il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace

Giornata della Pace

 il messaggio del papa

un “noi” aperto alla fraternità universale

per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio: dalla guerra in Ucraina alle conseguenze del Covid
il testo integrale

Il messaggio del Papa: un "noi" aperto alla fraternità universale

«Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un ‘noi’ aperto alla fraternità universale»

Con queste parole papa Francesco, nel messaggio per la 56esima Giornata mondiale della pace che ricorre l’1 gennaio, ci chiede di interrogarci sul nostro futuro e sulle nostre responsabilità. Che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? È una delle sue domande, e ci ricorda che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che «il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo».

Il Papa rende omaggio all’impegno eroico di quanti si sono spesi nell’emergenza pandemica e ragiona di alcune «scoperte positive» come un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che «ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni».

E ancora «da tale esperienza – osserva – è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali».

Non solo il Covid, ma anche la guerra, «nuova terribile sciagura», guidata però da scelte umane colpevoli viene citata più volte nel messaggio per prossima la giornata mondiale della pace. «La guerra in Ucraina – sottolinea ancora Francesco nel messaggio – miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante». E di certo, «non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate».

 di seguito integralmente il testo del messaggio per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2023

Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace”

«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi ​5,1-2).

1. Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.  

2. Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle.

Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza.

Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà.

Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento.

Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità.

3. Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?

Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre.

Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza.

Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali.

4. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità.

Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante.

Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23).

5. Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.

Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.

Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero.

contro il mito della crescita infinita e del consumismo sfacciato

i consumi in eccesso dei ricchi un pericolo per le specie viventi
di Francesco Gesualdi

in “Avvenire” del 6 dicembre 2022

Gli ecosistemi si stanno degradando a ritmi sempre più preoccupanti. Non si tratta solo di salvare specie rare, ma l’intero tessuto vitale da cui dipende l’umanità: per il cibo, l’acqua, la salute, la regolazione del clima. Ridurre le emissioni di anidride carbonica e tutelare le specie viventi. Smetterla di inseguire il mito della crescita di produzione e consumo. Svuotare il cuore di cose e riempirlo di relazioni.

