaudio dell’ abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’ unico modo per morire ricchi.
Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.

+ Tonino Bello

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