in quale Dio merita credere
IL DIO CON CUI STO
discorso tenuto ad Assisi da Raniero La Valle il 21 agosto 2015 al 73° Corso di studi cristiani sul tema “Responsabili dell’immagine di Dio”
Mi era stato chiesto di raccontare “Il Dio in cui credo, il Dio in cui non credo”. Ma questo voleva dire aprire l’armadio di tutte le definizioni di Dio, di tutte le fantasie su Dio, e scegliere fior da fiore, per ricostruire il Dio che mi piace, ed escludere i connotati del Dio che non mi piace. Ma chi sono io per fare questa cernita?
Invece vi parlerò del Dio con cui sto. E’ chiaro che c’è un rapporto tra il Dio in cui si crede e il Dio con cui si sta. Ma non sempre coincidono. Se si crede in un Dio che sulla croce apre le braccia a tutti e poi in nome di Dio si mettono sul rogo gli eretici, è chiaro che non si tratta dello stesso Dio. Il boia sta con un altro Dio.
La storia è piena delle macerie provocate dal contrasto tra la fede creduta e le opere compiute in suo nome. Tutta la storia del popolo di Israele nell’Antico Testamento è attraversata da questa tragedia. Il Dio dei profeti non è il Dio nel cui nome le città cananee erano votate allo sterminio.
E oggi il dramma storico è tale e così tragico l’abuso per cui Dio viene innalzato sulle picche degli assassini, con la testa dei decapitati in suo nome, che la salvezza non viene se ci mettiamo a discutere sulle nostre diverse professioni di fede, ma se il Dio con cui decidiamo di stare non è il Dio della morte ma il Dio della vita, non è il Dio che fa uccidere gli infedeli ma è il Dio nel quale non c’è il nemico.
Il male più grande viene da chi sta con un Dio sbagliato, che corrisponda o no al Dio in cui dice di credere.
Ma c’è anche il problema di chi segue come se fosse un Dio qualcuno o qualcosa che sa benissimo non essere un Dio.
Quelli ad esempio che stanno col Dio denaro sanno benissimo che quello non è un Dio, ma un idolo; però ci stanno lo stesso, perché se non fosse un idolo non potrebbero offrirgli sacrifici umani, come fanno gli Stati che chiudono le porte dell’Europa provocando l’eccidio di migliaia di profughi o come hanno fatto i potentati europei, a cominciare dal nostro governo. dandogli la Grecia in sacrificio
Sono questi i motivi per cui preferisco parlare del Dio con cui sto.
Credere e amare
Del resto il credere non è la prima fase del rapporto con Dio. La prima fase è l’incontro. Nei Vangeli la gente seguiva Gesù senza sapere che fosse il Figlio di Dio. E a me sembra che la questione prioritaria oggi sia quella del Dio che decidiamo di amare. Questo mi pare il vero problema interreligioso ed ecumenico. E questa mi pare che sia la scelta che papa Francesco sta proponendo al mondo: prima credere o prima amare?
La sua risposta è che prima bisogna amare. Perché questo è quello che fa Dio, ci ama prima ancora di preoccuparsi se noi abbiamo fede in lui. Papa Francesco sempre dice che Dio ci precede nell’amore. Per questo Dio è misericordia. Francesco dice che Dio ci precede nell’amore, e lo dice prendendo in prestito dallo spagnolo, e dallo slang di Buenos Aires, una parola che significa arrivare per primo, amare per primo, magari anche picchiare per primo: la parola è primerear . “Il Signore ci primerea, sempre è primo, ci sta aspettando. Come la fioritura del mandorlo di cui parla Geremia, perché è il primo a fiorire, così è il Signore”.
