Cristina Simonelli: “soglia come benedizione”

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una bella riflessione di Cristina Simonelli come intervento conclusivo al convegno annuale di Brescia organizzato da Missione Oggi dal titolo: “siamo gli ultimi cristiani?”

Soglia come benedizione

RINTRACCIANDO FILI E CONSONANZE
Pensare queste osservazioni come una conclusione, sia pure come si usa dire aperta, è cosa audace: non solo perché concludere lo è sempre e porta con sé una qualche arroganza di portoni e di chiavi, ma anche per lo statuto ampio e poliedrico che ha caratterizzato questo evento. Con una ragione ulteriore: riflettere e dunque anche fare teologia ha dei luoghi, co- me suggeriva Paolo Boschini. Questo di Missione Oggi è un luogo, che ha sue complicità e simpateticità che, mi sembra, hanno permesso ai partecipanti di rintracciare fili e consonanze anche tra interventi tematicamente disparati. Il mio essere qui non è privo di simpatia, ma non ha probabilmente la stessa complicità e dunque forse coglie meno nessi: di questa parziale estraneità mi scuso, cercando comunque di trarne profitto. Una seconda osservazione previa la riterrei dalla riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy, che parla di comunità operosa e inoperosa: sembrerebbe dover essere positiva la prima, ma nel suo lessico è in- vece il contrario, operosa è una comunità che fa affidamento sul- l’opera e in ultima analisi si rivela ottusa e incapace di cambia- mento, mentre inoperosa sarebbe una comunità aperta all’alterità, all’inaspettato, capace dunque di integrare il limite, perché può “far spazio”. Certo, in questa accezione, ci poniamo qui in un contesto inoperoso o “insaturo” (Wilfred Bion), dunque aperto a un inedito da portare a sintesi provvisoria, sì, ma rinunciando alla tentazione di “gestirlo completamente”.
SENZA NOSTALGIA
Raccogliendo dunque in questo orizzonte alcuni spunti te- matici, penso che una chiave di lettura di questo convegno sia una delle affermazioni di Andrés Torres Queiruga: “Il rischio peggiore, in questi casi, consiste sempre nel ri- conoscere la novità del problema, ma cercare di risolverlo senza rompere i vecchi schemi”. Sono schemi superati certamente le categorie di interpretazione della questione da lui illustrate. Ma, vorrei aggiungere, altrettanto fuori luogo e fuori tempo risulta un atteggiamento di malcelata nostalgia, un modo di affrontare la situazione che si annida in al- cune visitazioni del tema, anche benintenzionate. Da questo punto di vista, dunque, se la domanda che dà il titolo a questo convegno, sottintendesse “siamo gli ultimi cristiani della cristianità”, secondo un paradigma tridentino (un paese, una Chiesa, un parroco), si potrebbe rispondere tranquillamente: no, non siamo gli ultimi… semplicemente perché tutto questo non esiste più! Può piacere di più o di meno, ma non è questo il punto, se non esiste non esiste.
ACCETTANDO LA SFIDA DEL CAMBIAMENTO
Provo a fare due esempi, di diverso peso, forse un po’ impertinenti dal punto di vista della forma, ma spero pertinenti nella sostanza al tema che qui ci interessa. È stata svolta dall’Osservatorio socio-religioso del Triveneto una ricerca sulla religiosità: realizzazione di notevole importanza, data appunto la necessità di accostare all’esame dei modelli teorici la con- siderazione delle forme pratiche, di condurre l’analisi, “non quindi direttamente il piano delle rappresentazioni mentali di oggetti cui si aderirebbe, che si ‘crederebbero’ veri o si ‘saprebbero’ corretti, ma sul piano che Michel de Certeau chiamerebbe delle ‘arti del fare’” (Pierre Gisel). Un’impresa dunque notevole, nell’ideazione e nella realizzazione. Non posso tuttavia respingere del tutto l’impressione che certe modalità di parlarne e di diffondere i dati sottintendano l’idea “ci scappano” o “ci sono scappati” – tra l’altro significativamente legata alla disaffezione mostrata dalle donne, di ogni fascia di età, e dai giovani in generale. Affrontare le questioni in questo modo non può portare altro che ulteriore frustrazione. Il secondo esempio è istituzionalmente più impegnativo. Mi riferisco infatti all’idea sottesa alla Nuova Evangelizzazione: se si pensa di declinarla come recupero di spazi senza accettare che la figura della presenza cristiana in occidente è cambiata, è un’impresa finita in partenza.
VERSO UNA DIVERSA FORMA DI VITA CRISTIANA
Altro può essere invece quel movimento di conversione a una promessa di cui pure qui si parlava: vivere una diversa forma di vita cristiana, che non si pensi più “l’intero”, ma presenza in grado di esporsi comunicando ciò per cui vive e perciò an- che di ricevere: “in definitiva, tornare all’esperienza radicale della grazia: ‘Date gratuitamente quello che gratuitamente avete ricevuto’ (Mt 10,8), che di per sé implica la reciproca ‘accogliete gratuitamente quello che gratuitamente vi è offerto’” (Torres Queiruga). In questo non c’è ansia di perdita, ma serenità di consegna e attestazione: “non sta a voi conoscere tempi e momenti, ma riceverete la forza dello Spirito mi sa- rete testimoni a Gerusalemme, in Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,7s). Aggiungerei a questo proposito che l’idea di inreligionazione proposta da Queiruga è molto interessante: si può forse integrare sottolineando che il confronto può e deve porsi anche sul piano di ogni vita umana, semplicemente – per evitare che si possa pensare comunque un’alleanza di religioni che, in contesto di “ritorno del sacro”, possano escludere anche un solo uomo o una sola donna perché non aderisce a nessuna di esse.
