‘fede’ e ‘dubbio’ fanno sempre a pugni?

Quel patto segreto tra fede e dubbio che ci rende umani

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 17 settembre 2016

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Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L’opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede.

Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell’oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da “Jung parla”, Adelphi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo “anima” nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre? Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde “sì” all’insegna della fede oppure “no” all’insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell’altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l’hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull’impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio. La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette “articoli di fede”. Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l’impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d’Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia. Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» ( Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo » (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale. A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l’esperienza personale. Non è più l’obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di creden- za, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è “degna di fede”, cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo “in fede”, cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l’anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C’è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d’onore che sono
l’amicizia e l’amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c’è fiducia-fede nell’altra persona può sorgere una relazione all’insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità. E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell’esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere. Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l’ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice “due”. Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta. Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell’antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all’origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile.