i lager libici e lo choc dell’orrore – testimonianze di crudeltà umana
sono stati sequestrati, torturati, imprigionati, guardati a vista da squadracce multietniche armate. Sono arrivati in Italia e hanno reso testimonianze preziose per ricostruire la storia del tormento libico. Perché nessuno possa dimenticare o girarsi dall’altra parte. Testimonianze viventi della crudeltà umana
Sembrano racconti del secolo scorso. Dei sopravvissuti ai campi di detenzione delle guerre etniche, razziste, di sterminio. Ma invece sono storie attuali, testimonianze di una moderna umanità sofferente che ricordano i giorni terribili vissuti in Libia, nei mesi scorsi. Sono stati sequestrati, torturati, imprigionati, guardati a vista da squadracce multietniche armate. Sono arrivati in Italia e hanno reso testimonianze preziose per ricostruire la storia del tormento libico. Perché nessuno possa dimenticare o girarsi dall’altra parte.
Testimonianze viventi della crudeltà umana. Ma anche simboli del coraggio delle vittime e della lealtà e dell’impegno di preziosi investigatori italiani che hanno riscritto la moderna Spoon River dei migranti schiavi delle mafie etniche.
Legga attentamente queste testimonianze chi attacca il governo italiano per biechi calcoli politici o per stomachevoli ipocrisie di presunti sbandieratori del rispetto dei diritti umani. L’Italia sarebbe complice dei torturatori libici mentre presta soccorso e accoglienza, e nello stesso tempo lavora per un governo dei flussi migratori? I nostri calunniatori sperano forse che tutto rimanga come prima? A loro, la lettura delle testimonianze dei sopravvissuti all’inferno libico svelerà che il nostro Paese, l’Italia, è in prima fila (temiamo da sola) nel contrasto ai trafficanti di uomini e donne. Perché queste testimonianze, come altre centinaia raccolte in questi anni, sono servite, servono e serviranno a far condannare nei nostri tribunali i trafficanti di esseri umani.
Quelle che si raccontano sono le vite di migranti vissuti in due dei tanti campi di detenzione in Libia. Uno si trova in prossimità dell’oasi di Kufra, all’estremità del sud della Libia che confina con l’Egitto, il Sudan e il Ciad. Ed è quello dove vengono reclusi e torturati i migranti del Corno d’Africa. L’altro si trova invece alle porte della capitale del Fezzan, Sebha. E qui vengono reclusi e seviziati tra gli altri i nigeriani, i nigerini, gli ivoriani, i ghanesi, i senegalesi.
Questi racconti fanno parte di fascicoli giudiziari aperti da alcune Procure della repubblica. Le indagini non sono ancora arrivate a definire processi con imputati condannati. Ma siamo a buon punto.
Prima testimonianza – «Ci hanno trasportati in un carcere che sorge in una zona agricola dedicata alla coltivazione dei datteri e che si erge tra Kufra ed Hedeyafa. In tale struttura costantemente vigilata da diversi uomini armati sono rimasto con il mio compagno di viaggio per un mese e otto giorni. In tale lasso di tempo io, come tutti gli altri migranti reclusi in questa struttura, sono stato più volte torturato anche da un sudanese che oggi si trova in questo centro (di accoglienza italiano, ndr), torturato per il denaro».
«Spesso mi costringevano a contattare telefonicamente i miei parenti e durante le comunicazioni venivo colpito ripetutamente con dei tubi di gomma. Disgraziatamente mio padre è un povero agricoltore perché nella nostra zona è in corso una carestia. Per tali motivi i miei familiari non erano in grado di pagare il riscatto preteso dall’organizzazione criminale, che inizialmente consisteva in 5.000 dollari. In seguito, comprendendo le precarie condizioni della mia famiglia, abbassarono le pretese a 3000 dollari. Ma mio padre non fu in grado di pagare lo stesso. Alla fine, dopo oltre un mese di torture e sevizie sono stato trasferito in un altro struttura, insieme ad altri migranti reclusi».