IN CUI L’EUROPA NON PARLA PER TUTTI
Si impone a questo punto, mi sembra, un’altra osservazione attorno a un’affermazione di Mendoza-Álvarez: ogni teologia è contestuale. Anche in questo caso tuttavia l’adesione teorica può permettere che ne resti in secondo piano la logica conseguenza: e plurale. Ha dunque il diritto, se si può dir così, di riflettere spinta dal peso del vecchio continente, ma ha contemporaneamente il dovere di sapere che non par- la per tutti. Certo i fenomeni di globalizzazione economica e politica producono interconnessioni di portata inedita: tuttavia i punti di vista sono molto diversi e qui lo hanno mostrato “in atto e in pratica” gli interventi proposti dall’Asia e dall’America latina. In ogni caso mi sembra corretto aggiungere che l’Europa non è solo un sogno di collaborazione fra popoli, ma è anche una potenza economica e militare. La questione dell’acquisto italiano degli F35 lo mostra, insieme a molto altro, non ultimi, dal punto di vista delle sottoculture identitarie che manifestano, gli insulti reiterati al ministro Cécile Kyenge.
E LE PERIFERIE SONO VALORIZZATE PER LA RIFORMA DELLA CHIESA
In questo quadro europeo mi proponevo dunque di riprendere la prospettiva della pluralità dei luoghi – le eterotopie di Michel Foucault – unendola a quella delle comunità di pratica proposta da Etienne Wenger: spesso sono coloro che stanno alla periferia di un gruppo a introdurre elementi esterni, perché i leaders sono troppo vincolati agli elementi più statici dell’identità. Mi chiedo ora, alla luce del contributo latinoamericano soprattutto, se applicare questa prospettiva ai luoghi minoritari – penso alle comunità Rom cui ho avuto grazia di accompagnarmi per larga parte della mia vita – o considerati tali anche a livello ecclesiale, come la produzione teologica in prospettiva di genere, possa essere comunque appropriato. La disinvoltura con cui Mendoza-Álvarez proponeva una prospettiva di genere è tuttora molto rara in Italia e comunque minoritaria in Europa: proprio per questo, comunque, non deve passare inosservata l’attenzione con cui Torres Queiruga ha sempre declinato dio al maschile e al femminile. Ritengo infatti che non sia sempre necessariotrattare estesamente la questione, ma sia sufficiente almeno interrompere l’omogeneità imperante. In ogni caso, comunque vada interpretato, per dir così, il rapporto fra centri e periferie anche nelle Chiese resta il fatto che vi sono degli appuntamenti, mancare o centrare i quali è tutt’altro che indifferente. Mi riferisco alla necessità di una riforma delle istituzioni: mi colpiva riavere tra le mani un vecchio – ma pur- troppo attuale – intervento di Karl Rahner che nel 1972 (Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance) affermava che la riforma della Chiesa non può con- tentarsi di pie affermazioni, ma necessita di cambi strutturali. Ora, di fronte all’emozione suscitata dal linguaggio e dalle posizioni pratiche e simboliche di papa Francesco, vescovo di Roma, speriamo veramente che la frase che ho appena scritto risulti presto superata e che le auspicate urgenti riforme vengano per lo meno prese in considerazione.
ABITARE LE SOGLIE DEL NUOVO
Concludendo, certamente ci troviamo su di una soglia, ma, speriamo, non volti nostalgicamente indietro, bensì protesi verso una meta che pur inedita non è ignota e pur chiedendo dedizione è accogliente e promettente. La promessa tuttavia non è quella di conquistare il mondo, ma di essere “benedizione”, come nello stupendo oracolo di Isaia 19,23-25. A tale promessa ben si accompagna l’immagi- ne della trebbiatrice riparata co- me cura per il futuro, di cui ha parlato Antonella Fucecchi. Ave- re sogno e visione (cfr. Gl 3,1 in At 2,17) è dunque accoglienza di un dono, ma è anche sfida intellettuale ed educativa: le qualità indispensabili per abitare queste soglie non si possono trasmettere come un pacco, ma si possono cura- re, come un germoglio.
CRISTINA SIMONELLI
laica, nel 1997 si è diplomata in teologia e scienze patristiche con la tesi: La fede nella resurrezione di Cristo nel “De Trinitate” di Agostino presso l’Augustinianum di Roma, dove sullo stesso tema nel 1999 ha poi difeso la tesi dottorale. È docente di teologia patristica a Verona e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano); è socia fondatrice nonché presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI)

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