il degrado di Napoli non è colpa dei rom – parola dei parroci di Miano

Miano
parroci invitano a superare gli stereotipi sui rom    versione testuale
“Il degrado a Miano non lo porteranno i rom, ma ha cause fortemente radicate in una criminalità organizzata che ha occupato, poi gestito, spazi vuoti”
Lo scrivono, in una nota inviata al Sir, i parroci di Miano (diocesi di Napoli), don Francesco Minervino, padre Lillo Di Rosa, don Salvatore Cinque, fra Gerardo Ciufo, padre Carlo De Angelis, dopo la decisione delle autorità competenti di sistemare dei rom “profughi” dall’incendiato campo di Scampia nell’ex caserma Boscariello a Miano e la protesta da parte di alcuni cittadini. “La gente del nostro quartiere è brava gente solidale e accogliente verso tutti e particolarmente verso coloro che sono in stato di disagio – sottolineano i parroci -. A Miano il degrado ha una storia antica fatta di non gestione, non soluzioni, rimandi. Questo intossica la convivenza e si arriva paradossalmente a prendersela con il più debole. Come in tutte le situazioni che non si affrontano, si accumula delusione e la delusione ha un prezzo: diventano tutti più elettrici, offensivi, difensivi. Ci sono situazioni che durano da anni e che la politica non risolve, distratta e troppo assente”. Di fronte “alle molteplici emergenze del nostro territorio, la Chiesa oggi si sente sotto pressione, perché chiamata a fare da ‘supplente’ in diverse emergenze. La Chiesa è accanto ai poveri, ma non ha il potere di sradicare la povertà. Alle politiche sociali, quando mancano o sono carenti, non è possibile rispondere in termini di supplenza”, evidenziano i sacerdoti. “Come normali cittadini e ancor più come cattolici siamo tenuti a superare e a far superare stereotipi e slogan che non fanno altro che diffondere pregiudizi e soprattutto non bisogna soffiare sul fuoco dell’odio razziale. Dobbiamo essere convinti che ogni essere umano, come ogni vita umana, merita sempre e comunque rispetto, anche chi questo rispetto sembra non meritarlo o volerlo. Può sembrare per alcuni un limite, ma segna la civiltà di un popolo”.
 

come calpestare spudoratamente la sofferenza di due suore generose per demonizzare il popolo rom

 ogni giornalista lo sa: un messaggio si fa passare mettendo un titolo ad effetto anche se non rispondente al vero e una conclusione che ribadisca il messaggio desiderato (come il calcio dell’asino!): è perfetto a questo scopo l’articolo di ‘secoloditalia’ sulle due suore che a Torino dopo una vita dedicata ai rom, ricevendone reciprocamente stima e affetto, lasciano ora il campo per una situazione di grave abbandono da parte delle istituzioni amministrative e dell’ordine pubblico: articolo che strumentalizza spudoratamente  questa situazione per far passare il messaggio che le due suore tirino i remi in barca deluse e frustrate dal popolo rom che pensavano redimibile e invece si rendono conto – finalmente . che tutto era e resta “inutile”! La conclusione  dell’articolo non è che la ciliegina che dà il tocco di completezza al messaggio!
di seguito l’articolo uscito su ‘secoloditalia’:

anche le suore si arrendono:

“non aiuteremo più i rom, è inutile…”

Anche le suore si arrendono: “Non aiuteremo più i rom, è inutile…”

La loro storia mette tristezza e allo stesso tempo fa riflettere. Dopo 38 anni di volontariato nei campi rom di Torino, due suore, ormai anziane ma ancora attivissime, hanno deciso di ritirarsi, di non aiutare più i nomadi in quell’ambiente diventato pericoloso e ingestibile. Troppa prepotenza, arroganza, bugie su bambini mandati a scuola e invece tenuti al pascolo, risate contro i volontari, considerati intrusi. La vicenda, raccontata dalla Stampa, riguarda le suore Luigine, religiose, sorelle, 78 e 77 anni, dedite per una vita ad aiutare i sinti e i rom, negli ultimi quindici anni in via Germagnano, nel campo più importante di Torino.

“Troppe prepotenze e nessun ruolo dei genitori”

«Lì vivono 30 famiglie con la residenza, da cinque-sei anni quel campo vive un momento brutto. Le pietre lanciate di notte contro la roulotte di un poveretto da ragazzi, sono il segno che mancano i genitori, che non c’è più autorevolezza. La scuola è trascurata, i ragazzi non ci vanno, i genitori non insistono. Il pulmino che li portava non c’è più e per le famiglie è difficile accompagnarli: se li mettono sul furgone capita che appena usciti dal campo prendano la multa. Poi, l’impressione è che il diploma di terza media venga dato con una facilità che non è educativa”, è la sintesi del pensiero delle due suore raccolto dalla Stampa. Ma cos’è accaduto di così grave da far allontanare le due religiose? “Cinque-sei anni fa è arrivata gente che minacciava, bruciava le case, poi le occupava. Ora piazzano i camper dentro l’area, se ci sono controlli se ne vanno. Alcune famiglie in regola se ne sono andate. Noi – tengono a ribadire – non siamo andate via per i rom, ma per l’abbandono: nonostante questa situazione che colpisce i deboli, là non vanno più né vigili, né cooperative. I volontari vengono derisi. Ci avevano detto, in caso di necessità di chiamare la polizia, finito l’orario dei vigili, ma in sei mesi non è mai arrivata”.

Se si sono arrese loro, figuriamoci chi non ha l’aiuto della fede…

fonte: secoloditalia

le ‘suore luigine’ lasciano a Torino il campo rom ma non i rom

le suore lasciano i campi rom

“troppi prepotenti, costrette a mollare dopo trentotto anni”

le religiose:
“in via Germagnano serve la presenza delle forze dell’ordine e degli educatori”

suor Rita e suor Carla sono suore Luigine, una congregazione nata nel 1915 ad Alba

dal 1979 sono vissute prima tra i sinti e poi tra i rom della ex Jugoslavia

maria teresa martinengo

«vi chiudiamo dentro, così non andate via. Se ve ne andate questo campo non sarà più come prima»,

ha detto un capofamiglia rom a Rita e a Carla. Ma loro, le suore Luigine che hanno vissuto 38 anni nei campi nomadi di Torino, con le lacrime agli occhi un mese fa hanno lasciato la loro casetta di via Germagnano. «Avremmo voluto restare, ma la nostra età e le condizioni del campo non lo permettevano più», raccontano le religiose, sorelle, 78 e 77 anni. Una frase a testa, con serenità e malinconia insieme, le suore Luigine che ai sinti e ai rom hanno dedicato la vita, dando una mano con i bambini, con le medicazioni, con la burocrazia, raccontano.  

PRESENZA AMICA  

«La nostra è stata e continua ad essere, perché siamo già tornate più volte, una presenza di amicizia, condivisione di vita». Dal 1979 in via Lega, tra i sinti, poi all’Arrivore, gli ultimi quindici anni in via Germagnano. «Ma il campo comunale di via Germagnano, dove vivono 30 famiglie con la residenza, da cinque-sei anni vive un momento brutto. L’abbiamo detto in Comune: l’abbandono in cui versa è un segnale negativo per i rom prima di tutto». Le suore, che raramente si sono espresse in tutti questi anni, ammettono che «le pietre lanciate di notte contro la roulotte di un poveretto da ragazzi, sono il segno che mancano i genitori, che non c’è più autorevolezza». La scuola è trascurata. «I ragazzi non ci vanno, i genitori non insistono. Il pulmino che li portava non c’è più e per le famiglie è difficile accompagnarli: se li mettono sul furgone capita che appena usciti dal campo prendano la multa. Poi, l’impressione è che il diploma di terza media venga dato con una facilità che non è educativa».   

TROPPI PREPOTENTI  

Rita e Carla hanno pianto. «Saremmo rimaste, ma non aveva più senso stare in un posto di cui non si cura più nessuno. Per un po’ ci siamo fermate a pensare alla proposta che i sinti di via Lega, di fronte a via Germagnano, ci hanno fatto. Ci volevano di nuovo con loro, si sarebbero accollati la spesa per comperarci una casa mobile. Ma alla nostra età non avrebbe avuto senso. Così abbiamo accettato la casa che don Ciotti ci ha offerto», spiega Rita. «Certo – aggiunge la sorella, guardandosi intorno nell’appartamento dove si trovano provvisoriamente – per noi come per i rom è difficile abituarci a una casa. Il campo è un’altra vita. Al mattino presto là c’era sempre qualcuno che gridava se volevamo un caffè…».  

I problemi sono arrivati dai prepotenti. «Cinque-sei anni fa è arrivata gente che minacciava, bruciava le case, poi le occupava. Ora piazzano i camper dentro l’area, se ci sono controlli se ne vanno. Alcune famiglie in regola se ne sono andate. Noi – tengono a ribadire – non siamo andate via per i rom, ma per l’abbandono: nonostante questa situazione che colpisce i deboli, là non vanno più né vigili, né cooperative. I volontari vengono derisi. Ci avevano detto, in caso di necessità di chiamare la polizia, finito l’orario dei vigili, ma in sei mesi non è mai arrivata».  

LAVORO PER LE DONNE  

Per Rita e Carla un’altra estate là non sarebbe più stata possibile. Se avessero lasciato la casetta per qualche settimana di riposo, al ritorno probabilmente avrebbero trovato brutte sorprese. Per far sì che il Comune potesse assegnarla a una famiglia in regola e bisognosa, e non venisse, al contrario, occupata da prepotenti, le suore sono rimaste fino all’ultimo: «Mentre uscivamo – ricordano – è entrata una giovane coppia in attesa di un bimbo». Così anche le famiglie vicine in regola sono state protette. «C’era chi ci diceva: se la vostra casa se la prendono “quelli là” noi dovremo andare via». Rita e Carla le loro idee per restituire a via Germagnano un po’ di dignità le hanno spiegate in Comune: «Presenza delle forze dell’ordine, subito, lavoro educativo nel campo. E lavoro per le donne». 

la bambina rom più intelligente di Einstein

Nicole Barr

la ragazzina rom
con il QI più alto di Einstein

Una volta qualcuno ha detto che sarebbe ingiusto affermare che abbiamo tutti le stesse abilità, ma che sarebbe altrettanto giusto sostenere che, per ogni persona che ha raggiunto il successo, ce ne sono tante altre che avrebbero ottenuto i medesimi risultati se soltanto ne avessero avuto la possibilità materiale. Ora, questa non è la storia di un talento soffocato, per fortuna, ma è la storia di un talento scovato in una roulotte, nella periferia di Londra. Di una ragazzina a cui devono essere fornite le possibilità di cui si parlava prima. Ma ogni cosa per ordine.

La ragazzina è un’adolescente rom di dodici anni e si chiama Nicole Barr. Ama leggere, soprattutto Shakespeare, è appassionata di recitazione e da grande vuole fare il medico. Ad Harlow, dove vive con la sua comunità, è diventata famosa grazie alla sua spiccata e straordinaria intelligenza. All’età di dieci anni risolveva complicati problemi di algebra, da piccola completava i puzzle in pochissimi secondi e ha sempre avuto una memoria prodigiosa: «Ricordo che quando ero alle elementari e facevo l’angelo in una recita scolastica, una compagna di classe non si presentò e io ho imparato tutte le sue battute», ha raccontato Nicole all’Herts and Essex Observer.

