il rabbino che vuole ripartire dal sangue comune di ebrei e palestinesi
Milgrom, il rabbino del dialogo
«Farsi carico del dolore dell’altro»
di Lucia Capuzzi
«È il momento di farci carico del dolore gli uni degli altri. In questi giorni, ho parlato a lungo con tanti amici palestinesi. Non di politica, però. Bensì della sofferenza che tutti sentiamo. Ecco, forse dovremmo ripartire da lì».
Dopo esserci fatti tanto male, dobbiamo sforzarci di vedere il dolore dell’altro. Prego che Dio ci faccia aprire gli occhi
Il rabbino riformato Jeremy Milgrom è uno dei più noti attivisti israeliani per la pace. Statunitense di nascita, si è trasferito a Gerusalemme nel 1968, dove ha contribuito a fondare “Religions for peace” – iniziativa interreligiosa tra cristiani, islamici ed ebrei – e “Rabbi for human rights”, gruppo di cui fanno parte oltre un centinaio di persone. Il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre lo ha riempito di dolore e frustrazione. «Ho cercato per tanti anni di spiegare ai miei concittadini che la violenza dell’occupazione avrebbe generato dei mostri. Perché non sono riuscito a far capire che chiudere in gabbia 2,3 milioni di palestinesi significava creare una pentola a pressione pronta a esplodere in qualunque momento? Perché io e tanti altri attivisti non siamo stati in grado di aiutare gli israeliani a cambiare strada, evitando questo bagno di sangue?». Sono domande cariche d’angoscia quanto di coraggio quelle di Milgrom. Il rabbino non può né vuole giustificare la strage di oltre 1.400 persone – donne, uomini, bambini – da parte dei miliziani. «Semplicemente, da persona di fede, non credo che l’offensiva sulla Striscia scatenata in risposta a tanta barbarie sia moralmente accettabile. E, ancor più, non è utile per il bene di Israele. Il governo ripete che vuole distruggere Hamas. Il punto è che non è possibile farlo con la via militare. L’esercito può smantellare molte rampe di lancio dell’organizzazione, ucciderne i leader. Non sono, però, le infrastrutture logistiche o i suoi comandanti la forza di Hamas. Questa deriva dalla rabbia di tanti palestinesi che non vedono alternativa alla ferocia per risolvere il conflitto. Quell’odio è la radice del problema che dobbiamo finalmente avere la forza di guardare in faccia. E finalmente eliminarlo. Come? Offrendo una soluzione giusta che rispetti i diritti, la dignità e la libertà dei nostri vicini. Altrimenti non avremo mai pace. E tanti altri innocenti moriranno. A Israele e a Gaza». Jeremy Milgrom è convinto che i destini di israeliani e palestinesi siano indissolubilmente legati. «Il bene per gli uni significa bene anche per gli altri. E viceversa». Finora è il “viceversa” a ripetersi da oltre un secolo, già prima della fine del mandato britannico sulla terra all’epoca chiamata Palestina e ora divisa in una miriade di enclave blindate quanto vulnerabili. In tanti, in tutto il mondo, si chiedono se sia possibile ora fermare la corsa verso la mutua autodistruzione. «Dipende da noi – afferma il rabbino – . L’attuale amministrazione di Benjamin Netanyahu ha sposato il conflitto nell’illusione di poterlo gestire. Una visione miope. Come la strategia di indebolire l’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania, sostenendo gli insediamenti illegali di coloni israeliani, nonostante gli impegni presi trent’anni fa a Oslo. Del vuoto lasciato dal partito di Abu Mazen si è avvantaggiata Hamas. Con le conseguenze che stiamo vedendo. Israele deve ora avere la lungimiranza di abbandonare la logica della guerra. La fine del conflitto può venire solo dalla politica». I palestinesi, però, in gran parte, non ci credono più, come molti israeliani. «Per questo occorre un passo preliminare. Dopo esserci fatti tanto male, dobbiamo sforzarci di vedere il dolore dell’altro. Prego che Dio ci faccia aprire gli occhi».