la città senza recinti: per vincere il confine del pregiudizio
‘la città senza recinti’
mercoledì 16 aprile alle ore 17, presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre (largo B. Marzi 10, ex mattatoio Testaccio), sono stati presentati i risultati della ricerca “Vincere il Confine: nuove strategie e pratiche nella costruzione della città inclusiva ed interculturale del futuro” realizzata dal Laboratorio interdisciplinare di Arte Civica dell’Università degli Studi Roma Tre. Una ricerca/azione su come le nuove generazioni rom e alcuni comitati locali chiedono di vincere il confine del pregiudizio e della marginalità prodotto dai campi rom.
Alcune anticipazioni della ricerca:
di Adriana Goni Mazzitelli*
Nel mese in cui si celebra la giornata internazionale dei Rom e Sinti in tutto il mondo, data che ricorda il primo congresso internazionale del popolo rom, tenutosi a Londra l’8 aprile del 1971, a Roma ricercatori, associazioni, comitati di quartiere e famiglie rom danno visibilità a una ricerca/azione promossa nella periferia romana per trovare percorsi reali di uscita dalla logica secuirtaria che nutre l’idea dei campi rom.
La ricerca presentata mercoledì 16 aprile racconta del tentativo di superare quella visione politica che finora ha pensato e ha organizzato i campi rom a Roma come soluzione al “problema” casa. Ormai non sono soltanto le associazioni che si occupano di diritti umani internazionali a denunciare l’operato del Comune di Roma per la “concentrazione” della popolazione rom in recinti senza le adeguate condizioni abitative, ma anche altre realtà sociali. Da una parte le nuove generazioni rom che, come racconta questo studio, sono pronte per riprendersi il loro “diritto a vivere la città”, sopratutto quando si aprono spazi accoglienti capaci di promuovere attività rispettose della loro “diversità”. Dall’ altra i cittadini che abitano i quartieri limitrofi ai campi rom, che sono stanchi di vedere lo sperco di soldi pubblici, prodotto da politiche inefficaci di integrazione, che hanno generato solo un peggioramento delle condizioni umane, fisiche e ambientali dei campi e delle popolazioni che ci vivono e dei quartieri circostanti.
La ricerca fotografa le condizioni di conflittualità che vivono gli abitanti nella periferia Est di Roma, dove il disagio e la paura di confrontarsi, sono risultato di un territorio nel quale sussitono diverse “enclave di miseria” che alimentano tensioni e incomprensioni. Una città “enclave” è quella dove le scelte politiche sono state orientate a “rinchiudere e sospendere”, alimentando culturalmente la logica del “rinchiuditi e proteggiti” come segnala nella ricerca Alessandro Petti.
La città di Roma viene descritta dai protagonisti di questa indagine, come un insieme di “enclave”, dove lo spazio pubblico si riduce e si elimina così la capacità di riunire e rafforzare l’interazione e l’identità delle comunità, cosi come la possibilità di accogliere i nuovi arrivati e decidere insieme il proprio destino.
Sempre Petti propone un’immagine molto netta della situazione spaziale di organizzazione delle città contemporanee: “Lo spazio contemporaneo può essere descritto e intrepretato attraverso la contrapposizione di due figure l’“arcipelago” e l’“enclave – scrive – L’arcipelago è un sistema d’isole connesse, l’enclave sono semplici isole (…) Se da un lato vi è un élite che gestisce lo spazio dei flussi, vivendo in un mondo arcipelago che percepisce come unico e privo di esterno, dall’altro la sospensione delle regole dell’arcipelago produce vuoti giuridici ed economici, che fanno del sistema di enclave un buco nero, una zona d’ombra….”. (Petti 2007). A Roma continuano a crescere queste zone di sospensione, i campi sono quelle più evidente ma la ricerca fa emergere una segregazione spaziale e sociale che si è creata negli ultimi quarant’anni con una concentrazione di disagio nei palazzoni di edilizia popolare fino alle moderne strutture “temporanee” (Cie, Cpt, ecc.). Mentre le famiglie benestanti si raggruppano e “rinchiudono” scegliendo mezzi di sicurezza quali telecamere o quartieri sorvegliati.
L’approccio di ricerca-azione ha permesso ai ricercatori di entrare nel cuore della periferia romana ed essere parte attiva della vita quotidiana di questi territori. I metodi etnografici hanno permesso invece di costruire “relazioni intense” con i diversi soggetti del quartiere dando l’opportunità di comprendere i vari sguardi dietro un territorio in apparenza omogeneo.
Per decenni i rom sono serviti da “capo espiatorio” per nascondere il degrado e l’abbandono della città e la mancanza di politiche adeguate a contrastare la marginalità e la povertà in forma definitiva. Ma ormai è impossibile nascondere la crescita di disagio urbano, basta osservare quotidianamente le persone che per sopravvivere sono costrette a rovistare nei cassonetti, o all’aumento dei senza dimora e il moltiplicarsi di occupazioni abitative di famiglie italiane e straniere disperate. Persino la Corte Costituzionale rifiuta lo “stato di emergenza” dichiarato nei confronti delle popolazioni rom, impossibile pensare che una popolazione che a Roma viene censita in 6.800 individui possa sconvolgere una città di tre milioni di abitanti.
Come spiega Paul Polansky nella prefazione del libro della ricerca, i rom hanno paura di prendere parola perché subiscono violenze permanenti dello Stato,ma le nuove generazioni sorprendono perché fanno parte di un fenomeno nuovo in Europa, che sarebbe un peccato non cogliere. Ovvero la possibilità per le seconde e terze generazioni di rom, e di chi lotta accanto a loro, di trovarsi di fronte a una società interculturale in crescita, dove la crisi economica livella le distinzioni e le “diversità”. Le contraddizioni del modello capitalista riguardano anche quelli che lo Stato chiama “cittadini con pieni diritti”, portando grandi masse di popolazione in una situazione di povertà simile a quella che vivono da decenni le popolzioni rom. (Gheorghe et alt:2013)
Durante la presentazione della ricerca, si illustrerano le diverse condizione di questo “apartheid” dei rom in Italia, che secondo i ricercatori Francesco Careri e Azzurra Muzzonigro “va oltre la segregazione etnica, sopratutto negli ultimi anni, si riscontrano interventi mirati a costruire forme di segregazione fisica e spaziale, quali sono i campi rom, veri e propri ghetti e slum”. Inoltre verrà presentato il progetto Sàr San, che nasce nel 2012, grazie alla collaborazione con la Fondazione Bernard Van Leer, associazioni e università italiane. Il suo principale obiettivo era aprire uno spazio di dialogo e convivenza tra le popolazioni rom e i quartieri della periferia Est di Roma, per migliorare le condizioni di vita dei bambini, giovani e famiglie rom e di tutti gli abitanti del territorio.
La ricerca-azione ha prodotto anche una sperimentazione metodologica innovativa che ha favorito l’utilizzo dell’Arte Civica come come racconta Maria Rocco, con nuovi linguaggi per far emergere bisogni e desideri dei gruppi sociali coinvolti. Attraverso strumenti come la Video-Arte Partecipativa e la Musicarterapia nella Globalità dei Linguaggi sviluppati da Maria Rosa Jijon e Mariana Ferrato, cosi come da Paola Grillo, Nicola Caravaggio e Roberta Ricci, si sono coinvolte direttamene le nuove generazioni rom, facendo emergere le reali problematiche che stanno vivendo e le possibili soluzioni.
Un altro risultato innovativo del lavoro è stato l’avvio di un percorso per costruire una rete di resilienza cittadina, capace di affrontare le complessità dell’integrazione tra comunità Rom e i problemi della periferia, andando oltre le cronache stereotipate e i pregiudizi. Grazie al lavoro di supporto dell’Università Roma Tre con il supporto scientifico di Marianella Sclavi e Marco Brazzoduro si è attivata una Rete Territoriale Roma Est per il Superamento dei campi rom. È proprio dal lavoro di queste reti territoriali nasce la richiesta alle istituzioni di un cambio di rotta urgente, rispetto alle attuali politiche di segregazione dei campi rom presenti nella Capitale. Un superamento che va costruito attraverso ambiti di partecipazione orizzontale e aperti, attivati con linguaggi inclusivi e tempi certi che dimostrino un vero interesse e un “ascolto attivo” nella costruzione di soluzioni a misura di ogni territorio e dei suoi abitanti.
Saranno presentati inoltre casi studio su alcune esperienze in America Latina e Italia, dove sono stati realizzati programmi urbani integrati di miglioramento della qualità abitativa nelle città di popolazioni svantaggiate e di diverse etnie, i cosiddetti “Piani per la pace e la convivenza nella diversità”. Nell’era delle città globali, una delle scommesse più importanti sarà quella di comprendere come affrontare le gravissime conflittualità, che portano ad un aumento della violenza urbana e del degrado ambientale.
La costruzione di città più giuste e con qualità di vita migliore per tutti e tutte, dipenderà in grande misura dal “confronto creativo” (Sclavi 2011), tra le diverse popolazioni, accettando la sfida di aggiornare i meccanismi di costruzione di città che devono avere i suoi cittadini come protagonisti e fare particolare attenzione alle dimensioni umane, culturali e ambientali.
* Dipartimento di Architettura Università degli Studi Roma Tre Laboratorio arti civiche