Inoltre, ha piacere a passare molto tempo in compagnia degli adulti, più che con i suoi coetanei, e approfondisce volentieri le materie di studio. Il padre James, che lavora come addetto alla pulizia delle strade, sapeva che la figlia era un genio e perciò ha insistito perché facesse il test per quantificare il suo quoziente intellettivo. Nicole ha riportato un punteggio di 162, più di Albert Einstein – che non è chiaro se abbia fatto il test o meno – e sicuramente più di Stephen Hawking, che si “ferma” a un Q.I. di 160.

Una sorpresa per Nicole. Una persona media ha un quoziente d’intelligenza che si aggira sui 100. Intorno al 132 si appartiene al 2 percento più alto e questo permette di entrare nel gruppo Mensa, che raccoglie gli uomini e le donne più svegli del pianeta. Dai 140 punti in su, invece, si è particolarmente dotati. Ma 162 punti non li aveva mai fatti nessuno; Nicole è la prima. La portavoce della Mensa, Ann Clarkson, ha affermato: «Il quoziente intellettivo di Nicole la colloca comodamente all’interno dell’1 percento della popolazione». Per la precisione, sono 110mila le persone che appartengono all’associazione e per lo più sono maschi (65 percento). Solo l’8 percento ha meno di sedici anni.

Il risultato del test ha sconvolto e sorpreso Nicole: «Quando ho scoperto di aver avuto un punteggio così alto, sono rimasta scioccata». Scioccata e felice, come i rom di Harlow, tra cui da tempo si era sparsa la voce che Nicole fosse veramente una fanciulla brillante. Il padre, James, ha commentato: «Questo dimostra che non importa da dove vieni. Tanto per cambiare, la comunità rom fa notizia per qualcosa di bello». La mamma Dolly, che è separata dal marito, descrive con tenerezza la figlia, dicendo che fin da piccola scovava errori nei libri e nelle riviste e che l’intelligenza in lei non fa coppia con tristezza o eccessiva pensosità; Nicole è una ragazzina allegra, divertente e molto studiosa. Una ragazzina normale, verrebbe da dire – e, in fondo, lo è davvero, come lo siamo tutti noi, nella nostra singolare unicità.

Molta intelligenza, ma altrettanta determinazione. Nicole non perde un giorno di lezioni, come ha detto la preside della sua scuola, Helena Mills: «Nicole è una studentessa brillante. Lavora tantissimo e si è buttata in molte attività, durante il suo primo anno qui da noi. Ad esempio, ha fatto campeggio, ha partecipato a competizioni di scrittura e ha preso parte a una sfida di matematica. Vive e respira il nostro motto non ufficiale, e cioè che il duro lavoro ripaga». Nicole ha numerosi interessi e quest’estate parteciperà ad una recita della Dodicesima Notte di Shakespeare.

Tra i suoi tanti impegni e le ore di scuola, Nicole non perde però di vista il suo obiettivo, che è quello di andare all’università e diventare un pediatra. Oltre a essere davvero intelligente, infatti, è anche molto determinata, come racconta la mamma, e questo le sarà sicuramente utile per affrontare le sfide che l’attendono. Nicola continuerà a vivere con la famiglia e seguirà il suo percorso di studi con l’entusiasmo che l’ha accompagnata finora. Ed è quasi inevitabile che, a questo punto, ci scappi pure un augurio, per la giovane rom di Harlow e per la speranza che ha acceso.

straparlare di integrazione e mettere continuamente bastoni fra le ruote

Donne Rom

Milano

caro Tar, così i Rom non si integreranno mai

respinto il ricorso di una cittadina rom che aveva chiesto l’equiparazione del provvedimento di sgombero, con cui aveva dovuto abbandonare il campo regolare in cui risiedeva, a uno sfratto. Avrebbe così aumentato le chance di ottenere una casa popolare. La protesta delle associazioni: «La sentenza è uno stop all’effettivo superamento dei campi»

Una battaglia giudiziaria da continuare, per sostenere il diritto dei rom alla casa. Così Fondazione Casa della carità e Sicet si sono espresse in merito alla recente sentenza con cui il Tar della Lombardia ha rigettato il ricorso presentato da N.H., ex residente del campo di via Idro, la quale chiedeva che il provvedimento di sgombero dell’insediamento, dove abitava regolarmente dal 1996, fosse equiparato allo sfratto in termini di punteggio per l’assegnazione della casa popolare.

Secondo Casa della carità e Sicet, che insieme a European Roma Rights Centre hanno supportato il ricorso, la sentenza rappresenta infatti uno stop all’effettivo superamento dei campi e a una reale inclusione sociale e abitativa dei rom, sancita anche dalle Linee guida Rom, Sinti e Caminanti approvate nel 2012 dall’allora Giunta Pisapia. “Rispettiamo la sentenza del Tar, ma non ne condividiamo le valutazioni nel merito. Riconoscere per le famiglie sgomberate solo il punteggio di “sistemazione abitativa impropria” è l’interpretazione, restrittiva ed ideologica, che il Comune ha adottato fino ad ora. Invece, equiparare lo sgombero di un campo a un provvedimento amministrativo diretto al rilascio dell’alloggio non è illegittimo, visto che le famiglie di via Idro sono state forzosamente allontanate dalle loro abitazioni in base a una ordinanza sindacale”, è la posizione del Sicet.

La chiusura di via Idro, un campo comunale autorizzato, dove dal 1989 erano regolarmente residenti decine di famiglie, era stata decisa alla fine del 2015 proprio in attuazione di quelle linee guida che, tra le altre cose, prevedevano “l’accesso ordinario all’edilizia residenziale pubblica, secondo le regole in vigore” per raggiungere l’obiettivo di superare “i campi come soluzione abitativa a tempo indeterminato, attraverso percorsi di inclusione e convivenza”. Proprio in virtù di questi principi e dal momento che le famiglie sgomberate dal campo di via Idro non erano lì abusivamente, ma erano regolarmente residenti, Casa della carità e Sicet hanno ritenuto legittimo il ricorso di N.H., scegliendo di sostenerla insieme a European Roma Rights Centre.