Calo della popolazione ittica marina, dei vertebrati selvatici, degli insetti, delle varietà di piante e persino degli animali domestici. La perdita di biodiversità è un’emergenza.
Dal 7 al 19 dicembre si tiene a Montreal, Canada, una conferenza internazionale sulla biodiversità. Anch’essa definita Cop (conferenza delle parti), avviene in attuazione della convenzione sulla biodiversità firmata nel lontano 1992 nell’ambito delle Nazioni Unite. Quella che si tiene quest’anno è la quindicesima (Cop15) e si contraddistingue per un paio di particolarità: la tempistica e la finalità. La tempistica perché ha proceduto per fasi: prima a Kunming, Cina,  nell’ottobre 2021, poi a Montreal nel dicembre 2022. La finalità perché il suo compito è redigere il così detto Post-2020 Global Biodiversity Framework, ossia il nuovo Piano strategico per la biodiversità, valido per il prossimo decennio. Il precedente, valido dal 2011 al 2020, era stato redatto nel corso della Cop10 e si poneva una serie di obiettivi denominati “Obiettivi di Aichi”, dal nome della località giapponese in cui vennero sottoscritti. U n rapporto delle Nazioni Unite del 2021, dal titolo emblematico “Fare pace con la natura”, denuncia che nessuno degli obiettivi di Aichi è stato pienamente raggiunto. Al contrario lamenta che gli ecosistemi si stanno degradando a ritmi sempre più preoccupanti. La pesca eccessiva, i cambiamenti climatici, l’acidificazione, l’inquinamento, hanno compromesso già due terzi degli oceani. Un terzo della popolazione ittica
marina è pescata oltre misura, mentre i fertilizzanti che raggiungono il mare hanno già annientato la vita in più di 400 aree per un totale di 245mila chilometri quadrati, una superficie grande come la Gran Bretagna o l’Ecuador. Dal 1980, i rifiuti di plastica si sono decuplicati, fino a rappresentare l’80% dei detriti presenti nei mari. I loro frammenti si trovano in tutti gli oceani, a tutte le profondità, in tutte le correnti, danneggiando i pesci per intrappolamento o per ingestione. Per di più
possono fare da vettori di altri inquinanti e addirittura da veicoli di specie infestanti che alterano ulteriormente gli ecosistemi marini.
Negli ultimi 50 anni la popolazione dei vertebrati selvatici è crollata del 68% mentre si è dimezzata quella di molte famiglie d’insetti. Anche il numero di varietà di piante e di animali domestici si è ridotto di molto. Ad esempio negli ultimi decenni oltre il 9% delle varietà animali si è estinto, mentre un altro 17% corre lo stesso rischio. a conclusione è che complessivamente un milione di specie viventi, animali o vegetali, è a rischio di estinzione, su un totale di otto milioni. Una situazione che compromette anche il raggiungimento di molti obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite. Sicuramente il numero due
che riguarda la sicurezza alimentare. La riduzione delle varietà coltivate, il crollo degli insetti  impollinatori e il deterioramento dei suoli per l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici, minacciano i raccolti agricoli esponendo un numero crescente di persone a rischio alimentare. La riduzione di
biodiversità riduce la possibilità per i produttori di adattare coltivazioni e allevamenti alle situazioni che cambiano. A oggi si conoscono oltre 6mila varietà vegetali coltivabili, ma solo 200 di esse dominano la produzione alimentare globale. Addirittura nove prodotti (canna da zucchero, mais,
riso, frumento, patate, soia, palma da olio, barbabietola da zucchero, manioca) contribuiscono da soli al 66% dell’intera produzione agricola mondiale. Quanto al bestiame, gli allevamenti si basano su una quarantina di specie, ma solo una manciata di esse fornisce la maggior parte di carne, latte e uova consumata a livello globale. In effetti le varietà locali sono sempre più rare: il 26% di esse è ritenuto a rischio estinzione.
La perdita di biodiversità compromette anche il numero tre degli obiettivi di sviluppo sostenibile, quello che si prefigge la salute per tutti. La perdita di biodiversità riduce la possibilità di ottenere farmaci dalla natura. Si stima che 4 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale, si curino utilizzando medicine naturali. Del resto il 70% dei farmaci utilizzati per il trattamento di forme tumorali sono di origine naturale o, se sintetiche, hanno come riferimento molecole trovate in
natura. Più del 20% dei farmaci moderni si basa su princìpi terapeutici estratti da molecole naturali individuate da ricercatori scientifici o tramandate dal sapere delle popolazioni locali. Fra essi l’aspirina e gli antitumorali vincristina e taxol. Con la perdita di biodiversità si riduce la possibilità di nuove scoperte farmacologiche. Per gli amanti dei termini monetari, l’importanza della biodiversità è sottolineata dal World
Economic Forum secondo il quale la natura contribuisce a oltre la metà del prodotto lordo mondiale, ossia 44mila miliardi di dollari. Per questo Tony Juniper, esponente del governo britannico per le questioni ambientali, insiste: «Cop 15 rappresenta la nostra ultima frontiera per
arrestare il declino della natura a livello planetario. Non si tratta solo di salvare specie rare, ma di salvaguardare l’intero tessuto vitale da cui dipende l’umanità: per il cibo, per l’acqua, per la salute, per la regolazione del clima. Dunque, mentre si cercano percorsi per ridurre le emissioni di anidride carbonica, bisogna compiere scelte per tutelare le specie viventi». Cosa fare lo sappiamo. Dobbiamo smettere di deforestare, di saccheggiare i mari, di sommergere i terreni di chimica, di produrre rifiuti. Ma per farlo dobbiamo smetterla di inseguire il mito della crescita di produzione e consumo. Il degrado della natura è il risultato di un livello insostenibile di consumi da parte della popolazione ricca, mentre ai poveri non è consentito di avere neanche il minimo per vivere. Dunque è il nostro super consumo che dobbiamo mettere in discussione sapendo che a causa di un’organizzazione mercantile che esalta i beni commerciali, mentre disprezza i diritti, ci troviamo nella situazione assurda in cui abbiamo un eccesso di cose che non ci servono, mentre manchiamo di servizi fondamentali. Mangiamo oltre misura, magari cibo poco sano, abbiamo la casa piena di congegni elettronici, abbiamo gli armadi pieni di vestiario fast fashion che inquina tanto e vale poco, ma poi non godiamo sempre di una sanità degna di questo nome, non riusciamo a dare tutti un’assistenza adeguata ai nostri anziani, facciamo fatica a garantirci un alloggio, non troviamo un posto all’asilo per i nostri piccoli. Dunque non si tratta di operare un taglio generalizzato dei nostri consumi, ma di reindirizzarli. Dobbiamo ridurre il consumo di beni materiali privati, che dissipano risorse e producono rifiuti, ed accrescere il godimento di servizi di cura pubblici, che aggiungono felicità senza aggravio per la natura. La dimostrazione che la questione ambientale non è tanto un problema di tecnologia ma di
modello di sviluppo, a sua volta direttamente dipendente dalla visione che abbiamo della vita, dei rapporti sociali, dei valori in cui crediamo. Dobbiamo svuotare il nostro cuore di cose e riempirlo di relazioni. Tutto il resto verrà da solo

le bugie sulle o.n.g. … hanno le gambe corte

le sei bugie sulle Ong


di Luigi Manconi
in “La Stampa” del 22 novembre 2022


C’è da credere che nella diffusa ostilità verso le Ong del soccorso in mare non vi sia solo una legittima critica politica. Si intuisce qualcosa di diverso e di più profondo. Ovvero quella irresistibile pulsione propria dell’animo umano di sporcare ciò che appare limpido, troppo limpido, e di deturpare quanto risulta immacolato. È una tendenza antica: sempre, di fronte allo spettacolo della virtù, emerge la voglia di oltraggiarla e di sfregiarne l’immagine per ricondurla alle proprie anguste proporzioni. Se anche lui è corrotto, se tutti sono corrotti, la mia propria corruzione può essere più agevolmente ridimensionata e resa ordinaria. È il meccanismo che legittima la filosofia del condono costituendone l’architettura politica e morale.
Nel tempo in cui il sovranismo è la misura dell’identità degli Stati nazionali, ma anche il principale sentimento delle relazioni sociali, che fonda le solidarietà piccole e corte, un messaggio come quello delle Ong del soccorso in mare suona davvero come eretico. In quanto basato sull’idea e sulla pratica della reciprocità: io salvo te perché so che qualora la mia vita fosse a repentaglio, tu salverai me. È il fondamento stesso del legame sociale, quello che segna il passaggio da individui isolati a comunità integrate.
L’affermazione di questa elementare verità – che è principio costitutivo della civiltà umana – echeggia come una sfida intollerabile per tutti i sovranismi individuali e nazionali; e produce, come reazione, quella livida tentazione di sfigurare tutto ciò che appare indirizzato verso l’incontro con l’altro. Questa inclinazione si affida a un sistema di menzogne, sintetizzabili come segue.


