il possibile dialogo

IL DIALOGO FRA CULTURE E RELIGIONI

di Carlo Molari

Nel giugno 2016 si è svolto a Parigi un Congresso di teologia organizzato dalla rivista internazionale di teologia «Concilium», insieme con l’Istituto di scienze e di teologia delle religioni (Istr), con la Facoltà di teologia e scienze religiose dell’Istituto cattolico di Parigi (Theologicum) e con la partecipazione dei Domenicani, nel quadro delle celebrazioni dell’ottavo centenario della loro fondazione. Il problema affrontato nel Congresso, Come praticare il dialogo fra culture e religioni, viene messo a fuoco da alcuni interventi, successivamente pubblicati nel n. 1/2017 della rivista «Concilium» (a cura di T.-M. Courau e C. Mendoza Alvarez). Gli Atti del Congresso parigino saranno pubblicati dall’editrice Cerf (Parigi).

 

Ipotesi interessante

Il Congresso e il quaderno di «Concilium» partono dall’ipotesi «che il riconoscimento della singolarità culturale e religiosa di un mondo, con i suoi aspetti irriducibili ad altri mondi, non è un problema o un ostacolo ad un dialogo autentico. Al contrario, prendere coscienza della singolarità altrui è uno degli atteggiamenti decisivi per avanzare in una conoscenza più adeguata di sé e per la costruzione di un progetto comune di società» (ib., Editoriale, pp. 12).
Nella pratica di dialogo e nella riflessione che l’ha accompagnata in questi decenni si proponeva come punto di partenza gli elementi comuni ai dialoganti. Per questo l’ipotesi proposta e sviluppata viene considerata «come un vero cambiamento di paradigma» (ib., Editoriale, p. 13).
Il motivo per cui nella storia il proprio punto di vista culturale è stato considerato assoluto e il dialogo risultava difficile risiede nella considerazione che il linguaggio è stato istintivamente pensato come riproduzione della realtà o addirittura riflesso delle idee divine, in quanto insegnato da Dio. Ma da quando il linguaggio è stato scoperto e interpretato come una invenzione umana se ne sono individuati limiti e condizionamenti. Ma soprattutto non è stato più possibile partire dal linguaggio per descrivere la realtà.
È stato necessario ricercare un dato precedente, l’esperienza vitale, e rassegnarsi al dialogo per una ricerca comune. In questa prospettiva la verità è un traguardo da raggiungere insieme partendo dalle caratteristiche proprie delle diverse culture.
La nuova acquisizione ha consentito una convergenza di riflessioni; in particolare vi è stato un accordo nell’uso del termine razionalità, come è stata proposta nell’elenco degli argomenti del Congresso di Parigi. Essa indica «una visione, un approccio, una percezione razionale singolare della realtà» ed è «compresa come un insieme di grammatiche intessute fra di loro, di strutture mentali acquisite per apprendere e rendere conto di ciò che si sperimenta e si viene a conoscere» (ib., p. 12).
Sono quattro le tappe del cammino compiuto durante il Congresso e riflesso negli interventi del numero di «Concilium»:pensare le diverse razionalità culturali e religiose (per precisare i concetti di riferimento); a contatto delle realtà sul campo (la messa in questione dell’ipotesi nell’esame dei fatti concreti); sulla verità e l’universale (le opportunità concettuali offerte dal nuovo paradigma); e infine la proposta di alcune prospettive teologiche (piste indicate per un concreto lavoro teologico fecondo). (cfr. ib., p. 13).