“Il superamento dei campi, sostenuto sia a livello comunale che nazionale, non è in discussione. Esso però richiede un accompagnamento delle famiglie verso soluzioni abitative stabili, altrimenti la chiusura dei campi significa far diventare nomadi persone che non lo erano o rendere permanenti soluzioni che invece dovrebbero essere temporanee”, dice in proposito don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità. Secondo la Fondazione, in un momento in cui tanti sono tornati a parlare della chiusura dei campi, dare una reale alternativa significherebbe, per esempio, l’inserimento nel regime delle case popolari di quei nuclei a cui, come nel caso di via Idro, un Comune aveva assegnato a tempo indeterminato un’area ad uso abitativo. In casi come questo, l’equiparazione dello sgombero di un campo regolare allo sfratto rappresenterebbe uno strumento importante per promuovere l’inclusione abitativa delle famiglie che lì avevano una vera e propria casa.

A. Langer vedeva molto lontano e parlava con rispetto anche dei sinti e dei rom che tutti si sentono in diritto di disprezzare

I sogni senza limiti di Alexander Langer

Alexander Langer. - Giovanni Giovannetti
Alexander Langer

“la convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”

Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita”. (…) “La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.

Così scriveva Alexander Langer nel 1994, nel Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, uno dei suoi testi più profondi e generativi che, fosse per me, lo ripubblicherei di continuo e lo consiglierei per le antologie scolastiche. In uno dei punti del decalogo sottolineava “l’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”. Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.

In quegli anni si era nel pieno del conflitto che stava insanguinando le regioni dell’ex Jugoslavia e Alex fu tra i pochi politici italiani ed europei a impegnarsi, con tutto se stesso, per tentare una soluzione pacifica e tenere aperta la comunicazione tra coloro che si opponevano al conflitto, dando vita con altri al Verona forum per la pace e la riconciliazione nei territori dell’ex Jugoslavia, che fu un luogo dove si riunirono gli oppositori alla guerra provenienti delle diverse regioni in conflitto.

Langer sentiva la violenza interetnica nella sua carne perché era nato nel 1946 a Vipiteno, nel Südtirol di lingua tedesca. Suo padre, nato a Vienna, era ebreo non praticante e sua madre era convintamente laica.

Vissuto in una famiglia aperta al dialogo, scelse di frequentare il liceo italiano dei francescani a Bolzano, città dove con altri ragazzi fondò la sua prima rivista, Offenes Wort (parola aperta) e, più tardi, Die Brücke (il ponte): un simbolo che avrebbe incarnato per tutta la vita, sia nell’audacia del segno capace di collegare due sponde distanti, sia nella fatica concreta del cercare e trovare e trasportare le pietre che possano incastrarsi tra loro per tenere su l’arco.

Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita

Il modo originale con cui Alex ha vissuto la difficile convivenza nell’Alto Adige-Südtirol lo ha portato a ragionare intorno alle contraddizioni interetniche in modo non ideologico, rifiutando ogni semplificazione.

Alex era perfettamente bilingue per scelta e il plurilinguismo in lui, che passava continuamente nei suoi ragionamenti dal tedesco all’italiano, era un piccolo allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni dell’altro perché – come scrisse citando Ivan Illich – aiuta a “ripristinare, nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.

Quando studiava nella Firenze di La Pira e della comunità del dissenso cattolico dell’Isolotto, tradusse in tedesco Lettera a una professoressa, scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana di don Milani. La sua velocità di traduttore era proverbiale, tanto che riuscì a rendere in simultanea in tedesco, sulla scena, il rapido affabulare e i molteplici dialetti portati in teatro da Dario Fo nel suo Mistero buffo, al tempo della sua tournée in Germania.

Alex era profondamente convinto che una “storia” unica e condivisa da tutti non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi. L’essere nato in una regione plurietnica lo aveva infatti vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.

Del resto il suo spirito profondamente libero e ribelle gli ha sempre reso insopportabili tutti i confini, a partire da quelli che delimitavano il suo campo. Nel 1977 a Roma, durante una manifestazione sfociata in violenti scontri, Alex non esitò a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto ferito perché era evidente, per lui, che ogni vittima va soccorsa, al di là di ogni schieramento, perché il suo imperativo morale lo portava a stare sempre a fianco di chi era più fragile e vulnerabile.

Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita.

Ascoltate per esempio il modo in cui racconta dei rom e dei sinti:

Popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo sottilmente ‘altro’ e ‘trascendente’ rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi. Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte della storia e dell’identità europea. (…) A differenza di tutti gli altri, rom e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno.

La distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di ‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati

Pensare che scelte di vita radicalmente altre possano essere di nutrimento per tutti è stata una delle convinzioni visionarie che Alex non ha mai abbandonato. Ma in queste sue parole riconosciamo anche dei tratti del suo carattere, perché Alex ha sempre desiderato passare “sopra e sotto i confini” di ogni genere, da incessante viaggiatore e tessitore di relazioni qual era.

Provando a condensare in affermazioni icastiche il suo pensiero, a volte Alex formulava quelle che chiamava “regolette”. Eccone una: “Ciascuno di noi non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare tutti i sei miliardi di abitanti del pianeta”. Questa regoletta limpidamente kantiana è, al tempo stesso, evidentemente necessaria eppure difficilmente attuabile, perché chi vive nel nord opulento del mondo difficilmente rinuncerebbe ai suoi privilegi.

Eppure, “perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, spiega Langer in un altro suo scritto, “è necessaria una conversione ecologica della produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della vita quotidiana. Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza)”. Un vero “regresso” rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte, da trasformare in “più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente”.

