i migranti considerati ‘non persone’
dopo Macerata
la filosofa Boella:
“siamo tornati alle «non persone» di Arendt”
Laura Boella
Marina Corradi
Dopo Macerata, mentre la destra grida ai «migranti bomba sociale», e si percepisce in Italia l’ombra di un razzismo avanzante
La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, in un’intervista ha detto una frase densa di significato: «L’indifferenza è peggio della violenza». Abbiamo chiesto di commentarla a Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano. «Liliana Segre – osserva Boella – ricorda l’epoca della persecuzione antiebraica, quando da un giorno all’altro intere famiglie ebree scomparivano e i vicini di casa voltavano la testa dall’altra parte, e non dicevano nulla.
C’è un voltare la testa, un non voler vedere che riguarda ancora oggi molti italiani: i migranti che li circondano vengono visti come una massa anonima, non riconosciuta come pluralità di individui che hanno invece nome, un volto e una storia. Questo è un vizio di fondo nel rapporto con la realtà, e incide nell’etica quotidiana: le persone diventano numeri, categorie, ‘clandestini’, ‘vù cumprà’. È un disimpegno dal livello elementare di incontro con l’altro. Livello elementare che non va confuso con solidarietà o accoglienza, ma è almeno l’inizio di un possibile cammino. È un non mettere l’altro nel mucchio, non relegarlo nel mondo delle ‘non persone’, espressione questa di Hannah Arendt.
È significativo che oggi per i migranti si usi l’espressione displaced persons, la stessa che indicava le masse di ebrei rifiutati da Paesi ‘democratici’, privati di ogni diritto fino a diventare un niente, nei lager. Questo processo di ‘anonimizzazione’ dell’altro è un’ombra che si proietta anche sul nostro presente’.
Lei ha appena pubblicato un saggio (‘Empatia’, Raffaello Cortina editore) in cui definisce appunto l’empatia come «l’ingresso nel nostro orizzonte vitale, emotivo e cognitivo di ciò che è vissuto dall’altro». Ma come si pratica l’empatia?
La prima cosa è esercitarci a guardare chi ci sfiora per strada ricordandoci che è un uomo unico, e che ha un infinito valore. Non è nemmeno solo una vittima, è di più: è un uomo, nella sua totalità.
Per Edith Stein empatia era «essere presi dentro» dall’altro…
Un aprirsi concreto alla presenza dell’altro nella vita quotidiana. Perché fenomeni come quello di Macerata non nascono da pura follia, ma dal fatto che quegli ‘altri’ non vengono riconosciuti come uomini.
C’è quindi come un guasto collettivo della nostra capacità di empatia di fronte al fenomeno migratorio?
Sì, ribadendo che empatia non è solidarietà, ma la pura presa d’atto che l’altro esiste e ha valore. Questo riconoscimento viene a mancare perché prevale la paura dell’altro, straniero. Poi la politica e i media agiscono come un moltiplicatore, e allora «gli stranieri ci rubano il lavoro», e allora «America first’»…
Non ci può essere, nell’evitare di guardare i migranti, anche una paura della sofferenza che incontreremmo, se conoscessimo le loro storie, se ci lasciassimo coinvolgere?
Certo, ci può essere anche una incapacità di reggere il coinvolgimento emotivo. Ma bisogna sapere che è possibile passare attraverso questa difficoltà, senza chiudere del tutto la porta. È un lavoro da fare sulle proprie emozioni.
Lei è una studiosa di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz. La Hillesum scriveva che ogni grammo di odio introdotto nel mondo fa del male a tutti, mentre un solo grammo di bene si estende e si propaga.
Etty Hillesum aveva fatto una profonda esperienza su se stessa e conosceva bene l’irrigidimento e anche la depressione che gravano su chi si lascia andare all’odio. Aveva capito su di sé che per quella strada non si va da nessuna parte. Invece aveva scelto un ampliamento del cuore, un accogliere nel cuore tante persone, così che anche la sua fragilità e insicurezza cambiarono totalmente di segno.
Che cosa possiamo fare dunque davanti a questo malessere crescente in Italia, esploso a Macerata?
Lo sguardo che posiamo sull’altro è fondamentale. È un’affermazione della nostra stessa dignità e del nostro senso di umanità saper guardare, sentire, leggere l’altro nello sguardo, nel volto. In modo da non cadere negli stereotipi, negli slogan, nelle categorie che dividono ‘noi’ da una moltitudine di estranei senza nome e senza storia.