Questo però non lo dice solo papa Francesco, lo dice tutta la tradizione. Ancora non ero formato nel ventre di mia madre, dice Geremia, e tu già mi conoscevi (Ger.1,5); il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome, dice Isaia (Is.49,1). Con l’avvento del Verbo incarnato, cioè con il cristianesimo, questa realtà di Dio che ama per primo diventa una rivelazione pubblica e universale, che non riguarda solo un individuo, un profeta, un salmista, o un popolo, ma vale per tutta l’umanità e tutti i popoli. Dio ci ha amati per primo, dice la prima lettera di Giovanni; e Paolo ai Romani dice che Dio ci ha amato, fino a morire con Cristo sulla croce, quando noi eravamo ancora peccatori, e quando ancora non credevamo in lui. Dio ci primerea nell’amore, prima ancora della nostra fede; è anzi dall’amore che nasce la fede, e non viceversa; prima ancora che crediamo in lui, lui sta con noi. Dopodiché la fede con cui crediamo in lui può essere più o meno adeguata, più o meno atta a rappresentarlo e a conoscerlo, più o meno ortodossa, ma intanto lui sta con noi e noi stiamo con lui, e l’amore sta prima. Dunque la sequela sta prima della fede, lo stare con Dio viene prima del credere in Dio.
Dunque veniamo al tema: il Dio con cui sto.
Un Dio sacrificale
Il Dio con cui stavo da bambino era un Dio sacrificale. Non so da dove era venuto. Avevo avuto una sommaria formazione religiosa da buona famiglia borghese, quando a otto anni ebbi il dolore della morte di mio padre. Non so perché sulla pagina bianca del mio diario di quel giorno, il 3 giugno 1939, io disegnai una croce molto scura e scrissi una sola parola: sacrificio. Perché a otto anni interpretassi la morte di mio padre come un sacrificio non lo so. Subito dopo arrivò la guerra e per la piccola famiglia superstite, una vedova e tre bambini, fu dura la lotta per sopravvivere. Io vissi quella fine di infanzia come una vita di responsabilità precoce e di sacrificio; i primi rudimenti della fede che mi furono offerti in quel tempo andavano in quella direzione. Essi mi giunsero anzitutto dal cardinale Massimo Massimi che, come facevano a Roma molti cardinali che al lavoro di curia univano un servizio pastorale, aveva riunito molti giovani per bene in una Congregazione eucaristica e, come diceva lui, “arcimariana”. Era il prefetto della Segnatura apostolica, un grande giurista, ma umilissimo; era un cardinale molto conservatore ma antifascista, ci faceva il catechismo e ci faceva confessare dal famoso gesuita padre Riccardo Lombardi, che divenne poi “il microfono di Dio”. Secondo la spiritualità del tempo Dio era tutto, e noi non eravamo niente, la vita cristiana era un’espiazione, nell’insegnamento che quel santo cardinale ci impartiva “La nostra legge” era anche più importante de “La nostra fede” – i due libri che aveva scritto per noi – e andava da sé che il mondo non potesse essere amato, perché il mondo si manifestava in quegli anni di guerra a Roma con il suo volto peggiore: c’erano i bombardamenti alleati e c’erano le retate tedesche, che ci minacciavano perfino in piazza San Silvestro, dove andavamo per la messa la domenica nella chiesa di San Claudio; c’erano la povertà e la fame, i lavori precari che mia madre ed io riuscivamo a fare per vivere, la minestra che si andava a prendere a turno e la borsa nera in cui un po’ si comprava e un po’si vendeva. Dio stava lì fermo e osservava la nostra buona condotta. E quando mi fecero fare il disegno di un rifugio durante i bombardamenti, io che non sapevo disegnare, feci le pareti del rifugio squadrate col righello, e vi ricalcai sopra uno sproporzionato santino di un Sacro Cuore di Gesù trafitto.
Finita la guerra padre Lombardi andò a predicare sulle piazze e i rapporti con il cardinale Massimi si diradarono un po’, sia perché non potevamo più incontrarci nella villa moresca che aveva in viale Parioli, da cui lo avevano sfrattato perché cominciava la speculazione edilizia, sia perché io andai alla FUCI, che a lui non piaceva perché era troppo progressista e moderna e c’era promiscuità tra ragazzi e ragazze.
