che la chiesa sia con lui
ce la farà? tutti se lo domandano in modo accorato perché hanno imparato a volergli bene per la sua semplicità, spiritualità e desiderio vero di ‘far pulizia’ non mettendo sotto il tappeto l’immondizia
ce la farà? ce lo domandiamo perché lui sa bene e lo sappiamo anche noi che ‘nemo profeta in patria’ e alcuni luoghi sono covi di vipere
ce la farà? se lo domanda anche M. Cacciari in questo bell’articolo:
Francesco e Benedetto insieme sono un messaggio potente di concordia. Ma non è detto che l’Istituzione lo segua. Perché come la politica è bloccata dal dualismo amico-nemico
Non stupisce che dopo il viaggio a Lampedusa l’universale popolarità di Francesco a bbia toccato i suoi picchi più alti. «Le statistiche le fa Dio», ha detto. Ma c’è una evidente coincidenza tra le parole e i gesti di questo papa e quelli che gli potrebbe suggerire un pianificatore scientifico de l suo successo. Quasi tutto ciò che egli fa e dice è difficilmente contestabile dall’opinione pubblica cattolica e laica, a cominciare da quel «quanto vorrei una Chiesa povera e per i poveri» che è diventata la carta d’identità dell’attuale pontificato.
Un elemento chiave della popolarità di Francesco è la sua personale credibilità. Da arcivescovo di Buenos Aires abitava in due stanze modeste. Si cucinava da sé. Si spostava in autobus e metropolitana. Fuggiva come la peste gli appuntamenti mondani. Non ha mai voluto far carriera, anzi, si è pazientemente fatto da parte quando la sua stessa Compagnia di Gesù, di cui era stato per alcuni anni superiore provinciale in Argentina, lo aveva bruscamente deposto e isolato. Anche per questo, ogni volta che invoca povertà per la Chiesa e picchia duro contro le ambizioni di potere e la bramosia di ricchezza presenti nel campo ecclesiastico, nessuna voce si leva per criticarlo. Chi mai potrebbe giustificare l’oppressione del misero e fare l’apologia delle immeritate carriere? Chi mai potrebbe contestare a Francesco di predicare bene ma razzolare male? Sulla bocca dell’attuale papa, quello della Chiesa povera è un paradigma infallibile. Riscuote un consenso praticamente universale, sia tra gli amici sia tra i nemici più accesi della Chiesa, quelli che la vorrebbero talmente depauperata da sparire del tutto.
Ma poi c’è un altro fattore chiave della popolarità di Francesco. Le sue invettive, ad esempio, contro la «tirannia invisibile» delle centrali finanziarie internazionali non colpiscono un obiettivo specifico e riconoscibile. E quindi nessuno dei veri o presunti “poteri forti” si sente effettivamente toccato e provocato a reagire. Anche quando le sue reprimende prendono di mira malefatte interne alla Chiesa, esse restano quasi sempre sulle generali. Una volta che papa Bergoglio, in una delle sue colloquiali omelie mattutine, affacciò un dubbio esplicito sul futuro dello Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, la discussa “banca” vaticana, i portavoce fecero a gara per derubricare la cosa. E l’altra volta in cui denunciò che una «lobby gay» in Vaticano «è vero, c’è», la minimizzazione scattò ancora più unanime. Persino l’opinione pubblica laica gli ha perdonato questa asserzione, con un’indulgenza che sicuramente non sarebbe stata concessa al predecessore.
Il parlare di papa Francesco è sicuramente uno dei suoi tratti più originali. E’ semplice, comprensibile, comunicativo. Ha l’apparenza dell’improvvisazione, ma in realtà è accuratamente studiato, tanto nell’invenzione delle formule – la «bolla di sapone» con cui a Lampedusa ha rappresentato l’egoismo dei moderni Erode – quanto nei fondamentali della fede cristiana che egli più ama ripetere e che si condensano in un consolante «tutto è grazia», la grazia di Dio che incessantemente perdona pur continuando tutti a essere peccatori.
Ma oltre alle cose dette ci sono quelle deliberatamente taciute. Non può essere un caso che dopo centoventi giorni di pontificato non siano ancora uscite dalla bocca di Francesco le parole aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale. Papa Bergoglio è riuscito a schivarle persino nella giornata che ha dedicato alla “Evangelium vitae”, la tremenda enciclica pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1995 al culmine della sua epica battaglia in difesa della vita «dal concepimento alla morte naturale». Karol Wojtyla e dopo di lui Benedetto XVI si spesero incessantemente in prima persona per contrastare la sfida epocale rappresentata dalla odierna ideologia del nascere e del morire, come pure dalla voluta dissoluzione della dualità originaria tra maschio e femmina. Bergoglio no. Sembra ormai comprovato che abbia deciso di tacere, su questi temi che investono la sfera politica, convinto che tali interventi competano non al papa ma ai vescovi di ciascuna nazione. Agli italiani l’ha detto con parole inequivocabili: «Il dialogo con le istituzioni politiche è cosa vostra». Il rischio di questa divisione dei compiti è alto, per lo stesso Francesco, dato il giudizio poco lusinghiero che egli ha più volte mostrato di avere sulla qualità media dei vescovi del mondo. Ma è un rischio che vuole correre. Questo suo silenzio è un altro dei fattori che spiegano la benevolenza dell’opinione pubblica laica nei suoi riguardi