«Il carcere sorge in una zona agricola vicino ad una piantagione di datteri. Il carcere assomiglia a un grande capannone con un unico ingresso. Vi erano delle finestre, ma troppo alte per essere raggiunte. La struttura ospitava diverse centinaia di migranti ed era costantemente vigilata da una decina di uomini anche armati. Il capo era un sudanese e i sottoposti erano diversi uomini sudanesi e somali. Alcuni avevano dei fucili».
«Mi colpivano ripetutamente con un tubo di gomma. Ma mi reputo fortunato perché non sono mai stato percosso a petto nudo ma indossavo sempre un giubbino che riusciva a mitigare la violenza dei colpi subiti. Altri sono stati meno fortunati. Sono disposto a fare vedere e fotografare le mie cicatrici ma non credo di averne perché non sono mai stato percosso a petto nudo». Questo testimone somalo, come altri nigeriani, svelano ai nostri investigatori che nei centri di accoglienza dove si trovano in Italia, hanno riconosciuto diversi torturatori. E le loro accuse hanno già portato in alcuni casi al fermo degli aguzzini.
«In questo campo c’è Mohamed che ha fatto la traversata con noi. Mi ha picchiato almeno una decina di volte. Quando sono arrivato nel carcere, Mohamed il somalo era già nella struttura. Lui faceva parte della squadraccia dei picchiatori, di quelli che ti torturavano per costringere i tuoi congiunti a pagare. Ma le torture inflitte non si limitavano alle telefonate ma si protraevano per intimorire i reclusi».
Seconda testimonianza – «Sono partito dalla mia regione il 17 febbraio del 2017 per raggiungere l’Europa. Con mezzi pubblici abbiamo raggiunto Adis Abeba dove ci siamo uniti ad altri emigranti che avevano la nostra stessa intenzione. Quindi abbiamo conosciuto i trafficanti etiopi i quali ci assicurarono che erano nelle condizioni di poterci fare arrivare in Europa. Non ci chiesero soldi in cambio perché erano ben consapevoli che noi eravamo dei rifugiati. Ci fecero salire a bordo di un minubus e ci condussero al confine con il Sudan, dove ad attenderci trovammo i facilitatori sudanesi. Noi fummo ceduti a loro che, prima di farci salire a bordo di mezzi, ci perquisirono. Erano armati di fucili. A me presero l’equivalente di 60/70 dollari. Agli altri tolsero tutto, dai denari al cellulare ai preziosi, orologi e anelli».
«Ci fecero salire su due grossi camion. E dopo aver attraversato il deserto arrivammo al confine libico dove fummo ceduti ai facilitatori libici armati di pistole. Salimmo a bordo di una ventina di Pi-kup. E arrivammo all’interno di una struttura recintata con dei grossi e alti muri. Questa struttura era a Kufra, circondata da una piantagione di datteri. All’interno vi erano due grossi capannoni. Uno per gli eritrei, l’altro per i somali».
«Questo accampamento era chiamato Hedeyfa. Da lì non si poteva uscire se non dopo l’avvenuto pagamento. Ho visto che ogni tanto all’interno di quella prigione arrivavano i libici armati di fucili e pistole. La prigione è gestita da un sudanese». «Molti migranti hanno dovuto pagare circa 5.250 dollari. Io non ho pagato perché i miei familiari, malgrado contattati, non erano in grado di pagare. Dopo un mese fui trasferito vicino al mare. E per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto pagare 2.500 dollari attraverso la Hawala Hargheisa (sistema informale di trasferimento di valori, ndr)».
Terza testimonianza – «I Pi-Kup su cui viaggiavamo si sono divisi in diversi gruppi. Io e altri 30 circa siamo stati condotti in una sorta di carcere dove siamo stati rinchiusi. Ricordo che sono stato catturato nel marzo 2017 e che sono stato lì rinchiuso per circa 40 giorni. Giunto in questo carcere, abbiamo capito che eravamo stati venduti a una organizzazione criminale. Infatti iniziarono subito a torturarci per costringerci a contattare i nostri familiari affinché pagassero il riscatto. Alla mia famiglia chiesero un totale di 5.000 dollari. Mia madre non disponeva di tale somma per cui effettuò più pagamenti». «Il carcere sorge vicino a una piantagione di datteri, a Kufra. E faceva riferimento a un militare libico di nome (omissis) di circa 30 anni che veniva saltuariamente, sempre in divisa e sempre armato. La gestione giornaliera era affidata a un sudanese che si avvaleva della collaborazione di cinque somali e un sudanese».
«Sono stato torturato durante tutta la permanenza in questo carcere. Ricordo che durante il primo periodo di reclusione non riuscii a mettermi in contatto con i miei familiari per un problema di linee telefoniche. Ma nonostante questo, continuarono a seviziarmi e lo fecero anche quando arrivò l’ultima quota del riscatto che giunse otto giorni prima della mia liberazione».
Quarta testimonianza – «In cinque giorni siamo arrivati al confine tra la Somalia e il Sudan e in loco circa venti persone si sono aggregate al nostro gruppo. A bordo di un grosso camion abbiamo attraversato il deserto e siamo giunti in una sorta di prigione che si trova vicino la città di Kufra. Qui c’erano almeno duecento segregati e diverse guardie somale e sudanesi. Ma la struttura faceva capo a dei libici. Sono rimasto in questa prigione per circa un mese».
Quinta testimonianza – Questa è la storia di un campo di prigionia alle porte di Sebha. La capitale del Fezzan, del sud della Libia. Qui c’era un personaggio chiamato Rambo, nigeriano. Questa prigione nel deserto è chiamata il “Ghetto di Alī il libico”. «Sono partito dal mio paese, la Costa d’Avorio e ho attraversato il Burkina Faso per arrivare ad Agades, in Niger. Due settimane di traversata del deserto. Il Ghetto di Alì era una grande struttura recintata con dei grossi e alti muri in pietra, vigilata da diverse etnie. Tutti armati di fucili e pistole. La struttura era divisa in tre blocchi. Nel mio eravamo orientativamente duecento, di varie etnie. Mio cugino si ritrovò in un altro blocco. Il mio era vigilato da un guineiano e due ghanesi feroci, Abdulharran e Patrick. Abdulharran era uno che spesso, in modo inaudito e sistematico, picchiava e torturava noi migranti. Dopo circa cinque mesi di lunga prigionia, e quindi di sistematiche violenze subite, mio fratello fece arrivare i soldi e mi liberarono».
Sesta testimonianza – «Sono salito su un bus per raggiungere Agades, in Niger, dalla Costa d’Avorio. Dove arrivammo dopo due giorni di viaggio. Un facilitatore del Mali propose di portarci a Tripoli. Eravamo un centinaio in un capannone dove aspettammo cinque giorni prima di salire su sette camioncini guidati da autisti del Ghana. In quattro giorni arrivammo a Sebha dove fummo imprigionati, spogliati e perquisiti». «In questo carcere c’era un muro in pietra alto tre metri. Dentro, quattro container, tre destinati agli uomini, uno alle donne. In tutto, 800 migranti. Il carcere era vigilato da guardie con fucili mitragliatori e pistole. Erano guardiani nigerini, ghanesi, del Ciad e del Gambia. È durata cinque mesi la permanenza in questo carcere».
Settima testimonianza «Ogni volta che dovevo telefonare a casa, Abdulharram mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione. E così immobilizzato, mi colpiva ripetutamente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in particolare sotto le piante dei piedi tanto da rendermi quasi impossibile poter camminare. Ho anche assistito ad analoghe torture fatte sempre da lui ad altri migranti». «Ho inoltre visto trattamenti anche peggiori come le torture mediante l’utilizzo di cavi alimentati con la corrente elettrica. Tale trattamento veniva però riservato ad emigranti ritenuti ribelli». «Durante la mia permanenza in quel ghetto dove era impossibile uscire, ho sentito anche che Rambo aveva ucciso un migrante».