Il vangelo dei poveri
Con Papa Francesco la rivincita della teologia della liberazione
di Serena Noceti
in “l’Unità” del 17 settembre 2013
Sono passati sei mesi dall’elezione di papa Francesco: lo stile di vicinanza assunto fin dal primo saluto, il linguaggio libero dai paludamenti di un sacro per tanti incomprensibile e non significativo, l’attenzione all’esistenza umana e ai suoi bisogni, il riconoscimento di valore dei cammini plurali e spesso difficili di chi – credente e no – cerca verità, i segni chiari e incisivi di una fede coerente perché tradotta in scelte di amore e giustizia per tutti, sembrano orientare i cristiani sulle vie di una presenza nuova e insieme offrire un’«anima» alle necessarie, attese ma finora insperate, riforme strutturali che attendono la Chiesa cattolica per una piena attuazione del Concilio Vaticano II. Già con la scelta del nome, Papa Francesco ha richiamato i cristiani all’essenziale: alla scelta radicale di un vangelo che è pienezza di vita per tutti, in particolare per i poveri, gli emarginati, «coloro che non hanno diritto ad avere diritti» (H. Arendt). È in questo orizzonte di una chiesa che sta esplorando le vie antiche del vangelo di Gesù di Nazareth e le vuole declinare in modo nuovo in un contesto secolarizzato e pluralista, dopo i lunghi secoli della societas christiana, che si può collocare l’incontro avvenuto mercoledì scorso tra il Papa e Gustavo Gutierrez. Il teologo peruviano, riconosciuto come il «fondatore» della teologia della liberazione, era in Italia per partecipare al congresso dell’Associazione teologica italiana, e poi presentare al Festival della letteratura di Mantova il saggio scritto nel 2004 con Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della chiesa. Fortemente criticata, quando non avversata, da una parte della gerarchia cattolica, oggetto di due pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della fede negli anni 80, accusata di ideologizzazione e immanentizzazione della fede, di ridurre la salvezza a una liberazione dalla povertà economica, di dipendere dalla lettura marxista della storia e di giustificare la lotta di classe e il ricorso alla violenza, rappresenta una delle correnti teologiche più significative e feconde del post-Concilio. Nata nell’America Latina della seconda metà degli anni 60, dalla volontà di incarnare il Vaticano II e di individuare categorie adeguate per pensare i temi classici di ogni teologia (Dio, Cristo, la Chiesa, l’uomo) in un contesto segnato dalla miseria, dalla sperequazione economica, dalla ferocia di dittature militari, ha offerto alla Chiesa intera prospettive inedite per pensare criticamente la fede cristiana, interrompendo di fatto la «pretesa» europea di essere il luogo primario e di riferimento del pensare teologico. Sono passati 45 anni dalla prima conferenza di Gutierrez (Chimbote, Perù, luglio 1968) che sostituiva al concetto di «sviluppo» il paradigma della «liberazione» e sono innumerevoli le voci di teologi e teologhe che, con sensibilità diverse e in diversi contesti continentali, hanno contribuito a ripensare la fede cristiana in questa prospettiva, tanto che è bene oggi parlare di «teologie della liberazione» al plurale. Per tutti rimane determinante lo sguardo sulla realtà e sulla rivelazione e la collocazione assunta: l’opzione preferenziale per i poveri, per coloro che Gutierrez definisce gli «insignificanti» agli occhi del mondo. In un tempo che sembra accettare passivamente la condizione di miseria di milioni di esseri umani, che misura tutto sul registro economico e non vuole ridiscutere l’attuale assetto neoliberista e gli equilibri della globalizzazione, la teologia della liberazione appare necessaria a una Chiesa che voglia essere «chiesa povera e dei poveri», come dichiara Papa Francesco: essa ribadisce – senza paura – che il Dio del Vangelo di Gesù sta dalla parte di coloro che sono schiacciati dal peso della vita e delle ingiustizie, senza speranza e senza futuro. Mentre denuncia che la povertà (economica, culturale, sociale) è inumana (e antievangelica), la teologia della liberazione afferma che è necessario lottare contro la povertà e le cause che la generano, non rassegnarsi all’ingiustizia, promuovere la dignità di tutti. Ai cristiani ricorda che non
si aderisce a una verità astratta e astorica su un divino puramente trascendente, ma si opera per una trasformazione del mondo secondo quella rivelazione su Dio e sull’uomo che Gesù ha proposto: nessuna ortodossia che non sia ortoprassi; nessun discorso sulla fede che non nasca da un concreto coinvolgimento nel contesto sociale di appartenenza e da una attenta lettura della storia; nessuna opera di misericordia per i singoli che dimentichi gli scenari dell’interdipendenza del genere umano. Esperienza e riflessione sull’esperienza, mediazione, prassi: tre parole chiave per vivere la vita cristiana anche in Europa, ma anche tre sollecitazioni per una rivisitazione dell’esercizio della politica oggi. Perché la teologia della liberazione rappresenta, indubbiamente, una delle voci più provocatorie nel dialogo culturale, che oltrepassa – per le vie di intelligenza della realtà adottate e per il coinvolgimento attivo con i movimenti di lotta per la giustizia – il solo ambito della vita della chiesa cattolica per condividere preziose suggestioni sull’umano con chiunque si preoccupi del bene comune.