il teologo H. Kung parla della morte umana vissuta con dignità

 

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

 

 

 

 

 

segni dei tempi

la morte umana dignitosa

 H.Küng

Il testo che viene pubblicato  riporta in gran parte il discorso che Hans Kung ha tenuto lo scorso anno al momento del ricevimento del premio Artur Koestler. L’occasione per la pubblicazione, come contributo al dibattito sulla delicata questione del fine vita, è il conferimento a Küng del “Grosso d’oro” da parte della città di Brescia il 25 giugno. Küng, contrariamente a quanto previsto, non potrà essere presente per i problemi dovuti ad un aggravamento del suo stato di salute e non potrà tenere la prevista Lectio magistralis su “Rinascita di speranza per la Chiesa e il mondo”.

Ho detto con convinzione sì a questo riconoscimento [1], perché rappresenta un’onorificenza speciale, in quanto mi viene dato non solo per il mio terzo volume di memorie  umanità vissuta) con il suo capitolo “Nella sera della vita”, ma per il mio lavoro di tutta una vita. Una via teologicamente responsabile Ero comprensibilmente ansioso di vedere come un filosofo riesca a comprendere un lavoro complesso di una lunga vita di teologo, Lei, caro collega Dieter Birnbacher, ha assolto a questo compito in modo brillante, profondo e con ampiezza di orizzonti. […] Il laudator non ha parlato solo della mia persona, ma ha fatto anche delle  appropriate riflessioni sul problema: non solo sull’etica mondiale, ma pure su una saggezza mondiale, o saggezza scolastica o dei dogmi e sulla penuria di esempi e di figure di riferimento, in grado di indagare con capacità l’integrazione e la complementarietà tra fede e ragione, religione e illuminismo. In questo nostro evento [2] sono molto importanti le affermazioni di Dieter Birnbacher sull’accettazione etica dell’aiuto a morire, che, secondo la mia e la sua opinione, si basa sulla fiducia in un Dio inteso non come assolutista, ma amoroso. Queste affermazioni mi rallegrano enormemente perché dimostrano che la mia proposta di una via di mezzo teologicamente responsabile, sul diritto all’autodeterminazione per motivi religiosi, ha trovato accoglienza anche nella DGHS (Deutschen Gesellschaft für humanes Sterben, Società tedesca per una morte umana, ndr), così come anche nella  EXIT, spesso diffamate come associazioni senza religione e di tipo materialista. Per questo vi ringrazio tutti sia che siate credenti o non credenti.

Responsabilità per la mia morte

Desidero anche brevemente sfruttare l’occasione per esplicitare meglio la mia posizione che raccoglie sempre più consenso. Ma non deve sorprendere nessuno, il fatto che i nuovi problemi che si presentano e le rispettive soluzioni si scontrino spesso con incomprensioni o malintesi. Ad una sostanziale incomprensione marcata religiosamente o ideologicamente è difficile rispondere e a concreti malintesi ancor più. Per escludere ogni ambiguità dico a chiare lettere: – Non difendo e non ho in mente nessun suicidio; anche alla fine di una vita esiste un omicidio solo se viene commesso per basse motivazioni, imbroglio o violenza contro la volontà dell’interessato.

– Mi prendo la mia responsabilità per la mia morte nel momento che si presenterà, una  responsabilità che nessuno potrà togliermi. Naturalmente non voglio in nessun modo congedarmi subito dalla vita, ma solo ad un momento dato, che spero di riconoscere con lucidità.

– Il Signore, a me ottantacinquenne non manda un segno diretto dal cielo, ma il Signore mi dona, e lo spero, la grazia di riconoscere il giusto momento; perché se fosse troppo tardi, per me si presenterebbe una situazione senza via d’uscita, in una demenza incipiente.

– Che il Signore abbia preparato per me il momento opportuno, non posso dedurlo da documenti biblici e neppure giustificarlo con la ragione; che questa fine sia prematura, è una semplice opinione.

– Nella Bibbia, in nessun passo viene esplicitamente proibito il suicidio; per esempio viene raccontato con approvazione quello di Abimelech, di Sansone e del re Saul. La vita dono e compito

In quanto teologo e cristiano sono convinto che la vita umana, che l’uomo non si è dato da solo, è in fondo un dono di Dio. Ma la vita è anche secondo la volontà di Dio un impegno, un compito, per l’uomo. E’ consegnata alla nostra propria (e non altra) responsabile disponibilità. Questo vale anche per l’ultima tappa della vita: il morire. Nessuno deve essere spinto a morire, così pure nessuno deve essere costretto a vivere. Va da sé che l’uomo deve tener conto “dei limiti della sua libertà  imitata” (Vescovo emerito W. Huber). Ma la domanda precisamente è: quale è il confine che l’uomo non deve superare. La decisione, che io penso fatta non da una coscienza sviata, ma da una scelta fatta con responsabilità, è una decisione esistenziale presa in piena coscienza che resta nelle mani della sola persona interessata.