Continuare in ciò che è giusto

Alex, grazie alle sue frequentazioni tedesche, fu tra i primi in Italia a cercare di dare vita a un movimento verde che avesse anche rappresentanza istituzionale. Ma per indole, pur costruendo di continuo luoghi concreti di scambio, non si è mai accontentato di coltivare qualche piccolo orto o consolidare posizioni di potere stando nelle istituzioni. Pur essendo stato molto apprezzato per il suo lavoro nel parlamento europeo, in quel luogo sentiva di essere testimone di passaggio, rilanciando sempre in avanti il suo impegno, attento a ciò che sentiva più urgente e necessario.

Quando ideò nel 1988, insieme ad altri, la Fiera delle Utopie Concrete a Città di Castello, volle che in quell’appuntamento internazionale fossero presenti rappresentanti dell’Europa dell’est ben prima della caduta del muro di Berlino.

E poiché il tema della conversione ecologica riguardava tutti, gli sarebbe piaciuto che Città di Castello si trasformasse in una sorta di moderna Santiago di Compostela, cioè un luogo di pellegrinaggio laico europeo, dove recarsi per ascoltare e mostrare e condividere progetti concreti di conversione ecologica nei campi più diversi. L’immagine di Santiago mostrava bene come ad Alex premeva l’idea del lungo cammino, insieme individuale e collettivo, necessario perché le idee di trasformazioni radicali, sentite come necessarie, avessero il tempo di prendere corpo in individui concreti e in piccole comunità capaci di sperimentare concretamente le trasformazioni auspicate.

Quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta

Il desiderio di essere “più lento” è condizione che negli ultimi anni è sempre meno riuscito a vivere, perché incapace di sottrarsi a impegni e urgenze sempre più pressanti. Ma quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta.

Il pomeriggio del 3 luglio 1995, a 49 anni, Alex si è tolto volontariamente la vita impiccandosi a un albicocco a Pian dei Giullari, alle porte di Firenze.

Eppure, anche in quel momento di massima disperazione, ha sentito il bisogno di rassicurare gli amici, scrivendo nell’ultimo dei suoi tanti bigliettini: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.

Tre anni prima, quando si era tolta la vita la leader verde tedesca Petra Kelly, Alex l’aveva ricordata con queste parole: “Forse è troppo arduo essere individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”.

Quest’anno il premio Alexander Langer è stato assegnato ad Adopt Sebrenica, un gruppo di giovani di diversa nazionalità impegnati a tessere un dialogo nel paese dove nel luglio del 1995 si è consumato il più violento episodio di pulizia etnica dell’Europa del dopoguerra, con il genocidio di 8.372 musulmani di Bosnia commesso dalle truppe di Ratko Mladić.

Vent’anni fa Alexander Langer, il più lungimirante tra i nostri politici, ci ha lasciato “più disperato che mai”. Ma i suoi pensieri e il suo esempio credo abbiano ancora molto da insegnare a chi non voglia accettare che il mondo viva sotto il ricatto dell’etnocentrismo, che Alex definì “l’egomania collettiva più diffusa oggi”.

p. Zanotelli chiede dove sono finiti circa 700 rom sgomberati senza alternative

i nostri fratelli rom
di Alex Zanotelli

 

In Italia i rom che vivono nelle baraccopoli sono 28mila. La presenza complessiva in Italia è stimata tra le 120.000 e le 180.000 unità. Sono dati che emergono dal Rapporto Annuale sulla condizione di rom e sinti in emergenza abitativa in Italia, effettuato dalla Associazione 21 luglio e presentato in Senato l’8 aprile in occasione della Giornata internazionale dei rom e dei sinti.
I 28.000 rom in emergenza abitativa rappresentano lo 0,05% della popolazione italiana e sono dislocati in 149 baraccopoli istituzionali, gestite dalle autorità pubbliche e presenti in 66 comuni; in 3 centri di raccolta; in insediamenti informali con 10mila persone, per il 90% di nazionalità rumena.
Le condizioni di vita dei rom che vivono in questi insediamenti sono nettamente al di sotto degli standard igienico-sanitari e l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore rispetto alla media della popolazione italiana.
Lo scorso aprile abbiamo fatto memoria della crocefissione di Gesù. Spesso, anche senza accorgerci, continuiamo a crocifiggere il povero Cristo degli impoveriti, degli emarginati, di quegli scarti che papa Francesco ama chiamare «la carne di Cristo».
Tra questi scarti in Italia ci sono senza dubbio i rom. Come Comitato campano con i rom, siamo impegnati da anni a denunciare le situazioni degradanti. L’ultima è quella relativa allo sgombero del campo rom di via Sant’Erasmo alle Brecce, nel quartiere Gianturco di Napoli. Vi vivevano circa 1500 persone in un contesto disumanizzante. Ho visto situazioni simili solo nelle baraccopoli in Kenya.
Lo scorso anno la Procura di Napoli ha deciso lo sgombero del campo di Gianturco perché ha valutato che sia un’area inquinata e non adatta per viverci. L’amministrazione comunale ha continuato a chiedere proroghe per guadagnare tempo e trovare soluzioni alternative. Nel frattempo, però, ha messo in atto una sorta di mobbing comunale, inviando al campo poliziotti e vigili urbani per sollecitare i rom ad andarsene. E in effetti non pochi rom se ne sono andati e hanno cercato altri spazi dove collocarsi.
Infine il comune ha aperto un campo attrezzato in via del Riposo, a fianco al grande cimitero di Poggioreale. Un campo che Amnesty International definisce «un lager», si tratta infatti di container allineati uno dietro l’altro… Comunque il 7 di aprile il comune ha accompagnato 130 persone rom in questo nuovo campo, annunciando che l’11 aprile avrebbe demolito quello di Sant’Erasmo alle Brecce. Invece la demolizione è avvenuta il 7 aprile stesso.
Per noi è stato un pugno allo stomaco. Anche per il silenzio che ha circondato l’intera vicenda, in particolare della regione, alla quale chiediamo da tempo la convocazione di un Tavolo per studiare soluzioni serie per i rom.
Per questo noi del Comitato campano con i rom e altre realtà della regione abbiamo deciso di manifestare l’11 aprile davanti al municipio di Napoli. Abbiamo portato alcune gigantografie della demolizione del campo, le abbiamo circondate di filo spinato e collocato una grande scritta “le ruspe del comune”. Abbiamo detto al sindaco Luigi de Magistris, che si vanta di una Napoli accogliente, che quella delle ruspe non si può definire accoglienza!
Ad oggi non sappiamo dove si trovino almeno 700 persone che erano nel campo di Sant’Erasmo alle Brecce. È chiaro che andranno a rimpinguare i ghetti che già ci sono o a formarne di nuovi.
Di questa vicenda voglio sottolineare un episodio. Quando ancora il campo rom di Gianturco era funzionante sono entrato con altri del Comitato e una donna ci ha urlato in faccia per dieci minuti: “Ci trattate come animali, ci schiacciate, ci disprezzate. Noi non siamo animali”.
Non dimenticherò questa voce. Nemmeno la celebrazione che della Pasqua che abbiamo fatto, insieme alla Chiesa valdese, il 15 aprile Sabato Santo, come segno di speranza, di resurrezione e di solidarietà con un popolo che non patria, non ha esercito, non ha mai fatto una guerra.
Possiamo stare certi che, se continuiamo a trattare i rom come stiamo facendo, siamo destinati a sbranarci a vicenda. O ci trattiamo tutti come fratelli o non c’è futuro.

