Il canto di tutti: la colonna sonora della nostra vita
Gracias a la vida que me ha dado tanto
me ha dado la risa y me ha dado el llanto
así yo distingo dicha de quebranto
los dos materiales que forman mi canto
y el canto de ustedes que es el mismo canto
y el canto de todos que es mi propio canto
Gracias a la vida, gracias a la vida….
spagnolo nel testo, traduzione in nota
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Hai mutato il mio lamento in danza
Hai mutato il mio lamento in danza,
la mia veste di sacco in abito di gioia,
perché il mio cuore ti possa cantare inni senza posa
Signore, mio Dio, ti loderò per sempre
(Sal 30,12-13)
religioso per la morte che si apre alla risurrezione.
Il biblista italiano Gianfranco Ravasi, ora cardinale, così descrive in generale il mondo musicale del salterio attraverso il vertice della raccolta, che è il Salmo 150:
antifonale fra coro e solista.
Anche il nuovo Testamento conosce molte forme di Inni, che ad esempio nell’Apocalisse assumono anche tutto lo spessore di una liturgia, con diversi soggetti che intervengono e si rispondono. Sarebbe lungo poi ricordare le molte forme con cui questo è stato vissuto e interpretato, riporto solo, per la sua originalità, uno stralcio di uno scritto “apocrifo” che descrive una danza pasquale di Cristo:
Tutto il mistero pasquale dunque viene espresso e insieme sperimentato in una musicalità che diventa anche danza. Anche al di là di questo testo particolare, è significativo – e sarà utile per la seconda parte della nostra riflessione – ricordare anche che di fatto non conosciamo con sicurezza quale fosse la musica dei salmi, così come degli inni più antichi extra biblici, anche se molti se ne sono posti alla ricerca: essa dunque oggi esiste solo nelle molteplici forme in cui è stata interpretata, riespressa, contaminata e dunque vissuta.
Nella sua forma collettiva, spesso organizzata e dunque ordinata e condivisa sia nella forma che nel significato, la musica diventa festa. Anche con l’aiuto degli studiosi di antropologia culturale, il mondo della teologia e della spiritualità ne ha maggiormente compreso l’importanza:
La riscoperta della dimensione festiva costituisce uno dei maggiori segni indicatori della capacità di memoria e di celebrazione dell’esistenza umana e del suo mistero nella storia di un popolo. Partecipare ad una festa significa rievocare insieme il suo messaggio ideale e impegnarsi a realizzarlo. Il fare festa diventa per una comunità un atto unificante, capace di coniugare simbolicamente nei segni posti, il passato, il presente e il futuro (Giuseppe De Virgilio)
Dobbiamo infatti riconoscere che se oggi nessuno studioso della Bibbia negherebbe questa dimensione, non sempre il concreto atteggiamento pastorale è capace di vivere con serenità e carattere evangelico questa realtà.
2. Nella gioia del Vangelo
Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto (Evangelii Gaudium n. 6)
Anche il cammino sinodale ha indicato rischi analoghi ed ha rappresentato una risorsa di conversione pastorale. Averlo percorso:
significa aver dato prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente sulla famiglia.
Significa aver cercato di guardare e di leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio, per accendere e illuminare con la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività.
Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri.
Significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite.
Significa aver affermato che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori.
Una condizione anestetizzata, incapace di riconoscere il dolore e la gioia, la festa e il lutto di chi incontra, è spesso sintomo della incapacità di riconoscere i propri sentimenti, in quella che potrebbe essere indicata come “alessitimia”, termine che indica un disturbo della sfera emotiva, connotato dalla difficoltà di incapacità di percepire, riconoscere ed esprimere gli stati emotivi, propri e degli altri. Non basta una buona volontà singola per uscirne, abbiamo necessità di un lavoro collettivo: sinodale in termini ecclesiali, o politico e culturale in termini laici. Questi nostri incontri e lo “spirito del CCIT” possono contribuire a questo percorso di consapevolezza e di conversione pastorale, fatta anche attraverso gli occhi, i suoni, i riti “degli altri”.
3. Le musiche tzigane come ingegneria culturale e legame sociale
Il film di Toni Gatlif, Latcho Drom, rappresenta oggi per noi, in questo nostro Incontro ben più di una conferenza. Mostra in sequenze filmiche quello che tutti sappiamo per esperienza e su cui vogliamo anche riflettere: quello che vale per ogni cultura ha un valore singolare per alcune. In questo caso l’espressione musicale è molto importante nella vita romani (tzigana) nelle molte differenze così come nelle dimensioni comuni. Così importante che, appunto, il regista riesce a indicare gli itinerari e le soste di tali popolazioni seguendone le musiche e le danze, dall’India alla Spagna, le feste e i lutti, gli incontri più o meno autentici.
Alcune sue forme sono così note e fondamentali per la cultura europea da farne parte in maniera inseparabile: le musiche ungheresi, cui si ispirò fra gli altri Franz Liszt e il Cante Flamenco in primo luogo, ma anche la musica dei Lautari rumeni, riuniti in gruppi denominati Taraf “Gypsy of the Nile” e i “Moroccan Gypsies”, con Sidi Mimoun e Ben Souda, o le forme legate alle tarantelle (danze popolari) del sud Italia. Alcuni nomi hanno tale risonanza da uscire anche da registri strettamente etnici, come quello del jazzista Django Reinhardt, di Manitas de Plata (= Ricardo Baliardo, Montpellier 2014), del complesso dei Gipsy Kings o di Goran Bregović.
