i consumi in eccesso dei ricchi un pericolo per le specie viventi
di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 6 dicembre 2022
Gli ecosistemi si stanno degradando a ritmi sempre più preoccupanti. Non si tratta solo di salvare specie rare, ma l’intero tessuto vitale da cui dipende l’umanità: per il cibo, l’acqua, la salute, la regolazione del clima. Ridurre le emissioni di anidride carbonica e tutelare le specie viventi. Smetterla di inseguire il mito della crescita di produzione e consumo. Svuotare il cuore di cose e riempirlo di relazioni.
Calo della popolazione ittica marina, dei vertebrati selvatici, degli insetti, delle varietà di piante e persino degli animali domestici. La perdita di biodiversità è un’emergenza.
Dal 7 al 19 dicembre si tiene a Montreal, Canada, una conferenza internazionale sulla biodiversità. Anch’essa definita Cop (conferenza delle parti), avviene in attuazione della convenzione sulla biodiversità firmata nel lontano 1992 nell’ambito delle Nazioni Unite. Quella che si tiene quest’anno è la quindicesima (Cop15) e si contraddistingue per un paio di particolarità: la tempistica e la finalità. La tempistica perché ha proceduto per fasi: prima a Kunming, Cina, nell’ottobre 2021, poi a Montreal nel dicembre 2022. La finalità perché il suo compito è redigere il così detto Post-2020 Global Biodiversity Framework, ossia il nuovo Piano strategico per la biodiversità, valido per il prossimo decennio. Il precedente, valido dal 2011 al 2020, era stato redatto nel corso della Cop10 e si poneva una serie di obiettivi denominati “Obiettivi di Aichi”, dal nome della località giapponese in cui vennero sottoscritti. U n rapporto delle Nazioni Unite del 2021, dal titolo emblematico “Fare pace con la natura”, denuncia che nessuno degli obiettivi di Aichi è stato pienamente raggiunto. Al contrario lamenta che gli ecosistemi si stanno degradando a ritmi sempre più preoccupanti. La pesca eccessiva, i cambiamenti climatici, l’acidificazione, l’inquinamento, hanno compromesso già due terzi degli oceani. Un terzo della popolazione ittica
marina è pescata oltre misura, mentre i fertilizzanti che raggiungono il mare hanno già annientato la vita in più di 400 aree per un totale di 245mila chilometri quadrati, una superficie grande come la Gran Bretagna o l’Ecuador. Dal 1980, i rifiuti di plastica si sono decuplicati, fino a rappresentare l’80% dei detriti presenti nei mari. I loro frammenti si trovano in tutti gli oceani, a tutte le profondità, in tutte le correnti, danneggiando i pesci per intrappolamento o per ingestione. Per di più
possono fare da vettori di altri inquinanti e addirittura da veicoli di specie infestanti che alterano ulteriormente gli ecosistemi marini.
Negli ultimi 50 anni la popolazione dei vertebrati selvatici è crollata del 68% mentre si è dimezzata quella di molte famiglie d’insetti. Anche il numero di varietà di piante e di animali domestici si è ridotto di molto. Ad esempio negli ultimi decenni oltre il 9% delle varietà animali si è estinto, mentre un altro 17% corre lo stesso rischio. a conclusione è che complessivamente un milione di specie viventi, animali o vegetali, è a rischio di estinzione, su un totale di otto milioni. Una situazione che compromette anche il raggiungimento di molti obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite. Sicuramente il numero due
che riguarda la sicurezza alimentare. La riduzione delle varietà coltivate, il crollo degli insetti impollinatori e il deterioramento dei suoli per l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici, minacciano i raccolti agricoli esponendo un numero crescente di persone a rischio alimentare. La riduzione di
biodiversità riduce la possibilità per i produttori di adattare coltivazioni e allevamenti alle situazioni che cambiano. A oggi si conoscono oltre 6mila varietà vegetali coltivabili, ma solo 200 di esse dominano la produzione alimentare globale. Addirittura nove prodotti (canna da zucchero, mais,
riso, frumento, patate, soia, palma da olio, barbabietola da zucchero, manioca) contribuiscono da soli al 66% dell’intera produzione agricola mondiale. Quanto al bestiame, gli allevamenti si basano su una quarantina di specie, ma solo una manciata di esse fornisce la maggior parte di carne, latte e uova consumata a livello globale. In effetti le varietà locali sono sempre più rare: il 26% di esse è ritenuto a rischio estinzione.
