50 anni fa l’enciclica «Populorum progressio»
profezia del mondo globale
«Chi è realista? È o non è realista chi si accorge che è nello sviluppo dei popoli che si gioca la pace del mondo e che i soli parametri tecnico-economici dello sviluppo creano condizioni disumane, squilibri e violenza, che lo sviluppo deve essere integrale, cioè di tutto l’uomo e solidale, cioè di tutti gli uomini? È realista non chi crede che si possa andare avanti come prima, ma chi percepisce il dinamismo di un mondo che non può più vivere senza uno spirito solidale». Aveva rilanciato così il succo della Populorum progressio l’allora patriarca di Venezia Albino Luciani, a dieci anni dalla pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI. Una sintesi puntuale e diretta che riprendendo lo stesso realismo di Montini metteva in chiaro che non c’era più tempo da perdere: perché questo è «un programma che nessuno può oggi rifiutare, di equilibrio economico, di dignità morale, di collaborazione universale tra le nazioni», per «mobilitare le nostre comunità ai fini di una solidarietà mondiale», per «lavorare a un mondo in cui, da veri partners associati nelle decisioni che riguardano tutti, gli uomini possano trovare la giustizia e la pace». Pertanto «non si giudichino ‘utopistiche’ o inattuali le nostre speranze».
Non le giudicò utopistiche anche quando, nel breve lasso di tempo del suo pontificato, andò a toccare il nervo scoperto di un altro punto centrale messo in chiaro dall’enciclica: l’egemonia perversa del denaro e la proprietà privata come bene non assoluto. «Noi ricordiamo tutti le parole del grande papa Paolo VI: ‘I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale a questo grido d’angoscia’». Parole «gravi» alla luce delle quali «non solo le nazioni, ma anche noi privati, specialmente noi di Chiesa, dobbiamo chiederci: ‘Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’?». E già per il successore di Montini erano necessità queste da aggiornare continuamente «perché oggi non si tratta più solo di questo o quell’individuo ma sono interi popoli che hanno fame». «Oggi, il fatto di maggior rilievo, del quale ognuno deve prendere coscienza, è che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale». È questo lo sguardo che ci fa ritornare nella più stringente attualità, e quindi nell’attualità disarmante della Populorum progressio, mentre lo sviluppo integrale di tutti i popoli profetizzato dall’enciclica di Paolo VI è ancora in attesa, ormai da cinquant’anni. Drammaticamente inevaso.
Era il 26 marzo 1967, giorno di Pasqua. Il Concilio Vaticano II – durante il quale erano stati trattati anche problemi della vita economica, sociale e politica, tra cui la corsa agli armamenti, la guerra, l’edificazione di una comunità internazionale – si era appena concluso, e Paolo VI volle uscire con l’annuncio di un’enciclica mirata sullo sviluppo solidale dei popoli il cui pensiero di fondo era la costituzione pastorale Gaudium et spes. Nel clima della guerra fredda che si respirava allora il Papa mostrava che la vera cortina di ferro non era tra l’Est e l’Ovest ma quella che divideva Nord e Sud del mondo, «i popoli dell’opulenza» dai «popoli della fame». Una drammatica quanto semplice constatazione, che andava a infrangere il vecchio cliché caro ai tanti tutori dell’equilibrio di potere di allora: quello del Papa schierato con l’Occidente. Così per molti il semplice parlare di capitalismo «fonte di tante sofferenze», come aveva fatto il Papa nell’enciclica, era equivalso a entrare in complicità con il marxismo, e ciò valse a Montini anche l’accusa di non avere le capacità per l’analisi e la diagnosi dei fenomeni economici. Paolo VI aveva invece definito chiaramente la problematica affrontata dalla sua enciclica. E certamente la necessità di un’azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità è il pensiero fondamentale e l’aspetto più puntuale di tutta l’enciclica. Il pensiero dominante è che lo sviluppo non si può ridurre a una semplice crescita economica, chiarendo che lo sviluppo per essere autentico deve essere integrale, cioè volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Per la prima volta si estendeva l’insegnamento sociale della Chiesa su scala mondiale, e Paolo VI proponeva, come dovere grave e urgente, di stabilire una giustizia sociale schierandosi dalla parte dei perdenti dell’umanità, di tutte le popolazioni deboli e marginalizzate. Domandava uno sforzo concordato affinché ciascuno avesse il proprio posto, i propri diritti e i propri doveri, la propria piena responsabilità per incrementare una collaborazione universale tra le nazioni, una giustizia sociale internazionale (Iustitia est fundamentum regnorum) come base fondamentale per un autentico sviluppo. La Populorum progressio offre così una panoramica del mondo contemporaneo e dello sviluppo autentico nella quale spicca la conclusione che l’opera della solidarietà è la pace: Opus solidarietatis pax. «La pace è il nuovo nome dello sviluppo». E a riprova che l’insegnamento sociale della Chiesa non è statico ma dinamico, in quanto attinge alla solida radice della Tradizione, nella preparazione del testo della sua enciclica papa Montini aveva riversato tutta la sua moderna sensibilità culturale. Nella sua analisi infatti è presente l’impronta culturale francese come quella degli economisti cosiddetti ‘umanisti’, cui egli unisce i contenuti e gli insegnamenti della Tradizione della Chiesa, applicandoli alla nuova situazione. La Populorum progressio richiama esplicitamente all’insegnamento tradizionale della Chiesa sulla destinazione universale dei beni, che trova il suo fondamento nella prima pagina della Bibbia e ne estende il principio – ricordato tra gli altri da san Tommaso e sant’Ambrogio – alle comunità politiche. Sono i paragrafi in cui anche l’analisi dei problemi sembra divenire più lucida.
