i due amici
il ricordo dell’amico
era stato insignito del titolo di «Giusto tra le nazioni» e nel memoriale di Yad Vashem in Israele è ricordato come «salvatore non solo della vita di una persona, ma anche della dignità dell’umanità intera». E fratel Arturo Paoli è stato proprio questo: un uomo, un cristiano, un fratello, un prete «giusto» in mezzo ai suoi compagni di umanità.
Del resto, già un suo professore all’università lo aveva definito «uomo cosmico» e la sua tempra verrà poi plasmata nel crogiolo del deserto del Sahara, dilatandone la profonda cattolicità – cioè la capacità di pensare e vedere la realtà nella sua dimensione universale – e facendo di lui un cristiano mite e tenace come solo i miti sanno essere, fino all’ultimo a servizio di quei poveri nei quali sapeva di poter trovare il volto di Gesù che tanto cercava.
Così scriveva pochi anni fa: «Guardate il vecchio dalla riva; avete tempo, potete anche dialogare con lui perché l’acqua scorre molto lentamente… Non temete: l’Amico lo tiene per mano, soavemente o con energia, e non lo lascerà fino all’incontro con l’Infinito». Ora quest’incontro è giunto e mi piace ricordare in quest’ora gli ultimi dialoghi avuti con fratel Arturo, quando nel gennaio e poi a maggio dello scorso anno sono passato a trovarlo nella sua pieve per custodire e alimentare ancora una volta la lunga e fedele amicizia che ci univa.
Era appena stato ricevuto in udienza da papa Francesco, e nei suoi occhi vivacissimi e dalle sue parole pacate e insieme appassionate emergeva la gioia per la nuova primavera che vedeva sbocciare.
Una primavera che alla sua età ormai non immaginava più di poter ancora gustare e un gesto di comunione che non osava più sperare, anche se il vescovo di Lucca Castellani gli aveva mostrato affetto e stima. In quelle occasioni mi chiese anche l’ultima edizione dell’ufficio di Bose per poter continuare a pregare con la nostra Preghiera dei giorni, come ormai faceva da decenni.
Sentii ancora una volta il suo cuore palpitare di amore per il Signore Gesù, mentre ci dicevamo l’un l’altro in profonda sintonia: «Il Vangelo è solo Gesù Cristo, e Gesù Cristo è solo il Vangelo!». Era stato il Vangelo a spingerlo a vivere con gli ultimi, il Vangelo lo aveva chiamato in Sardegna tra i minatori del Sulcis, il Vangelo lo aveva inviato in Argentina tra i boscaioli di Fortín Olmos, il Vangelo lo spinse a scrivere il Dialogo della liberazione che avrebbe ispirato anche la teologia di Gustavo Gutierrez. Vero itinerante di terra in terra, come i missionari del Nuovo Testamento, perseguitato e poco compreso dai poteri mondani, non cessò mai di essere un testimone “mite” del Vangelo.
Il cammino spirituale di fratel Arturo è stato il percorso di un profeta, sovente non ascoltato od osteggiato e perfino ferito, come quando, rientrato ultranovantenne in Italia, gli fu impedito di prendere la parola in una marcia nazionale per la pace organizzata da Pax Christi. È sempre stato un uomo schietto, senza arroganza, ma con la rappacificata e solidale consapevolezza di un’identità umana e cristiana cercata e trovata nel confronto aperto con il sempre possibile non-senso dell’esistenza.
«L’identità – ebbe modo di scrivere – è per me la scoperta di stare al mondo fra gli altri come un essere necessario. Se io non esistessi, all’umanità mancherebbe qualcosa nel suo cammino verso la meta del suo essere vera. Sì, all’umanità sarebbe mancato qualcosa di prezioso. Noi ringraziamo il Signore per averci donato di camminare accanto a questo uomo di Dio, rimasto giusto e vigilante fino all’ultimo, grande testimone del Vangelo e difensore dei poveri, grande dono per la Chiesa e per l’umanità. Davvero fratel Arturo è stato un segno del Vangelo di Cristo per tutti noi! A me viene a mancare un amico, un fratello e quel suo sorriso che era come il sorriso di Gesù: mite, accogliente, magnanimo.