La perdita di biodiversità compromette anche il numero tre degli obiettivi di sviluppo sostenibile, quello che si prefigge la salute per tutti. La perdita di biodiversità riduce la possibilità di ottenere farmaci dalla natura. Si stima che 4 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale, si curino utilizzando medicine naturali. Del resto il 70% dei farmaci utilizzati per il trattamento di forme tumorali sono di origine naturale o, se sintetiche, hanno come riferimento molecole trovate in
natura. Più del 20% dei farmaci moderni si basa su princìpi terapeutici estratti da molecole naturali individuate da ricercatori scientifici o tramandate dal sapere delle popolazioni locali. Fra essi l’aspirina e gli antitumorali vincristina e taxol. Con la perdita di biodiversità si riduce la possibilità di nuove scoperte farmacologiche. Per gli amanti dei termini monetari, l’importanza della biodiversità è sottolineata dal World
Economic Forum secondo il quale la natura contribuisce a oltre la metà del prodotto lordo mondiale, ossia 44mila miliardi di dollari. Per questo Tony Juniper, esponente del governo britannico per le questioni ambientali, insiste: «Cop 15 rappresenta la nostra ultima frontiera per
arrestare il declino della natura a livello planetario. Non si tratta solo di salvare specie rare, ma di salvaguardare l’intero tessuto vitale da cui dipende l’umanità: per il cibo, per l’acqua, per la salute, per la regolazione del clima. Dunque, mentre si cercano percorsi per ridurre le emissioni di anidride carbonica, bisogna compiere scelte per tutelare le specie viventi». Cosa fare lo sappiamo. Dobbiamo smettere di deforestare, di saccheggiare i mari, di sommergere i terreni di chimica, di produrre rifiuti. Ma per farlo dobbiamo smetterla di inseguire il mito della crescita di produzione e consumo. Il degrado della natura è il risultato di un livello insostenibile di consumi da parte della popolazione ricca, mentre ai poveri non è consentito di avere neanche il minimo per vivere. Dunque è il nostro super consumo che dobbiamo mettere in discussione sapendo che a causa di un’organizzazione mercantile che esalta i beni commerciali, mentre disprezza i diritti, ci troviamo nella situazione assurda in cui abbiamo un eccesso di cose che non ci servono, mentre manchiamo di servizi fondamentali. Mangiamo oltre misura, magari cibo poco sano, abbiamo la casa piena di congegni elettronici, abbiamo gli armadi pieni di vestiario fast fashion che inquina tanto e vale poco, ma poi non godiamo sempre di una sanità degna di questo nome, non riusciamo a dare tutti un’assistenza adeguata ai nostri anziani, facciamo fatica a garantirci un alloggio, non troviamo un posto all’asilo per i nostri piccoli. Dunque non si tratta di operare un taglio generalizzato dei nostri consumi, ma di reindirizzarli. Dobbiamo ridurre il consumo di beni materiali privati, che dissipano risorse e producono rifiuti, ed accrescere il godimento di servizi di cura pubblici, che aggiungono felicità senza aggravio per la natura. La dimostrazione che la questione ambientale non è tanto un problema di tecnologia ma di
modello di sviluppo, a sua volta direttamente dipendente dalla visione che abbiamo della vita, dei rapporti sociali, dei valori in cui crediamo. Dobbiamo svuotare il nostro cuore di cose e riempirlo di relazioni. Tutto il resto verrà da solo