Anche alla FUCI la percezione sacrificale e repressiva della fede continuò, anzi si fece più circostanziata e consapevole, perché veniva veicolata dalla liturgia, a cui fummo introdotti, e di cui comprendevamo le parole perché sapevamo il latino; ogni giorno sia nella liturgia eucaristica sia nella liturgia delle ore, ci veniva incontro un Dio che giustamente ci puniva; a Compieta ogni sera, prima di coricarci, lo invocavamo perché ci difendesse dal diavolo che come un leone ruggente ci assediava per divorarci e in ogni caso per rovinare le nostre notti, e c’era un Dio a cui nelle collette della Messa di san Pio V offrivamo le nostre sofferenze mentre proclamavamo che “giustamente” eravamo “afflitti a causa del nostro operare, a causa dei nostri eccessi”, e che ci meritavamo tutti quei dolori, perché grande era la nostra colpa, e solo Dio poteva salvarci; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti.
Il richiamo a un atteggiamento ascetico e di severità morale era poi accentuato, nel passaggio dalla congregazione del cardinale Massimi alla FUCI, da quella che non a caso il cardinale considerava con sospetto, cioè la promiscuità tra ragazzi e ragazze, che era una meraviglia ma anche una tentazione. Nessuno ci aveva detto, come ha detto papa Francesco ai ragazzi in piazza Vittorio il 21 giugno scorso a Torino, che la castità consiste nel non usare l’altra o l’altro per il proprio piacere. E nessuno ci aveva proposto la castità in punta di piedi, chiedendo perdono, sapendo di dire una cosa impopolare, di chiedere una cosa non facile, perché “tutti nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile”. Se queste parole di papa Francesco avessero potuto essere ascoltate allora, il fantasma di un Dio severo, moralista, che ci metteva addosso la paura del sesso, non avrebbe turbato i nostri rapporti giovanili e forse non ci avrebbe infelicitato la vita prima e dopo il matrimonio, e forse la vita intera sarebbe stata più feconda anche di figli.
Insomma prendendo tutti insieme – il cardinale Massimi, la congregazione eucaristica di San Claudio, la FUCI, ma si potrebbe dire anche la GIAC di Arturo Paoli o il cattolicesimo militante e insieme ascetico di Dossetti, ossia il migliore cattolicesimo che si viveva in Italia prima del Concilio – si potrebbe dire che esso stava con un Dio che toglieva l’aria. E questo vuol dire che senza un vento nuovo non poteva che deperire.
Quello che personalmente mi salvò fu lo spirito critico che contestualmente la FUCI mi insegnò, ma anche il fatto che essa mi gettò nel mondo. Essere gettati nel mondo per noi allora voleva dire il confronto aspro con il cattolicesimo sanfedista di Gedda e dei Comitati civici, voleva dire il confronto politico nel mondo universitario in cui si facevano le prime prove di democrazia, voleva dire l’elaborazione di alternative culturali più aperte che sviluppavamo sul giornale della FUCI, “Ricerca”, di cui ero il redattore.
Per reggere il confronto con il mondo bisognava stare con un Dio diverso, un Dio non dolorifico, un Dio non pentito delle sue creature, non geloso della bellezza, dell’amore, un Dio non invidioso della libertà dei suoi figli, un Dio amante della vita.
I varchi per un Dio diverso
C’erano dei varchi attraverso cui irrompeva questo Dio. Uno di questi varchi fu per me l’incontro con il monachesimo camaldolese, e in particolare col più grande monaco del XX secolo, padre Benedetto Calati, dal quale ero andato casualmente a san Gregorio al Celio per farmi benedire, manco a dirlo, una croce di maiolica che avevo comprato con la mia fidanzata Cettina.