1) «Le Ong sono un fattore di attrazione (pull-factor) che incentiva l’arrivo di migranti e profughi».
È un’affermazione smentita da un dato storico e da uno congiunturale. È incontestabile che la percentuale delle persone sbarcate sulle nostre coste, nel corso del 2021 e del 2022, grazie alle imbarcazioni delle Ong, oscilla tra il 10 e il 15 percento del totale. La gran parte arriva in Italia grazie alle motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza o con propri mezzi di piccole dimensioni. In particolare, nelle ultime tre settimane – in assenza delle navi delle Ong – gli arrivi sono stati il doppio rispetto al corrispettivo periodo dell’anno precedente. Ne è una conferma quanto dichiarato al Manifesto da un portavoce di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, tradizionalmente ostile verso le Ong, secondo il quale queste ultime sarebbero solo uno dei «molti fattori di spinta e attrazione».


2) «Le Ong operano in accordo con i trafficanti di esseri umani».
È, va da sé, la più velenosa delle accuse, ripetuta dagli esponenti del governo e dai loro trombettieri. La verità dei fatti dice l’esatto contrario: dal 2015 a oggi non c’è stata alcuna condanna, nemmeno in primo grado, relativa a complicità tra appartenenti a Ong e scafisti. Per scrupolo ricordo che una indagine della Procura di Trapani, relativa a fatti avvenuti nel 2016, accusa alcune Ong di favoreggiamento dell’ingresso illegale sulla base di intercettazioni ambientali e di affermazioni di agenti sotto copertura. Un solo episodio, tutto da dimostrare, in oltre sette anni di attività.


3) «Le Ong non salvano naufraghi ma traghettano migranti».
Le convenzioni in materia di naufragio e di soccorso, recepite dal nostro Codice della navigazione, prescrivono che chiunque si trovi in stato di pericolo in mare ha il diritto di essere salvato. E non si fa alcuna differenza tra chi «provenga da uno yacht in avaria davanti a Posillipo, da una imbarcazione monoposto per regate nell’Atlantico o da una carretta del mare partita dalla Libia»
(Valigia Blu). E l’opera di salvataggio trova la sua conclusione solo con lo sbarco sulla terra ferma più prossima.

4) «Le navi delle Ong battenti bandiera straniera devono portare i naufraghi nei porti dei rispettivi paesi».
Non è affatto così. Secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, elaborate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), il comandante della nave che ha prestato soccorso ha la piena responsabilità di trarre in salvo i naufraghi, mentre spetta agli Stati delle aree di soccorso interessate coordinarsi per individuare un porto sicuro dove liberare quanto prima la nave dai suoi obblighi. Non esiste al proposito alcuna differenza tra navi Ong e navi mercantili. Dunque, i requisiti della prossimità e della rapidità sono determinanti.


5) «Non possono essere gli scafisti a selezionare gli arrivi in Italia».
Certo, ma non può essere una autorità italiana a respingere i profughi in base a un giudizio
preventivo e generalizzato. Dunque, la decisione su chi può entrare e chi non può entrare deve essere assunta da organismi istituiti a tale scopo, previsti e regolamentati dalla legge: non quindi attraverso «ordini del governo relativi a gruppi di persone costretti per lunghi giorni a bordo delle navi, le cui origini e condizioni sono sconosciute alle autorità» (Vladimiro Zagrebelsky).


6) «Le Ong salvano i migranti privilegiati».
È l’indecente imputazione indirizzata alle Ong dall’autorevole direttore di un autorevole giornale di destra. I «migranti privilegiati» sarebbero quelli in grado di pagare migliaia di euro per ottenere la possibilità di tentare la via del Mediterraneo. Con ciò si vorrebbe ignorare che dietro quelle migliaia di euro c’è la sofferenza di individui e famiglie che, per anni, hanno messo da parte denari da investire in quell’ultima chance di salvezza che è la traversata. E che arrivano a quella tappa estrema dopo un percorso fatto di violenza e prigionia, di persecuzioni e torture.


Se non si riesce non dico a vedere, ma a immaginare tutto ciò, è fatale che le Ong rappresentino un fattore di turbamento per le nostre false coscienze; e che deturparne l’immagine costituisca una sorta di rivalsa per la vergogna – che è responsabilità di tutti, sia chiaro – di quelle migliaia di morti nelle acque del Mediterraneo.

due femministe di fronte al vangelo

 

 

 “il Vangelo è femminista”

colloquio con Rosy Bindi e Michela Murgia

a cura di Giulia Santerini
in “la Repubblica” del 17 novembre 2022

Capita in una mattina di sole di novembre di sedersi a un tavolino su una terrazza di Roma e scoprire che Dio è“queer” e che il salario minimo era già nel Vangelo. Solo due delle cose che ci hanno spiegato Michela Murgia e Rosy Bindi. In comune hanno parecchio: la fede in Gesù e la militanza in Azione Cattolica.
«Quella di Moro, Scalfaro e Prodi», dicono quasi in coro.

Murgia ha studiato teologia e insegnato religione. Bindi, Scienze Politiche, assistente di Bachelet, era con lui il giorno il cui le Br lo uccisero («Lì ho capito che mi avevano dato la vita una seconda volta e dovevo farne buon uso»).

