il commento al vangelo della domenica
ALLE MIE PECORE IO DO LA VITA ETERNA
commento al vangelo della domenica quarta di pasqua (17 aprile 2016) di p. Alberto Maggi:
Gv 10,27-30
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Ogni volta che Gesù, il figlio di Dio, e Dio lui stesso, si trova nel tempio di Gerusalemme, il luogo più sacro della terra, il luogo più santo di Gerusalemme, il luogo dove si riteneva fosse presente Dio stesso, bene, ogni volta che Gesù si trova nel tempio è sempre una situazione di conflitto. Nel brano che vedremo è l’ultima volta che Gesù si trova nel tempio, nel santuario di Gerusalemme, e questa volta addirittura tenteranno di lapidarlo.
Vediamo cosa è successo. Dobbiamo inserire questi pochi versetti della liturgia di oggi nel contesto più ampio nel quale l’evangelista li inserisce. E’ una delle feste più importanti di Israele, la festa della dedicazione, cioè la riconsacrazione del tempio, fatta da Giuda il Maccabeo nel 165 a.C.
Per l’occasione si accendeva un grandissimo candelabro ed era chiamata la festa delle luci. Chiaramente c’è un conflitto tra questa festa delle luci e Gesù che si presenta lui come luce del mondo. Già l’ha detto.
Infatti quando Gesù entra nel tempio viene subito accerchiato dalle autorità che gli chiedono letteralmente: “Fino a quando ci togli la vita?” La missione di Gesù di restituire vita al popolo significa toglierla alle autorità che dominano questo popolo. Ebbene, questa volta Gesù rivolte alle autorità religiose, i rappresentanti di Dio, parole molto severe. Gesù dice: “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”. Gesù si era presentato come il vero pastore inviato da Dio per adunare il popolo, il gregge, eppure Gesù dice che ci sono alcuni che non fanno parte di questo gregge.
Proprio le autorità religiose, i capi spirituali, quelli che ritenevano per diritto di essere i più vicini a Dio, Gesù dice che sono esclusi. Ed ecco i versetti che la liturgia ci presenta. Gesù afferma: “Le mie pecore…”, quindi Gesù sottolinea ancora una volta che le pecore sono sue, lui è il vero pastore, perché il pastore è colui che dà la vita per le proprie pecore. “Le mie pecore ascoltano la mia voce”. La voce di Gesù, che è la voce di Dio, è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di Dio che ogni persona si porta dentro. Quello che caratterizza la voce di Gesù è che il messaggio d’amore non viene imposto, ma viene offerto, semplicemente proposto.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco …” è importante in questo brano l’uso del verbo “conoscere”. Indica una conoscenza veramente intima, profonda dei suoi. “Ed esse mi seguono.” Lo seguono perché trovano in Gesù la risposta al proprio ideale di vita, cosa che invece non trovano i capi, perché Gesù aveva detto: “Almeno credete alle opere”. Ma loro non possono credere in queste opere perché le opere di Gesù sono tutte tese a restituire vita al popolo. E loro sono quelli che invece soffocano questa vita.
E Gesù continua: “Io do loro la vita eterna”. E’ un tema caro all’evangelista questo. La vita eterna non è un merito ma è un dono da parte di Dio e si chiama eterna non tanto per la durata, indefinita, ma per la qualità, che è indistruttibile.
“E non andranno perdute in eterno”, cioè mai, “e nessuno le strapperà dalla mia mano. Ecco Gesù dà un avviso molto severo, molto chiaro alle autorità religiose che non tentino di strappare queste pecore dalla sua mano. Lui sarà il pastore che darà la vita per le sue pecore. “Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti”. Questo è un versetto un po’ difficile e complesso. Ci sono ben cinque varianti perché il problema è capire cos’è più grande, il padre o il gregge?
Il senso, il significato, in fondo non cambia. Noi proponiamo la versione in cui quello che è più grande, più importante è il gregge, che il Padre ha dato al figlio. Quindi il Padre che ha dato questo popolo a Gesù, è il dono più grande che poteva fargli. E se prima Gesù aveva parlato della sua mano, che nessuno le può strappare dalla sua mano, ora arriva a dire “E nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Quindi non si può distinguere tra Gesù e Dio come facevano le autorità religiose. Dio e Gesù sono la stessa cosa.
E il gregge sta nella mano di Gesù che è la mano del Padre. E nessuno tenti di rubare di nuovo questo gregge come avevano fatto le autorità. Ed ecco la frase che gli sarà fatale, la bestemmia, subito dopo la quale scatterà l’azione di linciare Gesù, di lapidarlo. Gesù afferma: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. La traduzione non è corretta. Il testo dice: “Io e il Padre siamo uno”.
Uno nella simbologia biblica è il numero che indica la divinità. Cioè Gesù sta dicendo che lui è Dio, come il Padre è Dio. “Io e il Padre siamo uno”. Questa è una bestemmia insopportabile. L’evangelista qui realizza quello che aveva scritto all’inizio del suo vangelo nel prologo quando aveva affermato che Dio nessuno l’ha mai visto, solo il figlio ne è la rivelazione. Gesù non è un inviato da Dio, Gesù non è un profeta di Dio, Gesù è la manifestazione visibile e terrena di quello che Dio è.
Ed ecco perché Gesù dice: “Io e il Padre siamo uno”. Ebbene dopo di questo succede il finimondo. Scriverà l’evangelista che le autorità, i capi, prenderanno delle pietre per lapidarlo e diranno il motivo: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia. Perché tu che sei uomo ti fai Dio”.
Quello che era il progetto di Dio sull’umanità, che ogni creatura diventasse suo figlio e avesse la sua stessa vita divina, per le autorità religiose che dovevano far conoscere questo progetto al popolo, era in realtà una bestemmia da punire con la morte.