sgomberi da morire

diventa un caso la rom morta a seguito di uno sgombero del campo rom all’insaputa dell’amministrazione milanese
 morire a Milano, sdraiata su un materasso sotto le stelle, perche’ non si ha altro. Ne’ una baracca, ne’ una tenda. E’ la tragica e dolorosa fine di M., donna rom di 42 anni, malata di cuore. Un cuore che ha smesso di battere pochi minuti dopo la mezzanotte del 28 maggio.
Due giorni prima, insieme ad una decina di altre famiglie (in tutto una settantina di persone), era stata sgomberata dall’accampamento di fortuna, che in questi mesi si era creato nel boschetto attiguo al Centro di emergenza sociale (Ces) del Comune di Milano di via Sacile. Centro nel quale vivono altri rom, circa 220 su una capienza di 140, tra i quali anche la sorella di M.
Secondo la Rete rom (alla quale aderiscono Associazione ApertaMente di Buccinasco, Associazione Upre Roma, Associazione di Promozione sociale Fabrizio Casavola, GRT e Naga), si e’ trattato di uno sgombero “senza preavviso, senza assistenti sociali e senza proposte alternative”.  Per il diritto internazionale, le persone sgomberate dovrebbero ricevere subito un’alternativa valida e lo sgombero dovrebbe essere notificato in maniera scritta. Ma venerdi’ scorso l’assessorato alla sicurezza, guidato dall’assessore Carmela Rozza, non ha avvisato quello alle Politiche sociali di Pierfrancesco Majorino. “Venerdi’ ero all’assessorato alle politiche sociali per un appuntamento e mi hanno chiamato alcune famiglie rom per dirmi dello sgombero- racconta Djana Pavlovic, portavoce della Rete Rom- E li’ in assessorato non ne sapevano nulla”.
Tra le persone sgomberate, oltre a M. cardiopatica, c’erano anche una ragazza appena dimessa dall’ospedale e una donna incinta. Oltre ad alcuni bambini.
“Sono rimasti senza nulla, visto che la polizia locale ha distrutto tutto, anche le tende- aggiunge- Ho fatto presente che c’erano situazioni particolarmente delicate”.
L’assessorato alle Politiche sociali, vista la situazione, ha allora dato appuntamento a queste famiglie piu’ a rischio per mercoledi’ 31 maggio. Troppo tardi per M. La morte di M. rivela, pero’, che c’e’ una Milano nascosta, con poveri piu’ emarginati di altri poveri.
Con la giunta di Giuliano Pisapia, la competenza sui rom, sugli sgomberi e sui centri di emergenza sociale era dell’assessorato alla Sicurezza e coesione sociale, guidato da Marco Granelli. Con l’elezione di Sala, si e’ creato un vuoto, con gli assessori Rozza e Majorino che non hanno fatto certo a gara per assumersi l’onere di occuparsene. Tanto che anche chi gestisce il Ces, ossia Casa della Carita’ e Padri Somaschi, in un comunicato stampa di ieri pomeriggio, sottolinea che “risulta necessario ripristinare un’efficace collaborazione tra istituzioni e terzo settore affinche’ le persone vengano accolte nel centro nel miglior modo possibile e vengano trovate soluzioni positive anche per chi non aveva trovato in questi ultimi mesi un posto al suo interno, rimanendo per strada”. “Abbiamo piu’ volte chiesto un incontro con l’assessorato alla sicurezza, senza ricevere risposta”, aggiungono interpellati da Redattore sociale.
La situazione dentro e fuori il Ces stava infatti peggiorando di mese in mese. “Il 24 maggio siamo andati con il nostro camper e il nostro medico in via Sacile- raccolta Nerina Vitali, volontaria del Naga, associazione che offre assistenza sanitaria a senza dimora e nelle baraccopoli- Ci avevano chiamato alcune famiglie ospiti del Ces, disperate. E la situazione che abbiamo trovato era allucinante”.
“C’erano circa 200 persone, in condizioni igieniche molto precarie. Siamo riuscite a visitarne una quarantina: chi aveva mal di denti, oppure mal di testa o lamentava altri tipi di malanni. In piu’ c’erano quelle accampate fuori, nel boschetto. E’ chiaro che li’ mancava una qualsiasi forma di assistenza sanitaria da tempo“.
Il Centro di emergenza sociale di via Sacile
Il Centro di emergenza sociale di via Sacile e’ stato costruito nella primavera del 2015. E’ costato 1,5 milioni di euro. Nelle intenzioni dell’allora assessore Marco Granelli andava a sostituire il Ces di via Lombroso e avrebbe dovuto “accogliere in un anno 600 persone appartenenti a famiglie con minori, di cui 350 provenienti da sgomberi di aree ed edifici occupati abusivamente”.
Il problema e’ che con la chiusura di via Lombroso e l’incendio dell’altro Ces, in via Quarenghi, via Sacile e’ rimasto l’unico centro. E di fatto il Comune non sa piu’ dove mettere chi viene sgomberato dai campi rom irregolari o dagli appartamenti occupati abusivamente.
Come sono andate le cose, quella notte?
La morte di M. non ha solo implicazioni sociali e politiche, ma potrebbe averne anche di carattere penale. I rom presenti la notte del 28 maggio, infatti, sostengono che l’ambulanza sia giunta “solo dopo oltre mezz’ora perche’ chi in quel momento era responsabile del Centro non si peritava di rispondere alle richieste di aiuto”, come si legge nel comunicato stampa della Rete Rom. L’azienda regionale (Areu) che gestisce il 118 replica che la prima telefonata di richiesta di soccorso e’ arriva alla mezzanotte e un minuto e che l’ambulanza sia giunta in via Sacile a mezzanotte e nove minuti.
“I rom mi hanno raccontato che hanno provato a chiamare anche prima di mezzanotte, ma non sapevano dare l’indirizzo- precisa Djana Pavlovic-. Per questo hanno cercato aiuto chiedendo al custode del Ces, che solo dopo tante insistenze ha aperto il cancello e chiamato il 118”. Ma Casa della Carita’ nega questa ricostruzione dei fatti. “Il custode del centro in turno ha risposto prontamente alle richieste di aiuto- precisa- chiamando i soccorsi dal telefono di servizio, che ha effettuato la chiamata dopo che altre persone vicine alla donna avevano gia’ a loro volta chiamato i soccorsi quando questa si era sentita male e proprio perche’ i soccorsi stessi non erano ancora arrivati”. Tre versioni dei fatti, che solo un’autorita’ giudiziaria potra’ eventualmente chiarire.
fonte: Redattore Sociale