Il Dio di padre Benedetto era un Dio di una dolcezza infinita, che alla confessione prima ancora che io potessi formulare un peccato, già mi perdonava, sicché ben presto in quelle confessioni, dei peccati non ci si ricordò più, e si parlava solo di san Gregorio Magno che apriva ai nuovi popoli, e ai poveri di Roma faceva distribuire “cibi già cotti, frumento e vino” e anche “salse e balsami” ( “pigmenta et alia delicatoria commercia”), si parlava dei Padri della Chiesa che interpretavano tutta la storia come storia della salvezza, si parlava della Scrittura che cresce con chi la legge, e di Dio che, per dire la cosa più bella di lui, padre Benedetto diceva che “(Dio) è un bacio”.
Poi un giorno a Bologna, dove mi trovavo per un congresso della FUCI, che noi del Centro nazionale avevamo preparato con l’idea che fosse molto rivoluzionario, sentii in cattedrale un’omelia dell’arcivescovo cardinale Lercaro, e mi sembrò di non avere mai sentito parlare di Dio così. Forse non era vero, forse era il mio modo di ascoltare che era cambiato. Ma certamente lì c’erano parole in cui era evocato un Dio molto simile al Dio con cui volevo stare e perciò alla rivelazione nuova di Dio che veniva dal basso, dall’esperienza cioè della mia vita, si aggiunse una rivelazione nuova di Dio, un modo nuovo di parlare di Dio che veniva dall’alto, dalla stessa gerarchia della Chiesa, da un cardinale. E così quel giorno adottai il cardinale Lercaro come mio vescovo, anche perché allora non c’era la minima idea che il papa a Roma fosse anche il suo vescovo, e quindi io come fedele romano avevo in qualche modo la casella libera. Decisi che il Dio del cardinale Lercaro, il Dio della riforma liturgica, il Dio delle nuove chiese di periferia, il Dio dei ragazzi poveri che vivevano e studiavano in casa con l’arcivescovo, era il Dio con cui volevo stare. Il destino volle che poi il cardinale Lercaro diventasse il mio vescovo davvero, perché fui chiamato a dirigere “L’Avvenire d’Italia”, il giornale che usciva a Bologna, e perciò a Bologna ci andai a vivere, e fu lì che irruppe il Concilio.
Un nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo
Il Concilio fu il vero nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce ne accorgemmo perché si pensò che il Concilio non avesse valenza teologica, che avesse il suo unico scopo nella riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della pastorale intesa come veicolo e non come sostanza della fede. E invece era proprio una nuova comprensione e un nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, che papa Giovanni aveva chiesto al Concilio e che del Concilio doveva diventare il tesoro più prezioso, l’aggiornamento più profondo e duraturo. Occorre rovesciare il luogo comune che ha fuorviato la comprensione del Concilio: esso è stato un grande Concilio teologico, e proprio perciò “pastorale”.
Il Dio del Concilio è radicalmente un Dio non sacrificale. Non è un Dio mortalmente offeso dal peccato originale per cui debba essere soddisfatto e risarcito dal sacrificio del Figlio e dal sacrificio anche nostro, non è un Dio a cui sia dovuta l’espiazione delle lacrime e sangue degli uomini, non è un Dio che si è vendicato della disobbedienza di Eva e del suo compagno comminando loro la morte, il lavoro come sudore e come pena, la sessualità come concupiscenza e impurità, i parti con dolore, la terra che invece di frutti produce cardi e spine. Espiazione, come ha spiegato Carlo Molari su Rocca, non significa pagare un prezzo, ma essere perdonati, ricevere la purificazione da Dio, e del resto la parola placatio, di un Dio che dovesse essere placato nella sua ira, che era una parola chiave della teologia preconciliare, non compare mai nei testi del Concilio. Il Figlio di Dio non si è incarnato per pagare un debito al Padre, come sosteneva la dottrina di s. Anselmo (“Cur Deus homo?”) sempre ripetuta dalla Chiesa, ma per spiegare agli uomini i segreti di Dio (D.V. n. 4), per togliere le maschere antropomorfe e terribili che sfiguravano il volto di Dio, per non lasciare gli uomini soli ma al contrario “senza interruzione alcuna” fornire loro gli aiuti per la salvezza (D.V. n. 3), per unirsi in qualche modo ad ogni uomo (G. S. n. 22), per entrare in modo definitivo nella storia umana (Ad Gentes, n. 3), e rendere tutte le cose sacre, comuni. Paolo VI avrà un bel dire che il Concilio non aveva abbandonato la dottrina del peccato originale; in realtà la teoria anselmiana del Dio che risarcisce se stesso nel Figlio e nei figli è del tutto rovesciata.