Deluse del Pd e preoccupate dai fascismi di oggi.
Con un’idea di Trinità, ma anche di famiglia, molto molto inclusiva.
L’occasione nasce dal dialogo sul nuovo saggio di Murgia God Save The Queer (Einaudi).

Ma Dio è queer o salverà le persone queer, quelle che non accettano di definirsi in modo
univoco?

Michela Murgia : Dio è queer e di conseguenza salverà il queer, perché le etichette limitano
l’anima. È legittimo secondo la visione cattolica? Io credo di sì.
Rosy Bindi : Penso che Dio sia Dio, non ha bisogno di essere definito con forme antropomorfe. E penso che salvi tutte e tutti.

Il sottotitolo dell’opera è: “Catechismo femminista”. Può esserlo?

RB :Un catechismo è femminista se ci spiega Dio che accoglie tutte e tutti.
MM :Vangelo e femminismo hanno delle istanze di liberazione che si incontrano, ma perché il Vangelo riveli aspetti femministi, devono essere le donne che sperimentano la discriminazione a leggerlo.
RB :Mi ha sempre appassionato leggere il Vangelo attraverso l’incontro di Gesù con le donne che ci rivela un Dio assolutamente originale attraverso la misericordia, il perdono, l’accoglienza dell’altro, di chi era escluso. Pensiamo all’incontro con la samaritana e la Maddalena: Gesù si lascia amare da chi veniva definita una prostituta. Rivoluzionario allora come oggi.

C’è una “cosa di religione” che vi divide?

MM :Forse l’aborto. Le mie posizioni sono più radicali di quelle della 194, che rivedrei per garantire di più la scelta della donna.
RB :Ma questa non è una cosa di religione. È una cosa di morale. La Chiesa lo vieta.
RB :La Chiesa lo vieta ma la Chiesa perdona. C’è stato un periodo nel quale è apparsa più maestra che madre. Vorrei una Chiesa misericordiosa sempre, fuori e dentro il confessionale.

E da cattoliche come vedete matrimonio egualitario, adozione per le coppie gay, gestazione per altri, testamento biologico, ricerca sugli embrioni?

RB :Sono contraria all’uso di questi temi nella battaglia politica, il bipolarismo etico è grave in democrazia, c’è bisogno di ascolto e pluralismo. Con i Dico nel 2007 ho fatto da apripista anche se non sono arrivata alla meta, in tanti si sono messi di traverso da ambo i lati. Quando su queste materie interviene la politica deve farlo in modo mite, offrendo un quadro in cui ciascuno si senta rispettato. Tuttavia la vera sfida eticadell’uomo moderno è il senso del limite: non tutto ciò che è possibile fare può essere giusto.
MM : Io vorrei una politica che su certi temi dice “scegli tu”. In lockdown la mia famiglia era lontana e avrei voluto amici molto cari vicini. Lo stesso quando sono finita in rianimazione.
RB :I Dico prevedevano questi legami parentali e tra conviventi anche senza rapporti sessuali, ma che si prendono cura l’uno dell’altro.
MM : E poi rifiuto gli approcci che mettono al bando senza discutere, per esempio sulla gestazione per altri. C’è libertà possibile in chi la pratica? Vediamo di volta in volta, ma senza preclusioni.

Del libro di Murgia Bindi cosa condivide?

RB :Mi sono riconosciuta molto nel capitolo dedicato allaTrinità di Rublëv. Non gerarchica ma comunitaria, che ci abbraccia tutti. Anche l’arte più ispirata in Occidente non riesce a trasmettere la verità che ci consegna questa icona: un Dio che accoglie.
Papa Paolo VI scrisse che la politica è una forma di carità verso la comunità. Cosa
viaccomuna e cosa vi divide in politica?
MM : Ci accomuna la lettura che Rosy ha dato sulla situazione del Pd: irrecuperabile. O meglio: ci vorrebbero così tante energie per recuperarlo, che tanto vale spenderle per il Paese.

La fondatrice del Pd conferma?

RB :Ho detto che il Pd deve superarsi. Deve accettare di aprirsi a una realtà molto più ricca. In Italia c’è bisogno di una sinistra vera, plurale e di governo, ma che non rinunci ai propri valori perché deve governare. Ora la destra governa da destra. In modo chiaro, non si fa alcuna fatica a non condividere. Vorrei una sinistra che fa la sinistra e che non si fa alcuna fatica a condividere.

Cosa condividere a sinistra?

MM :Che non si fa morire la gente in mare. E poi la questione dei diritti: il Pd ha permesso che in questi anni venissero erosi diritti acquisiti o si è accordato al ribasso su quelli nascenti.
C’è chi dice l’opposto: la sinistra parla troppo di diritti civili e dimentica i lavoratori.
RB :Qualche battaglia peraltro non vinta ha coperto una certa afasia sui diritti sociali. Io non ho votato il Jobs Act, è incostituzionale cristallizzare la precarietà. È di sinistra la lotta alla povertà e la difesa di beni comuni come salute, istruzione, lavoro, ambiente.
MM :Sul lavoro la sinistra ha delle responsabilità. Il primo buco nella calza dei diritti lo fece il pacchetto Treu. Il Jobs Act resta una brutta legge, ma il processo di demolizione dei diritti dei lavoratori è cominciato molto prima.

Vedete nuovi fascismi?