Indicando i fattori strutturali della miseria del terzo mondo, Paolo VI cita il De Nabuthae di sant’Ambrogio: «Si sa con quale fermezza i Padri della Chiesa hanno precisato quale debba essere l’atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: ‘Non è del tuo avere – afferma sant’Ambrogio – che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi’. È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto». Con sant’Ambrogio, Montini sovverte il concetto di proprietà privata inviolabile e ne deduce la legittimità di determinate scelte operative. E, sempre attingendo al tesoro della Tradizione, Paolo VI riprende anche la formula più diretta dell’enciclica Quadragesimo anno per condannare «il liberalismo senza freno» che conduce «alla dittatura a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell’imperialismo internazionale del denaro». Ed è sempre ancora col linguaggio della Tradizione che Paolo VI affronta con realismo la possibilità storica che l’ingiustizia e lo sfruttamento possano provocare l’insurrezione violenta dei popoli oppressi. La stessa eventualità era già stata riconosciuta e giustificata da san Tommaso nella Summa theologica. La Populorum progressio è quindi da leggersi anche come apologia della Tradizione, perché la sua difesa non può coincidere con una determinata visione culturale o politica.
Oggi è facile riconoscere gli accenti profetici contenuti nell’enciclica del 1967 e la sua pertinenza con la realtà di questo scorcio di secolo, della quale si era fatta premonitrice nell’individuarne le derive devastanti. Basta leggere i numeri della fame, le cronache delle guerre, le sofferenze che hanno pagato o pagano i Paesi in via di sviluppo, il fenomeno dell’immigrazione verso l’Occidente nell’epoca della globalizzazione, gli squilibri tra il Nord e il Sud ormai interni a ogni Paese, il trionfo planetario del libero mercato, libero soprattutto nel traffico di armi e droga. Né è difficile riconoscere come gli insegnamenti in essa contenuti conservino ancora tutta la loro forza di richiamo. La questione dello sviluppo dei popoli resta prioritaria: «È a tutti che noi oggi rivolgiamo questo appello solenne a una azione concertata per lo sviluppo integrale dell’uomo e lo sviluppo solidale dell’umanità». È l’eco che risuona interamente nel magistero di papa Francesco fino alla Laudato si’, che dell’enciclica montanina è un’evoluzione, dall’impegno per la pace all’ultimo dicastero istituito che prende nome dal primo capitolo dell’enciclica: «Per uno sviluppo integrale dell’uomo». È la Popolurom progressio che ritorna. Più provocatoria, urgente e necessaria che mai.