Il Dio del Concilio è un Dio che fa a pezzi l’idolo che le religioni e le Chiese avevano costruito per onorarlo, che libera dai fraintendimenti di cui era vittima il Dio che, come canterà padre Turoldo, subiva “il carico di errate preghiere”, onde si credeva di rendergli onore.
Non è più il Dio che salva solo i suoi, per cui fuori della Chiesa, della Chiesa visibile e gerarchica, non vi sarebbe salvezza. Non è il Dio che diserta le altre Chiese cristiane. Non è il Dio cui non potranno mai avere accesso, nella beatitudine eterna, i bambini morti senza battesimo: questa dottrina, che si voleva fosse sancita dai Padri, non fu nemmeno presa in considerazione dal Concilio, tanto che poi il Limbo fu abolito; il Dio del Concilio non è un Dio che non ha lasciato tracce di sé e semi della sua Parola nelle altre religioni, ma tutti gli uomini e le donne, “nel modo che lui conosce”, ha associato al mistero pasquale, e fa sì che nel loro cuore lavori invisibilmente la grazia (G.S. n.22).
Il Dio del Concilio non è un Dio invidioso dell’uomo, che lo tiene per le briglie col ricatto di bollarlo come prometeico ed eretico se prova ad essere adulto; e nemmeno è il Dio che ha abbandonato l’uomo a se stesso mettendolo “in mano al suo proprio volere”, come si è fatto dire, con cattive traduzioni bibliche, anche della CEI, a un versetto del Siracide, ma ha messo l’uomo “in mano al suo consiglio”, come traduce la Gaudium et Spes, cioè lo ha fatto responsabile di se stesso e del mondo, sicché basterebbero uomini più saggi, dice il Concilio, per far fronte a una situazione in cui è in pericolo il futuro del mondo. (G.S. n.15, n.17).
Il Dio del Concilio è un Dio perciò fonte e garanzia della libertà umana, un Dio che parla attraverso la coscienza (G. S. n. 16), un Dio che non agisce con la costrizione e con la violenza ma che sceglie la via della povertà e della abnegazione, un Dio che dopo avere creato l’amore non lo mette in ceppi per farlo servire solo alla procreazione, ma lo fa traboccare in uomini e donne perché serva alla loro comunione, alla loro tenerezza, alla loro fecondità e alla loro gioia.
La fede nicena
Questo Dio il Concilio non se lo è inventato, ma lo ha recuperato da tutta la grande tradizione della Chiesa. Il Vaticano II ha riproposto la cristologia dei primi quattro Concilii, e in particolare ha riproposto la fede nicena, che in Cristo Gesù ha riconosciuto non “un Dio in seconda”, fatto dal Padre, ma un vero Dio, coeterno col Padre, della stessa essenza del Padre. Questo cardine della fede fu espresso dal Concilio di Nicea nel 321 sotto la forma non di una definizione dogmatica, ma di una professione di fede, ed è infatti giunto fino a noi in forma di preghiera, nella forma di un Credo. C’è un bellissimo libro di Giuseppe Ruggieri, “Della fede”, in cui si spiega che questo è stato il processo di formazione della fede nelle comunità primitive, come racconto e come preghiera, e non come dogmatica e come dottrina; ciò ha permesso il convivere di diversi racconti, come sono diversi i Vangeli, tant’è che fino a Nicea non c’è traccia di una formula di fede unica per tutte le comunità cristiane, che invece irrompe a Nicea, ma in forma di preghiera, nella forma di un Credo. È solo con il Concilio di Calcedonia, nel V secolo,che avviene uno slittamento strutturale, e si passa dalla fede alla dottrina sulla fede, tant’è che mentre le prime parole del niceno-costantinopolitano erano: “noi crediamo che”, le prime parole della definizione di Calcedonia suonano: “noi insegniamo che”, e comincia una storia di ortodossia dottrinale che è anche una storia di esclusione.
