“Su Sirte basta bugie. E basta guerre”
intervista a Alex Zanotelli
a cura di Alessandro Cisilin
in “il Fatto Quotidiano”
Non siamo in guerra? Bugie per coprire attacchi preparati da tempo”. Tra una sessione e l’altra di un Campo di Lavoro a Castelvolturno, dedicata proprio alla convivenza tra italiani e africani (“qui oramai sono la metà della popolazione”), padre Alex Zanotelli rinnova i suoi strali verso i “negazionismi” sulle operazioni in Libia.
Li lanciò già sei mesi fa.
È da tempo che sapevamo della presenza sul campo di militari americani, inglesi, forse anche italiani. Capisco del resto la paura a dichiarare i fatti: nella zona di Sirte ci sono forse solo un migliaio di miliziani dell’Isis, ma in tutta la zona saheliana gravitano altri gruppi radicali che guardano con interesse allo Stato islamico, a cui ha già aderito anche Boko Haram. L’offensiva verrebbe percepita come una nuova guerra coloniale contro un paese arabo-musulmano.
Fuori dalle percezioni, che guerra sarebbe?
Un conflitto per il petrolio, e magari per spaccare il paese in tre Stati, altro segnale tipico dei disegni coloniali. Stiamocene fuori, è tempo di fermare le guerre, non di farne altre.
In un suo appello, lanciato a inizio anno assieme allo storico Angelo Del Boca, lei ha ipotizzato un “solo caso in cui l’Italia può intervenire”, indicando la strada di una “missione di pace” su richiesta delle autorità locali. Tale missione potrebbe per lei prevedere l’accompagnamento di forze militari?
No, nessun intervento militare, le armi portano solo conflitti, non li risolvono. Né può bastare che sia solo uno dei tre attori principali (Tripoli, Tobruk, il generale Haftar) a chiedere una missione civile. Dovrebbero essere almeno in due, e con l’accordo dell’Onu, di altri paesi europei e dell’Unione Africana. O così o niente.
Nel suo no alla guerra c’è anche l’argomento che “i libici ci odiano”. Ma è proprio così?
Noi rimuoviamo il nostro passato, ma quei 100 mila libici impiccati e fucilati dai coloni italiani restano nella memoria locale. E poi rimuoviamo il nostro supporto alla guerra sbagliata del 2011, quando fornimmo le basi aeree e i cacciabombardieri per aggredire un paese col quale per giunta avevamo da poco firmato Trattati di pace e altre intese. La ministra Pinotti si ricordi che noi siamo responsabili, anche della fornitura di armi a paesi come l’Arabia Saudita e Qatar, che poi finiscono nei teatri bellici come questo. Altro che “liberatori”.
In questi anni si è discusso anche di operazioni militari orientate a fermare l’immigrazione
Sull’immigrazione gli italiani dovrebbero prendersela con chi ha fatto la guerra. Quelle persone arrivano perché scappano dal caos. E arrivano perfino dal Bangladesh, in quanto la Libia stava relativamente bene e vi affluivano lavoratori da ovunque. Non difendo Gheddafi, era un dittatore, ma ha portato sviluppo e anche un’interessante modernizzazione dell’Islam. Quella guerra immotivata ha poi consegnato il paese alle milizie jihadiste. A Londra un rapporto parlamentare ha inchiodato Blair alle sue responsabilità per l’invasione dell’Iraq. Dovremmo farlo prima o poi anche noi per quanto fatto in Libia.
Peraltro lo stesso universo pacifista è descritto “in crisi” da un po’ di tempo. Lei è d’accordo?
Confermo, e per almeno due motivi. Il primo è che c’è stato un abbassamento delle sensibilità, è passato il messaggio della guerra “venduta” come una normale operazione politica. L’altro problema è che siamo spezzati tra mille rivoli, per motivi ideologici e altro. Dovremmo metterli tutti da parte. L’occasione può essere la Marcia della Pace del prossimo 9 ottobre. Che sia un momento unitario.