In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Una vite e un vignaiolo: cosa c’è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore.
Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi.
Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell’oceano, come il respiro nell’aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte.
Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte?
E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.
Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me.
Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima punta dell’ultima foglia. C’è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. «Siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.