Ma indipendentemente dall’irrigidimento dogmatico la professione di fede di Nicea, ripresa dal Concilio Vaticano II (“Colui dunque, per opera del quale aveva creato anche l’universo, Dio lo costituì erede di tutte quante le cose, per restaurare tutto in lui”, dice ad esempio il decreto Ad Gentes, n. 3), è decisiva per noi perché rende universale la storia della salvezza e mostra come nel Cristo coeterno al Padre tutti gli uomini abbiano avuto accesso alla salvezza anche prima che Gesù fosse concepito e anche fuori del succedersi delle generazioni del popolo di Israele (“Indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, dice il decreto Ad Gentes n. 4) e che anche dopo il Gesù storico, la salvezza di Dio in Cristo può traboccare in tutti gli uomini e in tutte le culture anche fuori del filone giudeo-cristiano. Per questo si potrebbe dire che il cristianesimo sia una religione post-biblica, che reca non solo l’unità dei due Testamenti, ma l’unità di tutti i Testamenti. Noi spesso ci dimentichiamo di essere niceni e ci rappresentiamo una storia della salvezza secondo una linea di successione che dalla creazione giunge ad Abramo, a Mosè, ai profeti e attraverso Gesù Cristo passa nel nuovo Israele che è la Chiesa. Ma la fede di Nicea ci dice che, fin dall’inizio, Dio è stato il Dio di tutta l’umanità e di tutta la Chiesa, non per successione o sostituzione del Dio di Israele. Ed è per questo che cambia tutta la prospettiva del Concilio sia riguardo all’ecumenismo sia riguardo alle religioni non cristiane, sia riguardo al primato della coscienza e alla libertà religiosa, ma anche riguardo al rapporto col mondo e con la storia, che fin dall’inizio giacciono in Cristo e non giacciono nel Maligno.
Ed è questo, dice il Vaticano II, il Dio con cui stare, il Dio che sta con noi fin dalla fondazione del mondo, non solo dal momento dell’incarnazione di Cristo come secondo Adamo, ma fin dall’inizio, perché fin dalla creazione del mondo Cristo è lì, il primo Adamo è lui.
Dopo il Concilio
Lo splendore di questo Dio del Concilio si è però ben presto appannato, non è stato questo il Dio che è stato predicato dopo il Concilio, ed è proprio per questo che i cinquant’anni che sono seguiti sono stati anni di deserto. E molti, anche tra i cattolici più aperti, hanno finito per disamorarsi del Concilio, per esserne delusi, e infine abbandonarlo.
Io sono rimasto col Concilio, e mano a mano che più lo scoprivo, più mi rallegravo del fatto che proprio quel Dio che il Concilio aveva ritrovato e messo a fermentare nei suoi documenti era il Dio con cui volevo stare.
E’ stato così che tutte le cose che io ho fatto dopo il Concilio mi sono riuscite facili, perfettamente serene e pacificanti dalla parte di Dio, tanto quanto erano dure, controverse, conflittive dalla parte degli uomini.
Così è stato per la lotta per il NO nel referendum sul divorzio, e non con l’argomento profano della separazione tra Chiesa e Stato, ma con l’argomento cristiano della misericordia (che fu la motivazione del No, dopo una notte di preghiera, di Fratel Carlo Carretto), perché non può lo Stato per far contenta la Chiesa infliggere una vita di inferno ai suoi cittadini.
Così è stato per la scelta di rompere l’unità politica dei cattolici e dare legittimità politica ai comunisti, perché non c’era nessun Dio degli eserciti a disporre e a dividere le truppe nella battaglia, e andava recuperata la compatibilità ma anche la reciproca libertà tra fede e politica.
Così è stato per la prima legge che mi sono trovato a dover fare in Parlamento, la legge sull’aborto, che siamo riusciti a fare non come una legge che cambia un reato in diritto, come voleva la cultura radicale di Adele Faccio e della Bonino, ma come una legge che cura le ferite e allevia il dolore sociale, e come tale è riuscita a sopravvivere fino ad oggi.
E così è stato, naturalmente nelle battaglie contro i missili a Comiso, per i palestinesi, contro i regimi militari cattolici dell’America Latina, contro la guerra del Golfo, contro la guerra della Jugoslavia, per la difesa della Costituzione, fino alla battaglia in corso per impedire che governanti e parlamentari corrotti dal potere distruggano Costituzione, rappresentanza, scuola e diritti del lavoro e portino l’Italia fuori dalla democrazia e la Grecia fuori dall’Europa.
In tutte queste circostanze, il Dio con cui sto mantiene una sua presenza discreta e fedele. Non è il Dio dei tormenti di coscienza e delle ascensioni mistiche ma piuttosto il compagno di stanza con cui ci si confida e ti incoraggia.
Il Dio con cui sto può anche essere il Dio che non dice niente, che non si fa sentire; esperienza questa che non è solo dei cristiani comuni, ma anche dei mistici: racconta Leonardo Boff che un giorno trovò Arturo Paoli in chiesa, e gli domandò: “Fratello Arturo, tu senti Dio quando, dopo il lavoro, vieni a pregare qui in chiesa? Lui ti dice qualcosa?” E Arturo gli rispose: “Non sento niente. Molto tempo fa ho sentito la sua voce. È stato affascinante. Riempiva i miei giorni di musica e luce. Oggi non sento più niente. Soffro di tenebre. Forse Dio non vuole più parlarmi”.
Perciò io non sono d’accordo con certi linguaggi che per rendere più razionale il discorso su Dio non lo chiamano per nome ma lo descrivono con un’astrazione, come “forza vitale”, come “forza creativa”, come “offerta di vita”, come “fonte di energia” e simili. A me un Dio indistinto, liquido, pura astrazione del pensiero, non interessa, preferisco l’ateismo; il Dio con cui sto è un Dio che sia un Tu e un Dio tale per cui io sia un tu per lui, e noi siamo le sue immagini, i suoi figli, i suoi “califfi”. Un Dio capace di amore. In questo senso un Dio persona. Perché se è vero, come ha detto papa Francesco ai Movimenti Popolari in Bolivia il 9 luglio scorso, che ”non si amano né i concetti né le idee, si amano le persone”, è anche vero che solo se si è persona si ama; perciò Dio è persona.
Il Dio di papa Francesco
Ed ecco che questo Dio si è aperto l’ultimo varco, e anche questo dall’alto, nella predicazione di papa Francesco.
Riprendendo quello che era stato il munus più proprio e meno compreso del Concilio, papa Francesco ha offerto alla Chiesa e al mondo, un nuovo annuncio di Dio,”in quella forma che la nostra età esige”. E la nostra età – ma io credo ogni età – ha bisogno di un Dio come Gesù lo ha rivelato, come il Vangelo lo ha custodito, come la Chiesa degli apostoli e dei discepoli l’ha tramandato fin qui, e come papa Francesco lo racconta: un Dio di misericordia, che ama per primo, che non si stanca mai di perdonare, Padre universale, che non ammette né esclusione, né scarti, un Dio non violento, libero e umano, guardiano non della legge ma della vita, un Dio iconoclasta.
Si è fatta un’obiezione a questo Dio della misericordia: la misericordia va bene, ma dov’è il giudizio? Un Dio che non giudica, dice il senso comune, sarebbe un Dio dimezzato, non sarebbe un vero Dio.
C’è una cosa molto giusta che dice un libro recente del biblista Gerhard Lohfink, “Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu”. È un libro che non mi persuade perché fa di Gesù talmente un personaggio ebreo, e del Vangelo talmente una glossa della Legge e dei Profeti, che non si capisce che bisogno c’era che Dio rimettesse tutto in gioco con l’Incarnazione. Però ha ragione Lohfink quando dice che nel nostro annuncio del Dio del Vangelo, spesso censuriamo il Dio del giudizio, mentre il tema del giudizio era parte essenziale del discorso sul Regno fatto da Gesù.
Questa critica però non si può fare nei confronti del Dio della misericordia di cui parla Francesco; il giudizio sul mondo di papa Francesco è durissimo, e si può dire che senza questo giudizio non ci sarebbe nemmeno l’annuncio della misericordia. Basta pensare alla sua denuncia sull’economia che uccide, alla condanna di un sistema che non ha volto e scopi veramente umani, alla critica del denaro che governa, della cultura dello scarto, della globalizzazione dell’indifferenza.
Però nell’annuncio cristiano di papa Francesco non c’è la minaccia del giudizio di Dio, ma c’è la constatazione evangelica che il mondo è già giudicato, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni, che è il mondo stesso che è giudice contro se stesso, e che se dal giudizio non passerà alla conversione sarà perduto.
La distruzione della natura che stiamo operando è il paradigma esemplare di questo. La crisi ecologica è il giudizio sul nostro operato nel mondo, la fine siamo noi a procurarla, l’enciclica Laudato sì lo ha reso manifesto.
Quello che l’Europa ha fatto alla Grecia è il giudizio di condanna che l’Europa ha pronunciato su se stessa.
Il fecondo Mezzogiorno d’Italia che non fa più figli, col tasso di natalità più basso degli ultimi 150 anni, è il giudizio che condanna l’ “inequità” delle politiche economiche.
Una generazione di giovani perduta e senza lavoro è il giudizio pronunziato sull’abbandono di qualsiasi idea di bene comune come ragione e fine della politica.
Il governo vanesio e fascistizzante di Renzi è il giudizio che punisce il lungo tradimento della Costituzione con cui, a partire dal 1989, la classe politica italiana ha risposto alla caduta del muro di Berlino.
Lo Stato d’Israele con le sue violenze è il giudizio che grida contro la deformazione idolatrica della fede biblica.
Lo Stato islamico, la tragedia del Medio Oriente, i 232 milioni di migranti internazionali sono il giudizio su un mondo che non vuole conoscere ciò che giova alla sua pace.
Il mondo è già giudicato, ma la misericordia lo può salvare, il chirografo che ci era avverso è stato inchiodato sulla croce.
Questo è il messaggio di papa Francesco. E dice Scalfari: questo è un papa profetico. Ed io aggiungo: non solo profetico ma messianico, perché il suo annunzio, in quanto annunzio messianico, è che il regno di Dio, cioè il regno di misericordia, è vicino.
Ma neanche ora col Concilio Vaticano II, con papa Francesco, il processo di comprensione del Dio con cui stare è concluso. Ci sono delle cose che Pietro non capì di Gesù che lavava i piedi nell’ultima cena e Gesù gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai. Il monaco camaldolese Innocenzo Gargano in vista del Sinodo dei vescovi ha proposto una nuova interpretazione del detto di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio, nel senso che Gesù non parlava da giurista e, pur proponendo un ideale più alto, “scritto nelle stelle”, non avrebbe abrogato la legge di Mosè che facendosi carico della durezza di cuore dei coniugi aveva concesso il divorzio. Un cattolico zelante ha sbeffeggiato padre Innocenzo, perché dopo duemila anni proponeva una lettura nuova del Vangelo, come se fino ad ora si fosse sbagliato a capirlo. Eppure proprio questa è la dinamica dello Spirito nella storia della fede: quello che finora non avete capito ecco ora lo comprendete.
Ed è in questo spazio tra il già e il non ancora di ciò che abbiamo capito di Dio che c’è tutta l’eccedenza del Dio con cui stiamo rispetto al Dio in cui crediamo, perché il Dio che sta con noi è sempre al di là di qualsiasi cosa noi possiamo pensare e credere di lui.
Raniero La Valle
Assisi, 21 agosto 2015