Un esempio emblematico

Fra i molti articoli mi limito a presentare la relazione di Felix Wilfred, l’attuale direttore di «Concilium»,che propone uno sguardo asiatico sul problema, ma con occhi allenati allo sguardo universale già dagli studi teologici iniziati a Roma (Università Urbaniana) e proseguiti con molteplici esperienze di insegnamento universitario in varie parti del mondo. La sua relazione ha una parte generale che riprende il tema di fondo del Congresso parigino con una breve applicazione al mondo indiano: Fede cristiana e razionalità socio-culturali. Riflessioni dall’Asia (pp. 119-130).
L’esempio da cui parte è già indicativo della problematica: nel monastero adiacente la Cattedrale di Bressanone esiste la pittura di «un grande e potente cavallo con due zanne da elefante, una proboscide e due larghe orecchie». L’artista che non aveva mai visto un elefante ma ne aveva sentito parlare, l’aveva immaginato secondo le sue categorie per le quali il cavallo rappresentava l’animale più grande mai visto. È un modo molto concreto per introdurre il discorso.
La prima costatazione riguarda i limiti di una teologia che presume utilizzare categorie universali, senza la consapevolezza del pluralismo delle razionalità umane. Per questo «la teologia ha bisogno di accostarsi alla ragione in modi nuovi, profondamente consapevole dei suoi gravi limiti, ma allo stesso tempo pure delle forme plurali di razionalità che scaturiscono da storia, cultura, tradizione, filosofia, visioni del mondo ecc.» (ib., p. 120). Quando non è consapevole del pluralismo delle razionalità umane «la teologia diventa inautentica e perde il suo ancoraggio alla realtà» (ib., p. 121). Egli cita l’esempio di Benedetto XVI nella discussa lezione a Regensburg nel 2006 quando identificò la ragione umana con la razionalità greco romana e affermò: «Le decisioni di fondo che appunto riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa, e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura» (Osservatore Romano, 14 settembre 2006, ib ., a p. 121).
La seconda constatazione riguarda la radice del pluralismo di razionalità cioè il condizionamento derivato dal linguaggio. «Proprio perché la lingua cinese, quella araba e quella francese operano con modi linguistici diversi, noi realizziamo ragionamenti diversi e quindi approcci diversi alla realtà, molti modi di ordinare e interpretare il mondo e strutturare la società. In breve i processi cognitivi e le costruzioni del pensiero seguono modelli linguistici» (ib., pp. 122s.).
Giustamente Wilfred avanza il sospetto che la teologia non abbia tratto completo profitto dalle conclusioni della linguistica strutturale sia medioevale per l’India (cita Anandavardhana 820-890) sia moderna per l’Occidente (cita il Corso postumo di Ferdinand de Saussure, 1857-1913).
In particolare insiste sulla dimensione classista della razionalità umana: «Le operazioni teoretiche, come analisi, sintesi, classificazione, inferenza, dialettica ecc. non son concezioni immacolate; riflettono anche il fattore classista, le inclinazioni culturali, le condizioni e disposizioni sociali. Il modo con cui i poveri percepiscono, giudicano, analizzano e valutano le situazioni è diverso dal modo in cui lo fanno le classi dominanti, le caste e i gruppi elitari della società» (ib., pp. 128s.).
Infine cita come «deplorevole» la messa in guardia contro l’uso di «metodi orientali» da parte della Congregazione per la dottrina della fede (Lettera su Alcuni aspetti della meditazione cristiana del 15 ottobre 1989) «perché associa la fede con un particolare tipo di ragione e dimostra un’ignoranza pressoché totale della natura di questa prassi della ragione pratica nel contesto asiatico» (ib., p. 128).
A questo proposito Wilfred è convinto che la Congregazione dovrebbe lasciare il compito di controllare le razionalità socioculturali alle chiese locali «che sono in grado di giudicare materie di ortodossia ed eterodossia nel contesto» (ib., p. 130). E termina velocemente: «Questo significa che la chiesa può non aver bisogno di un’istituzione come la Congregazione per la dottrina della fede. Essa deve passare rapidamente alla storia. Non sarebbe dovuta scomparire già da molto tempo?» (ib., p. 130). Ma se crediamo nel processo evolutivo e nell’azione creatrice di Dio man mano che le creature si sviluppano e diventano complesse, perché non ritenere che come le scoperte del passato hanno mostrato i limiti di molte interpretazioni teologiche, e consentito un reale cambiamento di strutture mentali, così avverrà certamente nel futuro. E il cammino verso la verità riprende da capo.