SEI INVIDIOSO PERCHE’ IO SONO BUONO?
Commento al Vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario (21 settembre) di p. Alberto Maggi
Mt 20,1-16
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».Non è facile accettare un Dio che anziché premiare i buoni e castigare i malvagi fa invece “sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), offrendo a tutti il suo amore. Un Dio del genere sembra ingiusto, come il padrone della parabola narrata da Gesù (Mt 20,1-15). In essa viene presentato un proprietario terriero che assolda dei braccianti per la sua vigna. L’importanza del lavoro fa sì che sia il padrone stesso a uscire da casa all’alba, per andare alla piazza del paese, e ingaggiare operai (Mt 20,1). La paga era un denaro il giorno, ed è questa che il padrone assicura ai lavoratori. La gran disponibilità di mano d’opera faceva sì che con una sola chiamata di operai si potesse soddisfare il fabbisogno dell’intera giornata.
Invece, a sorpresa, verso le nove del mattino, il padrone esce di nuovo, in cerca di altri operai. Non lo fa per la necessità della vigna, i primi chiamati sono più che sufficienti, ma li assolda perché essi sono ancora disoccupati, e senza lavoro, in quella società, significa non mangiare. È al loro bisogno che il padrone pensa. E a questi promette di dare un compenso in base al lavoro fatto (“quello che è giusto”, Mt 20,4).
A metà giornata, l’uomo torna di nuovo in piazza, e assolda altri operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Ormai di operai nella vigna ce ne sono abbastanza, ma il padrone è più preoccupato dal fatto che ci siano persone senza lavoro che del suo interesse. Ed è ormai quasi il tramonto, verso le cinque del pomeriggio, quando il padrone si reca in cerca di altre persone che nessuno ha chiamato a lavorare. Manca soltanto un’ora al termine della giornata lavorativa, ormai nessuno li prenderà più. Non hanno lavorato, quindi non mangeranno. Se nessuno ha pensato a loro, se ne occupa il padrone della vigna, che chiama anche questi a lavorare, senza parlare però di alcun compenso: non lavoreranno neanche un’ora, e potranno essere ripagati con un tozzo di pane.
La piazza del paese è deserta. Nessun bracciante è in attesa del lavoro: sono tutti alla vigna, che sovrabbonda di operai. Quelli che hanno iniziato il lavoro all’alba, sono stati ben felici di veder arrivare durante tutto il giorno altre braccia per aiutarli nel lavoro; con il loro apporto la giornata non è stata pesante. La loro felicità si trasforma in entusiasmo quando vedono che il fattore comincia a pagare gli ultimi, quelli che hanno lavorato un’ora scarsa, e dare loro un denaro: non è una paga, ma un regalo. Se quelli che hanno lavorato un’ora ricevono quanto era stato pattuito con i primi lavoratori per una giornata intera, a quelli che hanno sopportato il peso della giornata e la calura certamente verrà dato almeno tre volte tanto.
Ma quando questi vedono che sono retribuiti con un denaro, come era stato pattuito, sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto. Il signore della vigna non è stato ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Non toglie nulla a quelli che hanno lavorato dall’alba, ma vuole dare lo stesso salario anche agli ultimi. Difendendo il suo comportamento, il padrone della vigna si definisce buono (“Sei invidioso perché io sono buono?”, Mt 20,15). Nell’atteggiamento del proprietario della vigna, Gesù raffigura quello del Padre.
Dio non è un padrone severo, ma un signore generoso che non retribuisce gli uomini secondo i loro meriti, ma secondo i loro bisogni, perché il suo amore non è concesso come un premio, ma come un regalo. Quel che motiva il suo agire è la necessità dell’uomo, la sua felicità. E se a qualcuno questo comportamento può sembrare ingiusto, e non gli sta bene, è perché il suo è un “occhio maligno” (Mt 20,15), quello dell’avaro, dell’invidioso (Dt 15,9), di colui che fa tutto per la sua convenienza. Questi non potrà mai capire l’agire di un Dio che non “cerca il proprio interesse” (1 Cor 13,5), ma quello dell’uomo.Dio germoglia dalla strada.
il commento di p. Agostino dalla sua convivenza coi rom di Coltano
Sembra proprio, alla luce di questa parabola dedicata al Regno dei cieli, che questi non sempre si concilia con il “merito”, parola chiave oggi in tanti nostri contesti sociali.
Oggi quasi tutto si misura in base al merito, al rendimento. Qualche anno fa circolava con disinvoltura quella bruttissima espressione: meritocrazia.
Vedo il rischio che la meritocrazia comprometta e annulli un’altra parola, quella della gratuità, della bontà, tipica dell’essere umano e del cuore di Dio. E questo può succedere anche in contesti religiosi, soprattutto quando ci si confronta con gli ultimi, che in nome di una carità efficiente e moderna (in sinergia, come si usa ripetere spesso)), si fa prevalere quasi sempre il merito, il risultato.
“Ti aiuto quando te lo meriti!
Se cambi (come voglio io), meriti la mia comprensione.
Se smetti di accattonare.
Se mandi i bambini a scuola.
Se ti cerchi un lavoro.
Se stai a quello che ti dico, potrai avere (meritare) qualcosa in cambio.
Se hai il Permesso di Soggiorno in regola puoi dormire qui.
Se.. se.. se..”
Più contabili e ragionieri che accompagnatori.
Noi spesso guardiamo gli ultimi dall’alto dei nostri meriti, delle nostre conquiste: dall’alto in basso. Il padrone della vigna, invece calcola partendo proprio dagli ultimi arrivati, dalle loro necessità. Non un Dio ragioniere, contabile. Noi riusciamo a farlo? Come traduciamo questo sguardo di bontà, questo atteggiamento anche nei nostri cammini pastorali?
Dio sembra guardare il mondo proprio attraverso gli occhi degli ultimi arrivati nella sua vigna. Anche oggi, questo provoca diverse reazioni dei “buoni-bravi”:
“ Ma come? Questi migranti appena arrivati, quanto ci costano! Lo stato gli dà 35 € al giorno e sono i nostri soldi, e noi che affrontiamo la crisi, lo stato non ci da niente!”
“Quanto sono furbi e insistenti..devono imparare a rispettare le regole!”
“La precedenza a noi, che abbiamo lavorato e faticato, poi quel che rimane a loro, che non hanno fatto niente.”
“Amico, io non ti faccio torto..oppure sei invidioso perché io sono buono?”
Che ci piaccia o no, anche gli ultimi hanno una loro specifica “missione”: quella di scuotere e disturbare le nostre certezze granitiche, come il nostro sentirci “buoni” a distanza di sicurezza dagli ultimi e di credere di avere Dio sempre e solo dalla nostra parte.. Attraverso gli ultimi arrivati forse, lo stesso Dio ci sussurra, che ancora oggi Lui entra nella nostra storia sui loro passi:: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri. Le vostre vie non sono le mie vie.” (Is. 55, 8)
E’ un Dio che manifesta e rivela la sua bontà partendo dagli ultimi, che (ci) guarda dal basso, dal fondo, mai sazio di uscire lungo le strade del mondo, capace di raggirare le nostre regole e continua ancora oggi a far germogliare il suo “magistero” dalla strada, proprio grazie a loro: gli ultimi arrivati!
Ebbene, quale Dio annunciamo nelle nostre assemblee, nei nostri convegni pastorali?
Il Dio visto con gli occhi dei “primi” o attraverso gli occhi degli “Ultimi”?
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