Pensare di renderne anche solo minimamente ragione qui sarebbe altrettanto arrogante che pensare di aver parlato in maniera sufficiente della musica nella Scrittura. Senza contare che quello che a noi interessa non sono soltanto i grandi nomi, bensì la trama della vita quotidiana, della nostra comune esperienza, che si esprime in forme meno alte ma ugualmente artistiche, come pure nella semplice abitudine di ascoltare musica prodotta da altri, facendone però in certo senso la colonna sonora della nostra vita. L’ottica che vogliamo assumere è piuttosto un’altra: si usa dire che le differenze fra questi tipi di musiche sono tali e tante da lasciare sullo sfondo le somiglianze, che pure si potrebbero raccogliere nella frequenza di cambi di registro, nella capacità di seguire il ritmo come nel blues, nella prorompente improvvisazione come nel jazz. Infatti:
Ciò che distanzia questi artisti dalle lontane origini comuni sembra maggiore di ciò che li avvicina. Eppure nei numerosi stili che si sono venuti a creare si possono riconoscere vari elementi in comune, prima fra tutte la pratica molto frequente dell’improvvisazione, con rapidi cambi di tempo, ritmi assai sostenuti, talvolta note lunghe e appassionate, un alto grado di virtuosismo, una forte sensibilità quasi sentimentale e una ricca “ornamentazione”, fatta di cesellature e arabeschi. Talvolta, inoltre, le esecuzioni vengono arricchite da suoni prodotti con qualsiasi mezzo si abbia a disposizione, dalla percussione di una vecchia lattina al battito di mani (Francesca Ferrando).
archeologia irraggiungibile di un suono puro, ma nella contaminazione plurale delle molte esecuzioni.
Altri momenti musicali che non posso dimenticare sono quelli funebri: il suono del violino dell’anziano Sinto che onorava così tra le lacrime la sepoltura della moglie, le musiche contrastanti delle bande musicali che, secondo un uso appreso da alcune regioni italiane come la laica Emilia, accompagnano la via che porta al cimitero, alternando musiche felici, magari amate dal defunto, ad altre tristi, consentendo così l’espressione dell’affetto e del cordoglio.
Bregović, cui ebbi occasione di assistere. La maggior parte dei brani, lo comprendevo molto bene, erano in romanes, le musiche erano quelle balcaniche, tipico esempio di mixage e contaminazione di suoni. Bregović non spiegava, non faceva discorsi di bontà e integrazione, semplicemente suonava e cantava insieme al suo complesso: tutti i partecipanti, xenofobi o meno che fossero, in visibilio, saltavano, ballavano, applaudivano!!
4 Gli occhi degli altri: la conversione del “principio di distinzione”
In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).
Come negli Incontri del CCIT ci siamo più volte detti, ci troviamo costantemente a dover negoziare fra due principi che si fronteggiano: stiamo, sia a livello di azione sociale/politica/culturale che di pratica religiosa, tra il timore della “etnicizzazione” Mi sembra che potrebbe aiutarci in questa riflessione un suggerimento di Jan Assmann, un egittologo che, avvicinandosi alla figura di Mosè, protagonista dell’Esodo biblico, ma, appunto “straniero necessario”, egiziano ed ebreo a un tempo. Assmann parla come di “distinzione mosaica”per indicare la forma di identitarismo esclusivo cui dà vita quel particolare monoteismo. La questione, così come si deposita nella memoria culturale e religiosa del Libro biblico e della sua memoria attualizzata, nasce da un pasticcio etnico, da un disprezzo che era diventato sottomissione e schiavitù. Ad esso ha reagito un uomo/tipo, meticcio e appartenente alle due culture, quella maggioritaria e dominante e quella minoritaria e sottomessa. La storia che ne trae origine è segnata, appunto, dall’esclusivismo: un Dio, un popolo, una Legge, diversi e separati da tutti gli altri. Tuttavia, come lo stesso Assmann segnala, in quella narrazione plurale (=la raccolta biblica) e nelle tradizioni viventi che vi si riferiscono, c’è anche un’altra possibilità ed è quella di convertire la distinzione/separata in differenza/accogliente. In Assmann questo si concretizza nell’idea di conversione del monoteismo:
Solo come religio duplex, vale a dire come una religione a due piani, che ha imparato a concepirsi come una tra le molteplici e a guardarsi con gli occhi degli altri, e che nondimeno non ha perso di vista il Dio nascosto o la verità nascosta come punto di fuga comune a tutte le religioni, la religione stessa può trovare un posto nel nostro mondo globalizzato
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stile. I “popoli”sono tutti i confinanti nonché i nemici tradizionali – Egitto, Assiria, Filistei – e alcuni altro, tra cui Etiopi e Arabi.. Ripeto la perla che si apre e cambio lo scenario radicalmente:
Infine, come nel salmo 30, la soglia che fa sperimentare è anche quella radicale, in cui la vita si apre nel suo Oltre, quella del gemito dello Spirito (Rm 8) che attraversa le parole e fa sì che il canto di ognuno diventi il canto di tutti e di tutte le cose: Gracias a la vida.
Cristina SImonelli