RB :A Meloni rinnegare il fascismo di ieri non costa nulla, ma fa molta fatica a prendere le distanze dalle nuove pulsioni fasciste di oggi in Italia e in Europa.
MM :Il fascismo è sempre populista. Il tentativo di disintermediare il rapporto tra leader e popolo affascina anche certa sinistra, dimentica che in democrazia l’intermediazione impedisce al potere di agire senza controllo. Penso a Renzi che pretendeva di fare le conferenze stampa su Twitter. Ma è stato fascista anche mettere Minniti ministro a fermare i migranti nei lager libici, criminalizzando le navi umanitarie. Se il 15 novembre Meloni ha portato in tribunale Saviano è perché ci sono stati anni di delegittimazione delle voci critiche. Immaginiamo Macron che porta Houellebecq in tribunale?
RB:Anche per me non è accettabile l’uso del proprio potere politico contro il dissenso in qualunque sede soprattutto giudiziaria.

Tutto è politica o tutto è religione?

MM: Tutto è politica, anche la religione.
RB:La fede orienta tutta la mia vita ma nel rispetto delle realtà terrene, non si sostituisce mai alla mia libertà di scelta. Non siamo burattini nelle mani di Dio.
MM: E come la metti con persone che si dicono credenti e hanno una posizione opposta alla tua come Pillon, Fontana o Salvini che brandisce il rosario? Mi chiedo: ma condividiamo la stessa fede?
RB:Lo spieghi bene nel tuo libro, lo stesso concetto che avevo espresso io in Quel che è di Cesare: c’è differenza tra essere cristiani, essere credenti o aderire alla cristianità. L’uso improprio della religione come strumento di potere è il più grande tradimento del Vangelo.

Come si sta in politica da cattolici?

RB:Io non sono mai stata comunista, ma sono di sinistra.
Francesco dice che sta con i poveri non perché è comunista, ma perché segue il Vangelo. In politica si sta da cattolici adulti avendo cura della casa comune, della democrazia, praticando la giustizia e la pace.
MM: Ai fascisti abbiamo lasciato la patria, non vorrei lasciare anche la religione. Viviamo nel paradosso che nel mondo culturale è pieno di credenti imboscati, mentre al Papa si chiede di fare le veci della sinistra. In politica invece c’è la gara a dirsi credenti.
RB:In realtà c’è la gara a imprigionare il cristianesimo nella cultura occidentale.
MM: Lo chiamano cristianesimo, ma non lo è se poi predica l’islamofobia o la misoginia, insistendo su politiche di controllo del corpo ossessive. Sulle migrazioni il Papa dice l’opposto della destra. La dottrina sociale della Chiesa sui temi del lavoro è più radicale di quella della Cgil. Nella prassi quotidiana ti può capitare il presule che dice «votate chi difende la famiglia tradizionale». Ma questa non è dottrina della Chiesa.
RB:Nella dottrina sociale della Chiesa il lavoro è espressione della dignità umana. E c’è la giusta mercede, di cui parla il Vangelo. Ci sono la lotta alle diseguaglianze e l’accoglienza dello straniero, la condanna della corruzione e l’elogio della solidarietà. Contenuti che dovrebbero far parte della formazione ordinaria della comunità cristiana.

La vostra citazione evangelica preferita?

MM: Al diavolo che tenta Gesù nel deserto chiedendogli di buttarsi perché «è scritto» che sarà salvato dagli angeli, lui risponde: «Sta scritto anche “non tentare il Signore Dio tuo”». Mi piace «sta scritto anche», è un antidoto all’integralismo e ricorda che persino la Bibbia si può usare diabolicamente.
RB: Cambio spesso nel mio testamento le indicazioni delle letture per il mio funerale. Adesso la preferita è: «Ti ringrazio Signore perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli»

la ‘dittatura dell’io’ ci preclude l’orizzonte del ‘noi’

l’unica strada per rinnovarci
di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 11 luglio 2022

è assurdo avere paura degli stranieri, che sono l’unica possibilità di
rinnovamento della vita per le nostre popolazioni invecchiate

Non sono un sociologo ma nella vita ho sempre cercato di ascoltare e di guardarmi intorno: questo è l’esercizio che mi ha insegnato di più, perché sono stato affascinato dalla vita degli uomini e delle donne che incontravo. Per questo da sempre ho prestato attenzione alle statistiche che forniscono tracce per individuare cosa succede e come si vive.
Certamente in questa situazione di post-pandemia, in questo clima di guerra e di crisi economica, i dati forniti dal rapporto annuale Istat evidenziano e confermano ciò che percepiamo di preoccupante in quel che ci accade intorno.
Da vecchio, entrato nell’80esimo anno della vita, dunque alle soglie dell’esodo da questa terra, non posso non guardare al presente e al futuro che già si affaccia. Ed è proprio in questo sguardo che sono assalito da una certa tristezza perché constato che la vita sembra diminuire ogni giorno.
Ovunque vado trovo persone vecchie… Siamo molto invecchiati senza che nella vita siano entrati i ragazzi, che risultano essere neanche la metà dei vecchi.
Le giovani madri con bambini in braccio sono un’apparizione, e comunque nelle famiglie si mette al mondo un figlio, due, non di più. Lo sappiamo tutti: ci sono meno nascite, le madri sono sempre più anziane e i vecchi diventano sempre più vecchi per il prolungamento della vita.
Occorre anche tener conto che i giovani tendono a restare in famiglia. Queste adolescenze prolungate non favoriscono la costruzione di storie d’amore. A questo si aggiunga il fatto che ormai le persone che vivono sole, i “single”, sono a livello numerico l’equivalente delle coppie.
I sociologi e i media intravvedono le ragioni di questo andamento nel grande mutamento socio-antropologico in atto, ma io mi chiedo se questo arretramento della vita non sia dovuto a una crisi culturale e morale, a una crisi di umanità. A me sembra che alla radice di questi processi ci sia il venir meno della fiducia: nella vita, nel futuro, negli altri, persino fiducia nell’amore come storia possibile e opera d’arte nelle relazioni tra umani. Nessuno osa confessarlo, ma si registra paura nei confronti della vicenda-storia della coppia, c’è un’incertezza circa l’opportunità di mettere al mondo dei figli, c’è una preoccupazione filautica di chi pensa a sé ed è incapace di porsi in un orizzonte sociale, l’orizzonte del “noi”.
Prevale la dittatura dell’“io” e la necessità di allontanare ogni rinuncia dovuta alla presenza di un altro.
In realtà si sta preparando una situazione di grande solitudine per i vecchi, un carico di lavoro di cura degli anziani da parte dei figli, e un’esistenza in cui essendo scarsa o poco presente la generazione dei bambini e dei ragazzi sarà più difficile sorridere e gioire per la vita.
In queste condizioni è assurdo avere paura degli stranieri, che sono l’unica possibilità di
rinnovamento della vita per le nostre popolazioni invecchiate.

