il ‘sogno’ di una chiesa meno clericale
il teologo domenicano, F. Boespflug, professore di storia delle religioni a Strasburgo, delinea il suo ‘sogno’ di una chiesa meno clericale, che dia spazio effettivo alla donna, che metta al primo posto la parola e riveda le sue decisioni rispetto a tante bocche che ha duramente tappato
Ho un sogno: una Chiesa meno clericale
di François Boespflug*
in “www.lavie.fr” del 9 ottobre 2013
Se dovessi citare una sola priorità per la riforma in corso nella mia Chiesa, sarebbe quella di una Chiesa meno clericale nei suoi modi di fare e di parlare, di cui papa Francesco mostra l’esempio quasi ogni giorno con gioia e che dà al suo messaggio un ritorno di giovinezza, di vitalità, di semplicità evangelica e di pertinenza profetica. dare uno spazio effettivo alle donne Questo cambiamento passa innanzitutto dalla fine del monopolio clericale (o diaconale), in ogni caso maschile, sul diritto di predicare nell’ambito della liturgia, e dal diritto, per le donne formate per questo ministero (attraverso una qualificazione in bibbia, teologia e liturgia) di esercitarlo. Semplicemente non è più tollerabile dalla coscienza comune né veramente vivibile in questi tempi di crisi delle vocazioni sacerdotali il fatto che continui a dominare ancora per molto, senza la minimo prospettiva di cambiamento, la disciplina di ferro che regna in questo ambito a partire dalla riforma gregoriana. Non c’è alcun argomento teologico convincente, eccetto quello della tradizione (benché Maddalena abbia meritato il titolo di “apostola apostolorum” e ad ogni modo, come insegna san Tommaso d’Aquino, l’argomento della tradizione è il più debole di tutti dal punto di vista razionale) perché sia mantenuta questa regola, nel senso dell’adagio paolino, “che le donne tacciano nella Chiesa”. Questa affermazione, e le conseguenze che ne sono state tratte, non sono più accettabili. Altre Chiese cristiane hanno voltato pagina, non senza coraggio, e stanno alquanto meglio, e si farebbe bene a meditare sul loro esempio approfittando della loro esperienza. Sarebbe una scelta di classe che la Chiesa di Roma avesse il coraggio di consultare la Chiesa anglicana… In ogni caso, ci si può aspettare molto da una evoluzione in questo ambito ed è perfino permesso pensare che i benefici dell’apertura alle donne della predicazione liturgica produrranno frutti positivi, numerosi ed imprevedibili. Manca qualcosa all’esercizio attuale di questo ministero, che passerà tramite le donne e sarà ridato alla Chiesa tramite loro, e solo tramite loro. Si tratta di un provvedimento è di tale natura da far evolvere l’esercizio del sacerdozio stesso. Su questo piano come su tutti gli altri, dove tale evoluzione avviene, quando avviene davvero, l’incontro del maschile e del femminile ha la grande opportunità di essere feconda. È molto dannoso che la predicazione del vangelo non abbia ancora potuto beneficiare di questa sorta di fattore di umanizzazione completa che permette la condivisione del compito tra uomini e donne, come si constata che lo procura l’accesso delle donne a funzioni di responsabilità nelle imprese e in altre istituzioni. Non è affatto necessario, secondo noi, condizionare questo provvedimento all’accesso delle donne al diaconato o al presbiterato. Ogni cosa a suo tempo. Mettere al primo posto la parola Poiché la vita della Chiesa si nutre della Parola di Dio e della liturgia, metterei nella riforma al secondo posto la riabilitazione della parola durante la messa e suggerirei al papa di redigere una enciclica vigorosa sull’alleanza strutturale indispensabile, nella celebrazione dell’eucaristia, della tavola della parola e della tavola del pane, alleanza insegnata e sostenuta dal Concilio Vaticano II nel solco del rinnovamento patristico, ma che è oggi malata dell’esaltazione della presenza reale a detrimento della parola viva – un’esaltazione che risale senza dubbio alla Controriforma, se non oltre, e giunge non solo all’ostensorio, ma all’interruzione della celebrazione alla consacrazione per adorazione e alla correlativa sospensione dell’omelia. Quindi una enciclica sull’omelia sembra urgente e prioritaria, accompagnata forse da una riflessione ecclesiale di grande portata, coraggiosa e ambiziosa, sulla crisi della predicazione nella Chiesa. Bisogna finirla con una teologia dell’eucaristia che oppone sacramento e omelia come l’essenziale e l’accessorio. La maggior parte delle disaffezioni alla messa domenicale provengono non tanto da un
