credere in Dio: ma in ‘quale’ Dio?
«non smettiamo di giocare perché siamo vecchi; invecchiamo perché abbiamo smesso di giocare»
mi vado sempre più convincendo che il vero problema non è tanto quello del credere, quanto piuttosto: in quale Dio credere. Ci sono, in circolazione, troppe immagini contraffatte, deformi, quasi caricaturali, di Dio. Domina incontrastata, sopratutto, l’immagine del Dio giudice severo, giustiziere, inesorabile, che incombe sull’uomo. Ad ogni immagine falsificata di Dio corrisponde una religiosità non autentica, adulterata e quindi pericolosa. Ed ecco, allora una pratica religiosa volontaristica, all’insegna dello sforzo, con la preoccupazione ossessiva di guadagnarsi dei meriti. Ecco una concezione della fede in chiave legalista, colpevolizzante, a causa della quale prevale la paura di non essere a posto, di non aver sistemato tutti i conti. Ecco un culto formale, senza spontaneità né vita. Ecco certe esistenze cristiane perennemente tormentate, problematiche, contorte, complicate fino all’assurdo. Ecco un rapporto con Dio visto esclusivamente in chiave di doveri, prescrizioni, divieti, dove tutto è ridotto a colpa, rimorsi, timori, angoscia, senza l’abbandono dell’intimità, della poesia, della musica, della contemplazione, della mistica, del gioco.
Sì, proprio del gioco. (…) Occorre avere l’onestà di ammettere che troppi cristiani esibiscono la loro fede come qualcosa di vecchio, stantìo, tetro, rancido, rigido. Manca, appunto, il senso del gioco. Secondo quanto afferma un proverbio inglese: «non smettiamo di giocare perché siamo vecchi; invecchiamo perché abbiamo smesso di giocare». E la cosa incide negativamente anche su un certo stile religioso. Urge, dunque, guardando a ciò che è accaduto a Cana, ritrovare il vero volto di Dio. Vorrei esprimere tutto ciò sotto forma di colloquio diretto col Signore. Più o meno così. Tu sei un Dio senza fischietto Signore, Tu non hai mai usato il fischietto con me. E – ho motivo di ritenere – con nessuno. Quando ero bambino, chiunque passasse sotto la finestra di casa suonando il violino o la tromba, il flauto o il piffero, la chitarra o la zampogna, l’organino o semplicemente l’armonica a bocca, o uno zufolo rudimentale, mi buttava in strada. Chiunque suonasse uno strumento qualsiasi – corno violoncello piatti – mi poteva portare dove voleva. Tu sapevi questa mia debolezza e tutte le volte – quante sono state! – che volevi sloggiarmi, hai pizzicato una corda, premuto un tasto, soffiato una nota, accennato un arpeggio, liberato nell’aria un motivetto… Se penso alla mia chiamata al sacerdozio, non posso dire di aver sentito una voce. Credo di aver avvertito un suono, forse qualche accordo d’organo, come quelli che tira fuori il mio amico Piero, o la mia “sirocchia” clarissa suor Raffaella… E io ti ho seguito, sia pure arrancando (chissà perché le tue strade non sono mai in discesa…). Ma non hai fatto ricorso al fischietto, neppure le volte che mi presentavi la croce – e non sono state poche -, nemmeno quando pretendevi ti tenessi dietro lungo la via dolorosa – ed è capitato spesso -. Comunque, se avessi adottato il fischietto, non sarei venuto perché non ti avrei riconosciuto. Ho incocciato, invece, parecchi tuoi rappresentanti che si sono intestarditi a farmi rigar dritto a colpi di fischietto. Il prete all’oratorio, dopo aver fischiato i falli nella partita di pallone, usava lo stesso fischietto per mandarci in chiesa (nella tua e nostra casa!), a Messa (alla tua festa!), o a confessarci (all’abbraccio del tuo perdono!), o al catechismo (ad ascoltare notizie sul tuo conto!).