Ritengo un’arroganza, se i non interessati vogliono giudicare come una persona percepisca in modo soggettivo la propria condizione. Ho affermato più volte: chi crede in una vita eterna in Dio, l’eterno, al di là dello spazio e del tempo, non deve preoccuparsi di un prolungamento eterno del tempo della vita terrena.

La Croce di Gesù è senza paragoni

Non posso tralasciare un rimprovero, che mi viene fatto proprio da simpatizzanti e lettori dei miei libri: seguire Gesù non significa anche prendere su di sé la croce fino alla fine? Nei fatti la croce viene presentata come un oscuro progetto di Dio cosicché le sofferenze umane vengono sublimate e idealizzate. Al contrario la mia opinione è già contenuta nel mio libro di quarant’anni fa “Essere cristiani”: seguire la croce non significa imitare alla lettera la vita terrena di Gesù, non significa perseguire una copia fedele del modello di vita, della sua vita e della sua morte. La croce di Gesù è senza paragoni, unica per il suo abbandono divino ed umano, la sua morte è irripetibile. Non è questo il significato della sequela, l’esser lasciati da Dio e dagli uomini: patire gli stessi dolori, ricevere le stesse piaghe; ma nella propria unica situazione, e nonostante l’incertezza del futuro, fare la propria strada. Detto teologicamente: sequela intesa non nel senso dell’imitazione, ma nel senso della correlazione, della corrispondenza. La sequela della croce e la morte assistita non si escludono. Il mio ultimo passaggio riguarda la realizzazione pratica di una morte assistita umanamente.

Cure palliative e sostegno affettivo, a volte insufficienti

Al riguardo solo due punti:

1) Da tempo io sostengo l’utilità e la promozione dignitosa della medicina palliativa. Aiuta senza dubbio a combattere i dolori, le paure, l’irrequietezza, la mancanza di fiato e altri sintomi pesanti. Le terapie del dolore rendono sopportabile l’ultimo stadio a molti malati terminali e portano ad una morte umana. Ma anche chi fa le terapie del dolore ammette che in alcuni casi è possibile solo una riduzione permanente del dolore; si rende il paziente incosciente, togliendogli la “vigilanza”. I desideri di morte devono essere presi sul serio, ma non tutti possono essere affrontati solo con un di più di affetto. I desideri di morire possono essere dati anche da una permanente perdita di percezioni della propria dignità, o del senso della vita, o dalla mancanza di una possibilità oggettiva di miglioramenti della propria situazione di salute.

2) Il movimento “Hospiz”, che non si propone di intervenire medicalmente per la guarigione o il prolungamento della vita, ma di dare un affetto personale con la parola e l’impegno per una morte umana, è un movimento che io ho sempre sostenuto moralmente e promosso pubblicamente. Ma, il diritto a continuare a vivere non vuol dire l’obbligo a continuare a vivere.

Il processo della morte non deve essere pervertivo portando ad una vita vegetale, segnata da sonde e farmaci. Meno male che almeno nella mia Svizzera la maggior parte degli ospedali lavora secondo il concetto della Palliative care; una strategia adottata dalla politica sanitaria federale a motivo del cambiamento della struttura delle età, per cui aumentano i casi di persone anziane gravemente malate e bisognose di assistenza. La volontà dei pazienti viene presa sul serio; se qualcuno rifiuta acqua e cibo per morire, questo viene rispettato. La volontà di morire con deliberato consenso alla rinuncia del bere e del mangiare può diventare un’alternativa alla morte assistita. Il pensiero ufficiale della Chiesa non mi preoccupa. Posso solo ricordare che ancora oggi la dottrina romana condanna la pillola, la maternità assistita e i condom. Questa insensibilità dimostrata dal magistero nei confronti dell’inizio della vita non dovrebbe ripetersi in merito alla fine della vita umana.

Hans Kung

Note

[1] Si tratta del premio Arthur Koestler che la Società tedesca per una morte umana (DGHS) ha conferito nel 2013 a Hans Kung per il lavoro di una vita.

[2] Si tratta della cerimonia di consegna del premio avvenuta a Bonn l’8 novembre 2013