le tre bambine rom bruciate vive ancora fanno riflettere

morire ai margini nell’Italia di oggi

traccia bruciante


Marco Impagliazzo

La tragica morte delle tre ragazzine rom, Francesca, Angelica ed Elisabeth, non è stata causata soltanto da quella scia di liquido infiammabile che gli inquirenti hanno trovato sulla strada vicino al camper dove vivevano. Seguendo a ritroso quella traccia, infatti, si arriva molto più lontano. Bisogna attraversare le fiamme della baracca in cui persero la vita quattro bambini rom in Via Appia Nuova a Roma nel 2011 e quelle che hanno bruciato Marius, tre anni, alla Magliana, nel 2010. Si deve passare per i roghi nei quali hanno perso la vita quattro bambini rom nelle baracche di Livorno nel 2007 e pochi mesi prima due giovani sposi a via Gordiani, a Roma. Una strage degli innocenti che ha colpito i piccoli di questa etnia: più di cento morti in una ventina di anni. Bisogna camminare all’indietro nel tempo, nello spazio e nel dolore per capire perché undici persone, di cui solo tre adulti, cittadini romani come noi, dormono ammucchiati in una scatola di lamiera ferma in un parcheggio di periferia, senza corrente elettrica, né acqua, in una città ricca e confortevole.
La famiglia colpita da questo tragico evento discende da parenti giunti in Italia dalla Jugoslavia, all’inizio degli anni Settanta in cerca di lavoro come artigiani e mai più tornati nella loro terra d’origine a causa delle guerre che hanno dilaniato quel Paese plurale negli anni Novanta. Ancora più indietro, i loro avi hanno conosciuto la persecuzione nazionalsocialista che ha strappato la vita a mezzo milione di rom uccisi nei campi di sterminio, tra i quali bambini vittime di crudeli esperimenti medici. Prima della guerra e dei nazionalismi, però, li si incontrerebbe tra impiegati, ufficiali, artigiani, giostrai e musicisti in tutta Europa. Li si vedrebbe vivere in case e quartieri normali. Ma ci si perderebbe anche tra le carovane che giravano i paesini del continente, sopravvivendo con mestieri ormai scomparsi. Solo la loro lingua, il romanès, un coacervo di tanti idiomi, dallo slavo al sanscrito, ci condurrebbe sicuri fino alle pianure dell’India.
Per compiere questo lungo viaggio non serve un passaporto. Muri, ghetti e fili spinati non li hanno mai fermati, solo umiliati e impoveriti. Basta uscire dai pregiudizi che ci fanno oscillare tra due sentimenti opposti: la repulsione ancestrale, dovuta a leggende nere, e il fascino folkloristico, l’idea che i loro figli non debbano andare a scuola, ma vagare liberi e scalzi. I rom rappresentano la più grande minoranza etnica in Europa, in Italia circa centocinquantamila, di cui la metà italiani. Non hanno mai reclamato un territorio o dichiarato guerra.
Quelli che vivono nei cosiddetti campi nomadi non si spostano più da decenni, ma continuano a vivere nella marginalità. La speranza di vita è di dieci-quindici anni inferiore ai non rom. La metà di chi vive nei “campi” ha meno di diciotto anni, di questi il 40% addirittura meno di quattordici. Dunque un popolo giovanissimo: ci si sposa presto – senza tanti calcoli sulla sussistenza o sulla casa – e si hanno molti figli, dettagli che colpiscono in un’Italia invecchiata e senza nascite. Non mancano i problemi di convivenza e di rispetto delle leggi: talvolta le cronache di furti o altri reati predatori vedono alcuni di loro come protagonisti. Altre volte non è facile accompagnarli in un percorso positivo. L’illusione della ricchezza senza sforzo ha risucchiato alcuni di loro verso la criminalità organizzata.
Eppure davanti alla morte dei bambini dobbiamo rimanere umani. La morte di un bambino deve suscitare il pianto e tante domande. Dobbiamo capire le cause che hanno provocato tragedie come quella della scorsa notte e agire perché più nessuno – rom, sinto o no – debba crescere stipato in una roulotte e morire in un incendio. Chi è credente può pregare per le vittime. A livello istituzionale, implementando la strategia nazionale di inclusione dei rom, per uscire dall’emergenza continua, basata su quattro diritti elementari per tutti: una soluzione abitativa vera e definitiva (non più campi, ma case), l’accesso alle cure mediche, un serio percorso di scolarizzazione e di inserimento al lavoro con incentivi, ma anche con un controllo capillare. Non solo alloggi, ma anche sanità, educazione e lavoro possono evitare tragedie e finalmente condurre da una scarsa tolleranza, un radicato pregiudizio e un reciproco sospetto a una piena inclusione.