dubbio relativamente alla presenza di Cristo nel pane e nel vino consacrati quanto da una invincibile noia ripetuta di settimana in settimana: mentre la testa e il cuore soffrono la fame, puntare tutto sull’ostia soltanto per colmo di mancanza di nutrimento dello spirito è un controsenso teologico ed antropologico. È quindi la teologia della messa che occorre correggere in un senso che tenga conto della ricezione concreta della liturgia da parte dei fedeli e delle condizioni sine qua non della loro partecipazione prolungata e resistente, tranquilla e convinta. riabilitare i teologi Infine sogno una rivalorizzazione globale e decisa dello studio, dovere religioso numero uno degli ebrei e presto, se non si sta attenti, ultima delle preoccupazioni dei cattolici; una dichiarazione solenne sull’importanza della lettura assidua, della perizia paziente, della vita intellettuale in generale, della ricerca e del mestiere di teologo in particolare, nella vita della Chiesa. Certo è bello che l’azione cattolica, la militanza, il volontariato, la carità creativa sotto tutte le sue forme, da un lato, la preghiera, il gusto della condivisione comunitaria, la devozione, la vita interiore e la contemplazione dall’altra, abbiano conosciuto dei bei giorni da diversi decenni, in particolare grazie all’Azione Cattolica, a diversi rinnovamenti (liturgici, biblici, patristici, ecc.), al Concilio Vaticano II (1962-1965), a quello che è stato chiamato movimento carismatico (dal 1972) e all’impegno dei cristiani in diversi campi d’azione umanitari. Ma è profondamente negativo, nefasto, controproducente che la fiducia e la stima per coloro che dedicano la loro esistenza all’acquisizione di una vero saper-fare in materia di riflessione critica sulle condizioni e sui mezzi della vita cristiana e della testimonianza cristiana, abbiano conosciuto un tale crollo che ormai è corrente sentir dire e perfino leggere che non ci sarebbero più intellettuali cristiani. I teologi di mestiere (sì, sì: di mestiere!) sono sempre meno sollecitati a dare la loro opinione e le loro analisi non solo negli organi di stampa non confessionali, ma perfino nella stampa di obbedienza cristiana; così come è negativo che tanti vescovi immaginino di non doversi più consigliare con i saggi e soprattutto con i ricercatori appassionati della Chiesa (condizione necessaria, non sufficiente) e ben informati in materie come morale, finanza, politica, media, questioni interreligiose, faccende di immagini e arte, come se la loro ordinazione episcopale li avesse colmati ipso facto e durevolmente dei sette doni dello Spirito Santo. Questa tendenza larvata anti-intellettualistica nuoce sia alla qualità del dibattito nella Chiesa, che non è in buona salute, e alla pertinenza delle prese di posizione dei cristiani nei media.
Nel caso felice che i tre desideri che ho appena formulato si realizzassero, per quanto minimamente, ne conseguirebbe la de-clericalizzazione del linguaggio dell’omelia, della catechesi, delle dichiarazioni episcopali, e del tono dei preti e del loro abbigliamento. E prego lo Spirito Santo di diffondere generosamente sulla Chiesa il parlar franco, che può aiutare le evoluzioni in questo senso.
Utinam!
*François Boespflug domenicano, professore di storia delle religioni alla Facoltà di teologia cattolica di Strasburgo, autore di diverse opere religiose, tra cui Le prophète de l’islam et ses images, une question tabou (Bayard).