le tre bambine rom bruciate vive ancora fanno riflettere

morire ai margini nell’Italia di oggi

traccia bruciante


Marco Impagliazzo

La tragica morte delle tre ragazzine rom, Francesca, Angelica ed Elisabeth, non è stata causata soltanto da quella scia di liquido infiammabile che gli inquirenti hanno trovato sulla strada vicino al camper dove vivevano. Seguendo a ritroso quella traccia, infatti, si arriva molto più lontano. Bisogna attraversare le fiamme della baracca in cui persero la vita quattro bambini rom in Via Appia Nuova a Roma nel 2011 e quelle che hanno bruciato Marius, tre anni, alla Magliana, nel 2010. Si deve passare per i roghi nei quali hanno perso la vita quattro bambini rom nelle baracche di Livorno nel 2007 e pochi mesi prima due giovani sposi a via Gordiani, a Roma. Una strage degli innocenti che ha colpito i piccoli di questa etnia: più di cento morti in una ventina di anni. Bisogna camminare all’indietro nel tempo, nello spazio e nel dolore per capire perché undici persone, di cui solo tre adulti, cittadini romani come noi, dormono ammucchiati in una scatola di lamiera ferma in un parcheggio di periferia, senza corrente elettrica, né acqua, in una città ricca e confortevole.
La famiglia colpita da questo tragico evento discende da parenti giunti in Italia dalla Jugoslavia, all’inizio degli anni Settanta in cerca di lavoro come artigiani e mai più tornati nella loro terra d’origine a causa delle guerre che hanno dilaniato quel Paese plurale negli anni Novanta. Ancora più indietro, i loro avi hanno conosciuto la persecuzione nazionalsocialista che ha strappato la vita a mezzo milione di rom uccisi nei campi di sterminio, tra i quali bambini vittime di crudeli esperimenti medici. Prima della guerra e dei nazionalismi, però, li si incontrerebbe tra impiegati, ufficiali, artigiani, giostrai e musicisti in tutta Europa. Li si vedrebbe vivere in case e quartieri normali. Ma ci si perderebbe anche tra le carovane che giravano i paesini del continente, sopravvivendo con mestieri ormai scomparsi. Solo la loro lingua, il romanès, un coacervo di tanti idiomi, dallo slavo al sanscrito, ci condurrebbe sicuri fino alle pianure dell’India.
Per compiere questo lungo viaggio non serve un passaporto. Muri, ghetti e fili spinati non li hanno mai fermati, solo umiliati e impoveriti. Basta uscire dai pregiudizi che ci fanno oscillare tra due sentimenti opposti: la repulsione ancestrale, dovuta a leggende nere, e il fascino folkloristico, l’idea che i loro figli non debbano andare a scuola, ma vagare liberi e scalzi. I rom rappresentano la più grande minoranza etnica in Europa, in Italia circa centocinquantamila, di cui la metà italiani. Non hanno mai reclamato un territorio o dichiarato guerra.
Quelli che vivono nei cosiddetti campi nomadi non si spostano più da decenni, ma continuano a vivere nella marginalità. La speranza di vita è di dieci-quindici anni inferiore ai non rom. La metà di chi vive nei “campi” ha meno di diciotto anni, di questi il 40% addirittura meno di quattordici. Dunque un popolo giovanissimo: ci si sposa presto – senza tanti calcoli sulla sussistenza o sulla casa – e si hanno molti figli, dettagli che colpiscono in un’Italia invecchiata e senza nascite. Non mancano i problemi di convivenza e di rispetto delle leggi: talvolta le cronache di furti o altri reati predatori vedono alcuni di loro come protagonisti. Altre volte non è facile accompagnarli in un percorso positivo. L’illusione della ricchezza senza sforzo ha risucchiato alcuni di loro verso la criminalità organizzata.
Eppure davanti alla morte dei bambini dobbiamo rimanere umani. La morte di un bambino deve suscitare il pianto e tante domande. Dobbiamo capire le cause che hanno provocato tragedie come quella della scorsa notte e agire perché più nessuno – rom, sinto o no – debba crescere stipato in una roulotte e morire in un incendio. Chi è credente può pregare per le vittime. A livello istituzionale, implementando la strategia nazionale di inclusione dei rom, per uscire dall’emergenza continua, basata su quattro diritti elementari per tutti: una soluzione abitativa vera e definitiva (non più campi, ma case), l’accesso alle cure mediche, un serio percorso di scolarizzazione e di inserimento al lavoro con incentivi, ma anche con un controllo capillare. Non solo alloggi, ma anche sanità, educazione e lavoro possono evitare tragedie e finalmente condurre da una scarsa tolleranza, un radicato pregiudizio e un reciproco sospetto a una piena inclusione.