papa Francesco e la forte tirata d’orecchi a Minniti e ai vescovi toscani

il papa fa “sorridere” don Milani non Minniti, Nardella e i vescovi

Le durissime parole del pontefice trapelate in questi giorni hanno lasciato sconcertati coloro che sono abituati a guardare al Vaticano come una potenza terrena, con la sua diplomazia e la sua politica. Ma è evidente che quella diplomazia e quella politica con Francesco sono cambiate: perché sono ispirate al Vangelo non solo nei contenuti, ma anche nelle forme. A cominciare, appunto, dalla parresia: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Matteo 5, 37).

Che questo tratto così rivoluzionario, in un pontefice, sia emerso proprio in un’occasione legata a Firenze è straordinariamente suggestivo. Francesco è stato il primo papa a recarsi a Barbiana, sulla tomba del fiorentino don Lorenzo Milani, che della parresia, della franchezza del parlare cristiano, è stato il profeta più luminoso del Novecento. Milani ha pagato un prezzo altissimo per la sua fedeltà al parlare solo con l’evangelico “sì, sì; no, no”: nonostante la sua struggente fedeltà alla Chiesa, i predecessori di Betori lo hanno punito con l’esilio; ed egli fu anche processato in tribunale per aver osato difendere l’obiezione di coscienza contro l’amore per la guerra dei cappellani militari. La chiesa fiorentina, del resto, è stata ricolmata del dono della parresia: da Giorgio La Pira (sindaco santo che requisiva le case sfitte per dare un tetto ai poveri) a padre Balducci, da padre Turoldo a don Bruno Borghi, dalla Comunità dell’Isolotto a quella delle Piagge con don Santoro, all’abate di San Miniato Bernardo Gianni, che ha firmato l’appello contro Minniti. Tutte figure più o meno esplicitamente condannate e isolate dai vescovi di Firenze: tutte figure che oggi le parole di papa Francesco risarciscono.

In un’Italia sempre più lontana dalla franchezza della sua Costituzione (una “polemica contro lo stato delle cose”, la definiva Piero Calamandrei), la franchezza del papa, così vicina a quella di Gesù nel Vangelo, è un raggio di sole che squarcia le tenebre. E don Milani, che sui banchi di Barbiana teneva Costituzione e Vangelo, da qualche parte del paradiso oggi sorride.

il commento al vangelo della domenica

i piedi di Dio percorrono la strada della storia

il commento di E-Ronchi al vangelo della  domenica delle Palme Anno C

Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finchè essa non si compia nel regno di Dio». (…)

Sono i giorni supremi, e il respiro del tempo profondo cambia ritmo; la liturgia rallenta, prende un altro passo, accompagna con calma, quasi ora per ora, gli ultimi giorni di Gesù: dall’ingresso in Gerusalemme, alla corsa di Maddalena nel giardino, quando vede la pietra del sepolcro vestirsi di angeli
Per quattro sere di seguito, Gesù lascia il tempio e i duri conflitti e si rifugia a Betania: nella casa dell’amicizia, nel cerchio caldo degli amici, Lazzaro Marta Maria, quasi a riprendere il fiato del coraggio. Ha bisogno di sentirsi non solo il Maestro ma l’Amico. L’amicizia non è un tema minore del Vangelo. Ci fa passare dall’anonimato della folla a un volto unico, quello di Maria che prende fra le sue mani i piedi di Gesù, li tiene vicini a sé, stretti a sé, ben povero tesoro, dove non c’è nulla di divino, dove Gesù sente la stanchezza di essere uomo.
Carezze di nardo su quei piedi, così lontani dal cielo, così vicini alla polvere di cui siamo fatti: con polvere del suolo Dio fece Adamo. Piedi sulle strade di Galilea, piedi che mi hanno camminato sul cuore, che mi hanno camminato nel profondo, là dove io sono polvere e cenere. Una carezza sui piedi di Dio. Dio non ha ali, ma piedi per perdersi nelle strade della storia, per percorrere i miei sentieri.
Nell’ultima sera, Gesù ripeterà i gesti dell’amica, in ginocchio davanti ai suoi, i loro piedi fra le sue mani. Una donna e Dio si incontrano negli stessi gesti inventati non dall’umiltà, ma dall’amore. Quando ama, l’uomo compie gesti divini. Quando ama, Dio compie gesti molto umani. Ama con cuore di carne.
Poi Gesù si consegna alla morte. Perché? Per essere con me e come me. Perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all’uomo che è in croce. L’amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere insieme con l’amato, è “passione d’unirsi” (Tommaso d’Aquino).
Dio entra nella morte perché là va ogni suo figlio. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. E ci trascinerà fuori, in alto, con la sua pasqua.
È qualcosa che mi stordisce: un Dio che mi ha lavato i piedi e non gli è bastato, che ha dato il suo corpo da mangiare e non gli è bastato, lo vedo pendere nudo e disonorato, e devo distogliere lo sguardo.
Poi giro ancora la testa, torno a guardare la croce e vedo uno a braccia spalancate che mi grida: ti amo. Proprio me? Sanguina e grida, o forse lo sussurra, per non essere invadente: ti amo.
Entra nella morte e la attraversa, raccogliendoci tutti dalle lontananze più sperdute, e Dio lo risuscita perché sia chiaro che un amore così non può andare perduto, e che chi vive come lui ha vissuto ha in dono la sua vita indistruttibile.

