una speranza in tutte le lingue
di Angelo Reginato
in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 14 aprile 2017
come si fa a credere alla vita, in un mondo di morte? Come si fa ad annunciare che è risorto, quel condannato alla morte più infamante? Le quattro narrazioni dei vangeli sono portatrici di un’elaborazione della speranza che è udibile nelle diverse lingue: ricominciare (Marco), uscire dalla gabbia del pensiero unico (Matteo), incamminarsi su sentieri di pace (Luca) coinvolgendo persone con nome e cognome (Giovanni)
Anche noi, chiamati ad annunciare l’evangelo della resurrezione e a ripensarlo nel presente, siamo tentati di fuggire. Come le donne, di cui ci narra Marco. Come si fa a credere alla vita, in un mondo di morte? Come si fa ad annunciare che è risorto, quel condannato alla morte più infamante? Solo creature angeliche possono farlo. Solo anime belle sono in grado di penetrare la crosta di sangue raggrumato che copre la nostra storia e scorgere l’utopia di un mondo giusto, che coltiva la vita e aborrisce la morte. Noi no. I nostri occhi vedono solo teatri di guerra e cinismo spietato. Non angeli ma droni sorvegliano i sepolcri ben sigillati di una storia che difende la vita di pochi e condanna a morte il resto dell’umanità. Pasqua, dunque, impossibile nello scenario post-moderno, che decostruisce ogni speranza? In realtà, è così da sempre. L’umanità, fin da subito, ha dovuto fare i conti con lo scandalo di una storia che gronda sangue. Come leggiamo nelle Scritture. Dove, però, insieme all’analisi lucida della situazione, viene messa in campo la sfida alla tirannia della morte. Come nei quattro racconti evangelici.
Marco, che conclude la sua narrazione con la fuga, silenziosa e spaventata delle donne, destinatarie dell’annuncio di Pasqua (16, 8), propone la strategia della ripresa: tornare in Galilea (16, 7), dove tutto ha preso inizio, e ricominciare daccapo. In un mondo disperato, è decisivo fare della speranza un percorso educativo a lungo termine, tenace, che prova e riprova a compiere quanto la storia tenta di impedire. Matteo, invece, parla della Pasqua come di un terremoto (27, 54; 28, 2), evocando come via d’uscita dalla paralisi uno shock esistenziale, una trasmutazione dei valori, un mettere sottosopra quelle visioni che, a torto, riteniamo ben fondate. Luca, a partire dalle parole di perdono pronunciate da Gesù, propone esperienze di riconciliazione quali segni di credibilità dell’annuncio pasquale (24, 47), facendosi prossimi a quanti, in preda alla tristezza del cuore, hanno tirato i remi in barca e hanno dismesso ogni forma di responsabilità storica (24, 13ss). Infine, Giovanni evoca una strategia personalizzata, basata sul chiamare per nome (20, 16), sulla qualità delle relazioni, improntate su un amore inatteso, immeritato. Linguaggio interno dei cristiani, inservibile nell’agone pubblico? Tutto il contrario! Queste straordinarie narrazioni, che sono «occhio» (e non «oppio»!) dei popoli, sono portatrici di un’elaborazione della speranza che è udibile nelle diverse lingue. E che alla nostra società, tendenzialmente depressiva, propongono nuove aperture di sentieri troppo in fretta giudicati impercorribili. Come Marco, anche noi possiamo porre un’istanza di ricominciamento nel nostro contesto crepuscolare. Lavorare nei diversi ambiti educativi per iniziare al sogno di una vita che resista alle sirene della resa ai disegni mortali.
Ma perché questa parola suoni credibile, è necessario uscire dalle gabbie del pensiero unico, operare terremoti come quelli narrati da Matteo, scosse esistenziali e culturali, che aprano varchi di pensiero differente: qui l’annuncio pasquale potrà risuonare alle orecchie del mondo come un sussurrare il sospetto che non per forza di cose la vita è quella che ci fanno vivere; e, insieme, gridare l’indignazione per le troppe condanne a morte emanate dai nostri cuori di pietra. E poi, una volta scorto il passaggio, incamminarci lungo sentieri di pace, come indica Luca, innescando processi di riconciliazione. A Pasqua risorge Gesù, non tutti i morti. I nostri annunci avranno, per forza di cose, il carattere parziale di chi non risolve tutti i problemi ma indica simbolicamente una direzione: un corridoio umanitario, la microrealizzazione di una gestione dei conflitti in un determinato territorio, un gesto ecumenico che sappia di vangelo. Coinvolgendo persone con nome e cognome, come fa Giovanni, che coniuga la Pasqua con la contingenza del vivere quotidiano.
Che cos’hanno le chiese da dire al mondo, se non il fatto di mettersi in gioco, nonostante tutto, e proporsi come laboratori di resurrezione in mezzo a un’umanità rassegnata e incredula?