Troppi, lungo la mia strada, mi hanno parlato di Te e delle tue esigenze modulando – si fa per dire – il messaggio a colpi di fischietto. Colpi secchi rabbiosi cattivi. E io avvertivo e avverto ancor oggi, che in quel fischietto sibila un fiato che viene da un fegato guasto, risultato inequivocabile di una cattiva digestione della tua Parola, un’aria gelida, non riscaldata dal cuore, non rigenerata dalla misericordia, non percorsa dalla tua tenerezza. E provo una ripugnanza istintiva a imboccare quella strada irta di divieti e imposizioni, dove la tirannia del codice ha soppiantato il gusto dell’esplorazione e il fascino dell’avventura. Tu sei un Dio che mi fa cantare. Io vorrei danzare, correre per i sentieri, ruzzolare nei prati, scavalcare le siepi, scorticarmi i piedi suoi sassi, appostarmi su un roccione per contemplare il paesaggio, arrampicarmi su un albero come Zaccheo, mettermi ad urlare al tuo passaggio come il cieco Bartimeo… E loro, invece, si accaniscono a mettermi in riga, impormi il silenzio, e farmi procedere a passo di militare, cadenzato, con la divisa inappuntabile, disciplinatamente, come a una parata ( o a un funerale?). Io vorrei cantare a squarciagola. E loro mi ammoniscono che non sta bene. Mi costringono a gargarizzare formule che sanno di cenere. Io vorrei lodarti, inventando parole nuove, fresche, da innamorato. E loro mi cacciano nella strozza pagine ingiallite di vecchi libri carichi di polvere. Perfino quando parlano d’amore, invece di imbastire un canto delicato, si preoccupano prima di tutto ossessivamente di scandirne le “regole” a colpi di fischietto che sembrano altrettanti segnali di allarme (…) sirene spiegate contro la vita e la spontaneità (…). Tu sei il Signore del canto e della danza e lor non si rendono conto che soltanto cantando e danzando lungo la tua difficile strada è possibile staccarsi dalle calcagna il demonio. Tu hai fatto del Venerdì Santo una festa. E loro riescono a trasformare tutte le feste in un cupo Venerdì Santo, senza nemmeno un pallido presagio di Risurrezione. Tu sei un Dio che mi fa danzare Signore, fa’ che i tuoi rappresentanti, quando parlano di Te, non mortifichino la musica e la poesia, non abbiano paura della bellezza, non dimentichino la cetra. E fa’ che sul loro spartito non ci siano le aride norme di un codice, ma il canto gioioso del tuo Vangelo, molto più esigente e impegnativo. Signore, che nessuno mi faccia sentire in colpa se ho voglia di fischiettare, perché Tu mi metti in bocca il sapore della libertà e mi nascondi nel cuore il segreto della follia, e mi fai camminare su per un sentiero aspro verso l’appuntamento segreto del tuo amore. Signore, forse dico un’enormità: ma la tromba del giudizio universale mi fa meno paura del fischietto del tutore dell’ordine (che non è mai l’ordine sognato dalla fantasia del tuo amore…). Signore, mi raccomando, non cessare di pizzicare almeno una corda su una chitarra qualsiasi, di dare un colpo di manovella a un organetto sgangherato, di soffiare una nota in una tromba sfiatata, di picchiare un colpo su un tamburo ammaccato – conosco quel richiamo! – e io, anche se carico di artriti e reumatismi e acciacchi vari, mi precipiterò ancora in strada, come un bambino. E mi lascerò portare ovunque Tu vorrai. All’inferno, no. All’inferno proprio non voglio andarci. … Perché ho troppa paura del fischietto. Tu sei un Dio che mi tiri in faccia una canzone Molti amano raffigurarti con il grosso libro della legge in mano. Altri hanno l’impressione che Tu gli sventoli sempre sotto il naso le pagine di un regolamento. Io preferisco riferirmi allo stupendo canto della vigna (Is 5,1-7), lamento struggente per una vendemmia sfortunata, che diventa simbolo trasparente di un amore tradito. Se non sto troppo a distanza, mi accorgo che quel poema risuona ancor oggi alle mie orecchie, non semplicemente come qualcosa di patetico; so che mi viene gettato in faccia, quale preciso e documentato capo d’imputazione per le mie innumerevoli inadempienze. Sì. tu continui a rinfacciarmi, ossia a scaraventarmi in faccia, una canzone d’amore. Signore, non stancarti di attendere, non smettere di replicare quella canzone. Sarà il tuo canto appassionato, più che le minacce, a farmi prendere coscienza delle mie mancate risposte e a far maturare dentro di me una voglia di fiori e poi, chissà, perfino i frutti. Guai se venisse a cessare quel canto d’amore… Sei riuscita a farlo uscire allo scoperto Maria, permettimi questo sfogo. Non riesco proprio a capacitarmi come mai i teologi, pur abituati ad argomentare su una virgola, non abbiano sfruttato l’episodio di Cana per proporci l’immagine autentica di un Dio della festa, amante della vita e della gioia di vivere.(…) Io ho il sospetto che quando hai fatto notare a Gesù che su quella tavola stava esaurendosi il vino, tu non fossi soltanto preoccupata per quella gente. Pensavi anche a noi. Il tuo intento segreto era quello di far uscire allo scoperto tuo Figlio. E, attraverso di Lui, far emergere il volto nuovo di Dio, che liquidasse definitivamente le vecchie estinte immagini terrificanti di un Dio minaccioso, despota inesorabile, gendarme dell’universo, inquisitore implacabile, che gli uomini si erano fabbricati. Maria, aiutaci tu a “rinnovare” il volto di Dio, cominciando col togliere tutte le incrostazioni abusive che ci abbiamo appiccicato sopra. L’immagine cui leghiamo la nostra fede e la nostra pietà si è coperta della patina grigia dell’abitudine, che ha tolto splendore, bellezza, fascino a quel volto. La distrazione, la sbadataggine, le ipocrisie, l’hanno reso scolorito, privo di espressività. Rinnoviamo il mobilio di casa, la cucina, le stoviglie, le varie suppellettili, gli arredamenti dell’ufficio. E non ci preoccupiamo di quell’immagine sbiadita, polverosa, sempre la stessa, priva di vita, appiattita, spenta, insulsa o addirittura ripugnante. (…) Maria aiutaci a scoprire il volto intriso di luce del Dio che ci guarda con simpatia e benevolenza., ci è favorevole, ci manifesta protezione, ci invita al gioco. Maria, facci scoprire che Dio sta “voltato” dalla nostra parte. Non è minaccioso ma ci comunica pace, serenità, tranquillità. Non ci incute terrore, ma al contrario ci vuole liberi dalla paura. Maria, Dio ha giocato con te quando ti ha scelta, oscura ragazza di un oscuro villaggio mai nominato prima nelle Scritture, proponendoti un’avventura inimmaginabile. E tu hai avuto, a tua volta, la fortuna di giocare con Lui, anche se pochi ne parlano. Sì, perché non posso impedirmi di pensare che tu Gli abbi a insegnato anche a giocare, e abbia giocato più volte con Lui. (…) Vedi, Maria. Le nostre vite assomigliano a quelle giare di pietra che stagliavano nella sala delle nozze a Cana. Pesanti – e tanto più pesanti quanto più vuote -, rigide, immobili, impassibili, inappuntabili, come sull’attenti… Tu fai intervenire tuo Figlio. Ed ecco che comincia il gioco, e le anfore non stanno più al loro posto, si muovono, mettono tutto e tutti in movimento, riservano sorprese incredibili: sono state riempite d’acqua e regalano il vino. Non è un gioco di magia. E’ il gioco della vita nuova del cristiano, vigilato non da un arbitro munito di fischietto, col regolamento in mano, ma da un Volto sorridente…
don Alessandro Pronzato