il commento al vangelo della domenica

quel silenzio di Gesù che spiazza i violenti


Quel silenzio di Gesù che spiazza i violenti
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quinta domenica di avvento, Anno C

(…) Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. (…)

Gli scribi e i farisei gli condussero una donna… la posero in mezzo, quasi non fosse una persona ma una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene, anche a morte. Sono scribi che mettono Dio contro l’uomo, il peggio che possa capitare alla fede, lettori di una bibbia dimezzata, sordi ai profeti («dice il Signore: io non godo della morte di chi muore», Ez 18,32).
La posero in mezzo. Sguardi di pietra su di lei. La paura che le sale dal cuore agli occhi, ciechi perché non hanno nessuno su cui potersi posare. Attorno a lei si è chiuso il cerchio di un tribunale di soli maschi, che si credono giusti al punto di ricoprire al tempo stesso tutti i ruoli: prima accusatori, poi giudici e infine carnefici.
Chiedono a Gesù: È lecito o no uccidere in nome di Dio? Loro immaginano che Gesù dirà di no e così lo faranno cadere in trappola, mostrando che è contro la Legge, un bestemmiatore.
Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… nella furia di parole e gesti omicidi, introduce una pausa di silenzio; non si oppone a viso aperto, li avrebbe fatti infuriare ancora di più.
Poi, spiazza tutti i devoti dalla fede omicida, dicendo solo: chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei.
Peccato e pietre? Gesù scardina con poche parole limpide lo schema delitto/castigo, quello su cui abbiamo fondato le nostre paure e tanta parte dei nostri fantasmi interiori. Rimangono soli Gesù e la donna, e lui ora si alza in piedi davanti a lei, come davanti a una persona attesa e importante. E le parla. Nessuno le aveva parlato: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno, vai. E non le chiede di confessare la colpa, neppure le domanda se è pentita. Gesù, scrive non più per terra ma nel cuore della donna e la parola che scrive è: futuro.
Va’ e d’ora in poi non peccare più. Sette parole che bastano a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non rimane più nulla, cancellato, annullato, azzerato. D’ora in avanti: «Donna, tu sei capace di amare, puoi amare ancora, amare bene, amare molto. Questo tu farai…». Non le domanda che cosa ha fatto, le indica che cosa potrà fare. Lei non appartiene più al suo sbaglio, ma al suo futuro, ai semi che verranno seminati, alle persone che verranno amate.
Il perdono è qualcosa che non libera il passato, fa molto di più: libera il futuro. E il bene possibile, solo possibile, di domani, conta di più del male di adesso. Nel mondo del vangelo è il bene che revoca il male, non viceversa.
Il perdono è un vero dono, il solo dono che non ci farà più vittime, che non farà più vittime, né fuori né dentro noi.

(Letture: Isaia 43,16-21; Salmo 125; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11)

La spiritualità narcisistica è nemica della spiritualità e della liturgia cristiana

 

il “narcisismo spirituale”