Il musicista e professore rom a proposito della morte delle tre bambine rom bruciate vive

“strage figlia della segregazione. Raggi come gli altri sindaci”

intervista a

Alexian Santino Spinelli

a cura di Angelo Mastrandrea
in “il manifesto” del 11 maggio 2017

«È inutile che Virginia Raggi sia andata sul luogo della strage dopo che questa era avvenuta. Sarebbe dovuta intervenire prima, facendola finita con la politica della segregazione che da anni a Roma viene portata avanti contro i rom».

A botta calda dopo la morte delle tre sorelle nel rogo della loro roulotte a Centocelle, Alexian Santino Spinelli, musicista e docente universitario, autore di libri come Rom, questi sconosciuti (Mimesis editore), non si dice «meravigliato» dell’efferato fatto di sangue. Poteva accadere ed è accaduto, in una città (e un Paese come l’Italia) in cui i rom sono vittime di una «segregazione razziale» che, a suo parere, non è molto diversa da quella patita durante il nazifascismo. Parole nette e dure, anche se il movente dell’omicidio non è ancora chiaro e gli inquirenti tenderebbero a smentire la pista xenofoba.

Quello che è accaduto è mostruoso. Mi chiedo: che colpa potevano avere due bambini? Cose del genere non possono succedere in una società democratica. Invece avvengono perché i rom sono discriminati su base etnica. Qui stiamo parlando di cittadini italiani come tutti gli altri, la democrazia o vale per tutti o non è democrazia, e allo stesso modo la giustizia e l’uguaglianza. Quello che è accaduto a Roma è una grande sconfitta per la società democratica.

Lei chiede da anni la chiusura dei campi e denuncia il business a loro collegato. Le sembra che sia cambiato qualcosa con i 5 Stelle al Campidoglio?

Quando denunciavo la Tziganopoli romana mi consideravano come un pazzo, un personaggio sopra le righe. Invece i fatti mi hanno dato ragione. Mafia Capitale però non è finita: le associazioni che si occupano dei rom sono sempre le stesse. Se in quarant’anni hanno dimostrato di non essere all’altezza, perché sono ancora lì? Io sono un musicista e non un politico, ho sempre organizzato eventi culturali e artistici, ho portato la nostra cultura dove non era mai arrivata, ma non ho voluto mai partecipare a progetti sui rom, perché sapevo che servivano a mantenere lo status quo.

Perché i 5 Stelle non hanno pensato di cambiare qualcosa?

Raggi dovrebbe farla finita con le politiche di segregazione portate avanti dai sindaci che l’hanno preceduta. Dal questo punto di vista, non ci sono distinzioni tra destra e sinistra. Lo hanno fatto tutti.

Cosa si potrebbe fare in concreto, secondo lei?

Ad esempio, creare una Consulta romanì che affianchi le istituzioni sulle grandi questioni che riguardano i rom. A partire dal superamento dei campi, appunto. I rom non sono nomadi per cultura. Siamo stati deportati dall’India, questo non si chiama nomadismo ma mobilità coatta. Quelli che sono arrivati in Italia sono stati cacciati dalle loro case nell’ex Jugoslavia e in Romania. Colpisce che, a commento di un omicidio così efferato, si ascoltino lamentele sui furti ad opera dei rom invece che cordoglio per le giovani vite spezzate. È colpa di quei media che hanno instillato l’odio razziale nei cittadini. Ci sono trasmissioni televisive che non fanno altro. La responsabilità morale è loro e pure dei politici che da tempo dicono le stesse cose. È la stessa propaganda che si sentiva ai tempi del nazismo, quando si bruciavano le sinagoghe e le autorità se la ridevano e stavano a guardare. Non possiamo meravigliarci se poi accadono cose del genere, chiunque le abbia compiute. I centri di propaganda razzista andrebbero chiusi, le autorità dovrebbero intervenire. Oggi avviene come ai tempi del fascismo: alle vittime viene addossata pure la colpa dell’accaduto. Difficile sostenerlo, quando a morire sono due bambine innocenti e una ragazza. La lista dei bambini rom morti in tempo di pace è un bollettino di guerra. Non lo dico io bensì l’Unicef. Il nostro porrajmos (lo sterminio nazista dei rom e sinti, ndr) non è mai terminato. Non si può tacere di fronte a tanta disumanità. È una battaglia da combattere quotidianamente e nella quale, da patriota rom, sono impegnato. Mi sento per questo di rivolgere un appello a papa Francesco, per il quale ho avuto l’onore di suonare in un paio di occasioni: intervenga, abbiamo bisogno della sua solidarietà. Lui può fare più delle istituzioni, che tra l’altro rimangono in silenzio e non fanno nulla. È l’unica persona che può davvero aiutarci

image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi