l’anatema contro i giornali di alcuni giovani sinti e rom
“chiediamo verità, chiediamo dignità”
giovani rom e sinti italiani scrivono ai mass media: “Il vostro modo di informare ci fa paura”
di Giovanni Maria Bellu
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L’innesco sono stati i servizi giornalistici e i talk show dei giorni caldi dei fatti di Tor Sapienza, a Roma, e dell’inchiesta “Mafia capitale”. A margine delle notizie sul colossale giro d’affari illeciti cresciuto attorno alle cooperative sociali, spesso si parlava di rom. Capitava di sentire frasi come “loro non sono come noi”. Ci fu una consigliera comunale di Motta Visconti, un centro dell’hinterland milanese, che sulla sua pagina Facebook auspicò il ripristino dei forni crematori “per gli zingari”. E trovò qualcuno disposta a starla a sentire.
Tutte le sere di quei giorni Fiorello Miguel Lebbiati, 33 anni, lucchese di famiglia rom e sinta, operatore della Caritas, era come sempre nella sua casa, davanti al televisore, con la figlia, una bambina di 10 anni. “Sentivo queste cose pesanti e mi domandavo che effetto potevano produrre sugli ascoltatori visto che io stesso, davanti a quel martellamento mediatico, avevo difficoltà a trovare le parole giuste per spiegare a mia figlia che era fondato sui pregiudizi e sull’ignoranza. Per molte persone quello che dicono i mass media è comunque vero e, se anche hanno qualche dubbio, a forza di sentirsi ripetere le stesse cose alla fine ci credono”.
E’ stato così che Lebbiati – dopo aver più di una volta cambiato canale per proteggere la figlia da quel mucchio di fango – ha deciso di reagire. Ha preso contatto con altri giovani rom e sinti che tempo prima avevano seguito con lui un corso sui diritti umani e poi ha preso in mano la penna per scrivere una lettera aperta agli operatori dell’informazione. Una lettera nella quale ricorre la parola “paura”. L’hanno firmata tutti. E val la pena di leggere la lista dei loro nomi con accanto l’indicazione della nazionalità: Joselito Lebbiati, rom, sinto, 32 anni, S. Alessio (Lucca), italiano; Damiano Cavazza, sinto, 32 anni, Nave (Lucca), italiano; Gladiola Lacatus Lacramioara, rom, 21 anni, Roma, romena; Husovic Nedzad, rom, 24 anni, Roma, nato in Italia ma senza cittadinanza; Serena Raggi, sinta, 26 anni, Bologna, italiana; Dolores Barbetta, rom, 29 anni, Melfi, italiana; Ivana Nikolic, rom, 23 anni, Torino, serba e croata; Sead Dobreva, rom, 32 anni, Rovigo, serbo; Sabrina Milanovic, rom, 25 anni, San Nicolo D’Arcidano (Oristano); Pamela Salkanovic, rom, 17 anni, nata a Roma, ma senza cittadinanza.
A leggere la lista con attenzione, si ricava una prima informazione importante quanto poco conosciuta: è tecnicamente sbagliato associare questo argomento a quello dell’immigrazione irregolare perché circa la metà dei 170mila rom e sinti presenti in Italia sono cittadini italiani. Anche da molte generazioni. Al punto tale che vivono con fastidio gli stessi richiami alla “integrazione”. Esattamente come lo vivrebbe negli Stati Uniti il nipote di un italiano sbarcato a Ellis Island ai primi del Novecento. Altri sono giunti in epoca più recente, in particolare dopo la crisi della ex Jugoslavia, ed ecco le nazionalità presenti nella lista e i casi (analoghi a quelli di tutti i figli di stranieri) di giovani rom nati in Italia ma ancora privi della cittadinanza.
“Siamo un gruppo di ragazze e ragazzi, rom e sinti – così comincia la lettera aperta -. Alcuni di noi sono italiani, altri provengono da vari paesi europei, altri ancora sono nati in Italia, ma di fatto sono sempre stranieri grazie all’accoglienza burocratica del nostro paese. Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando come attivisti per dare voce al nostro popolo, fin ora rimasto legato e imbavagliato. Vogliamo esprimervi una sensazione che stiamo vivendo in questo periodo, la sensazione si chiama PAURA. Sì paura, perché sono giorni, forse oramai mesi, che tv e giornali ci bombardano con messaggi che sostanzialmente dicono: i rom e i sinti rubano, sono TUTTI delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare ecc”.
La “paura” è che l’opinione pubblica cominci a credere a queste semplificazioni. E che cresca ulteriormente, diventando maggioritario, l’odio verso gli “zingari”. “Il nostro pensiero – si legge ancora nella lettera – va a tutti quei bambini che direttamente o indirettamente assimilano concetti senza alcun filtro, tramite i vari talk show, programmi d’intrattenimento e tg, che quotidianamente accompagnano alcuni momenti della giornata dei nostri figli”.
Da operatore nel sociale, Lebbiati vive con particolare amarezza il fatto che, quando si parla di rom, alcune coordinate interpretative fondamentali, ormai comunemente riconosciute, vengono messe da parte. Per esempio quella che individua un collegamento stretto tra le condizioni in cui una comunità vive e la frequenza di alcuni tipi di reato. Si tratta, d’altra parte, della stessa rimozione che in anni nemmeno tanto lontani portava a individuare come “tendenti al crimine” gli immigrati meridionali confinati nei quartieri ghetto. E che induceva a ridurre, quando andava bene, a puro folklore tradizioni culturali di secoli.
“Sono cittadino italiano da generazioni – spiega – e sono anche orgoglioso e fiero della storia del mio popolo. Sono orgoglioso della nostra lingua che ha in sé radici di sanscrito e di aramaico, che sono tra le lingue più antiche del mondo. Il mio popolo non è quello che viene raccontato. Certo, c’è chi ruba, chi chiede l’elemosina. Ma alla base di questo ci sono delle ragioni che conducono a un meccanismo malato. Mio nonno era un bravissimo artigiano, sapeva lavorare l’oro, sbalzare il rame, realizzava lavori di pregio. E i rom e i sinti avevano i loro mestieri. Se molti di loro si trovano nelle condizioni attuali è perché sono stati privati di tutto”.
“La nostra paura – si legge ancora nella lettera – è che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente l’ODIO. Questo è un fatto grave, che non deve succedere, sarebbe da irresponsabili non fermarlo. Quindi chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione, di non macchiarsi di questa grave colpa, di non essere complici e artefici dell’istigazione all’ODIO, della PAURA e della distanza tra la gente. Chiediamo di non essere usati dai vari politici nelle loro finte campagne elettorali, ma chiediamo a loro di agire insieme a “noi” rom e sinti per politiche di vera inclusione sociale. (…) Chiediamo di non essere usati dai vari giornalisti di turno scatenatori di ODIO e PAURA, per fare audience o vendere qualche copia in più”.
L’appello sarà ascoltato? Difficile che abbia effetti immediati. Di certo segna una svolta importante: il tentativo dei diretti interessati di parlare in modo diretto, senza filtri né mediatori, della loro condizione e anche della loro rabbia: “Chiediamo verità, chiediamo dignità”, dicono alla fine della loro lettera i giovani rom e sinti. La parola ora torna, come sempre, agli operatori dell’informazione.