di Goffredo Boselli
in “Vita Pastorale” del febbraio 2022

Una delle maggiori difficoltà di cui oggi la liturgia soffre è la spiritualità attualmente prevalente nel cattolicesimo europeo. Le tendenze oggi dominanti all’interno della spiritualità non sono radicate nell’oggettività delle Scritture, del messaggio cristiano e del rito liturgico, ma perlopiù nella soggettività dell’esperienza individuale. La vita spirituale proposta si nutre sempre meno dell’ascolto comunitario e personale dei racconti biblici, ma dell’ascolto delle narrazioni individuali, di ciò che si sente e si esperimenta interiormente. Secondo molti osservatori, ciò ha creato un “narcisismo spirituale”, effetto e riflesso di quello che Joel Paris ha definito “narcisismo culturale”. Concetto che ha forgiato per descrivere come la società moderna incoraggi le persone a concentrarsi su sé stesse favorendo l’indebolirsi dei legami con la comunità.
I libri di spiritualità che in Italia, a partire dagli anni ’90, hanno formato una buona parte della generazione di credenti sono stati quelli di Carlo M. Martini, Enzo Bianchi, Gianfranco Ravasi, André Louf, per citare solo i più noti. Testi che hanno a fondamento la parola di Dio, l’episodio evangelico, la persona di Gesù Cristo, la vita ecclesiale, e conducevano alla testimonianza, alla cura del prossimo, al dialogo con il mondo,
all’impegno politico.
Questi testi hanno oggi lasciato spazio a pubblicazioni che diffondono una spiritualità psico-antropologica,
i cui temi maggiori sono la cura di sé, il senso del limite, la guarigione interiore, lo stare bene con sé stessi… Temi antropologici e psicologici che si reggono attingendo alle scienze umane e, talvolta, perfino a romanzi e racconti fantasy. Non hanno neppure lo spessore delle grandi virtù morali come l’integrità, il coraggio, la tenacia di cui Mounier e Guardini sono maestri, ma propongono stati emotivi come la fragilità, il garbo, l’umorismo. Il riferimento a Gesù Cristo o al brano biblico serve solo a confermare l’assunto centrale che, in realtà, è autonomo dalla parola evangelica.
Se nella devotio moderna si viveva del culto del santo o della pratica devota, nella devotio post-moderna l’io è il vero tempio, il proprio benessere psico-spirituale il solo culto, la soddisfazione dei propri desideri la sola preghiera, la contemplazione di sé l’unica liturgia. Denunciando la scomparsa dei riti nella società attuale, il filosofo Byung-Chul Han spiega quanto oggi ce ne sia più che mai bisogno, dal momento che «i riti si sottraggono all’interiorità narcisistica […] i riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Essi depsicologizzano, deinteriorizzano chi li inscena».
La spiritualità narcisistica è nemica della liturgia cristiana che è, invece, culto non di sé ma dell’Altro celebrato insieme ad altri. Facendo prendere distanza da sé riconosce il proprio peccato ed educa alla richiesta di perdono; distogliendo l’attenzione da sé chiede l’ascolto della parola di Dio; decentrando da sé stessi invita a intercedere per gli altri; celebrando la memoria del Corpo donato fa conoscere nel segno della condivisione del pane il comando a non vivere più per sé stessi. Una spiritualità che esclude la simbologia dei riti è destinata a creare credenti in sé stessi e non nel Vangelo di Gesù Cristo.
(goffredo.boselli@monasterodibose.it)

la crisi ecclesiale italiana generalizzata e di motivazioni

i preti abbandonano, ma i laici di più

 

Se fossero rimasti dei dubbi in merito, Diotallevi li spazza via del tutto: il clero italiano è in crisi. Il fenomeno dell’abbandono del sacerdozio ministeriale e la più generale crisi della fede nella Chiesa italiana è al centro dell’intervista di Sarah Numico al sociologo Luca Diotallevi, sul numero 2 di Regno-attualità 

 

Crisi di numeri

Innanzitutto numerica: in 30 anni c’è stato un calo di quasi il 20% dei presbiteri diocesani: da poco più di 36.000 si è arrivati a poco più di 29.000 nel 2020. L’età media supera i 61 anni; i preti che hanno meno di 30 anni sono 600. Intanto è cresciuta la fetta di sacerdoti stranieri che presta servizio nelle 25.595 parrocchie italiane e che oggi rappresenta l’8,3% del totale.
A questo calo in entrata, occorre aggiungere la crescita degli abbandoni. Per quasi due decenni, dopo il 2000, ci sono stati in media 40 abbandoni. Più o meno 1,3 per 1.000 presbiteri diocesani. Questa percentuale si è mantenuta tra lo 0,9% e il 2% fino al 2018.
Nel 2019 è schizzata a 7 abbandoni per 1000 presbiteri. Nel 2020 è di nuovo scesa un poco, a 3,6 per 1.000. Un altro fenomeno relativamente nuovo è che non si tratta più di abbandoni concentrati nel primo anno di presbiterato, ma spalmati lungo tutta la carriera.

Crisi di motivazioni

Poi formativo-motivazionale: dalla letteratura internazionale disponibile in merito, si può evincere che le ragioni dell’abbandono sono passate dalle crisi ideologiche degli anni Sessanta a crisi vocazionali dalle motivazioni psicologiche ed esistenziali. In estrema sintesi: non si riesce a reggere un ruolo diventato una maschera che socialmente non funziona più (cf. anche Regno-att. 2,2021,51; 16,2021,492).
Inoltre, la selezione nei seminari è fortemente diminuita. Il rapporto tra ingressi nei seminari e ordinazione oggi è arrivato molto vicino a 1, mentre in passato c’era una fortissima selezione. Un altro elemento nuovo è l’indisponibilità di un numero crescente di preti a fare i parroci, con un impegno che li vincoli a una comunità. Sempre più sacerdoti vogliono fare i battitori liberi, secondo il modello del prete-star. Se non si dà, subentra la delusione.

Crisi generalizzata

Tuttavia – conclude Diotallevi – la crisi è più generale e riguarda anche il laicato, il cui calo nella partecipazione alla vita ecclesiale è più rapido di quello dei preti. Il quadro è terribile non per i numeri – pochi preti – ma per la concezione del rapporto clero-popolo come elemento decisivo dell’autocomprensione della Chiesa. Il protagonismo clericale di preti in sempre minor numero e con sempre minor esperienza indebolisce e svilisce la Chiesa e si combina con una fuga dei laici.
Il punto non sta nel numero dei preti (tant’è che il fenomeno è presente anche nelle Chiese che scelgono il clero uxorato e l’ordinazione delle donne), ma è più di fondo: se un sacramento diventa un bene di consumo, s’attiva una dinamica per cui bisogna avere buoni venditori di quel bene. Questo però significa che, con estrema facilità, il consumatore religioso può cambiare il negozio di beni religiosi in cui fare acquisti.

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