il riso abbonda sulle labbra di chi crede
un bell’articolo sull’importanza del ‘sorriso’ nella persona credente apparso sul quotidiano ‘l’Avvenire’ a firma del vescovo teologo B. Forte
peccato che sia macchiato del tipico peccato ‘cattolico’ quale quello di voler monopolizzare le cose belle e buone, magari dopo averle screditate o sottovalutate per secoli, o di volere sempre distinguersi e prendere le distanze separandosi (per autoaffermarsi) sia da chi ‘pretende di cambiare il mondo’ sia da chi assume un ‘pensiero debole’ per meglio dialogare e fare spazio ad altre verità in un cammino comune, magari, verso la Verità …
L’importanza del sorriso
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Alla luce della fede biblica la domanda se Dio possa ridere o, almeno, sorridere, non è così ingenua come potrebbe sembrare, quasi fosse voce di un’indebita proiezione della nostra leggerezza sull’indicibile. In realtà, riso e sorriso riferiti a Dio sono temi tutt’altro che assenti nella Sacra Scrittura, come nell’intera tradizione ebraico-cristiana.
L’ebraismo può, dunque, essere considerato la religione del riso e del sorriso? Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto si mescola delicatamente al riso, non esita a rispondere affermativamente: «L’identità ebraica è uno scoppio di risa». E una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di purim, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo.
Purim è, perciò, festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia, il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da mendicante prodigo, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non lo è…).
Moni Ovadia offre una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo. Così il povero ebreo, cui è capitato veramente di tutto, sussurra timidamente all’Eterno: «Noi ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma, ascolta: un’altra volta non potresti scegliere qualcun altro?».
Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione che conosce il riso e il sorriso: in esso è perfino la Verità in persona ad ammiccare un sorriso… Che la Verità sorrida, potrebbe apparire perfino imbarazzante a chi pensasse la stessa Verità nei termini dell’ideologia moderna, per la quale il Vero è il campo di dominio di una ragione “forte”, che non conosce debolezze e non tollera differenze, neanche quelle sottolineate dalla levità di un sorriso.
Al contrario, per il cosiddetto «pensiero debole» la Verità non sorride, ma sghignazza: essa è solo una maschera, che si fa gioco di chi ancora creda che esista una verità. Il sorriso della Verità è, dunque, lontano tanto da chi pretende di cambiare il mondo e la vita con le sole forze della ragione umana, quanto da chi nega semplicemente ogni fondamento forte all’impegno dell’uomo sulla Terra.
Chi dunque può amare il sorriso della Verità? Chi crede nell’Onnipotente che per amore si fa debole, nel Signore crocifisso, in cui riconosce la follia dell’amore divino per gli uomini. La debolezza di Dio è il sorriso della Verità, che non ha nulla dell’assolutezza astratta! Né questo scorgere il sorriso della Verità ne diminuisce la forza e l’attraente bellezza: ciò che conta è corrispondervi, prendendo sul serio la fedeltà del Dio, fattosi debole e vicino per amore, e non prendendoci troppo sul serio.
In realtà, la Verità sorridente ci invita a sorridere di noi, nell’atto di abbandonarci umilmente nelle braccia di quel Dio, che è venuto a sorriderci nel volto di un Bambino. Da allora sappiamo che – fin quando ci sarà spazio per il sorriso della Verità – il mondo potrà ancora avere una speranza più forte del dolore e della morte, che troppo spesso sembrano averla vinta…
Lo aveva ben compreso Francesco, «giullare di Dio» in tempi non certo tranquilli come furono i suoi. Lo esprimeva nel Medio Evo europeo la diffusa tradizione del risus paschalis, che prevedeva il racconto del maggior numero di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…), affinché dappertutto esplodesse la gioia, unico sentimento ritenuto consono alla vittoria pasquale della vita.
Forse anche per questo san Filippo Neri, detto «Pippo il buono», non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e sorridere davanti al mondo e alla vita.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo siano religioni del riso e del sorriso, la risposta risiede forse nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà.
Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare tra la prossimità e la lontananza: allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura è umile e aperta alle sorprese di Dio, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua limitatezza.
Chi è libero da sé, sa ridere e far ridere con gioia. Perciò i paradossi dell’amore sono quelli del riso e del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso.
E qui emerge una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’islàm, religione che insiste sul dualismo fra Dio e il mondo, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: nell’islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista.
Bruno Forte
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