il commento al vangelo della domenica
³⁷In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. ³⁸Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, ³⁹e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. ⁴⁰Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. ⁴¹Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. ⁴²Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. ⁴³Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. ⁴⁴Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”.
Di fronte a questo vangelo la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore.
Inizia un nuovo anno liturgico nel quale, domenica dopo domenica, ascolteremo il vangelo secondo Matteo. Ma inizio e fine di un anno liturgico possono solo mettere davanti a noi ciò che sta sempre nel nostro futuro: la venuta del Figlio dell’uomo, il nostro incontro con lui. Il nostro Dio è il Signore “che è e che viene” (Ap 4,8), perché è già venuto nella carne fragile e mortale di Gesù, il figlio di Maria morto e risorto, viene in ogni ora nella vita del discepolo per attirarlo a sé, verrà nell’ora dell’esodo di ciascuno di noi da questo mondo, alla fine dei tempi, per introdurci tutti e definitivamente nel suo Regno di pace e di vita piena. Gesù è “il Veniente” (ho erchómenos: Ap 1,4.8; 4,8), e il suo giorno, “il giorno del Signore” (jom ’Adonaj, kyriakè heméra), sarà la parousía, la manifestazione ultima e definitiva.
Nel brano evangelico odierno ascoltiamo parole di Gesù dette non alle folle ma in disparte, solo ai discepoli (cf. Mt 24,3), al “piccolo gregge” (Lc 12,32), nelle ore che precedono la sua fine, attraverso l’arresto, la condanna e la morte. Sul monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme, dove si contempla la città santa e il tempio nel suo splendore, Gesù avverte: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo conosce, è un termine fissato alla storia che solo Dio conosce” (cf. Mt 24,36). Per questa ignoranza da parte degli umani, quando ci sarà la parousía, la venuta del Figlio dell’uomo, regneranno l’indifferenza, la distrazione, il non sapere. Gesù dice queste parole con tristezza, ma sa che per l’umanità è sempre come ai tempi di Noè, quando venne la grande inondazione e colse l’umanità impreparata.
Nel libro della Genesi (cf. Gen 6,5-9,17), il diluvio universale è presentato come castigo di Dio su un’umanità da lui creata ma diventata malvagia, violenta. Decodificando quel testo, possiamo comprendere che, allora come oggi, a volte sembra prevalere su tutto la violenza, l’immoralità, la perdita della dignità umana e della fraternità. In questo caso emerge con evidenza che le scelte di uomini e donne sono mortifere, che il comportamento umano sfigura la terra in un modo devastante, ben rappresentato dalle acque del diluvio o dal deserto che avanza. E di fronte a eventi che fanno prendere coscienza della nostra responsabilità, si manifesta come gli umani siano stati fino all’ultimo distratti, incapaci di capire ciò che stavano preparando con il loro comportamento.
Gesù non dice che la generazione nella quale avverrà “il giorno del Signore” sarà immorale o particolarmente perversa, ma ne denuncia solo l’indifferenza. Sono uomini e donne che vivono: nascono, crescono, si innamorano, si sposano, mangiano e bevono… Sì, vivono, e su questo loro vivere Gesù non pronuncia condanne, proponendo loro un programma ascetico. Denuncia solo la “non conoscenza” (ouk égnosan), il non essere pronti, l’essere indifferenti a ciò che invece va cercato prima di tutto ed è essenziale a una vita veramente umana, che risponda alla volontà e alla vocazione del Creatore.
Dunque nessun castigo da parte di Dio, ma semplicemente la manifestazione della situazione in cui si trova l’umanità di fronte alla presenza e alla venuta del Figlio dell’uomo. Purtroppo noi oscilliamo tra febbre apocalittica con predizioni catastrofiche e indifferenza verso questo evento che, tardando così tanto, pensiamo non ci debba tormentare. Ma questo evento non può essere da noi rimandato alla fine della storia, quasi pensando che non ci riguardi, perché in realtà nell’esodo di ciascuno di noi, nel passaggio da questo mondo all’al di là della morte, saremo messi di fronte alla presenza del Figlio dell’uomo veniente nella gloria. Accadrà dunque che tutto si consumerà quando impareremo dagli eventi che la morte arriva per gli uni prima che per gli altri, sicché chi è con noi al lavoro può essere preso e noi lasciati in vita, o viceversa. Non c’è la stessa ora per tutti, non c’è la stessa occasione per tutti, ma per tutti c’è una fine! Anche questo dovrebbe essere di insegnamento, quasi profezia del giudizio di Dio, quando avverrà una separazione tra quelli che entreranno nel Regno, perché esercitati nella comunione con gli altri, e quelli che non potranno entrare, perché non hanno voluto conoscere la comunione con gli altri ma si sono nutriti di philautía, di amore egoistico di sé. Come nelle sette lettere alle chiese dell’Apocalisse (cf. Ap 2-3), il Signore viene e la sua venuta è giudizio in ogni istante!
Occorre dunque essere a conoscenza del piano di salvezza di Dio, occorre vegliare e tenersi pronti. Come un padrone di casa che sa che il ladro verrà nella notte: che cosa farà? Veglierà, starà sveglio e in attesa, in modo da non lasciare che la sua casa venga scassinata. Ecco la postura del discepolo: sa che il Figlio dell’uomo viene, anche se non conosce l’ora della sua venuta, e forte di questa consapevolezza vive nella vigilanza, nell’attesa. Non si lascia andare, non si distrae, ma pur vivendo umanamente bene, continua a vigilare per aprire prontamente al Signore quando arriverà; verrà sorprendendoci, ma, proprio perché atteso, sarà anche accolto prontamente e con grande gioia.
In ogni caso, di fronte a questo vangelo – dobbiamo confessarlo – la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Come diceva Ignazio Silone: “I cristiani dicono di attendere il Signore, e lo aspettano come si aspetta il tram!”. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore. Siamo ricondotti a comprendere che noi, pur vagabondi e mendicanti sulla terra per un pugno di anni – “settanta, ottanta se ci sono le forze” (Sal 90,10) –, in quel giorno avremo bisogno solo della misericordia del Signore.