Poupard
ecco come nacque la «Populorum progressio»
di Filippo Rizzi
in “Avvenire” del 28 marzo 2017
Era il primo martedì dopo Pasqua – il 28 marzo di cinquant’anni fa – quando l’enciclica di Paolo VI Populorum progressio veniva presentata ufficialmente alla stampa. Un evento vissuto oggi – a 50 anni di distanza – «tra ricordi, speranze e trepidazioni» da un diretto interessato come il cardinale francese Paul Poupard oggi presidente emerito dei dicasteri della cultura e del dialogo interreligioso. Toccò in quel lontano martedì di Pasqua del 1967 presentare – nella sala stampa della Santa Sede – all’allora 36enne monsignor Poupard, nella sua “semplice” veste di officiale della Segreteria di Stato, quel testo che avrebbe innovato e “rivoluzionato” in un certo senso gli orientamenti della dottrina sociale della Chiesa negli anni del post Concilio. «Ricordo come fosse ieri quel giorno – è la confidenza di Poupard –. Allora ero un giovane collaboratore della Segreteria di Stato. Fu proprio papa Montini ad affidarmi questo delicato incarico. Si trattava della mia prima conferenza stampa! Solo due giorni prima la domenica di Pasqua Paolo VI aveva firmato la sua “prima” enciclica sullo “sviluppo dei popoli”». Un evento che non colse impreparato l’allora monsignor Poupard. «Eravamo ancora in mezzo alla temperie che si era respirata durante il Vaticano II – è la riflessione – . Rammento che mi trovai da solo di fronte a un’ampia platea di giornalisti. Mi preparai in anticipo con delle possibili risposte ai tanti quesiti che poteva ispirare un testo così carico di attese soprattutto per i popoli affamati e privi di diritti del Terzo mondo e non solo. Ricordo che fu mia premura spiegare il lungo lavoro di preparazione e l’evoluzione che questo testo, ritoccato fino all’ultimo da papa Montini, e come si arrivò alla stesura finale». Poupard a questo proposito rivela un particolare: «A confermarmi la fiducia del Papa a questo lungo lavoro di gestazione mi arrivò il 28 febbraio del 1967 da una sua lettera autografa che recitava le seguenti parole: “Visto, si può fare fiducia a monsignor Poupard che saprà giudiziosamente portare a termine, come egli crede, questi ultimi perfezionamenti e ritocchi. Grazie Paolo VI”». Dal suo album dei ricordi il cardinale Poupard estrae alcune delle istantanee più significative sul lungo lavoro di équipe attorno a questa pubblicazione. «La prima bozza redatta, un vero dossier, è costituito da un plico dattiloscritto di 43 pagine, con il titolo “Elementi per una dottrina pontificia sullo sviluppo” del settembre 1964 – rivela – e tra gli esperti scelti per questa immane ricerca figuravano uomini del valore di monsignor Pietro Pavan, monsignor Agostino Ferrari Toniolo, il teologo gesuita Geroges Jarlot e ovviamente l’illustre domenicano e principale ispiratore indiretto dell’enciclica il domenicano bretone Louis Joseph Lebret. Mi trovai così ad essere l’interlocutore privilegiato, per questo scambio di osservazioni e pareri, tra questi esperti e Paolo VI fino al febbraio del 1967». Ma è sul domenicano padre Louis Joseph Lebret che Poupard si sente di aggiungere qualche particolare inedito. «Era un uomo planetario e grazie al suo movimento “Economia e umanesimo” – è l’osservazione – e attraverso i suoi progetti mirati di aiuto concreto alla vita dei pescatori della Bretagna e poi alle altre iniziative da lui sviluppate in Brasile e in Senegal ha potuto offrire a papa Paolo VI quella visione di “inquietudine del mondo” che si intravede e si legge ancora in questo testo». Un documento attualissimo ancora oggi, agli occhi di Poupard, «se si pensa alla globalizzazione selvaggia di oggi o a parole presenti nel testo come “urto di civiltà” o alla condanna di vizi capitali come l’avarizia». Il porporato, – a 50 anni dalla pubblicazione dell’enciclica montiniana individua molti punti di incontro e raccordo ideale tra il magistero di Paolo VI, quello di Benedetto XVI e di Francesco. «Questa enciclica sociale ha rappresentato una bussola di riferimento per i due ultimi pontefici. Basti pensare che ad Aparecida in Brasile a conclusione della Conferenza del Consiglio episcopale latino americano nel 2007 – di cui l’allora cardinale Bergoglio era il relatore del testo finale – papa Benedetto ha voluto citare, quasi come una “consegna” ai delegati di quell’assise la Populorum progressio. Molti tratti del pontificato bergogliano dalla condanna del commercio delle armi, a una certa idea di capitalismo selvaggio al fatto che la proprietà privata non è un diritto assoluto ci riportano a Montini e alla sua
enciclica». Un testo che parla ancora all’uomo di oggi. «Credo di sì. Si tratta di un “sismografo molto attento” sui drammi dell’umanità e sui tanti diritti violati per i poveri. Papa Montini mi chiese un giorno come era stata accolta l’enciclica. “Santo Padre lei ha scosso la coscienza del mondo” fu la mia risposta. E mi viene spesso in mente la sua replica: “Era proprio quello che intendevo fare”».